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6 ago/3 set 2022


Quindicinale
Anno 173

Fede e nuove generazioni


Le virtù cardinali
Il primo cristianesimo e le religioni
I cereali, una matrice di civiltà
Esercizi spirituali in un’età secolare
Turchi ed ebrei? I caraiti
Giovanni Paolo I, santo
Che cos’è la «pastorale»?
La figura di Alonso de Barzana
Tex Willer: «I miei indiani»
Il mestiere dello storico. L’esperienza
di John W. O’Malley
RIV ISTA INTERNAZIONALE DEI GESUITI

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B E AT U S P OPU LU S , C U I U S D O M I N U S DE U S E I U S
SOMMARIO 4131-4132

6 ago/3 set 2022


Quindicinale
Anno 173

209 TRASMETTERE LA FEDE ALLE NUOVE GENERAZIONI


10 sfide per l’educazione
Emmanuel Sicre S.I.

219 LE VIRTÙ CARDINALI


I pilastri della vita buona
Giovanni Cucci S.I.

232 IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO


La lezione di Paolo
Enrico Cattaneo S.I.

246 I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ


Benoît Vermander S.I.

254 GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE


Thomas P. Rausch S.I.

267 TURCHI ED EBREI? I CARAITI DELLA CRIMEA


Vladimir Pachkov S.I.

276 GIOVANNI PAOLO I


La santità di un vescovo umile
Federico Lombardi S.I.

291 CHE COS’È LA «PASTORALE»?


Il pensiero dei papi da Giovanni XXIII a Francesco
James Campbell S.I.

299 ALONSO DE BARZANA


«Il Francesco Saverio delle Indie occidentali»
Wenceslao Soto Artuñedo S.I.

312 TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»


Giancarlo Pani S.I.

327 IL MESTIERE DELLO STORICO


L’esperienza di John W. O’Malley
Festo Mkenda S.I.

337 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA


Venticinque anni di grandi firme per “Luoghi dell’Infinito”: Eraldo Affinati, Antonia Arslan, Marc Augé,
Zygmunt Bauman, Enzo Bianchi, Mario Botta, Anna Maria Cànopi, Loris Capovilla, Franco Cardini, Flavio Caroli, Luciano
Chailly, Angelo Comastri, Maria Antonietta Crippa, Philippe Daverio, Erri De Luca, Roger Etchegaray, Cosimo Damiano
Fonseca, Bruno Forte, Carlo Maria Giulini, Stanislaw Grygiel, Dominique Lapierre, Giuseppe Laras, Mario Luzi, Carlo Maria
Martini, Richard Meier, Alda Merini, Roberto Mussapi, Guido Oldani, Ermanno Olmi, Antonio Paolucci, Abbé Pierre, Elena
Pontiggia, Paolo Portoghesi, Giovanni Raboni, Gianfranco Ravasi, Ermes Ronchi, Davide Rondoni, Pierangelo Sequeri,
Vittorio Sgarbi, Tomas Spidlik, Timothy Verdon, Krzysztof Zanussi. Grandi autori anche per la fotografia: Aurelio
Amendola, Nick Brandt, Giovanni Chiaramonte, Elio Ciol, Mimmo Iodice, Steve McCurry, Pepi Merisio, Sebastião Salgado.
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ARTICOLI
209 TRASMETTERE LA FEDE ALLE NUOVE GENERAZIONI
10 sfide per l’educazione
Emmanuel Sicre S.I.

Quali nutrienti sono necessari al terreno nuovo dell’infanzia e della gioventù odierne, affinché
siano in grado di accogliere la fede dei nostri antenati? Quali disposizioni dovremo coltivare
nell’interiorità di ogni persona in crescita, per far sì che l’incarnazione del Dio di Gesù trovi un
presepe in cui nascere? Come si può appianare progressivamente la via, affinché la manifestazio-
ne del Cristo interiore avvenga nella vita di coloro che ci succederanno nel tempo? Nell’articolo
vengono proposte agli educatori e alle famiglie 10 sfide per l’educazione alla fede cristiana dei
bambini e dei giovani come processo significativo di formazione e di vita. L’Autore è rettore del
Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe (Argentina).

219 LE VIRTÙ CARDINALI


I pilastri della vita buona
Giovanni Cucci S.I.

Il tema delle virtù cardinali non trova molto spazio in sede di filosofia morale. Il contributo
più significativo rimane ancora oggi la trattazione di san Tommaso. In questo senso si nota
un chiaro contrasto rispetto al tema, a esso speculare, dei vizi capitali. La scomparsa delle virtù
cardinali dalla riflessione filosofica è parallela alla crisi della morale: crisi non solo speculativa,
ma soprattutto di apprezzamento da parte del sentire comune, portato a considerare la morale
in termini di proibizione e negazione del piacere di vivere. Anche a motivo di tali aporie, la
filosofia contemporanea ha ripreso a occuparsi del tema delle virtù, aprendo un fecondo dialogo
con le scienze umane e le neuroscienze.

232 IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO


La lezione di Paolo
Enrico Cattaneo S.I.

Il primo cristianesimo si diffuse in un mondo tutto impregnato di religiosità: quali furono le rea­
zioni dei primi cristiani verso la religione pagana? L’articolo intende richiamare a grandi linee il
loro atteggiamento, basato sulla distinzione ontologica tra Creatore e creatura e quindi sul rifiuto
del culto idolatrico. Cosa significativa, il cristianesimo comportò il rigetto dei sacrifici cruenti.
Rimaneva però il caso di coscienza circa la liceità di cibarsi di carni immolate agli idoli. L’inter-
vento di Paolo è ancora oggi illuminante, perché mette in evidenza il ruolo della fede che libera,
e quello della carità che edifica.
NELLA COLLANA «ACCÈNTI» LE PAGINE DELLA CIVILTÀ CATTOLICA
CHE AIUTANO A CAPIRE IL PRESENTE

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UNIVERSO

Il dilemma quantistico, la teoria del tempo, i dubbi e le incognite sulle origini dell’universo,
lo studio delle stelle e della vita possibile su altri pianeti.
Una lettura imperdibile per chi vuole scoprire le leggi che governano
la nostra vita e quella delle galassie lontane anni luce.

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246 I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ


Benoît Vermander S.I.

La coltivazione dei cereali (riso, frumento, mais, miglio, sorgo ecc.) ha progressivamen-
te modellato complessi di civiltà su tutta la superficie della Terra. Tali complessi hanno
associato conoscenze locali, rituali, progressi tecnici, scientifici ed etici; hanno dato ori-
gine a trasferimenti genetici, tecnologici e spirituali. Reinserire una tale avventura nel
suo contesto globale permette di comprendere meglio come si sono evolute le relazioni
tra l’umanità e le altre forme del vivente, e di immaginare il loro futuro. Significa anche
meditare sui ritmi della nostra quotidianità e sulle forme della condivisione sociale, risco-
prendo così l’importanza dell’alternanza tra il digiuno e la festa.

254 GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE


Thomas P. Rausch S.I.

La Riforma, l’Illuminismo, la rivoluzione scientifica e lo scetticismo del postmodernismo


hanno contribuito al diffondersi della cultura laica in Occidente, e oggi in gran parte
del mondo. Concentrandosi sul crescente distacco di tante persone dalla Chiesa e sulla
conoscenza superficiale – se non sull’analfabetismo – di molti riguardo alla fede cristiana,
l’articolo vuole offrire qualche suggerimento volto ad allargare l’immaginazione di colo-
ro che partecipano agli Esercizi spirituali e approfondire la loro comprensione. L’Autore è
professore emerito di teologia alla Loyola Marymount University di Los Angeles.

FOCUS
267 TURCHI ED EBREI? I CARAITI DELLA CRIMEA
Vladimir Pachkov S.I.

Nessuna religione è limitata a un popolo in particolare. E nessun popolo in quanto tale


appartiene a una particolare religione. Nel Medioevo, in Europa l’islam era chiamato la
«religione turca». Ma ci sono molti gruppi turchi che professano altre religioni. Uno di
essi è quello dei caraiti. L’emergere di questo ramo dell’ebraismo risale agli eventi del
califfato abbaside, quando un riformatore ebreo nell’VIII secolo proclamò il principio
della «sola scriptura». I suoi seguaci si sono sparsi in molti Paesi del Medio Oriente e
dell’Europa orientale, anche tra le tribù di lingua turca. Hanno saputo preservare questa
religione attraverso tutte le prove di mille anni di storia. A tutt’oggi essi contribuiscono
alla diversità religiosa, culturale e linguistica del continente eurasiatico.
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VITA DELLA CHIESA


276 GIOVANNI PAOLO I
La santità di un vescovo umile
Federico Lombardi S.I.

Il 4 settembre prossimo, a Roma, verrà proclamato beato Giovanni Paolo I, Albino Luciani.
L’articolo ripercorre le diverse tappe di una vita completamente dedicata al servizio di Dio. Nato
nel 1912, Luciani, seminarista a Feltre e poi a Belluno, vicerettore del seminario bellunese per
10 anni, diventa vescovo di Vittorio Veneto nel 1958 e partecipa al Concilio Vaticano II. Paolo
VI lo nomina patriarca di Venezia nel 1969. Nell’agosto del 1978 viene eletto papa. Il suo pon-
tificato durerà solo un mese, ma lascerà di lui un ricordo indelebile, per la sua umiltà e per il suo
modo semplice ed efficace di proporre una fede cristiana pienamente e coerentemente vissuta.

291 IL PENSIERO PASTORALE DEI PAPI DA GIOVANNI XXIII


A FRANCESCO
James Campbell S.I.

Nell’articolo si cerca di chiarire l’uso del termine «pastorale» che è stato fatto dagli ultimi
pontefici: per Giovanni XXIII esso significava rinnovamento, santificazione e apertura al
mondo; per Paolo VI era lo stile con cui presentare la dottrina e il diritto; per Giovanni Paolo
II rappresentava una sfida alla dottrina; per Benedetto XVI aveva un valore ermeneutico;
Francesco riecheggia il pensiero di Giovanni XXIII. Nell’articolo viene suggerito per questo
termine il significato di funzione semantica nel discorso ecclesiale. L’Autore è professore di
diritto canonico allo Hekima University College di Nairobi (Kenya).

PROFILO
299 ALONSO DE BARZANA
«Il Francesco Saverio delle Indie occidentali»
Wenceslao Soto Artuñedo S.I.

Alonso de Barzana (1530-97) fu studente e professore all’Università di Baeza (Jaén, Spagna) e


discepolo di san Giovanni d’Ávila. Entrò nella Compagnia di Gesù, perché era rimasto impres-
sionato dalle lettere di san Francesco Saverio. Fu inviato dal Preposito generale dei gesuiti Fran-
cesco Borgia nell’America Latina, dove viaggiò attraverso gli attuali Paesi di Perù, Bolivia, Ar-
gentina e Paraguay. Imparò 11 lingue native e riuscì a scrivere varie grammatiche e catechismi.
Per tutti questi motivi, papa Francesco lo chiama «il Francesco Saverio dell’America Latina».
Alonso è stato dichiarato venerabile nel 2017, e attualmente è in corso la causa di beatificazione.
L’Autore è storico dell’Archivum Romanum Societatis Iesus (ARSI).
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ARTE MUSICA SPETTACOLO


312 TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»
Giancarlo Pani S.I.

Sono di nuovo in edicola, nel formato a strisce caratteristico dell’epoca, i primi numeri di Tex
del 1948. Il personaggio creato da Gianluigi Bonelli e disegnato da Galep sta per compiere
75 anni e gode buona salute, nonché fama di essere il fumetto italiano più famoso nel mondo.
Tex Willer, all’inizio fuorilegge solitario, poi ranger abilissimo nel maneggiare la Colt, infine
capotribù dei Navajos, è l’avversario di ogni ingiustizia e corruzione, assertore profetico di
tolleranza e di rispetto per gli indiani. Un ideale di giustizia pervade l’intera epopea. Se il
fumetto sembra americano, in realtà è tutto italiano, e l’eroe rappresenta la ripresa di un’Italia
che esce umiliata dal conflitto mondiale, ma piena di energie, ambiziosa, creativa e, a suo
modo, anche gioiosa.

RIVISTA DELLA STAMPA


327 IL MESTIERE DELLO STORICO
L’esperienza di John W. O’Malley
Festo Mkenda S.I.

Nel libro The Education of a Historian il gesuita John W. O’Malley presenta il racconto della sua
vita di storico. Utilizzando l’esperienza acquisita nel corso degli anni, fa rivivere al lettore, passo
dopo passo, il processo attraverso il quale un ragazzo della cittadina di Tiltonsville, nell’Ohio
(Usa), è diventato uno storico famoso. In particolare, il libro manifesta come la fede cristiana di
O’Malley e la sua vocazione alla Compagnia di Gesù si siano potute esprimere nella pratica ri-
gorosa della disciplina della storia, dimostrando in definitiva che Dio può essere trovato in tutte
le cose. L’Autore è direttore accademico dell’Archivum Romanum Societatis Iesu.

337 RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

Caleca A. 338 - Farisei 337 - Levine A.-J. 337 - Rampini F. 341 - Sievers J. 337
TRASMETTERE LA FEDE
ALLE NUOVE GENERAZIONI
10 sfide per l’educazione
Emmanuel Sicre S.I.

In questo articolo vogliamo riflettere sulle condizioni di pos-


sibilità della trasmissione della fede alle nuove generazioni. Quali
nutrienti sono necessari al terreno nuovo dell’infanzia e della gio-
ventù odierne, affinché siano in grado di accogliere la fede dei no-
209
stri antenati? Quali disposizioni dovremo coltivare nell’interiorità
di ogni persona in crescita, per far sì che l’incarnazione del Dio di
Gesù trovi un presepe in cui nascere? Come si può appianare pro-
gressivamente la via, affinché la manifestazione del Cristo interiore
avvenga nella vita di coloro che ci succederanno nel tempo?

1. Indugiare, durare, soffermarsi per percepire oltre le cose

Affinché le cose rivelino il loro significato, l’aura che contengo-


no e il loro essere profondo al contatto con la nostra sensibilità, con
ogni evidenza è necessario dare loro il tempo per farlo. Tanto più
oggi. I bambini e i giovani, spesso, soffrono di un’immediatezza
che conduce a una vita sedentaria. Gli schermi, trasmettendo inces-
santemente informazioni fugaci, li assorbono. La posizione statica
del corpo, immobile, contrasta con l’inquietante mole di informa-
zioni, attrazioni, conoscenze e intrattenimenti che vengono proiet-
tati a uso quasi esclusivo delle mani e della mente. Allo stesso tem-
po, fin da piccoli essi vengono investiti da una quantità di compiti,
di attività sportive, di corsi finalizzati a sviluppare questa o quella
competenza, per sgravare dalle mansioni di custodia i genitori im-
pegnati a lavorare. Ciò genera in loro una sensibilità ipercinetica,
ma sedentaria; ipermentale, ma senza il controllo delle emozioni;
iperfisica, ma sconnessa dall’interpretazione di sé.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 209-218 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


ARTICOLI

A questa situazione squilibrata va posto rimedio. L’infanzia e la


gioventù della nostra epoca hanno bisogno di tempo per esplorare
il mondo esterno e quello interiore. Affinché le cose possano atti-
rarli anche per ciò che irradiano e non soltanto perché li stimolano
ininterrottamente, i ragazzi devono avere la possibilità di annoiarsi,
di concedersi l’ozio creativo, di non fare alcunché di produttivo o
di redditizio per la loro formazione immediata. Bisogna elaborare
pedagogie basate sul contatto sensibile e durevole con le realtà più
prossime, per un tempo prolungato. Per esempio, concentrarsi sul
battito del cuore umano, percepire intensamente la propria respi-
razione, meravigliarsi per i dati trasmessi dai sensi nel contatto con
una singola cosa per volta.

210
L’INFANZIA E LA GIOVENTÙ DELLA NOSTRA EPOCA
HANNO BISOGNO DI TEMPO PER ESPLORARE IL
MONDO ESTERNO E QUELLO INTERIORE.

Imponendo ai bambini, fin da piccoli, una molteplicità di stimo-


li e di compiti, stiamo azzerando in loro quella continua percezione
del «mentre» che risiede nello spazio compreso tra la conoscenza
di una cosa e il messaggio che porta. Per intuirla, è indispensabile
possedere la capacità di attendere.
Soprattutto la fede richiede un tale esercizio, perché non rispon-
de a provocazioni, ma alla capacità di percepire ciò che pulsa oltre
ogni oggetto sensibile. Il divino si coglie in questo ritorno alle real-
tà umane che consentono di apprezzare l’esistenza di un tale plus di
essere. Ne segue che dobbiamo aiutare bambini e ragazzi affinché
imparino a esplorare il mistero di Dio nel mondo in prima persona,
per conto loro. A questo fine va approntata una mistagogia adegua-
ta a ogni tappa evolutiva.
Trasmettere dati, informazioni, nozioni sulla fede, sulla Bib-
bia, sul catechismo ecc., allo stesso modo in cui si danno cose, non
serve; piuttosto, tutte queste informazioni vanno proposte come
indizi di qualcosa di più profondo, come simboli che vanno oltre
il concreto e rivelano il loro significato al cuore dell’uomo, che va
in cerca di senso. Per esempio, il mistero della parola di Dio nella
TRASMETTERE LA FEDE ALLE NUOVE GENERAZIONI

tradizione del libro dovrebbe comportare un avvicinamento che


passa attraverso l’apertura al mistero stesso del libro, al suo spes-
sore, al suo volume, alla sua dimensione sacra, alla funzione che
svolge, ai colori, alla molteplicità di messaggi che contiene.

2. Reiterare, ripetere, ripercorrere

Intesa come capacità tipica della coscienza umana, la riflessione


è un ritorno, un chinarsi sulle cose e sulle situazioni che si succe-
dono nella nostra vita. Dobbiamo esortare pazientemente alla ripe-
tizione di atti, di abitudini salutari, di rituali positivi, come a una
delle novità più necessarie per conquistarsi qualcosa di buono per
la vita. La nostra esistenza, pervasa da continue novità, da notizie
211
dell’ultim’ora, da dispositivi che si aggiornano di continuo, trascor-
re nella sensazione che tutto sia effimero. Ogni cosa invecchia in
fretta, nulla ha il tempo di assumere un peso storico, un rilievo.
Le novità appaiono e sbiadiscono senza densità nell’atmosfera della
disintegrazione informativa, dei dati, delle «cose che succedono».
Tutto passa senza lasciare traccia. Per questo, chi voglia saperne di
più su ciò che Dio fa nella storia degli eventi umani deve necessa-
riamente considerare la storia passata.
Quanti attraversano l’infanzia e la giovinezza nell’era digitale
non avvertono le epoche remote, le realtà antiche: in sostanza, il
passato. Per loro, simili realtà si trovano oltre la soglia di ciò che vale
la pena di indagare. La loro prospettiva è a breve raggio, e ciò che
le sfugge è vuoto, non è utile tornarci. E tuttavia nella tradizione
giudaico-cristiana il divino si dà oltre la storia, quando il kairos s’in-
tesse con il chronos nell’arazzo della storia della salvezza.
Per restituire senso alle cose, per estrarne le molteplici possibilità
di offrire significati nuovi nel contatto con il passare del tempo e
delle circostanze storiche, è necessario esercitare la «circolarità». Se
non aiutiamo bambini e giovani a scoprire che nella ripetizione
c’è sempre qualcosa di nuovo, continueremo ad accrescere il loro
disprezzo per ciò che è usato e che viene inteso come obsoleto, inu-
tile, insignificante, da scartare. Invece, ripetere non è sempre un
fatto negativo: non è necessariamente la conseguenza di un insuc-
cesso, come quando si è bocciati a un esame scolastico. Molte volte
ARTICOLI

ripetere è necessario per crescere meglio, per imparare al proprio


ritmo, per assestarsi e trovare un equilibrio migliore. La reiterazione
e l’insistenza sono valori da proporre. Del resto, essi appartengono
ai rituali civici, sportivi e religiosi che ci caratterizzano socialmente
e ci danno un’identità.
Tuttavia, c’è una dimensione della relazione con il passato a cui
non dobbiamo indulgere. Una dimensione che prende troppo cam-
po nella misura in cui accentua oltremodo la tendenza a separare
le cose dalla storia che dà loro senso. Parliamo della nostalgia, in
quanto deformazione deleteria del ricordo. Il suo virus imprigiona
la memoria nella gabbia dorata del rimpianto per «ciò che è stato e
non è più», creando mentalità tristi e amareggiate, che idealizzano il
passato e si rendono incapaci di scoprirne il significato per il presen-
212
te. La nostalgia non vede la storia come maestra di vita: la relega in
una galleria di oggetti da museo, vecchi e polverosi, volendo evo-
care emozioni di un passato trascorso per sempre, che nessuno potrà
far rivivere. Dobbiamo combattere la nostalgia come una minaccia
nei confronti della fede.

3. Condividere silenzi e gesti inspiegati

Tra le realtà umane che riescono ad aggregare perché agiscono


nell’interiorità con una spinta unificante, c’è il silenzio. Fra coloro
che condividono momenti di silenzio, abitandoli, si stabilisce una
sintonia comune. Il silenzio culla ciò che siamo senza mostrare le
nostre differenze. Di fatto, le occulta, perché le raccoglie in sé e
rende superfluo che vengano specificate. Il silenzio è unione e ha
una semantica propria, estranea alla parola pronunciata. Spesso,
quando non c’è niente di particolare da dire, attività come dormire,
giocare, lavorare, ascoltare in silenzio, condividendo lo stesso spazio
fisico, generano comunione.
I gesti simbolici o rituali a cui assistiamo non vanno spiegati: si
sperimentano, si compiono, si fanno e basta. Un atto come mettersi
in ginocchio a occhi chiusi, in silenzio, dice molto di più di qualsiasi
spiegazione sulla preghiera e sul raccoglimento. Parla da sé senza
parole, invita a sperimentarlo. A volte, l’impulso a spiegare ogni
cosa equivale alla tentazione di controllare tutto.
TRASMETTERE LA FEDE ALLE NUOVE GENERAZIONI

La pedagogia del silenzio e il gesto senza parole, in un contesto


sovraccarico di rumori e di azioni vuote com’è quello in cui vivia-
mo, apre una porta alla fede come possibilità da coltivare. La fede
s’incarna nell’anima come parola di vita eterna, se viene protetta
dalle grida emozionali a cui senza tregua esponiamo i bambini e i
giovani. Essi sono individui che nel loro itinerario verso la maturità
hanno bisogno di silenzi significativi, strutturanti, in cui si cemen-
tano vincoli: silenzi e gesti profondi che suggeriscono domande sul
mistero del Verbo fatto carne e lo rendono percepibile.

4. Riposare dall’informazione

Dobbiamo imparare a riposare dall’essere costantemente infor-


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mati su qualcosa. Se l’accumularsi dei dati ci dà l’impressione di es-
sere informati o connessi, in realtà ci rende sempre meno informati
e sempre meno capaci di comunicare. Si parla ormai di «infossica-
zione», intossicazione da informazione, come di una patologia, e
ciò dovrebbe farci riflettere sulla necessità di sviluppare atteggia-
menti che ci consentano di consumare informazioni nella misura
in cui effettivamente ci servono.
Nel caso dei bambini e dei ragazzi, è plausibile che il pullulare
di dati e informazioni serva soltanto a sbiadire, in loro, le gerarchie
secondo cui li valutano. Tutto è allo stesso livello: la guerra, il gos-
sip, le fake news, l’analisi, la moda, lo sport e via dicendo. Stiamo
loro insegnando che l’informazione è sempre in eccesso, dunque
probabilmente falsa e inutile per la vita pratica. Invece, bisogna
aiutarli a concepire meccanismi di apprendimento orientati alla ri-
cerca critica dell’informazione necessaria su qualcosa di significa-
tivo per la propria esistenza. Anche i nostri programmi di istruzio-
ne risentono dello stesso difetto che si nota nell’informazione che
è stata privata della gerarchizzazione. Tanti anni trascorsi, nella
formazione scolastica, con il metodo del martellamento a forza di
dati, di saperi a tasselli, di mosaici frammentati, possono soltanto
recare danni alla ricerca di molti giovani ansiosi di capire per quale
scopo sono venuti al mondo.
La fede è una buona notizia per la vita di chi crede. Come si
fa a non renderla un’informazione fra le tante? Come dovrebbe
ARTICOLI

essere l’informazione sulle cose della fede, in modo da non farla


cadere nello stesso calderone del resto? La realtà religiosa non sarà
forse una Buona Notizia migliore, se la si testimonia piuttosto che
renderla oggetto di informazione?

5. Trattare le cose con delicatezza, cucire, rammendare, tessere

La nostra è una società violenta e divisa. Nulla di nuovo. Ci


siamo abituati a manomettere le cose, i legami, la nostra stessa in-
teriorità, e a separare, classificare, costruire trincee, formare gruppi
e fazioni. Maltrattiamo la natura, la devastiamo e la manipoliamo
senza controllo e senza misura. Abbiamo spezzato il filo che lega
le cose alla loro origine, abbiamo dichiarato nullo il matrimonio
214
dell’interrelazionalità del cosmo. Per esempio, gli alimenti ottenuti
industrialmente sono privi di quella sacralità, propria del tempo,
che li rende diversi, unici, originali e, tuttavia, parte dell’insieme. I
meccanismi della produzione di massa dei beni di consumo, can-
cellando qualsia­si singolarità, fanno apparire i prodotti di serie infi-
niti e identici a sé stessi.
La stessa cosa accade con le persone. Nei loro rapporti gli esseri
umani si trasformano l’un l’altro in oggetti più o meno manipolabili
o temibili, ben poche volte in esseri sacri. Sicché siamo propensi a
ferirci, e a farlo nella stessa maniera in cui veniamo feriti. Il bulli-
smo nelle scuole spesso costituisce una guerra silenziosa e terribile,
che può costare la vita a chi non trova rifugio nei propri amici, nella
famiglia o nelle istituzioni.
Questa rottura del vincolo sociale deve trovare una possibi-
lità di rimedio nell’esperienza sensibile. Che cosa accadrebbe se
tutti, nell’arco della settimana, si prendessero qualche momento
per rammendare qualcosa di rotto, fino a farne qualcosa di nuo-
vo, per suturare una ferita aperta? Ci sono molte esperienze fina-
lizzate a rompere, dividere, aggredire, e poche tese a restaurare,
riparare, recuperare, sintetizzare.
Per quanto riguarda le realtà liturgiche, alcune catechesi im-
prontate alla ricerca di vicinanza, probabilmente per reagire a un
eccesso di distanza, le hanno private del loro incanto, hanno tolto
loro il mistero che le avvolge, le hanno ridotte. È accaduto anche
TRASMETTERE LA FEDE ALLE NUOVE GENERAZIONI

che il rapporto stesso dei ministri con le cose sacre sia diventato
in qualche modo mondano, o troppo artificioso e puntiglioso. In
questo modo essi snaturano la familiarità con il mistero delle cose,
e generano una relazione dissonante, che all’infanzia, così amica del
meraviglioso, risulta estranea.
L’educazione nella fede deve sempre tendere alla mistagogia, che
è la pedagogia del mistero, la ricerca volta a offrire un cammino di
iniziazione alle realtà divine.

6. Essere corpo con altri, legarsi

La pandemia ha imposto al corpo di battere in ritirata. Lo ha se-


questrato e, in qualche modo, lo ha nascosto. Con il termine «cor-
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po» intendiamo la presenza della persona. Con il corpo e con le sue
manifestazioni ci rapportiamo al mondo e agli altri.
L’esperienza di reclusione a cui siamo stati sottoposti con la
pandemia ha provocato una nuova forma di presenza che poteva
fare a meno del corpo. Le piattaforme di comunicazione digitale
ci rendono presenti all’altro, nel migliore dei casi, dal punto di vista
dell’intenzionalità, ma non è possibile protrarre a lungo tale pre-
senza. Finché non potevamo incontrarci, ci restava solo la presenza
digitale con coloro con i quali saremmo voluti stare nella realtà. Ma
ai bambini e ai ragazzi le partecipazioni mediate dallo schermo non
apparivano come un «prolungamento» della loro presenza fisica nel
mondo digitale per mezzo dell’intenzione.
Con il tempo ci siamo «presenzializzati» sempre di più e siamo
tornati a una parvenza di normalità; ma la ritrosia, la timidezza in
presenza altrui, la difficoltà ad assumerci il peso di ciò che diciamo
perché non ci troviamo di fronte all’altra persona, l’intendere l’altro
più come un contatto o un profilo digitale che come un essere per-
sonale hanno tolto a molti la capacità di entrare in relazione.
Non abbiamo ancora sviluppato le pedagogie necessarie per
rafforzare il vincolo sano che s’instaura con chi non è noi, ma ci
configura, perché ci riflette. Questo riflesso, di cui ha bisogno ogni
soggettività, si verifica soltanto alla presenza fisica dell’altro.
Per la fede, il corpo è Cristo stesso nei fratelli e nelle sorelle. Che ne
sarebbe di una fede soltanto spiritualizzata? Non sarebbe altro se non
ARTICOLI

la ricerca del benessere interiore come di un qualsiasi bene di consumo


che si può ottenere tramite un’apposita esperienza. Ma il cristianesimo
trova la salvezza personale nell’altro. Dio ama servirsi di mediazioni,
incarnarsi per raggiungere il cuore dell’uomo concreto. Il corpo di
Cristo è la comunità, il legame, la comunione, la sinergia di amore,
resa possibile nell’esperienza di essere gli uni con gli altri. L’incarna-
zione di Dio in Gesù si completa nella sua passione, morte e risurre-
zione, «cristificando» ogni realtà.

7. Narrare storie, imparare a ereditare una tradizione

Il cristianesimo è un racconto vivente che si trasmette di generazione


in generazione grazie alla narrazione di ciò che Dio fa in noi per mezzo
216
del suo Spirito. Dobbiamo aiutare i bambini e i giovani a raccontare la loro
storia, a riferire gli avvenimenti della loro esistenza, a trovare le metafore e
le analogie appropriate per raccontarsi, perché in questo modo essi riusci-
ranno ad accrescere la loro capacità interpretativa nei confronti della vita.
La minimizzazione della messaggistica preconfezionata, tradotta
in icone, emoticon e sticker, come pure la possibilità di accelerare l’a-
scolto dei messaggi vocali di WhatsApp o quella di eliminare ciò che
si è detto generano instabilità, perché non assicurano la comprensione
di ciò che è stato comunicato. Lo sottopongono infatti al vincolo del
presunto tono con cui una certa cosa è stata detta, all’asincronicità,
all’assenza del corpo del recettore, che con i suoi gesti e le sue emozio-
ni completa meglio il circuito comunicativo.
Paradossalmente, la minimizzazione del messaggio si scontra con
l’amplificazione della messaggistica. Quasi da tutte le piattaforme si
può inviare un messaggio diretto. Possiamo moltiplicare le conversa-
zioni a volontà, nei limiti in cui riusciamo a farlo. Questo ci fa credere
che stiamo comunicando molto, ma in effetti forse stiamo soltanto
smistando della corrispondenza.
La tradizione cristiana è un retaggio vivo, che resterà tale per la
forza dello Spirito Santo, ma la missione di trovare Dio in tutte le
cose e tutte le cose in lui avviene nella cornice di una storia di salvezza
operata da Dio. Se non sviluppiamo nei bambini e nei giovani le stra-
tegie comunicative appropriate per farsi recettori attivi del messaggio,
finiremo per parlare soltanto tra noi.
TRASMETTERE LA FEDE ALLE NUOVE GENERAZIONI

8. Far riposare l’io in un noi, appartenere

La necessità di riscattare le antropologie relazionali e di ridare


loro la profondità che avevano nasce dalla certezza che non esiste
un io sostanzialmente puro, che poi entra in contatto con altri. La
nostra identità soggettiva è fatta di relazione.
L’esaltazione dell’ego, a cui siamo tentati di continuo, distrugge
il «noi», spezza i legami sociali, fino a rinchiudere ciascuno di noi
nel suo mondo individuale, dove vigono le leggi soggettive. Soltan-
to il «noi» ci salverà da questa tragedia dell’ego smisurato. Pertanto,
dobbiamo sviluppare ciò che può generare comunità, vincoli con-
divisi, incontri, storie comuni. La fede cristiana è comunitaria, non
solitaria. La si riceve dalla comunità, e a essa torna tramite l’azione
configurante che la comunità stessa imprime in ogni persona, fa- 217
cendo sì che si apra e invitandola al dono di sé.
Dobbiamo portare avanti la missione di depotenziare l’io, per
fargli scoprire la relazione con l’altro. Soltanto così Cristo potrà oc-
cupare il centro vitale delle nostre scelte personali, che non saranno
mai individuali, bensì operate nella comunità, che sostiene ognuno
nella sua singolarità.

9. Non cercare di sapere tutto, lasciare spazio al mistero

L’enciclopedismo scientista, tuttora vivo nel nostro desiderio di


controllare la realtà tramite la conoscenza, ha giocato un brutto
tiro alla trasmissione della fede, soprattutto nell’era della moderni-
tà. Un aspetto singolare di questa epoca è che non si cerca soltanto
di sapere, conoscere, comprendere in profondità alcune realtà, ma
si vuole tutto. Le sensibilità contemporanee non accettano il limi-
te, il confine, il finito. La digitalità, superando il tempo e lo spazio
fisici, sembra inaugurare nuove forme di limiti digitali più labili e
indistinguibili. Ciò crea la sensazione che al desiderio personale si
apra una vastità quasi infinita di cose.
Nella capacità di riconoscerci limitati si manifesta il luogo giusto
per relazionarci con il mistero di Dio. Se questo collocarsi nella pic-
colezza umana viene meno, si dilegua anche la meraviglia davanti
all’immensità del divino. La pedagogia dello stupore cerca proprio
ARTICOLI

di far sì che la nostra limitatezza non diventi un ostacolo frustrante,


ma piuttosto sia un trampolino verso l’ineffabile, il misterioso, lo
sconosciuto che ci sostiene.

10. Tagliare, chiudere, concludere

Quest’ultimo elemento ci suggerisce di imparare a dire addio,


a voltare pagina, a rispettare i cicli della vita che ci siamo invece
abituati ad alterare, manipolandoli, fin da quando, per esempio,
nella vita moderna è entrata l’elettricità. Non si tratta qui di di-
sprezzare i progressi della scienza, ma di soppesare quanto ognu-
no di essi possa aiutarci a vivere meglio la vita.
I bambini e i giovani andrebbero aiutati a vivere le fragilità di
218
ogni tappa della loro esistenza, a celebrare ognuno degli eventi signi-
ficativi della vita sapendone riconoscere la fine, a congedare persone
che muoiono, a distaccarsi sanamente da ciò che non può più essere.
Altrimenti il residuo, le cose in sospeso rimangono come un karma
inevaso che pretende spazio nei momenti di fragilità e d’incertezza,
tornando a mettere tutto in discussione. E siccome la labilità è una
tendenza propria di queste nuove generazioni, l’onnipotenza infan-
tile si sente sfidata e non vuole mollare nulla, per restare, paradossal-
mente, senza nulla: il vuoto di una vita senza decisioni.
La fede ha bisogno di svilupparsi, e può farlo soltanto se si riesce
a superare una tappa, se la si conclude, se la si lascia andare e non ci
si aspetta, protesi all’indietro, che torni ciò che non tornerà mai più,
o se ci si blocca magicamente in un punto immobile e privo di vita.
La vita richiede che scegliamo ciò che intuiamo come nostro, ciò che
Dio ci invita a vivere. Ma non riusciremo a fare una scelta positiva
senza tagli e senza rotture. In definitiva, se non c’è morte, non ci sarà
risurrezione.
LE VIRTÙ CARDINALI
I pilastri della vita buona

Giovanni Cucci S.I.

Una sproporzione significativa

Prima di trattare le singole virtù cardinali, chi scrive ha avuto


modo di affrontare il tema dei vizi capitali: in quelle occasioni si è no-
tata la grande ripresa e attualità delle tematiche, soprattutto in sede di 219
scienze umane, filosofia, arte, letteratura, spiritualità. Tale moltepli-
cità di approcci è un indice della ricchezza e complessità delle azioni
umane, indispensabile per comprenderne la gravità delle derive, ma
soprattutto il bene in essi cercato, anche se in maniera inadeguata. La
varietà di situazioni mostrate in ciascuno di essi poteva infatti essere
considerata una vera enciclopedia delle azioni umane1.
Tuttavia, alla fine di quel percorso articolato, restava la domanda
di fondo: come individuare quel bene inseguito invano da quei mol-
teplici, e per molti versi affascinanti, tentativi? Questo era, in altre
parole, l’interrogativo sulla virtù, la capacità di riconoscere e attuare
il bene proprio dell’uomo, che può dare gusto e pienezza alla sua vita.
Il discorso, però, a questo punto si presentava molto differente.
Se la tematica del vizio affascina, purtroppo non si può dire lo
stesso per il tema, a esso speculare, delle virtù cardinali, delle virtù
propriamente etiche, che rendono migliore colui che le pratica. La
trattazione più ampia rimane quella condotta da san Tommaso, che
riprende e integra in prospettiva teologica le analisi di Aristotele. An-
che alcuni scritti pregevoli comparsi nel corso degli ultimi decenni
sono di fatto un commento al testo di Tommaso2. Il numero dei testi

1. Cfr G. Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, Roma, AdP, 20122.
2. Cfr J. Pieper, The Four Cardinal Virtues, Notre Dame, University Press,
1959; D. Westberg, Right Practical Reason: Aristotle, Action, and Prudence in Aqui-
nas, Oxford, Clarendon Press, 1994; R. Cessario, Le virtù, Milano, Jaca Book,

© La Civiltà Cattolica 2022 III 219-231 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


ARTICOLI

italiani, oltre a (brevi) voci di dizionari ed enciclopedie, non supera le


dita di una mano3. I motivi di tale scarsità possono essere molteplici.
Uno, che non riguarda solo il presente tema, è che il bene non fa no-
tizia, non sembra essere spendibile, specialmente in sede pubblicistica.
Ma ce ne sono altri, più rilevanti. Il trattato sulle virtù cardinali
poggia su due grandi colonne, che reggono l’edificio del pensiero
etico: il fine e le passioni. Il fine è il bene proprio dell’agire non solo
dell’uomo, ma di ogni essere: «Giustamente si è dichiarato che il
bene è ciò cui ogni cosa tende»4. E il bene, come l’essere, si dice in
modi molteplici, che non presentano la medesima importanza, ma
stanno tra loro in una relazione di analogia5. Ogni essere perciò ha
un bene a esso proprio.
Il fine dell’uomo, nella prospettiva classica e medievale, è la
220
pienezza del vivere, cioè la vita in Dio: un significato presente già
nel termine greco con il quale Aristotele designa la felicità: eudai-
monia, il dono di un buon demone6. Ma nel momento in cui viene
a cadere la prospettiva teologica, anche lo scopo della vita umana
rimane disatteso, e con esso la possibilità stessa di riconoscere un
fondamento all’etica.
Una delle opere più importanti su questo tema, Dopo la virtù,
di Alasdair MacIntyre, è dedicata alle conseguenze di tale perdita.
Come recita il titolo, la tesi portante del libro è che la nostra è l’epo-
ca successiva alla virtù. In altre parole, non è più possibile una sua
trattazione filosofica, perché i valori non possono essere individuati
con un metodo meramente razionale (questo è stato il fallimento
della proposta cartesiana), ma scoprendoli all’interno di una tradi-

1994; Ch. Kaczor - Th. Sherman (edd.), Thomas Aquinas on the Cardinal Vir-
tues, Edited and Explained for Everyone, Ave Maria, FL, Sapientia Press, 2009; I. P.
Bejc­zy, The Cardinal Virtues in the Middle Ages. A Study in Moral Thought from the
Fourth to the Fourtheenth Century, Leiden - Boston, Brill, 2011.
3. Ricordiamo alcuni titoli: J. Eckert, Piccolo breviario delle virtù. Prudenza,
giustizia, fortezza, temperanza, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2009; R. Bodei
- G. Giorello - M. Marzano - S. Vega, Le virtù cardinali. Prudenza, temperanza,
fortezza, giustizia, Bari, Laterza, 2017; V. Mancuso, La forza di essere migliori, Mi-
lano, Garzanti, 2019; A. Bellon, Le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Trattato sulle
virtù cardinali, Brescia, Independently published, 2021.
4. Aristotele, Etica Nicomachea, 1094a 3.
5. Ivi, 1096b 28.
6. Cfr G. Cucci, L’ arte di vivere. Educare alla felicità, Milano, Àncora, 2019.
LE VIRTÙ CARDINALI

zione, inseriti in un contesto comunitario7. Questo carattere narra-


tivo, portavoce di una tradizione comunitaria, emerge anche dallo
stile dell’Etica Nicomachea, in cui l’autore parla in prima persona
plurale: «Chi è questo “noi”, in nome del quale egli scrive? Aristote-
le non ritiene di stare inventando un’interpretazione delle virtù, ma
di stare articolando un’interpretazione che è implicita nel pensiero,
nel discorso e nell’azione di un ateniese colto»8.
Anche su questo punto si possono notare differenze notevoli
rispetto alla riflessione successiva. L’epoca moderna si mostra sem-
pre più preoccupata di definire con precisione il proprio ambito e le
regole di comportamento, enumerando norme e definizioni. Tutto
ciò ha contribuito a renderla lontana dal vissuto, da quanto si può
trovare in esso di bello e coinvolgente, decretandone la crisi9.
221
Le pagine dell’Etica Nicomachea mostrano una freschezza e
un’attualità che contrastano con l’astrattezza di molti testi della
modernità, perché non presentano regole e definizioni: la morale
è qui intesa come arte di vivere bene. Nel fare ciò, mettono in ri-
lievo aspetti decisivi per il riconoscimento e la scelta del bene, che
si cercherebbero invano, ad esempio, nell’Ethica more geometrico
demonstrata di Spinoza, come la poesia, la mitologia, le opinioni
della gente (gli endoxa), l’educazione, le relazioni e l’integrazione
tra ragione e affetti10.

7. «Diventiamo giusti o coraggiosi compiendo azioni giuste o coraggiose; di-


ventiamo saggi nella teoria o nella prassi come risultato di un’istruzione sistematica»
(A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Roma, Armando, 2007, 196).
8. Ivi, 189. Cfr Id., Giustizia e razionalità. 2. Dall’illuminismo scozzese all’età
contemporanea, Milano, Anabasi, 1995, 153.
9. «La decisione originaria di essere morali, di seguire le regole pratiche, è
un’opzione radicale, che non trova alcuna motivazione capace di andare oltre il piano
soggettivo della decisione personale. Una morale delle norme ci pare insufficiente a
spiegare le norme stesse, le quali, invece, acquistano senso in funzione di un fine, di
un bene superiore ad esse […]. La riflessione etica, allora, deve riguardare il “come
dobbiamo vivere”, anziché il “che cosa dobbiamo fare”» (M. Matteini, MacIntyre e la
rifondazione dell’etica, Roma, Città Nuova, 1995, 79). Cfr A. MacIntyre, «Practical
Rationalities as Forms of Social Structure», in Irish Philosophical Journal 4 (1987) 3-19;
G. Abbà, Felicità, vita buona e virtù, Roma, LAS, 1989; A. Da Re, L’ etica tra felicità e
dovere. L’ attuale dibattito sulla filosofia pratica, Bologna, EDB, 1986.
10. Cfr R. Hursthouse, On Virtue Ethics, Oxford, Oxford University Press,
1999, 3.
ARTICOLI

L’orizzonte di pensiero mostrato dall’etica delle virtù, e succes-


sivamente smarrito, consente anche di comprendere la gravità della
crisi attuale: «Sono rimasto dell’idea che si possa comprendere la
genesi e la situazione di stallo della modernità morale soltanto a
partire dal punto di vista di una tradizione differente, di cui Ari-
stotele ha raccolto e analizzato credenze e presupposti, elaborandoli
teoricamente nella sua ben nota teoria classica»11.

LA DOMANDA PER ECCELLENZA DELL’ETICA


– «PERCHÉ SCEGLIERE IL BENE?» – NON TROVA
RISPOSTA SULLA BASE DEL MERO CRITERIO
RAZIONALE.
222

Anche la riflessione sulle virtù cardinali si è assottigliata, po-


larizzandosi di fatto su di una sola virtù, la giustizia. Una virtù
considerata soprattutto nella sua dimensione politica, esplicitan-
done le caratteristiche, ma anche precludendosi il legame stretto
che essa aveva con le altre virtù, che miravano a educare un
uomo buono, capace quindi di adempiere alle richieste di giu-
stizia in una maniera che l’ordinamento giuridico-normativo
non è in grado di soddisfare12 . In tale prospettiva, infatti, la
domanda per eccellenza dell’etica – «perché scegliere il bene?»
– non riesce a trovare una risposta plausibile sulla base del mero
criterio razionale.
L’etica delle virtù consente di superare le secche di alcune
proposte morali che avevano dominato la riflessione filosofica,
basate sul dovere, l’utile o il mero sentire, le proposte morali
oggi più in voga, ma che segnano la fine di un approccio che si
voglia filosofico, e dove alla fine si dissolve la distinzione stessa
di bene e di male13.

11. M. Matteini, MacIntyre e la rifondazione dell’etica, cit., 79.


12. Cfr G. Cucci, «La giustizia. Una virtù scomoda», in Civ. Catt. 2021 III
121-133.
13. Ha scritto Sofia Vanni Rovighi: «Per esempio, l’affermazione che l’omici-
dio è un male esprimerebbe soltanto l’orrore di chi parla per l’omicidio e quindi non
sarebbe in alcun modo giustificabile razionalmente, come non è giustificabile razio-
LE VIRTÙ CARDINALI

Avendo già trattato le singole virtù cardinali, vorremmo ora


cercare di chiarire perché esse sono considerate i pilastri della
vita morale e perché stanno o cadono all’interno di una precisa
impostazione di pensiero, come ha infatti mostrato il corso suc-
cessivo della storia.

Che cos’è virtù?

Per Aristotele, ripreso da Tommaso, la virtù è un abito positivo14.


Il termine «abito» (aretē, habitus) non corrisponde di per sé all’italiano
«abitudine», anche se è possibile riscontrare elementi comuni, come la
facilità a compiere un’azione, un apprendimento consolidato dall’uso
frequente, che porta alla formazione del carattere (ethikē, in greco),
223
inteso come dimensione stabile della persona. L’ habitus riguarda tutta
la persona, i suoi aspetti più profondi dal punto di vista psicologico,
morale e spirituale; è qualcosa che si acquisisce, che si ha, diventando
così una seconda natura, frutto di conoscenza ed educazione. E con-
sente di agire bene in modo costante, non casuale o fortuito.
Sia l’habitus sia l’abitudine sono frutto di una ripetizione com-
piuta nel tempo, e questo li differenzia dalla singola azione, buona o
cattiva. In campo morale, un singolo atto cattivo non distrugge la
virtù, né una buona azione è sufficiente a smantellare un vizio. Allo
stesso modo, una sola azione buona non rende virtuosi, così come
una rondine non fa primavera15.
Aristotele definisce l’esercizio della virtù etica come la capacità
di conseguire il fine proprio dell’uomo; con una felice immagine,
la paragona a una freccia che raggiunge il bersaglio. Tommaso e
Dante riprendono lo stesso esempio, ma lo applicano alla relazione
tra Dio e il mondo16.
I termini «vizio» e «virtù» intendono porre l’accento anche sul-
la storicità e continuità dell’agire umano, delineano un percorso, un

nalmente, non è né vero né falso, un senso di orrore» (S. Vanni Rovighi, Elementi
di filosofia, Brescia, La Scuola, vol. III, 19765, 195).
14. «Le virtù sono abiti che dispongono perfettamente l’uomo a ben operare»
(Sum. Theol. I-II, q. 58, a. 3).
15. L’esempio è di Aristotele: Etica Nicomachea, 1098a 19.
16. Cfr ivi, 1094a 24; Sum. Theol. I, q. 2, a. 3; Dante, Paradiso, VIII, 97-105.
ARTICOLI

orientamento di fondo dell’esistenza che conduce a esiti opposti. La


virtù conduce a conseguire con più facilità il fine dell’uomo, come si
notava, perfezionando sé stessi, vivendo con libertà e sperimentando
un piacere autentico. Ogni attività ha infatti un piacere a essa pro-
porzionato e, quando la si compie in modo ordinato, comporta un
diletto: può trattarsi di un’attività manuale, dello studio, dello sport,
di una relazione… Il desiderio, quando trova un’espressione adegua-
ta, manifesta ciò che Tommaso, riprendendo sant’Agostino, chiama
ordo amoris, la cui caratteristica è la circolarità, di essere cioè causa
ed effetto dell’amore: la purificazione del desiderio diventa energia e
conoscenza suscitate dall’amore, e queste a loro volta consentono di
ordinare l’amore, amando l’oggetto in proporzione alla sua impor-
tanza17. Il desiderio è l’espressione di un amore equilibrato e libero,
224
l’amore di carità, l’unico capace di coinvolgere tutta la persona.
Il vizio disattende tutto ciò, portando alla distruzione morale,
psichica e fisica del soggetto. È anche una maniera di punire sé stes-
si. Come i vizi capitali sono all’origine del comportamento vizioso,
radice di altri vizi, così le virtù cardinali sono la fonte del com-
portamento virtuoso, generando a loro volta le altre virtù morali,
consentendo di riconoscere e attuare il bene.
Le virtù possono essere intellettuali o morali. Quelle intellettuali
indicano i criteri e la norma dell’agire, possiedono la regola del compor-
tamento; le virtù morali riconoscono e attuano non il bene in generale,
ma ciò che è bene per me qui e ora. Esse possono farlo, perché integra-
no conoscenza e affetto, ciò che la filosofia classica e medievale chiama
«passioni» (o potenze appetitive, legate a una tendenza, appetitus), che
possono obbedire alla ragione, ma anche ostacolarla. Per questo vanno
educate. Ma senza passioni non ci può essere azione virtuosa; esse sono
infatti l’energia indispensabile per compiere il bene18.

17. Cfr Sum. Theol. I-II, q. 55, a. 1, ad 4um; q. 62, a. 2, ad 3um.


18. «Perché dunque uno possa agire bene non si richiede soltanto che la ragio-
ne sia predisposta dagli abiti delle virtù intellettuali, ma altresì che le potenze appe-
titive siano ben disposte mediante gli abiti delle virtù morali. Perciò, come l’appetito
è distinto dalla ragione, così le virtù morali sono distinte da quelle intellettuali. Per
cui, come l’appetito è principio degli atti umani in quanto partecipa della ragione,
così gli abiti morali sono virtù umane in quanto conformi alla ragione» (ivi, I-II, q.
58, a. 2).
LE VIRTÙ CARDINALI

Le passioni, energia per il bene

Un altro aspetto caratteristico della riflessione etica classica e


cristiana è lo stretto legame tra valutazione e affetto. Gli antichi in-
dividuavano la base della vita morale proprio nelle «passioni». Que-
sto termine, che viene dal greco pathos e dal latino pati, indica qual-
cosa che si subisce, che si riceve da altro, ma che nello stesso tempo
coinvolge profondamente (cfr il termine «appassionarsi») e spinge
all’azione. La passione fa riferimento al mondo interiore dell’uomo,
che non coincide con la razionalità, ma neppure si contrappone a
essa, rivelando la profonda unità dell’essere umano. Spesso la passio-
ne è stata paragonata all’istinto animale; tuttavia, quando si consi-
derano un po’ più a fondo le cose, si nota come istinti ed emozioni
presentino caratteristiche completamente diverse, come si è avuto 225
modo di precisare parlando della virtù della prudenza19.
Tommaso, riprendendo le analisi di Aristotele, sottolinea anzi-
tutto il carattere concreto, puntuale e personale della passione, che
non è contraria, ma piuttosto antecedente o conseguente rispetto
alla ragione. Quando si lascia guidare dalla ragione, essa diventa
un aiuto a compiere il bene, attuandone gli insegnamenti piuttosto
che ostacolarli. Le passioni nascono dalla sensibilità, ma sono anche
un moto dell’anima. Sono il frutto di una valutazione e di una de-
cisione che influenza il corpo – come ad esempio l’ira volontaria-
mente suscitata –, portando a un duplice movimento: di attrazione-
repulsione verso qualcosa considerato come bene-male, e di lotta
per superare gli ostacoli al suo conseguimento.
Il primo gruppo di passioni è chiamato concupiscibile e il secondo
irascibile. Il concupiscibile comprende sei tipi di passioni: amore-odio;
desiderio-repulsione; piacere-dolore. Le passioni dell’irascibile sono
cinque: speranza-disperazione, timore-audacia e l’ira, che non ha pas-
sioni contrarie, perché racchiude in sé uno spettro di passioni differen-
ti: collera, tristezza, dolore, richiesta di giustizia, speranza20. Le passioni
dell’irascibile sono derivate: sorgono quando non si riesce a conseguire

19. Cfr G. Cucci, «Emozioni e ragione: due mondi antitetici?», in Civ. Catt.
2015 III 139-150; Id., «La prudenza. Una virtù scomparsa?», ivi 2021 III 11-22.
20. Cfr Id., «Passioni», in P. Benanti et Al. (edd.), Dizionario di teologia mo-
rale, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2019, 735-742.
ARTICOLI

il bene desiderato; nascono e terminano nel concupiscibile. Le passio-


ni hanno una dimensione conoscitiva e partecipano della ragione; per
questo possono essere plasmate dalla virtù21. Intelletto e volontà a loro
volta possono intervenire sulle passioni per raggiungere nella maniera
migliore il bene desiderato. Senza passione, si cade nel vizio dell’insen-
sibilità, che rende chi lo compie disumano, incapace di pietà, tenerezza,
misericordia; senza passioni, la virtù non sarebbe possibile22.
Il trattato sulle passioni di Tommaso mostra l’armonia mirabi-
le dell’agire umano, al punto che è stato paragonato a uno spartito
musicale: «Il primo tema, con voce soprano, è cantato dall’amore,
cui segue presto il desiderio. Poi entra il tenore della speranza o della
disperazione, prevedendo la possibilità o lamentando l’impossibilità di
ottenere il bene. La linea di basso, sempre lenta e cupa, è rappresenta-
226
ta dall’ira, lenta a consumarsi e pronta ciò nonostante a raggiungere
il suo “bene” molto particolare. E poi il finale: il riposo e il piacere»23.
Tommaso rispetta la complessità della persona, mostrando, oltre a
una benevola comprensione dell’affettività, anche una maggiore fi-
ducia nel potere che la ragione ha di governare le passioni. Tutto ciò
ha conseguenze notevoli per la vita umana e spirituale.
Le differenti facoltà dell’uomo trovano il loro perfezionamento
nelle rispettive virtù cardinali. La ragione pratica viene perfezionata
dalla prudenza, la volontà dalla giustizia, le passioni dell’irascibile
dalla fortezza, quelle del concupiscibile dalla temperanza. Tale sud-
divisione mostra anche la presenza, al loro interno, di una gerar-
chia. La virtù più importante è la prudenza, perché fa da cerniera
tra conoscenza e affetto, muove la sensibilità a compiere quanto in-
travisto dalla ragione. Le altre virtù entrano in merito ai differenti
aspetti della realizzazione del bene24.

21. Cfr Tommaso d’Aquino, s., De malo, q. 12, a. 1; Sum. Theol. I-II, q. 46, aa.
1-3; q. 56, aa. 3-4.
22. «Il modo della virtù, che consiste nella perfetta volontà, non può essere
senza passione, non perché la volontà dipenda dalla passione, ma perché a una vo-
lontà perfetta in una natura passibile necessariamente consegue la passione» (De
Veritate, q. 26, a. 7, ad 2um; cfr Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 1).
23. B. H. Rosenwein, Generazioni di sentimenti. Una storia delle emozioni,
600-1700, Roma, Viella, 2016, 147.
24. «Il bene umano è quello conforme alla ragione […]. E tale bene appartiene
essenzialmente alla prudenza, che è una perfezione della ragione. La giustizia invece
LE VIRTÙ CARDINALI

Un’unità perduta

Nel corso della modernità è emerso un forte sospetto nei confron-


ti delle passioni. Uno dei motivi di tale svolta risiede indubbiamente
nella rivoluzione scientifica, che prospetta la possibilità di un sapere
certo, chiaro e distinto (Cartesio). Da qui il tentativo di elaborare un
approccio matematico a ogni realtà, anche umana, teorizzando un’e-
tica geometrica (Spinoza), una «geometria delle passioni» (Bodei), in
grado di programmare in modo «scientifico» la vita morale. Cartesio
cerca di inquadrare le passioni in una prospettiva meccanicistica; ma
se esse nascono dal corpo, non si capisce come possano influenzare
l’anima, conservarsi nella memoria e conferire intensità ai pensie-
ri. Esse rivelano una stretta unità tra corpo e anima, smentendo il
dualismo antropologico. Ma, soprattutto, Cartesio non considera le 227
passioni proprie dell’anima, che nascono dalla conoscenza e influen-
zano la corporeità e consentono alla ragione di dominarle e metterle
al servizio del bene e della crescita morale (cosa di cui Cartesio è
profondamente convinto)25. Il corso successivo del pensiero tenderà
sempre più a vedere nelle passioni un ostacolo alla conoscenza e alla
morale, e dunque qualcosa da combattere o ignorare.
Per Kant, includere le passioni e la felicità nella vita morale
significherebbe ridurla a una ricerca soggettiva di gratificazioni,
incompatibile con le caratteristiche di un’azione buona, che non
ha altre motivazioni che la volontà di compiere il bene. Per que-
sto un criterio della sua rettitudine è l’esclusione di ogni moto
passionale, che va contrastato con decisione. E il motivo di tale
contrasto è enunciato con chiarezza: «Essere soggetti a emozioni

ha il compito di realizzarlo: poiché spetta ad essa imporre l’ordine della ragione in


tutte le azioni umane. Le altre virtù hanno poi il compito di conservare questo bene,
in quanto cioè moderano le passioni, affinché non distolgano l’uomo dal bene della
ragione. E tra queste ultime la fortezza occupa il primo posto: poiché il timore dei
pericoli di morte è la passione più efficace nel distogliere l’uomo dal bene di ordine
razionale. Dopo di essa viene la temperanza: poiché anche i piaceri del tatto ostaco-
lano più di ogni altro piacere il bene della ragione» (Sum. Theol. II-II, q. 123, a. 12;
cfr q. 141, a. 8).
25. Cfr R. Cartesio, Le passioni dell’anima, Milano, Bompiani, 2003, §§ 74 e
211. Sul problema centrale che le passioni pongono al rapporto anima-corpo, cfr P.
D’Arcy, «Introduction», in R. Descartes, Le Passions de l’âme, Paris, Flammarion,
1996, 42-59.
ARTICOLI

e passioni è ben sempre una malattia dell’animo, perché ambedue


escludono il dominio della ragione»26. Se è ammirevole e genia-
le il tentativo di Kant di garantire dignità e universalità all’agire
morale, non si possono non notare le conseguenze paradossali di
una tale impostazione.
Tutto ciò ha contribuito a impoverire la riflessione sulle virtù
cardinali, e a dare un’immagine falsa della passionalità umana.
Da qui l’approccio dualista all’essere umano, diviso tra ragio-
ne e passioni, intelletto e volontà, dovere e piacere. Una tale
impostazione si è rivelata tuttavia molto astratta e incapace di
rendere conto dell’effettivo modo di procedere dell’intelligenza
umana. Il neuroscienziato Antonio Damasio, studiando persone
lobotomizzate – che hanno cioè subito l’asportazione dei lobi
228
frontali del cervello, sede delle emozioni –, ha notato come tale
privazione abbia inciso radicalmente sulle capacità cognitive e
volitive, fino all’incapacità di apprendere i valori, di condurre
una vita sociale regolare, di portare a termine un lavoro qualsia-
si, ma anche di svagarsi, di godere in qualche modo della propria
vita: «Sentimenti alterati e una ragione imperfetta si presentava-
no assieme, come conseguenze di una specifica lesione cerebrale,
e questa correlazione mi suggeriva che il sentimento fosse una
parte integrante del modo di operare della ragione»27.
Un altro punto importante emerso sul versante psicologico, in
linea con le analisi di Tommaso, è la bidirezionalità tra passione
e riflessione, riconoscendo come la valutazione e la cognizione
possano modificare la risposta passionale, nel bene o nel male28.
L’ira può essere volontariamente suscitata e accuratamente pre-
parata, ad esempio per compiere la giustizia (tale è l’ira di Gesù
descritta in Gv 2), così come l’odio esprime le sue maggiori poten-
zialità distruttive non a livello pulsionale (piuttosto breve, anche

26. I. Kant, Antropologia pragmatica, Bari, Laterza, 1993, § 73, 141; cfr Id.,
Critica della ragion pratica, ivi, 1986, 90. Nota in proposito Remo Bodei: «La scoper-
ta della positività delle passioni è abbastanza recente, ha luogo soprattutto nell’età
contemporanea» (R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia
e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2003, 10).
27. A. Damasio, L’ errore di Cartesio, Milano, Adelphi, 1995, 18.
28. Cfr D. Goleman, Intelligenza emotiva, Milano, Garzanti, 1999, 85 s.
LE VIRTÙ CARDINALI

se intenso), ma soprattutto a livello culturale, quando esso viene


sistematicamente coltivato, instillato, fino a rimanere impresso
nell’immaginario collettivo. E può essere contrastato soprattutto
dalla saggezza, la più intellettuale tra le virtù pratiche29.

La crisi della filosofia morale

La svalutazione delle passioni ha finito per ritorcersi contro la


filosofia stessa. Questa impostazione è alla base della critica spie-
tata di Freud alla morale, intesa come sinonimo di una visione
castigata della vita, mirante a reprimere passioni e desideri e a
rendere le persone non buone, ma infelici e nevrotiche. Il risvol-
to negativo che il moralismo assume nell’attuale immaginario
229
collettivo, espresso così efficacemente da Freud nelle analisi delle
ossessioni causate dai sensi di colpa, pur nella sua unilateralità,
coglie nel segno quando indica i rischi di una patologia del do-
vere che imprigiona e mortifica il desiderio di vivere dell’uomo
e lo esclude dalla felicità 30.
E così anche la virtù viene declassata dalla riflessione sul vi-
vere bene. Essere una persona virtuosa significa seguire le regole
della buona educazione della società, senza passione, una sorta di
«antipatica vecchia zitella sdentata di altri tempi», per riprendere
un’efficace descrizione di Max Scheler31.
È un giudizio che rispecchia certamente la svalutazione degli
affetti per la vita morale, e di conseguenza la considerazione del-
la virtù in termini di mera fatica e contrapposizione al desiderio
di vivere. E che porta a considerare il vizio come qualcosa di
attraente e capace di dare gusto alle scelte: un pericoloso capo-
volgimento dei criteri di valutazione32 . In realtà, come abbiamo

29. Cfr G. Cucci, «L’odio. Un sentimento complesso e potente», in Id., La forza


dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, AdP, 20183, 369-399.
30. Cfr S. Freud, L’Io e l’Es, in Id., Opere, Torino, Boringhieri, vol. IX, 1977,
514; Id., Il disagio della civiltà, ivi, vol. X, 1978, 258.
31. M. Scheler, «Riabilitare la virtù», in Id., Il valore della vita emotiva, Mila-
no, Guerini e Associati, 1999, 157.
32. Come nota Maurizio Chiodi: «Oggi, infatti, noi ci dibattiamo, in morale,
nell’eterna problematica di un rigorismo che separa la morale dalla felicità e di un
lassismo che oppone la felicità alla morale. Oppure, la ricorrente domanda di nuove
ARTICOLI

avuto modo di vedere, la riflessione sulla virtù vorrebbe essere


un aiuto a conseguire tale desiderio di pienezza.

Il ritorno delle virtù

Anche per questi motivi la filosofia contemporanea è tornata a


interessarsi al tema della virtù, riscoprendone il significato origina-
rio, dando così nuovo impulso alla riflessione morale, restituendone
anche la dimensione essenzialmente comunitaria.
La riscoperta di questo tema viene dalla filosofia anglosassone
del secondo dopoguerra, soprattutto a partire dallo scritto del 1958
Modern Moral Philosophy di Elizabeth Anscombe, allieva e tradut-
trice di Ludwig Wittgenstein. Secondo l’autrice, questa disciplina
230
potrebbe ritrovare il suo valore dialogando con le ricerche in campo
psicologico e con la tradizione aristotelica, prendendo definitiva-
mente le distanze dalle impostazioni, allora dominanti, di un’eti-
ca basata sul dovere (deontologia), sull’emozione (emotivismo), sul
calcolo di costi-benefici (utilitarismo), o sulla mera esposizione di
regole e definizioni (razionalismo)33.
Il saggio ha dato l’avvio a un acceso dibattito, che ha visto l’ap-
parizione di diversi contributi in proposito, e alla possibile rela-
zione tra vita etica, virtù, felicità in prospettiva teista34. Alcuni dei
loro autori, come Peter Geach, Alasdair MacIntyre e la stessa An-

norme, dopo quelle passate che non sembrano più applicabili oggi, è la conferma che
dal moralista non si attende altro che un’etica del dovere e dell’obbligazione. E questa
stessa concezione dell’etica è evidente in chi si oppone a qualsiasi compito morale» (M.
Chiodi, Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneutica, ontologia della libertà nella
ricerca filosofica di Paul Ricœur, Brescia, Morcelliana, 1990, 334, nota).
33. Cfr G. E. M. Anscombe, «Modern Moral Philosophy», in M. Geach - L.
Gormally (edd.), Human Life, Action and Ethics, Exeter ‒ Charlottesville, Imprint
Academic, 2005, 169-194; G. Abbà, «L’originalità dell’etica delle virtù», in F. Com-
pagnoni - L. Lorenzetti (edd.), Virtù dell’uomo e responsabilità storica. Originalità,
nodi critici e prospettive attuali della ricerca etica della virtù, Cinisello Balsamo (Mi),
San Paolo, 1998, 135-165.
34. Cfr, ad esempio, G. H. von Wright, The Varieties of Goodness, New York,
Humanities Press, 1963; P. Geach, The Virtues, Cambridge, Cambridge University
Press, 1977. Per una panoramica storica, cfr M. Micheletti, Filosofia analitica della
religione. Un’introduzione storica, Brescia, Morcelliana, 2002; G. Filoramo, «Filo-
sofia e religione», in G. Cambiano - L. Fonnesu - M. Mori (edd.), Storia della
filosofia occidentale. 7. Problemi d’oggi, Bologna, il Mulino, 2015, 193-215.
LE VIRTÙ CARDINALI

scombe, grazie a questo percorso intellettuale sono arrivati a una


conversione religiosa. Ma anche sul versante della non credenza o
dell’agnosticismo tale proposta affascina, come nel caso di Anthony
Kenny e di Philippa Foot. Quest’ultima osserva in proposito: «È
mia opinione che la Summa Theologiae sia una delle fonti migliori
che abbiamo per la filosofia morale e, inoltre, che gli scritti di san
Tommaso sull’etica siano altrettanto utili per l’ateo che per il catto-
lico o per un altro credente cristiano»35.
Affermare ciò non significa cristallizzare un periodo storico,
ma piuttosto recuperare un’impostazione metodologica il cui valo-
re può essere confermato proprio dai tentativi, compiuti nel corso
del tempo successivo, di individuare altre strade per la comprensio-
ne dell’agire etico. L’etica delle virtù è così diventata nuovamente
231
oggetto di trattazione da parte della filosofia contemporanea, che
riprende gli approcci della filosofia analitica e della prassi umana,
messi a confronto con l’impostazione metafisica, le neuroscienze e
le scienze umane, che hanno rilevato il contributo cognitivo delle
emozioni e il loro influsso sul ragionamento e sui processi decisio-
nali in ordine alla felicità36.
È una proposta capace soprattutto di parlare del bene e dell’e-
tica in termini di desiderio e bellezza, che sono le motivazioni per
eccellenza della vita virtuosa: «In un mondo senza bellezza anche il
bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-
essere-adempiuto. In un mondo che non si crede più capace di af-
fermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito
la loro forza di conclusione logica»37.

35. Ph. Foot, Virtù e vizi, Bologna, il Mulino, 2008, 4. Cfr M. Micheletti,
Tomismo analitico, Brescia, Morcelliana, 2007; G. S. Lodovici, Il ritorno delle virtù.
Temi salienti della Virtue Ethics, Bologna, Esd, 2009.
36. Cfr A. Da Re, «Il ritorno dell’etica nel pensiero contemporaneo», in Etica
oggi: comportamenti collettivi e modelli culturali, Padova, Gregoriana, 1989, 105-233;
E. Berti, Nuovi studi aristotelici. Vol. IV/2. L’influenza di Aristotele. Età moderna e
contemporanea, Brescia, Morcelliana, 2010; M. Nussbaum, L’ intelligenza delle emo-
zioni, Bologna, il Mulino, 2008; I. Boniwell, La scienza della felicità. Introduzione
alla psicologia positiva, ivi, 2015.
37. H. U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica. I. La percezione della
forma, Milano, Jaca Book, 1991, 11.
ARTICOLI

IL PRIMO CRISTIANESIMO
E LE RELIGIONI DEL TEMPO
La lezione di Paolo
Enrico Cattaneo S.I.

Nei primi secoli il cristianesimo si è diffuso in un mondo


completamente pervaso dalla religione, sia nella sfera privata sia
in quella pubblica. Non c’era gesto o azione che non fosse ac-
compagnato da un atto religioso, ma soprattutto non c’era luo-
232
go, a cominciare dagli astri, che non fosse abitato da qualche
divinità. Il sole, la luna, le costellazioni erano considerati esseri
divini. Quanto alle cose della Terra, sorgenti, fiumi, mari, mon-
ti, boschi, tutto portava l’impronta di un dio, sia pure di rango
inferiore. Anche la sfera umana, fatta di emozioni, sentimenti,
paure e speranze, era popolata da divinità, che con i loro miti
potevano essere di aiuto a superare le ansie della vita e ad elabo-
rarne i dolori.
Come si sono comportati i primi cristiani di fronte a questa
religiosità diffusa, che potremmo chiamare «naturale»? Prove-
nendo da una matrice ebraica, essi per prima cosa hanno distinto
nettamente la creatura dal Creatore. Il mondo, per quanto bello
e ordinato, non poteva essere adorato come Dio. Il concetto di
creazione dal nulla, fondamentale nella fede ebraico-cristiana,
era estraneo non soltanto alla religione greco-romana, ma anche
alle varie scuole filosofiche, al pari di quello di un Dio trascen-
dente. L’idea del divino, che in qualche modo si può dire innata
nell’uomo, in assenza di una chiara distinzione ontologica di-
venta facilmente materializzabile nelle cose. Così, ad esempio, si
esprime il libro della Sapienza1: «Davvero vani per natura tutti
gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili

1. Redatto in greco nel I secolo a.C. e assente dal canone ebraico, il libro della
Sapienza, o Sapienza di Salomone, è entrato nel canone biblico della Chiesa cattolica.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 232-245 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

non furono capaci di riconoscere colui che è, né, esaminandone


le opere, riconobbero l’artefice. Ma o il fuoco o il vento o l’aria
veloce, la volta stellata o l’acqua impetuosa o le luci del cielo essi
considerarono come dèi, reggitori del mondo» (Sap 13,1-2).
Nondimeno l’autore sacro trova quasi una scusante per que-
sta idolatria del creato, tanto sono belle le opere del Creatore:
«Se, affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino
quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che
è principio e autore della bellezza. Se sono colpiti da stupore
per la loro potenza ed energia, pensino da ciò quanto è più po-
tente colui che li ha formati. Difatti dalla grandezza e bellezza
delle creature per analogia si contempla il loro autore. Tuttavia
per costoro leggero è il rimprovero, perché essi facilmente s’in-
233
gannano cercando Dio e volendolo trovare. Vivendo in mezzo
alle sue opere, ricercano con cura e si lasciano prendere dall’ap-
parenza perché le cose viste sono belle. Neppure costoro però
sono scusabili, perché, se sono riusciti a conoscere tanto da poter
esplorare il mondo, come mai non ne hanno trovato più facil-
mente il sovrano?» (Sap 13,3-9).
Per un ebreo, dunque, come per un cristiano, la divinizzazio-
ne della natura era un atto di idolatria, incompatibile con la fede
nell’unico Dio. Per questo nella religione ebraica erano vietate le
immagini, come si legge nel libro dell’Esodo: «Non ti farai idolo né
immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù
sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai
davanti a loro e non li servirai» (Es 20,4-5)2. Pertanto, era possibile
in una certa misura dialogare con i filosofi, perché usavano la ragio-
ne, ma non era possibile venire a patti con gli idoli.
La fede biblica implicava un altro elemento differenziante,
connesso con la morale. Spesso le religioni naturali comporta-

2. Il cristianesimo mantenne in un primo tempo questa proibizione, ma


poi la devozione a Cristo e ai santi favorì l’uso di immagini e la loro venerazione.
Nell’VIII secolo si sviluppò un’aspra polemica fra i fautori e i contrari alle im-
magini sacre (iconoclasmo), finché il II Concilio di Nicea del 767 si pronunciò
a favore delle immagini, distinguendo tra adorazione (dovuta solo a Dio) e ve-
nerazione di segni religiosi, precisando che tale venerazione non va all’oggetto
materiale, ma alla persona in esso rappresentata.
ARTICOLI

vano pratiche, come la prostituzione sacra e i sacrifici di bam-


bini3, che l’uomo biblico, istruito dai dieci comandamenti, non
poteva non giudicare immorali. Non bastava sapere che quelle
usanze avevano una loro giustificazione per renderle accettabili:
esse rimanevano sempre un «abominio»4. Nell’ambito della re-
ligione romana, inoltre, le feste pubbliche erano accompagnate
spesso da rappresentazioni oscene e licenziose, mentre nel pri-
vato il ricorso alle divinità minori era quasi sempre una forma
di superstizione5.

Sacrifici cruenti e dieta alimentare

Tra le pratiche religiose sulle quali il cristianesimo ha preso


234
una netta posizione va segnalata la subitanea e totale abolizione
dei sacrifici di animali6. Pur provenendo da una religione – quella
ebraica – dove tali sacrifici erano una parte essenziale del culto, i
cristiani li hanno immediatamente soppressi, senza neppure porsi
il problema: non c’è traccia di una qualche discussione circa l’op-
portunità o meno di continuare a praticare i sacrifici cruenti.
Eppure, tali pratiche cultuali avevano anche un risvolto econo-
mico e sociale, in quanto, se non si trattava di un «olocausto», dove
tutto era consumato dal fuoco, parte delle carni sacrificate serviva

3. I sacrifici di bambini si praticavano soprattutto tra i cananei e i fenici. Cfr


1 Re 16,34: «Nei suoi giorni Chièl di Betel ricostruì Gerico; gettò le fondamenta so-
pra Abiràm, suo primogenito, e collocò la sua porta a doppio battente sopra Segub,
suo ultimogenito». Lo scopo era quello di propiziare il benessere della città.
4. Così dice il Signore nel libro di Geremia: «Costruirono le alture di Baal
nella valle di Ben-Innòm, per far passare attraverso il fuoco i loro figli e le loro figlie
in onore di Moloc, cosa che io non avevo mai comandato loro – anzi non avevo
mai pensato di far praticare questo abominio –, e tutto questo per indurre Giuda a
peccare» (Ger 32,35).
5. Si veda la severa critica di sant’Agostino in La città di Dio, VI-VII (trad. it.
a cura di D. Marafioti, Milano, Mondadori, 2015).
6. A dire il vero, già in ambito pagano erano state espresse riserve sui sacri-
fici cruenti di animali: cfr G. Sfameni Gasparro, «Critica del sacrificio cruento
e antropologia in Grecia: da Pitagora a Porfirio», I, in F. Vattioni (ed.), Sangue e
antropologia. Riti e culto, Roma, Pia Unione Preziosissimo Sangue, 1987, 107-155; II,
in F. Vattioni (ed.), Sangue e antropologia nella teologia, ivi, 1989, 461-505.
IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

al sostentamento dei sacerdoti o veniva venduta nelle macellerie a


prezzo conveniente, oppure distribuita ai familiari.
Neppure quei cristiani di ceppo ebraico, che erano ancora at-
taccati alla Legge di Mosè, si espressero mai a favore dei sacrifici
cruenti. Per tutti – giudei o gentili, ormai divenuti cristiani –
l’unico sangue salvifico era quello di Cristo sulla croce7; l’unica
«carne» e l’unico «sangue» di cui si nutrivano nelle loro assemblee
erano quelli presenti nell’Eucaristia (cfr Gv 6,53-56)8. Se conti-
nuavano a parlare di sacrificio, era per dire che i sacrifici graditi a
Dio erano solo quelli «spirituali» (1 Pt 2,5).
Siamo qui nella linea di quella spiritualizzazione del culto
per la quale già i profeti si erano battuti9. Tuttavia, a differen-
za di correnti religiose quali l’orfismo e il pitagorismo – per le
235
quali il rigetto dei sacrifici cruenti comportava di pari passo
l’astensione dalle carni, e quindi l’adozione di una dieta stretta-
mente vegetariana –, per i cristiani ciò non si verificò, almeno
a livello ufficiale10.
Il solo problema di cui abbiamo notizia riguarda la liceità o
meno per un cristiano di mangiare le carni che erano state immo-
late in un tempio, e quindi offerte in onore di una divinità. Poiché

7. Innumerevoli sono i passi del Nuovo Testamento che menzionano il san-


gue di Gesù. Ad esempio, in Paolo: «… avendo pacificato con il sangue della sua
croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20); e
in Pietro: «Foste liberati […] con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti
e senza macchia» (1 Pt 1,18-19). Per Paolo, il calice eucaristico «è comunione con il
sangue di Cristo» (1 Cor 10,16).
8. Per un giudeo non doveva essere facile accettare di «bere il sangue» di un
uomo, sia pure in modo mistico, data la proibizione tassativa di «mangiare il sangue
degli animali» (cfr Lv 7,26-27).
9. Cfr Is 1,11; Am 5,22; Sal 50,8-14.
10. Questo non significa che la dieta vegetariana fosse condannata. Essa fu
praticata dagli asceti e poi dai monaci, che si richiamavano al precetto originario,
valido per uomini e animali, di cibarsi solo di erbe e di frutti (cfr Gen 1,29-30). Solo
dopo il diluvio universale Dio permise all’uomo di cibarsi anche degli esseri «che
hanno vita», con il divieto però di «mangiare la carne con la sua vita, cioè con il suo
sangue» (Gen 9,3-4). Soltanto il sangue dell’uomo è sacro, e Dio domanderà conto
del sangue sparso (cfr Gen 9,5-6). La legge mosaica distinguerà poi tra animali puri
(cioè commestibili) e animali impuri (non commestibili): cfr Lv 11 e Dt 14,5-20. Cfr
B. Escaffre, «Chair et sang entre interdit et nourriture dans la Bible», in Bulletin de
Littérature Ecclésiastique 120 (2019) 63-77.
ARTICOLI

nelle città quella era l’unica carne disponibile, i cristiani provenienti


dai gentili si posero questo problema. Non dobbiamo dimenticare
che proprio nella prassi sacrificale cruenta «la polis greca viveva il
momento più intenso di partecipazione collettiva al culto e al rela-
tivo contatto con il mondo divino»11. Non ci sorprende allora che
questo fosse uno dei temi toccati nell’assemblea apostolica di Geru-
salemme, verso l’anno 49.
La conclusione degli apostoli fu, su questo punto, molto decisa:
bisognava «astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli
animali soffocati e dalle unioni illegittime» (At 15,29). Per i cre-
denti di fede ebraica, presenti in tutte le grandi città, ciò non faceva
difficoltà, abituati com’erano ad avere i loro fornitori di carni kosher,
cioè macellate secondo la Legge; ma per i cristiani convertitisi dal
236
paganesimo, se non volevano isolarsi completamente dal consorzio
civile, si poneva un problema di coscienza.

ERA LECITO PER I PRIMI CRISTIANI MANGIARE LE


CARNI IMMOLATE IN UN TEMPIO PAGANO?

Le posizioni erano diverse. C’era chi faceva leva sulla libertà


portata da Cristo per sentirsi autorizzato a sedersi a tavola sen-
za porsi troppe domande. C’erano invece quelli più scrupolosi
– forse la maggioranza –, che temevano di macchiare la loro
coscienza con atti idolatrici, sia pure indiretti. Il cristianesimo,
in definitiva, si presentava come una religione centrata sulla pa-
rola e sull’Eucaristia, senza sacrifici cruenti, senza templi, ma
chiamata a evangelizzare un mondo impregnato di religiosità
pagana, ponendo problemi di coscienza.

L’intervento di Paolo

Su tale questione è intervenuto Paolo, l’apostolo dei gentili. Egli


era un giudeo della diaspora, nato a Tarso in Cilicia, ma educato a
Gerusalemme e aderente alla corrente dei farisei, cioè dei più scru-

11. G. Sfameni Gasparro, «Critica del sacrificio cruento…», II, cit., 484.
IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

polosi osservanti della Legge. Forse per questo suo zelo se la prese
tanto con i seguaci del Nazareno, combattendoli aspramente, come
egli stesso confessa: «Voi avete certamente sentito parlare della mia
condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la
Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior
parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel soste-
nere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).
Ciò che successe poi un certo giorno sulla via di Damasco, oltre
a Luca in At 9,1-19, ce lo dice Paolo stesso, redigendo la propria
scheda biografica: «Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’I-
sraele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei, quanto alla
Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto
alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile.
237
Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate
una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una per-
dita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio
Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero
spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,5-8)12.
Che cos’è allora per Paolo la circoncisione, il segno per anto-
nomasia di appartenenza al popolo dell’alleanza? «Non conta più
nulla», risponde arditamente l’Apostolo. Di fronte a Cristo, «non è la
circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova
creatura» (Gal 6,15).
Questo è il Paolo che si avventura nella sua azione missiona-
ria, un Paolo animato da un’unica passione: quella di annuncia-
re il Vangelo della grazia, cioè che Cristo è morto per i nostri
peccati e per riconciliarci con Dio (cfr 2 Cor 5,18-21). L’Apo-
stolo ha espresso in una sintesi mirabile il suo stile missionario:
«Infatti – egli dice –, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto
servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono
fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per
coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la
Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo

12. In greco skybala, «rifiuto, resto, avanzo». La Cei traduce «spazzatura», ma


forse il termine è troppo forte. Per Paolo la legge mosaica ha perso sì il suo valore,
ma rimane sempre santa (cfr Rm 7,12).
ARTICOLI

di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che


non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio,
anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno
che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono
senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare
i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo
qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne par-
tecipe anch’io» (1 Cor 9,19-23). Questo passo è stato formulato
da Paolo con molta cura e padronanza di stile. Esso è consi-
derato la più alta formulazione che l’Apostolo abbia fatto del
suo approccio missionario. Egli infatti «ha percepito in maniera
esemplare l’orizzonte di libertà sul quale si affaccia il vangelo:
libertà dal peccato, dalla legge, dalla morte, dagli elementi del
238
cosmo, dall’impero di Satana, dalle barriere imposte dalla na-
zione, dalla classe, dal sesso, da ogni dispotismo umano, dai
tabù dei cibi e dei comportamenti; veramente tutto è per l’uomo
quando l’uomo è di Cristo (cfr 1 Cor 3,21-23)»13.
Nella pratica però le cose non erano semplici. Vi era anzitut-
to una questione di fondo di carattere generale, quella cioè dei
rapporti tra gli aderenti alla nuova fede e i loro concittadini ri-
masti ancora attaccati agli antichi culti: dovevano i cristiani radi-
calizzare la loro distanza dai pagani, fossero pure parenti o amici,
rinchiudendosi come in un ghetto, oppure potevano continuare
a vivere con loro in comunanza di vita sociale? Chiaramente l’A-
postolo inclinava per questa seconda posizione.
Paolo tuttavia era preso da un angoscioso dilemma: come av-
valersi della libertà portata da Cristo senza scandalizzare il fratel-
lo? Egli «ha dovuto camminare sul filo del rasoio tra il legalismo
dei giudeo-cristiani e il falso liberalismo del razionalismo gnosti-
co. Che egli sia stato in grado di fare ciò, è uno dei segni evidenti
della sua grandezza»14.

13. P. Rossano (ed.), Lettere di San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo,
2002, 148.
14. C. K. Barrett, «Things Sacrificed to Idols», in New Testament Studies 11
(1965) 152.
IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

Il criterio della fede e della carità

La risposta di Paolo si attua su un duplice registro: quello


della fede e quello della carità15. La fede implica anzitutto un
dono di vera conoscenza (gnōsis), grazie al quale possiamo af-
fermare che «per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto
proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in
virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui»
(1 Cor 8,6). Dunque, l’idolo di per sé è un nulla, e la carne im-
molata agli idoli è un nulla (cfr 1 Cor 10,19), ragion per cui, dice
Paolo, «tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure,
senza indagare per motivo di coscienza, perché del Signore è la
terra e tutto ciò che essa contiene» (1 Cor 10,25-26). Così, «se
un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello 239
che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di
coscienza» (1 Cor 10,27).
Paolo tuttavia avverte il pericolo di chi si lascia guidare
dalla sola conoscenza, perché lasciata a se stessa essa può mu-
tarsi in orgoglio: «La conoscenza (gnōsis) riempie di orgoglio,
mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Ora, di fatto non tutti han-
no la libertà data dalla fede, ma alcuni pensano che mangia-
re carni immolate agli idoli sia peccato. Come comportarsi
nei loro confronti? Qui entra in gioco il secondo criterio, così
formulato: «Badate che questa vostra libertà non divenga oc-
casione di caduta per i deboli» (1 Cor 8,9). È il criterio della
carità: «Per la tua conoscenza (gnōsis), va in rovina il debole,
un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i
fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro
Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non
mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello»
(1 Cor 8,11-13). È dunque necessario che la scienza data dalla

15. Seguiamo l’impostazione data da N. Tornese, Roberto de Nobili. Contri-


buto al dialogo con i non cristiani, Cagliari, Pontificia Facoltà Teologica S. Cuore,
1973. La parte biblica di questo studio è stata ristampata con questo titolo: N. Tor-
nese, «Mi sono fatto tutto a tutti» (1 Cor 9,22). Lo stile apostolico di S. Paolo, a cura di
E. Cattaneo, Pozzuoli (Na), Sapienza e Vita, 2015.
ARTICOLI

fede non vada mai disgiunta dalla carità: «Tutto è lecito! Sì, ma
non tutto giova» (1 Cor 10,23).
Vale comunque sia per i forti – quelli che hanno la gnōsis – sia
per i deboli il dovere categorico di «fuggire l’idolatria» (1 Cor 10,14).
Se è vero che un idolo non è un dio, rimaneva però il rischio che le
pratiche idolatriche ponessero a contatto con il demoniaco. Pao­lo
condivide la credenza nell’esistenza di angeli e demoni, con i quali
anche Gesù aveva avuto a che fare (cfr Mc 1,21-28.32-34). Perciò
scrive: «Dico che quei sacrifici [dei pagani] sono offerti ai demòni e
non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i
demòni» (1 Cor 10,20)16.
È importante sottolineare il contesto eucaristico di questa in-
compatibilità: «Non potete bere il calice del Signore e il calice dei
240
demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa
dei demòni» (1 Cor 10,21). L’Eucaristia è dunque l’antidoto contro
qualsiasi specie di idolatria.
Oltre al caso specifico delle carni immolate agli idoli, Paolo af-
fronta la questione da un punto di vista più generale, che riguarda
alcune osservanze religiose derivate da una determinata cultura
o da un determinato ambiente. C’era, ad esempio, chi si sentiva
obbligato a osservare un certo calendario di giorni e di feste, e chi
si vincolava a una dieta vegetariana. L’Apostolo si riferisce a questi
quando scrive ai Romani: «Uno crede di poter mangiare di tutto;
l’altro, che invece è debole, mangia solo legumi […]. C’è chi di-
stingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali» (Rm
14,2.5). Tra questi potevano esserci sia giudeo-cristiani ancora at-
taccati al sabato e alle norme sui cibi puri e impuri, sia persone
influenzate dal pitagorismo, che predicava l’astensione dalle carni
e anche dal vino17. Paolo non entra in merito alle motivazioni, ma
suggerisce due linee di comportamento.

16. La concezione demoniaca dell’idolatria è prettamente giudaica: cfr Dt


32,17; Sal 96 (95),5 (LXX); 106 (105),37; Is 65,11 (LXX). La si ritrova però anche
in un autore neoplatonico come Porfirio (cfr G. Sfameni Gasparro, «Critica del
sacrificio cruento…», II, cit., 477-485).
17. Sulla diffusione di questa pratica, cfr R. Laurenti, «Diete vegetariane nei
primi due secoli dell’Era volgare nell’Impero Romano», in F. Vattioni (ed.), Sangue e
antropologia nella teologia, I, Roma, Pia Unione Preziosissimo Sangue, 1989, 507-531.
IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

La prima è quella dettata dal rispetto dell’altro: «Colui che


mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia,
non giudichi chi mangia» (Rm 14,3). Anche qui entrano in gio-
co i criteri della fede e della carità. Alla luce della fede, bisogna
riconoscere che «nulla è impuro in sé stesso» (Rm 14,14) e che
«tutte le cose sono pure» (Rm 14,20); ma se per questa tua con-
dotta dettata dalla tua convinzione «il tuo fratello resta turbato,
tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina
con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto» (Rm 14,15).
«Tutte le cose sono pure; ma è male per un uomo mangiare dan-
do scandalo» (Rm 14,20). Perciò «è bene non mangiare carne né
bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scanda-
lizzarsi» (Rm 14,21)18.
241

Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda

La seconda linea di condotta cristiana è quella che suggeri-


sce quali siano le vere motivazioni. In effetti, dietro determinate
pratiche religiose ci possono essere numerose varietà di giustifi-
cazioni: la dieta vegetariana può essere suggerita semplicemente
da motivi salutistici e di frugalità, oppure per convinzioni più
impegnative, come quelle che si rifanno a una pretesa omoge-
neità fra tutti gli esseri viventi, arrivando a vedere nell’uccisione
di animali «un atto negativo, in tutto omologabile al delitto»19.
Oppure, può anche essere sostenuta dalla credenza nella trasmi-
grazione delle anime.
Dietro a ogni atteggiamento c’è sempre una specifica teologia e
antropologia. Il cristiano non può aderire a un’antropologia di tipo
platonico o neoplatonico, nella quale l’uomo è essenzialmente «la
sua anima» o il suo intelletto, e dove si percepisce il proprio destino

18. Il vino era «un ingrediente essenziale sia nei banchetti greco-romani sia
anche nella celebrazione giudaica della cena pasquale» (R. Penna, Lettera ai Roma-
ni, III, Bologna, EDB, 2008, 193). Il vino era essenziale anche nell’Eucaristia cristia-
na, indicato come «bere il calice» (1 Cor 11,26). Non sappiamo se Paolo prevedesse
una partecipazione all’Eucaristia con il solo pane. È certo che nella Chiesa primitiva
c’erano gruppi che rifuggivano talmente dal vino da celebrare l’Eucaristia solo con
pane e acqua (cfr Ireneo, s., Contro le eresie, V,1,3).
19. G. Sfameni Gasparro, «Critica del sacrificio cruento…», I, cit., 117.
ARTICOLI

come una drammatica caduta di una particella divina in un corpo


estraneo e contaminante20. Per Paolo, dunque, l’importante è elimi-
nare le motivazioni errate, portando gli uni e gli altri ad agire «per
il Signore», cioè per dare lode a Dio. Chi, ad esempio, si astenesse
dalle carni per motivi religiosi estranei a questi agirebbe non «per
fede», e quindi cadrebbe nel peccato (cfr Rm 14,2321).
Che cosa significhi agire «per il Signore» è spiegato molto
bene nella Prima lettera a Timoteo, dove si accenna anche a co-
loro che ritenevano disdicevole la procreazione dei figli, con-
dannando il matrimonio: «Lo Spirito dice apertamente che ne-
gli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede […], a causa
dell’ipocrisia di impostori […]: gente che vieta il matrimonio e
impone di astenersi da alcuni cibi, che Dio ha creato perché i
242
fedeli e quanti conoscono la verità li mangino rendendo grazie.
Infatti ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si
prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola
di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,1-5).
Proprio sulla questione del puro e dell’impuro Gesù stesso si era
pronunciato, richiamandosi profeticamente alla vera «impurità», che
è quella che proviene non dai cibi, ma dal cuore (cfr Mc 7,20-23);
e da qui i primi discepoli avevano tratto l’insegnamento che egli
«così rendeva puri tutti gli alimenti» (Mc 7,19)22. Sulla stessa linea,
Paolo ribadisce che «il regno di Dio [...] non è cibo o bevanda, ma
giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17).

Farsi tutto a tutti

A parte quindi i casi più evidenti di pericolo di idolatria, ci


potevano essere pratiche religiose tradizionali suscettibili di una
corretta interpretazione, come ad esempio seguire una dieta ve-
getariana o un determinato calendario. Potremmo aggiungere
anche il caso delle «libagioni». Esse erano infatti uno degli atti

20. È questa la posizione di Porfirio, L’ antro delle Ninfe, a cura di L. Simoni-


ni, Milano, Adelphi, 2006.
21. Su questo difficile versetto, cfr R. Penna, Lettera ai Romani, III, cit., 195-198.
22. Per un giudeo questa affermazione era scandalosa, come si vede dalla rea-
zione di Pietro in At 10,14: «Non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro».
IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

sacri più diffusi nel mondo antico, e consistevano nel versare


sull’altare o sulla tomba del defunto un po’ di sangue animale,
oppure più semplicemente vino, o latte e olio. Erano pratica-
te anche dagli ebrei come parte del culto al solo Dio (cfr Nm
29,39). Nel mondo pagano, invece, erano offerte alle anime dei
morti per interessarle al mondo dei vivi.
Paolo non affronta mai espressamente questo argomento, ma
applica l’immagine della libagione alla propria vita, senza espri-
mere alcun giudizio di valore: «Ma, anche se io devo essere ver-
sato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono
contento e ne godo con tutti voi» (Fil 2,17); «Io infatti sto per
essere versato in libagione ed è giunto il momento che io lasci
questa vita» (2 Tm 4,6).
243
È probabile che Paolo, pur ritenendo ormai irrilevanti que-
ste pratiche, non avrebbe condannato chi le avesse compiute in
buona fede, pensando con una libagione di rendere culto al vero
Dio o di onorare l’anima di un defunto23. Del resto, l’Apostolo
stesso, che dice di essere ormai «morto alla Legge» (Gal 2,19), af-
ferma anche di essersi fatto «giudeo con i giudei», dimostrandolo
concretamente in varie occasioni. Luca, negli Atti, ne ricorda tre:
quando Paolo fece circoncidere Timoteo (cfr At 16,1-3); quando si
fece radere il capo per un voto (cfr At 18,18); e quando compì un
atto di purificazione nel Tempio di Gerusalemme per sé e per altri
quattro, con la relativa «offerta» (cfr At 21,23-26)24.
In che modo poi l’Apostolo si sia «fatto come uno che è sen-
za Legge [cioè, pagano con i pagani], allo scopo di guadagnare
coloro che sono senza Legge», lo possiamo dedurre dalle affer-
mazioni circa la «libertà» data dalla fede in Cristo (cfr Gal 5,1).

23. Quest’uso di fare libagioni di vino sulle tombe è attestato anche dai primi
cristiani, che praticavano dei «rinfreschi» o refrigeria, non senza qualche abuso, che
non è sfuggito alle critiche di Ambrogio e di Agostino. Cfr A. Ferrua, «Il refri-
gerio dentro la tomba», in Id., Scritti vari di epigrafia e antichità cristiane, Bari, Edi-
Puglia, 1991, 69-81. Il termine «libagione» è stato omesso nell’ultima versione della
Cei di Fil 2,17 e 2 Tm 4,6.
24. I critici mettono in dubbio la storicità di questi fatti, giudicandoli incom-
patibili con la dottrina paolina della giustificazione. Ma, allora, come avrebbe potu-
to Paolo dire di essersi fatto «giudeo con i giudei»? Su tale questione, cfr N. Torne-
se, «Mi sono fatto tutto a tutti…», cit., 55-68.
ARTICOLI

Quando però era in gioco «la verità del Vangelo» (Gal 2,5), cioè la
salvezza per la fede in Cristo e non per l’osservanza della Legge,
Paolo diventava intransigente. Così, se fece circoncidere Timo-
teo, che era di madre ebrea, per non dare scandalo ai giudei, si
oppose decisamente alla circoncisione di Tito, che era greco, per
non oscurare la grazia di Cristo (cfr Gal 2,3). Allo stesso modo,
ad Antiochia rimproverò apertamente Pietro, perché non si era
comportato «rettamente secondo la verità del Vangelo» (Gal 2,14)
e con la sua adesione ai giudaizzanti stava provocando una spac-
catura nella comunità25.
In tutti questi casi, dunque, la fede fornisce la retta conoscen-
za (gnōsis), ma è la carità che detta il retto comportamento, «per
l’edificazione, non per la rovina» (2 Cor 10,8). La gnosi cristiana
244
giustifica la libertà di movimenti, ma spetta alla carità dirigere le
scelte da effettuare per le realizzazioni concrete, dove non sia in
gioco la verità del Vangelo. Rivelando il carattere relativo delle
varie forme o stili di vita dei popoli da guadagnare a Cristo, la
gnosi pone l’apostolo in uno stato di libertà riguardo a quelle for-
me e a quei modi di vita, ma l’uso della propria libertà sarà sempre
condizionato e dominato dalla carità: «In lui la libertà della fede
diventa la schiavitù della carità»26.
In definitiva, «la capacità di adattarsi alle diverse situazioni re-
ligiose e socio-culturali dei destinatari non deriva [per Paolo] da
abile tatticismo o da opportunismo camaleontico, ma dal servi-
zio incondizionato al vangelo proposto come unica possibilità di
salvezza per tutti. Paolo non cambia il vangelo per adattarlo alle
esigenze degli ascoltatori, ma adatta se stesso e il proprio modo
di vivere per non porre in alcun modo un ostacolo all’annuncio e
all’accoglienza del vangelo»27.
In conclusione, possiamo affermare che il «farsi tutto a tutti» di
Paolo possiede un carattere universale e può essere esteso ad altre
situazioni derivanti dall’attività apostolica. Vale sempre il principio

25. È il famoso «incidente di Antiochia», narrato da Paolo in Gal 2,11-14. Cfr


R. J. Dillon, «Atti degli Apostoli», in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia,
Queriniana, 1972, 981-983 (con bibliografia).
26. N. Tornese, «Mi sono fatto tutto a tutti…», cit., 50.
27. R. Fabris, Prima Lettera ai Corinzi, Milano, Paoline, 1999, 129.
IL PRIMO CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI DEL TEMPO

paolino: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi


da ogni specie di male» (1 Ts 5,21-22). Tutto ciò che non è male
può essere assunto: «Il confronto con le religioni non cristiane
non può partire da una distruzione totale, da una tabula rasa, ma
deve cercare una costruzione e un effetto positivo, e ogni adat-
tamento deve essere anche un superamento. Adattamento non è
affatto compromesso. […] Il Cristianesimo, perché religione uni-
versale, deve adattarsi al genio di ciascun popolo e, facendo suoi i
valori che esso ha prodotto, ne arricchisce la Chiesa per la gloria
di Dio. La Chiesa deve operare un’assimilazione vitale di tutto ciò
che vi è di buono e di vero nei valori culturali e spirituali legati
alle religioni non cristiane. […] La cultura tradizionale costituisce
il punto di partenza della predicazione evangelica. Noi dobbiamo
245
mostrare come il Cristianesimo sia capace d’incorporare tutte le
culture». Esse dunque non sono «un nemico, ma un primo passo
verso il Signore»28.

28. R. E. Verastegui, «Christianisme et religions non-chrétiennes: analyse


de la “tendance Daniélou”», in Euntes Docete 23 (1970) 270-277.
ARTICOLI

I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ

Benoît Vermander S.I.

La polivalenza del termine «cultura» rinvia alla ricchezza di signi-


ficati del verbo latino colere: coltivare un campo, curare o adornare il
proprio corpo, proteggere, abitare, praticare una virtù o lo studio, ma
anche onorare, circondare di un culto un certo dio o un santuario ecc.
246
Da qui la stretta parentela, nelle lingue latine, di agricoltura, cultura
(costumi e saperi) e «culto», religioso o civico. È sempre presente l’i-
dea della cura, attenta e avveduta, accordata alla terra, ai poteri che la
governano, agli uomini che la abitano, o anche al «terreno» morale e
fisico che io sono e che devo coltivare1.
Naturalmente, le risonanze differiscono da una famiglia lin-
guistica all’altra. In cinese, il termine utilizzato per «cultura (lette-
raria)», wen, si riferisce anzitutto all’osservazione e alla conoscen-
za dei segni, prima celesti, poi scritti. Il carattere jiao designa un
insegnamento, una dottrina, in seguito una religione, e si applica
anche all’idea di «civilizzare» ( jiaohua). Coltivare, arare sono azioni
espresse in particolare dal carattere geng. Ma, tra gli altri, Mencio
(ca. 380-289 a.C.), uno dei principali pensatori confuciani, insiste
sulla stretta associazione tra «lo sviluppo [letteralmente: l’approfon-
dimento] dell’aratura» (shen geng), da una parte, e «la cultura della
pietà filiale» (xiu xiao), dall’altra2. In tutti i testi classici dell’antichità
cinese, le pratiche agrarie, le prescrizioni rituali e l’osservanza della

1. Questo articolo riassume alcuni dei temi sviluppati nel volume di A.


Bonjean - B. Vermander, L’ Homme et le grain. Une histoire céréalière des civilisations,
Paris, Les Belles Lettres, 2021. L’opera descrive i progressi e gli scambi genetici,
tecnologici e rituali relativi alle colture cerealicole, dal neolitico ai giorni nostri.
Offre anche un’analisi prospettica a partire dai cambiamenti scientifici, sociali e
mentali che si possono discernere oggi.
2. Cfr Mencius IA5.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 246-253 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ

virtù costituiscono un trittico di cui non si può trascurare un ter-


mine senza danneggiare gli altri due3.

Come le colture cerealicole hanno plasmato società e rituali

In gran parte del mondo le colture sono principalmente cerea­


licole4. Certo, le fonti di alimentazione fornite dai legumi, dal-
le colture oleoproteaginose o dalla coltivazione dei tuberi sono
anch’esse legate a modi di fare, a una visione del mondo, a miti e a
una memoria da cui si plasma l’ethos del gruppo che ne dipende. Ma
i legumi e, in misura minore, le oleoproteaginose sono spesso col-
ture associate ai cereali, incoraggiate dal loro sviluppo. Soprattutto
basta enunciare i termini «grano», «riso» e «mais» per rendersi conto
247
a qual punto i grandi cereali siano legati, attraverso i millenni, a
grandi complessi di civiltà. Inoltre, il grano, il riso e il mais hanno
un numero impressionante di «congeneri»: l’orzo, il sorgo, l’avena,
la segale, il miglio, il fonio (bianco o nero), il teff, o ancora le lacri-
me di Giobbe ecc. Ad essi si possono aggiungere quelli che vengo-
no definiti «pseudocereali», come la quinoa, l’amaranto o il grano
saraceno5. Ora, sia i cereali sia gli pseudocereali hanno visto il loro
profilo genetico trasformato dal lavoro umano, fino a diventarne
dipendenti: l’umanità e i cereali si sono coevoluti: si potrebbe dire
che si sono vicendevolmente addomesticati6.

3. Questo legame, tuttavia, si esprime diversamente da come si osservava


nella Roma repubblicana: non ci si può immaginare un generale cinese che torni ad
arare il suo campo, come fece Cincinnato. Già nell’antica Cina le divisioni sociali
e spaziali tra agricoltori e cittadini erano fortemente marcate. Allo stesso tempo, la
protesta contro la decadenza politica e morale si esprimeva preferenzialmente con
un ritorno alla vita di villaggio e alle pratiche agrarie: cfr i Dialoghi di Confucio,
18.6 e 18.7, e numerosi brani di Laozi.
4. I cereali forniscono circa il 50% dell’apporto energetico nell’alimentazione
umana, in forma solida o liquida; dal 35 al 40% della loro produzione è destinata
all’alimentazione animale; il loro utilizzo nella produzione di biocarburanti è in
aumento. Grano, mais e riso rappresentano ora oltre il 90% della produzione di
cereali, e il mais rappresenta la quota più elevata negli usi animali e industriali.
5. Queste piante, pur non essendo graminacee come i cereali, producono
anch’esse semi che possono essere macinati e ridotti in farina.
6. Per una panoramica su come l’umanità abbia influenzato e continui a
influenzare l’evoluzione biologica di altre forme viventi, sia animali sia vegetali, cfr
B. Shapiro, Life as We Made It, New York, Basic Books, 2021.
ARTICOLI

Poiché la loro capacità nutritiva è notevole, e dal momento che


sono facilmente immagazzinabili e trasportabili, i cereali sono stati
vettori essenziali per lo sviluppo delle società umane. Il loro ad-
domesticamento, il miglioramento della loro coltura, i metodi di
cottura, gli usi in cucina – ma anche per la produzione di alcolici
–, l’utilizzo delle loro paglie, tutto ciò che li riguarda ha avuto, e ha
ancora, un’influenza decisiva sulla crescita demografica dell’umani-
tà, sui suoi progressi tecnologici, sulla trasformazione dell’apparato
economico e politico. I primi segnali certi di raccolta di cereali sel-
vatici nel Vicino Oriente risalgono a circa 23.000 anni fa7, o anche
prima8. Circa 10 12.000 anni fa, le loro colture hanno cominciato
-
a essere addomesticate; poi sono andate aumentando, soprattutto
quando i semi e le conoscenze hanno cominciato a essere diffusi
248
e scambiati, sconvolgendo i nostri modi di vita, anche se oggi ne
abbiamo perso la consapevolezza.

L’UMANITÀ E I CEREALI SI SONO COEVOLUTI: SI


POTREBBE DIRE CHE SI SONO VICENDEVOLMENTE
ADDOMESTICATI.

La coltura cerealicola era, per le popolazioni che vi si dedicavano,


sia una servitù sia un sostegno al progresso e ai trasferimenti tec-
nologici (concimazione, irrigazione, stoccaggio, meccanizzazione,
macine, forni ecc.). La servitù creata dalle coltivazioni non derivava
solo dal fatto che gli agricoltori dovevano legarsi a un territorio per
necessità, ma anche dall’esigenza di preparare i campi per la semina,
di realizzare opere idrauliche per l’irrigazione, di organizzare i rac-
colti e di ricominciare senza fine il ciclo annuale: tutte queste esigen-
ze preparavano la coercizione esercitata dai potenti, che a sua volta
le intensificava. La divisione del lavoro, spesso per genere, la stratifi-

7. Cfr I. Groman Yaroslavski E. Weiss D. Nadel, «Composite Sickles



-
-
-
and Cereal Harvesting Methods at 23,000 Years Old Ohalo II, Israel», in Plos One
-
-
(https://doi.org/10.1371/journal.pone.0167151), 23 novembre 2016.
8. Cfr R. G. Allaby et Al., «Geographic mosaics and changing rates of

cereal domestication», in Philophical Transactions of the Royal Society B, Biological
Sciences 372 (1735) (https://doi.org/10.1098/rstb.2016.0429), 23 ottobre 2017.
I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ

cazione sociale, l’aritmetica, la scrittura, la tassazione9 ecc., l’origine


almeno parziale di ciascuna di queste istituzioni la si può rintracciare
nel passaggio alle colture cerealicole10.
I cereali si sono rivelati anche un vettore rituale e religioso di
primaria importanza: basti pensare alle feste del raccolto, alle for-
mule propiziatorie pronunciate contro i pericoli incontrati durante
la semina, o alle invasioni delle locuste, o ancora alle celebrazioni
religiose in cui un cereale trasformato svolge un ruolo fondamenta-
le. L’Eucaristia ne fornisce un esempio evidente. I rituali per propi-
ziare la pioggia celebrati dalle comunità andine mostrano la solida-
rietà ricercata tra le piante e gli altri viventi. La solidarietà contadina
necessaria al trapianto del riso si afferma in momenti di particolare
intensità, mentre si canta la natura trasformata dall’attività colletti-
249
va. Il día de los muertos, il Corpus Domini, le offerte confuciane agli
antenati danno – o davano – un’importanza solenne ai grandi ritmi
dell’anno. I cicli biologici dei cereali hanno scandito l’esistenza dei
nostri antenati contadini e l’hanno inserita in reti di significati con-
divisi: la semina era la nascita; la coltivazione del suolo, il processo
di apprendimento, la lotta; la fioritura, le nozze; il raccolto, la morte
e la sopravvivenza allo stesso tempo; la formazione dei semi, il par-
to; la paglia, nei suoi usi, faceva pensare a rifugio e protezione; la
macinazione e la panificazione, a trasformazione, rinascita o rein-
carnazione; l’alcol (che i cereali hanno permesso di fabbricare molto
presto per fermentazione) era un vettore di fraternità, ma anche di
dialogo con gli spiriti.

Una festa significativa per i nostri giorni

Stiamo parlando qui soltanto del passato? Si devono evocare


con nostalgia le società e le culture contadine che la tecnologia

9. La facilità di calcolo e di trasporto dei cereali li rende uno strumento di


tassazione privilegiato.
10. Su questo meccanismo di autoaddomesticamento dell’uomo attraverso
la coltura dei cereali, cfr J. C. Scott, Against the Grain: A Deep History of the
Earliest States, New Haven, CT, Yale University Press, 2017. Tuttavia, questo libro
va consultato con cautela: le sue brillanti intuizioni non impediscono un certo
sistematismo, che talvolta incide sulla selezione e sull’esposizione dei fatti presentati.
ARTICOLI

ha ampiamente reso obsolete? L’immersione nelle «radici cere-


alicole» dei complessi di civiltà costruiti nel corso della storia
non è solo un atto di memoria. Si tratta piuttosto di individuare
ciò che ancora oggi conserva la sua funzione originale: le rap-
presentazioni, nascoste o esplicite; i rapporti con il suolo, con
la vita; le storie, le credenze o i modi di fare che condizionano
le nostre relazioni con quella espressione del vivente che sono
i cereali. Diventa allora necessario riflettere su ciò che, forse,
scompare, o che più probabilmente si trasforma, continuando a
esistere nelle nostre società. E questo tanto più che oggi viviamo
una crisi generale del rapporto dell’umanità con le varie forme
del vivente. Non tutte le crisi sono «apocalittiche», ma l’uso di
questo termine indica perlomeno una disgiunzione che richiede
250
risposte fuori dal comune. Il carattere sistemico di tale crisi dei
rapporti dell’umano con il vivente richiede anche di compren-
dere nell’insieme la diversità culturale e la diversità biologica, la
resilienza sociale e quella dell’ambiente naturale.
I modi in cui l’uomo ha pensato, ha condotto, e continua a
condurre ai nostri giorni, la coltivazione dei cereali, in contesti
naturali e sociali molto diversi, hanno un valore morale e spiri-
tuale che si esprime attraverso le pratiche e i riti che accompa-
gnano tali colture. Come dice un testo zoroastriano, «chi semina
il grano semina la giustizia»11. Si può ipotizzare una «funzione
morale» della coltivazione dei cereali: essi hanno indubbiamen-
te portato a una moralizzazione o ad una umanizzazione delle
pratiche sacrificali, anche se i cereali fanno parte del vivente, e
il loro uso rituale ha dunque continuato a sollevare la questione
delle ragioni ultime dell’obbligo sacrificale. Le considerazioni
sviluppate dalla lettera agli Ebrei sui sacrifici della Prima Allean-
za, come quelle di Paolo nella Prima lettera ai Corinzi sul carat-
tere etico e comunitario del pasto eucaristico, testimoniano che
il ricorso ai cereali in un contesto rituale ha aiutato a concepire
la fine dell’obbligo sacrificale, e a sostituirgli un nuovo modo di
rapportarsi al divino.

11. Avesta, Vendidad, Fargard 3, v. 239.


I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ

Il digiuno e la festa: i ritmi dell’esistenza

I cereali resteranno un elemento essenziale, probabilmente


insostituibile, dell’alimentazione umana, anche se forse verranno
consumati in combinazioni nutrizionali più ponderate di quanto
non sia talvolta accaduto. Ciò va di pari passo con le grandi sfi-
de della società: l’agricoltura deve nutrire il mondo e, per farlo,
deve assicurare ai suoi produttori il reddito e i mezzi necessari
alla protezione delle terre emerse del Pianeta. Gli agricoltori sono
diventati pochi e devono essere riconosciuti e remunerati per ciò
che la loro attività comporta di essenziale, di «vitale». Mantenere
un numero minimo di agricoltori in tutti i continenti, ma anche
salvaguardare i saperi e la trasmissione delle conoscenze organiz-
zati attorno ai vari sistemi agricoli, è una garanzia per il futuro 251
dell’umanità. Inoltre, il modo in cui ci procuriamo il cibo, il modo
in cui ci nutriamo insieme – o, troppo spesso, separatamente – ha
un impatto nutrizionale, ambientale, ma anche etico e di civiltà: i
cereali, i riti e le conoscenze si evolveranno, ma soprattutto conti-
nueranno a evolvere insieme.
La graduale scomparsa delle società agricole tradizionali ha
certamente reso oggi le metafore basate sulla germinazione dei
cereali o sul raccolto molto meno significative ed evocative ri-
spetto al passato. Allo stesso tempo, questi simboli vengono ri-
elaborati e reinterpretati in funzione di nuovi modi di essere in
cui la produzione e il consumo dei cereali continuano a svolge-
re un ruolo strategico. Ad esempio, per la tradizione cristiana,
«la vita eucaristica ha a che fare con ciò che conta nell’esisten-
za: il pane e la fame, il cibo e il piacere, i problemi alimentari
e la politica alimentare globale, la proprietà privata e il bene
comune»12 . Il rinnovato interesse attuale per l’origine e la quali-
tà degli alimenti e per la riforma dei modelli di consumo fa ri-
vivere antiche associazioni di immagini, stimolando la capacità
dei cereali di diventare «sacramentali». Da questo punto di vista,
il pasto condiviso possiede sempre qualcosa di sacramentale; e
un atto come quello dello spezzare il pane – o condividere la

12. A. Bieler - L. Schottroff, The Eucharist. Bodies, Bread, and Resurrection,


Minneapolis, Fortress Press, 2007, 127.
ARTICOLI

birra di mais, o mangiare riso appiccicoso che, con la sua ade-


renza, parla di solidarietà comunitaria e transgenerazionale –
esplicita e celebra questa energia sacramentale di cui il pasto è
potenzialmente detentore.
Tutte le culture, tutte le religioni conoscono l’alternanza del
digiuno e della festa, annate di raccolti scarsi e di raccolti ab-
bondanti. È indubbiamente un peccato che tale alternanza sia
stata così attenuata dai cambiamenti di civiltà dell’ultimo mezzo
secolo. Occorre ricordare però che l’alimentazione è scandita
da un’alternanza – più o meno marcata – di abbondanza e di
mancanza, ma anche che l’assimilazione di ogni cibo è facilitata
dalla circolazione di un «senso», dal movimento continuo della
relazione intrattenuta con sé stessi, con il gruppo e con l’Altro.
252
Del resto, «il digiuno è oggi riconosciuto dal punto di vista
medico come capace di fornire al corpo e alla salute una forma
di tempo di pausa, al fine di consentire, con una pratica ragio-
nata e ragionevole, un miglior controllo di sé sia intellettuale sia
fisico. […] L’essere umano può star bene a livello mentale solo
se sta bene in un corpo che egli conosce e di cui sa controllare
gli eccessi»13. Il digiuno è un monito di una finitezza che noi ci
accaniamo a mascherare.
Ma le culture, le tradizioni, le religioni non parlano solo di
digiuno: parlano anche di feste, strettamente legate al pasto,
all’abbondanza e alla condivisione. Le feste e l’eccesso – saggia-
mente controllato – che le caratterizza celebrano la continuità
della vita, quella del gruppo, la conquista delle risorse necessarie
all’esistenza e la loro condivisione in un modo che (idealmente)
soddisfi le aspettative di tutti. Gli alimenti di base – i cereali – vi
trovano tutte le loro dimensioni esaltate, associate alle gioie del
cuore e dei sensi. A ben guardare, la frenesia dei consumi nelle
nostre società urbanizzate ci consegna una verità paradossale:
quando si perdono il senso e i ritmi dell’alternanza del digiuno
e della festa, allora non si riesce più a vivere la moderazione che

13. D. Gaurier, «Les interdits alimentaires religieux: quel possible rapport


avec une forme de sécurité alimentaire?», in F. Collart Dutilleul (ed.), Penser
une démocratie alimentaire, vol. I, Costa Rica, Inida, 2013, 6.
I CEREALI, UNA MATRICE DI CIVILTÀ

dovrebbe caratterizzare il tempo ordinario. Quotidiana e forza-


ta, l’abbondanza non è più una festa, ma un fardello.
Se le sfide globali continuano a diventare più pressanti, e
anche più angoscianti – come ha crudelmente illustrato la crisi
causata dal Covid-19, e ora anche quella innescata dalla guerra
in Ucraina14 –, non dovremo riapprendere a celebrare, a mar-
care con il sigillo del raduno i nostri lutti condivisi, le nostre
solidarietà confermate, le nostre uscite dall’inverno? Allora, l’e-
quilibrio del digiuno e della festa, come i riti alimentari che
vi sono associati, recupererebbero un’importanza, un’urgenza,
che solo per un tempo limitato sono state offuscate. Semine e
raccolte, carestia e abbondanza, momenti di crisi e stagioni di
paziente attesa... Immersi nelle società virtuali – che si risco-
253
prono vive, e quindi infinitamente fragili –, dipendiamo sem-
pre dai ritmi dei cereali, che scandiscono segretamente il corso
delle nostre esistenze.

14. Russia e Ucraina coprono, secondo l’Observatory of Economic Complexity


(OEC), quasi il 30% delle esportazioni globali di grano, il 14% di mais, il 72% di
olio di girasole e il 15% di semi di girasole. Si prospettano gravi problemi di approv-
vigionamento soprattutto in Asia e Africa, con effetti politici destabilizzanti.
ARTICOLI

GLI ESERCIZI SPIRITUALI


IN UN’ETÀ SECOLARE

Thomas P. Rausch S.I.

Pochi hanno saputo rintracciare le radici della nostra perdita di


fede contemporanea come ha fatto Charles Taylor nella sua impor-
tante opera L’ età secolare. Il filosofo canadese fa risalire l’avvio di tale
processo alla Riforma, che, esaltando la fede individuale e svalutando
254
i sacramenti, il sacerdozio e il sacro, ha abolito il cosmo incantato me-
dievale, giungendo nel tempo alla creazione di una fede umanistica
alternativa1. Ponendo l’accento sulla «sola fede» e sulla «sola Scrittura»,
i riformatori hanno contribuito a quella separazione della fede dalla
ragione che la modernità avrebbe radicalizzato all’estremo. L’Illumi-
nismo ha accelerato questo processo, soppiantando la rivelazione con
una ragione autonoma, e la rivoluzione scientifica ha poi fatto del
metodo scientifico la via esclusiva per la verità.
A tali cambiamenti religiosi e culturali ha fatto seguito una mo-
dernità sempre più secolare, che influenza il modo in cui viviamo
oggi la spiritualità e, in particolare, la pratica degli Esercizi spirituali.

Il contesto

Taylor sostiene che la sostituzione del cristianesimo storico con il


deismo, operata dall’Illuminismo, può essere vista come uno «stadio
intermedio» verso l’ateismo contemporaneo2. Dio non era più un

1. Cfr C. Taylor, L’ età secolare, Milano, Feltrinelli, 2009, 106.


2. Cfr ivi, 346. Il forte calo dell’appartenenza religiosa non è un fenomeno
esclusivamente occidentale. Un recente rapporto di Pew Research, pubblicato nel
2018, rilevava che i giovani adulti tendevano più di altre fasce d’età a non essere affi-
liati alla religione, non solo in Europa e nel Nord America, ma anche in 14 Paesi su
19 dell’America Latina, Messico compreso. La tendenza era meno marcata in Medio
Oriente e nell’Africa settentrionale e sub-sahariana, ma la Corea del Sud, l’Australia

© La Civiltà Cattolica 2022 III 254-266 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE

Dio personale, un soggetto che interagiva nella storia con gli esseri
umani e con l’ordine creato, ma un architetto cosmico impersonale.
L’universo era governato da leggi naturali immutabili, e quindi sot-
to il dominio di una scienza secolare. Le rivelazioni non erano più
necessarie. Enfatizzando l’osservazione e la dimostrazione empirica,
la rivoluzione scientifica tendeva a escludere una fede trascenden-
te. Con la perdita del senso del trascendente, e quindi del divino,
e con il progressivo distacco dalle autorità religiose tradizionali, la
spiritualità si è sempre più focalizzata sull’individuo e sui sentimenti
personali. La religione è stata respinta in quanto realtà istituzionale3.
La fiducia illimitata della modernità nella ragione e nella sua
attitudine a migliorare costantemente le nostre esistenze avrebbe
condotto a quella reazione che chiamiamo «postmodernismo», già
255
evidente in pensatori come Kierkegaard, Nietzsche, Marx e Freud,
i quali, contro la tradizione che definiva la persona umana un «ani-
male razionale», sostenevano che siamo soggetti all’influenza di di-
namismi inconsci o di leggi economiche. Gli orrori del XX secolo
– due devastanti guerre mondiali, con gravi perdite tra i civili, fra
cui quelle dovute alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e
Nagasaki, i genocidi, la minaccia di annientamento nucleare du-
rante la Guerra fredda, la pandemia di Aids, il divario tra i ricchi e
i poveri, per non parlare della pandemia di Covid-19 che nel XXI
secolo ha causato milioni di vittime – hanno in gran parte infranto
l’illusione che la sola ragione autonoma possa condurre alla perfet-
tibilità dell’essere umano.
Il postmodernismo, una reazione all’ottimismo della moder-
nità, è più una sensibilità che una filosofia coerente. Esso guarda
con sospetto a tutte le metanarrazioni e tende a considerare relativa
qualsiasi affermazione di verità, sostenendo che essa sarà pur sem-
pre condizionata dalla posizione sociale di chi la pronuncia e che si

e il Giappone nella pratica religiosa denotavano un divario tra i più ampi al mondo
tra i giovani adulti e i loro genitori (Pew Research Center, «In U.S., Decline of
Christianity Continues at Rapid Pace», settembre 2019).
3. Cfr ivi, 635-640. Qualcuno suggerisce che stiamo entrando in un’«era
post-secolare», che metterà alla prova sia la scienza assolutista sia la necessità, per la
fede e la ragione, di coesistere e di imparare l’una dall’altra. Il termine è generalmen-
te attribuito a Jürgen Habermas. Comunque, la cultura popolare e politica è tuttora
decisamente secolare.
ARTICOLI

basa su relazioni di potere radicate nel sesso, nel genere, nell’etnia e


nella condizione sociale. Di conseguenza, viene messo in dubbio il
concetto stesso di verità.

La spiritualità

Certamente la spiritualità, o ciò che oggi passa per tale, non è


rimasta immune da questi cambiamenti culturali. Per tanti, Dio è
diventato impersonale, ridotto a principio filosofico o a «forza su-
periore»: pensiamo alle «spiritualità» New Age contemporanee o alla
«Forza» nel film Star Wars. Molti si vantano di essere «spirituali, ma
non religiosi». Alcuni vanno anche oltre, abbandonando del tutto la
dimensione spirituale.
256

CERTAMENTE LA SPIRITUALITÀ, O CIÒ CHE OGGI


PASSA PER TALE, NON È IMMUNE AI CAMBIAMENTI
CULTURALI.

In Occidente, molti si stanno allontanando dalle proprie tra-


dizioni religiose. Il fenomeno è spesso descritto come l’ascesa dei
nones, ossia di coloro che, quando vengono interpellati sulla propria
appartenenza religiosa, rispondono: «Nessuna in particolare». Nella
popolazione statunitense i nones toccano il 26%, e sono in crescita
nella maggior parte dei gruppi demografici – bianchi, neri, ispani-
ci, uomini e donne – e in tutte le aree del Paese, indipendentemente
dal livello di istruzione. I numeri sono ancora più alti tra i giovani
adulti. Solo il 49% dei millennials (i nati tra il 1981 e il 1996) si
riconosce cristiano, mentre quattro su 10 sono nones religiosi. Il
numero dei cattolici ispanici continua a diminuire: dal 57% di 10
anni fa al 47% di oggi4. In Gran Bretagna, poco più della metà delle
persone nate cattoliche si riconoscono ancora tali.
Un recente studio di Saint Mary’s Press, Going, Going, Gone,
fornisce tre ragioni per spiegare una disaffiliazione così diffusa,

4. Cfr Pew Research Center, «In U.S., Decline of Christianity Continues


at Rapid Pace», settembre 2019.
GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE

identificandole in altrettanti gruppi umani. Una prima categoria,


«i feriti», designa persone che hanno avuto esperienze negative con
la famiglia o con la Chiesa, hanno subìto eventi traumatici, come la
morte di una persona cara, un divorzio, una malattia progressiva o
altre crisi familiari. In casi come questi, c’è spesso la tendenza a in-
colpare Dio per qualunque cosa abbia intaccato la propria fede. Poi
ci sono «i vagabondi», coloro che hanno abbandonato la fede per
mancanza di una conoscenza sufficiente, per carenza di impegno
in una comunità di fede o di spiritualità condivisa con familiari o
coetanei. In questo ambito, un fattore fondamentale è l’osservanza
religiosa da parte di entrambi i genitori. Tanti giovani oggi sono
cresciuti in nuclei familiari i cui membri non praticano più la loro
fede o, nel caso di molti cattolici, in famiglie il cui cattolicesimo è
257
più un fatto culturale che una realtà di scelta e di impegno. La terza
categoria, «i dissidenti», si riferisce a coloro che sono in disaccordo
con gli insegnamenti della Chiesa, in particolare sulla sessualità,
sulle donne e sull’aborto. Quest’ultimo è un elemento più comples-
so, perché molte persone contrarie a esso al tempo stesso sostengo-
no il diritto di scelta della donna5.
È interessante, in una riflessione sulla spiritualità, ciò che p.
Adolfo Nicolás, che è stato Generale della Compagnia di Gesù,
definì la «globalizzazione della superficialità»: «Il mondo sta diven-
tando molto superficiale. Abbiamo più informazioni che mai, ma
meno capacità di pensare, di riflettere, di digerirle». Ci basiamo sui
sentimenti, sulle informazioni «fresche» o sul «chi prima arriva, me-
glio alloggia». Anche se un’informazione è totalmente faziosa, o
dannosa, ci resta impressa nella mente, e non siamo capaci di esami-
narla per verificare se sia vera o di parte. E questo sta accadendo an-
che nella Chiesa6. Dovremmo considerare questa una vera e propria
crisi epistemologica7, che ha un impatto diretto sul modo di vivere

5. Cfr CARA, Going, Going, Gone! The Dynamics of Disaffiliation in Young


Catho­lics, Winona, MN, Saint Mary’s Press, 2017, 13-24.
6. Considerazioni di padre Nicolás a Heverlee, video; per il testo completo
cfr F. Brennan (ed.), Shaping the Future: Networking Jesuit Higher Education for a
Globalizing World: Report of the Mexico Conference, Association of Jesuit Colleges
and Universities, aprile 2010, 7-21.
7. Un sovraccarico di informazioni non è necessariamente una benedizio-
ne. Come osservava padre Nicolás, non incoraggia l’interiorità o la riflessione. I
ARTICOLI

la spiritualità. La nostra domanda allora è: che valore ha oggi, in


questo contesto, dare e fare gli Esercizi spirituali?

Dare gli Esercizi oggi

L’approccio agli Esercizi spirituali che ha caratterizzato la vita


dei gesuiti a partire dalla Restaurazione (1814) è stato in gran par-
te dominato dalla preoccupazione per le pratiche ascetiche e per
lo sviluppo delle virtù morali. Fu solo nella seconda metà del XX
secolo, fondandosi sull’opera di gesuiti come Joseph de Guibert
(1877-1942), Miguel Nicolau (1905-86), William J. Young (1895-
70), Karl Rahner (1904-84) e suo fratello Hugo Rahner (1900-68),
che i gesuiti iniziarono a parlare di una spiritualità ignaziana, basata
258
sugli Esercizi spirituali8.
Tra gli esempi del cambiamento si potrebbero ricordare la so-
stituzione dei tradizionali ritiri predicati con ritiri rivolti ai singoli,
o una nuova concezione dell’esame come un «esame di coscienza»,
ossia come una ricerca della presenza di Dio nella propria vita quo-
tidiana piuttosto che come un elenco di fallimenti, o la comprensio-
ne della fede come una fede che rende giustizia. Si può menzionare
anche il fatto che le Regole per sentire con la Chiesa di sant’Ignazio
sono state a lungo intese nel senso di ragionare secondo il magi-
stero gerarchico. Papa Francesco ha significativamente ampliato la
nostra comprensione di questo principio. Nell’intervista rilasciata a
padre Antonio Spadaro, egli parla del «santo popolo fedele di Dio»
come di un soggetto, riferendosi alla «complessa trama di relazioni
interpersonali che si realizzano nella comunità umana» in cui Dio
entra. «Non bisogna dunque neanche pensare che la comprensione

social media creano dipendenza e spesso sono narcisistici. Diventiamo ossessivi, il


sentimento di comunità si attenua. I giovani riempiono Instagram con centinaia di
immagini di sé stessi e si espongono all’infinito su TikTok. Dato che l’accesso pub-
blico è facile, ora tutti possono ostentare autorità. Siamo bombardati da immagini
e opinioni personali; non c’è un controllo delle affermazioni. Pochi si prendono il
tempo di leggere articoli di giornali o riviste, e ciò che sanno si riduce a battute che
rispecchiano le opinioni individuali.
8. Cfr J. W. O’Malley - T. W. O’Brien, «The Twentieth-Century Con-
struction of Ignatian Spirituality: A Sketch», in Studies in the Spirituality of Jesuits 52
(2020/3) 18.
GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE

del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente al sentire con la sua
parte gerarchica». E aggiunge: «Quando il dialogo tra la gente e
i vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è assistito
dallo Spirito Santo». Qui vediamo l’importanza che egli attribuisce
al sensus fidei e al sensus fidelium, tanto da affermare che, quando
tutto il popolo di Dio cammina insieme nella fede, manifesta una
infallibilitas in credendo9.
Noi riteniamo che la nostra cultura secolare, e non solo in Oc-
cidente, abbia sostituito quella cultura religiosa che molti di noi
danno ancora per scontata, e che quindi oggi abbiamo bisogno
di un contesto più ampio per proporre gli Esercizi spirituali. Non
possiamo dunque limitarci a presumere una cultura religiosa tra-
dizionale. Molti di coloro che parteciperanno agli Esercizi o a un
259
ritiro non avranno familiarità con le storie e con i racconti biblici,
o li troveranno piuttosto antiquati e non più convincenti. Tanti di
loro, provenendo da una cultura laica, o non conoscono la fede e
la teologia della Chiesa, o le rifiutano. Con ciò non stiamo sug-
gerendo di fare a meno dei racconti biblici, ma intendiamo dire
che è necessario integrarli, facendo appello all’immaginazione e
alla comprensione degli esercitanti di oggi. Potremmo invitar-
li a considerare l’opera di Dio nell’immensità della creazione, o
nel processo evolutivo, o nel dinamismo della vita. I doni di Dio
riflettono una bontà e una bellezza che vanno oltre ogni imma-
ginazione, mentre la sofferenza, l’ingiustizia e la violenza che fe-
riscono così tante persone ci spingono al discepolato.
Gli Esercizi spirituali si strutturano secondo tre pilastri fon-
damentali. Il «Principio e fondamento» ci ricorda di mettere
Dio al primo posto nella nostra vita. La meditazione su «Il Re-
gno di Cristo» ci parla del discepolato, invitando l’esercitante a
scoprire la sua vocazione. La «Contemplazione per giungere ad
amare» è il fondamento del principio gesuita di trovare Dio in
tutte le cose. Qui vorremmo proporre una riflessione su ciascu-
no di questi punti.

9. A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-


477; cfr Commissione teologica internazionale, Il «sensus fidei» nella vita della
Chiesa, 2014.
ARTICOLI

«Principio e fondamento»

Questa meditazione iniziale ha un nome particolarmente appro-


priato. Ricordare all’esercitante che è stato creato per «lodare, riverire
e servire Dio», e in questo modo salvare la propria anima, è fonda-
mentalmente un appello alla libertà spirituale. Per coloro che, tra i
partecipanti al ritiro, sono già aperti alla presenza di Dio nella loro
vita è un invito a considerare una chiamata ad approfondire quella
relazione e a trovare la libertà di rispondere in modo più completo.
Ma altri esercitanti, specialmente quelli formati in una cultu-
ra secolare, forse percepiscono il concetto di Dio come una realtà
in qualche modo estranea. In questi casi, suggeriremmo di passare
dalla dimensione religiosa a quella cosmologica. Invitarli a conside-
260 rare l’immensità del cosmo che abitiamo può aiutarli a percepire il
mistero di un Dio la cui presenza creatrice è insieme velata e inti-
ma, trascendente e immanente, e si esprime in ciò che chiamiamo
«creazione». E la sua immensità è oltre ogni comprensione.
La scienza ci dice che il nostro universo è iniziato con un Big
Bang, immaginato come un punto iniziale di materia ed energia
estremamente dense e surriscaldate, che poi è esploso, formando
particelle infinitamente piccole, quindi atomi e molecole, gas, che
infine si sono trasformati in stelle, pianeti e galassie e hanno dato
origine anche allo spazio e al tempo. Ogni galassia è un intero siste-
ma di stelle e frammenti di stelle, polvere interstellare, gas e materia
oscura, tenuti insieme dalla gravità. Mentre le galassie continuano
ad allontanarsi l’una dall’altra, l’universo si espande. Noi abbiamo
un’intuizione della sua immensità in quelle rare notti in cui ci acca-
de di vedere i cieli spalancati sopra di noi, pieni di stelle, i cui nume-
ri stimati dagli scienziati sono semplicemente sbalorditivi. Secondo
il salmista, Dio conta tutte le stelle e dà un nome a ciascuna di esse
(cfr Sal 147,4). La nostra galassia, la Via Lattea, conta tra i 100 e i
400 miliardi di astri e almeno altrettanti pianeti. E gli astronomi la
ritengono soltanto una dei circa 2.000 miliardi di galassie che sono
nel nostro universo osservabile.
Ma questo universo contiene qualcosa di più che gas inerti, stelle
in fiamme e pianeti morti: pulsa di vita. Su uno di questi pianeti, che
noi chiamiamo Madre Terra, circa 4,5 miliardi di anni fa gli atomi
GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE

e le molecole iniziarono a espandersi, sviluppandosi in cellule vitali,


in microrganismi, in batteri, in amminoacidi, nelle piante e, con il
tempo, negli animali, dando vita ai circa 1.000 miliardi di specie che
attualmente abitano il nostro Pianeta, tra le quali la nostra.
Per molte delle specie animali più vicine alla nostra, la vita è una
continua lotta per la sopravvivenza. Per farvi fronte, la natura ha im-
presso in loro un istinto predatorio, capace di uccidere. Il salmista
riferisce che di notte le bestie della foresta escono dalle loro tane e
vagano all’aperto, i giovani leoni ruggiscono in cerca di preda (cfr
Sal 104,20-21). Il poeta descrive una natura «rossa di zanne e artigli».
Questa eredità evolutiva ha impresso il suo segno anche su di noi.
Tuttavia, anche nel mondo animale c’è una spinta verso l’unio-
ne, il legame, la comunione. Molti animali tendono naturalmente
261
a raggrupparsi, spesso in strutture sociali complesse. Parliamo di
armenti, branchi, greggi e stormi di uccelli. Gli animali spesso mo-
strano non solo istinti, ma anche emozioni, segni di affetto, persino
intelligenza: espressioni che nell’uomo raggiungeranno una pie-
nezza trasformata. Le madri si prendono cura dei loro piccoli con
una tenerezza sorprendente, li difendono con ferocia e sono capaci
anche di sacrificarsi per loro. I cani salutano il ritorno dei loro pa-
droni con grande gioia ed eccitazione; amano giocare, rincorrere
le palle o prendere i frisbee al volo. Le focene mostrano piacere nel
gioco, saltano fuori dall’acqua o talvolta ballano sulla coda. I social
media sono pieni di video divertenti di cani e gatti diventati amici,
che giocano insieme o dormono l’uno sull’altro.
Anche gli alberi hanno una vita sociale, come risulta da recenti
studi che ne hanno rivelato gli interscambi di carbonio, acqua, nu-
trienti, segnali di allarme e ormoni attraverso le reti radicali sotter-
ranee, anche con piante di specie diverse. Le risorse fluiscono dagli
alberi più vecchi a quelli più giovani e più piccoli, e quelli separati
dalle connessioni sotterranee hanno maggiori probabilità di appas-
sire e morire10.
Chiediamoci da dove venga tutta questa straordinaria energia
chiamata «vita». Possiamo imparare qualcosa da questa spinta ad ac-

10. Cfr F. Jabr, «The Social Life of Forests», in The New York Times Magazine,
6 dicembre 2020, 34.
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ARTICOLI

comunarsi? Dovremmo forse concludere che l’incredibile complessità


dell’universo è solo una casualità? E che il corpo umano è semplice-
mente «accaduto», è una combinazione casuale di atomi, molecole
e microrganismi? La sua complessità rispecchia quella dell’universo.
Scienziati come Neil deGrasse Tyson sostengono che in una sola
molecola del nostro Dna ci sono tanti atomi quante sono le stelle
nella maggior parte delle galassie, e che un singolo occhio umano
contiene più atomi di quanti sono gli astri dell’universo conosciuto.
Ma molti scienziati nel loro sistema universale non vogliono
ammettere un’intelligenza che trascende il sensibile, non oltrepas-
sano la realtà sperimentabile per interrogarsi su ciò che potrebbe
esserci oltre quel confine. D’altra parte, chi ha fede crede che die-
tro e, anzi, all’interno della complessità dell’universo, e presente
262
nel nostro stesso spirito, c’è un Dio la cui attività creatrice sostiene
ininterrottamente tutto ciò che è, compresi noi stessi, e continua
a tenderci la mano: un Dio rivelato in Gesù come un Padre pieno
di amore, un Abbà. È su questo che il «Principio e fondamento» ci
chiede di riflettere.

«Il Regno di Cristo»

La meditazione sul Regno di Cristo si colloca stranamente tra


la conclusione della Prima settimana degli Esercizi e l’inizio della
Seconda. Noi preferiamo iniziare la Seconda settimana con la con-
templazione sull’Incarnazione, per poi passare alla meditazione sul
Regno e sulla chiamata di Cristo Re, certo coerente con l’immi-
nente attenzione che si porrà sulla vita di Cristo. La contemplazione
dell’Incarnazione, proposta con immagini e con un linguaggio che
oggi ci sembrano un po’ ingenui, invita l’esercitante a considerare
le tre Persone divine che guardano la Terra in tutta la sua varietà,
con le tragedie e le violenze, e poi decretano che la seconda Persona
debba farsi uomo per salvare il genere umano.
La meditazione sul Regno inizia considerando la chiamata di un
re terreno, e poi esorta l’esercitante a immaginare Cristo che invita
ogni persona a unirsi a lui nella sua missione. I termini sono im-
pegnativi: «Chi vuole venire con me deve faticare con me, perché,
seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria» (ES 95).
GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE

L’invito può a sua volta riecheggiare la sfida del re terreno, il quale a


chi vuole servire sotto di lui richiede di «accontentarsi di mangiare
come me, e così bere, vestire e tutto il resto. Inoltre deve faticare
con me di giorno, vegliare di notte e via dicendo; così alla fine avrà
parte con me nella vittoria, come l’avrà avuta nelle fatiche» (ES 93).
Ma qual è il contesto di questa missione, di questa Terra che
Ignazio presenta come oggetto della contemplazione da parte della
Trinità in tutta la sua drammatica e dolorosa situazione? Con un
po’ di immaginazione, lo si può rendere molto più concreto. Oggi
il più grande ostacolo alla fede, che pertanto si contrappone alla
missione di Cristo, è la presenza di tanta sofferenza, ingiustizia e
violenza contro gli innocenti nel mondo.
Ricordiamo i genocidi del XX secolo: l’assassinio sistematico degli
263
armeni sotto i turchi durante la Prima guerra mondiale, degli ucraini
sotto Stalin, degli ebrei e di altre minoranze sotto Hitler. Altre vitti-
me innocenti che ci sono state in Cambogia, Ruanda e Bosnia, altri
omicidi e pulizie etniche. Pensiamo ai milioni di civili uccisi durante
la Seconda guerra mondiale dai massicci bombardamenti delle città,
fino alla devastazione nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Pensiamo
alle attuali barbarie della guerra in Ucraina, alle fosse comuni, agli
ospedali bombardati, ai civili violati e trucidati. Pensiamo ai milioni
di uomini, donne e bambini mutilati dalle mine seminate nelle fat-
torie e nei campi, all’uso cinico del potere politico per l’arricchimento
personale in tanti Paesi, ai giovani che crescono senza speranza, ai
milioni di bambini profughi bloccati nei campi senza un’istruzione
adeguata. Le statistiche sono impersonali, ma talvolta nella loro nu-
dità sono impressionanti.
Il divario tra i più ricchi e gli indigenti continua a crescere.
Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati,
nel 2019 il numero di migranti e rifugiati sfollati dalle loro case a
causa di guerre, violenze, cambiamenti climatici e persecuzioni ha
raggiunto il massimo storico – quasi 70,8 milioni – e continua a
crescere. Migliaia di persone annegano nel mare quando i barconi
sovraccarichi si ribaltano, o sono vittime di predoni quando emi-
grano a piedi, mentre i coyotes – o contrabbandieri di esseri uma-
ni – intascano fortune. In Amazzonia, i popoli indigeni sono stati
evacuati a causa del deliberato incendio delle foreste pluviali a fini
ARTICOLI

di profitto commerciale. Un altro problema è costituito dalla schia-


vitù moderna, che soggioga circa 40 milioni di uomini, donne e
bambini, vittime del lavoro forzato, dei matrimoni precoci o della
schiavitù per debiti. Tre quarti di loro sono donne e ragazze, in
maggior parte vittime del traffico a fini di sfruttamento sessuale.
Tra le vittime si contano innumerevoli bambini, coinvolti
nella violenza delle nostre città, nelle sparatorie e nei conflitti
per droga. Altri subiscono abusi fisici o sessuali da parte di pa-
renti o da adulti ritenuti affidabili, anche da sacerdoti. Pensiamo
ai miliardi di dollari spesi in armi da guerra, alla minaccia del
terrorismo, alle industrie della pornografia e dell’aborto. Questo
è il mondo in cui si svolge la missione di Cristo Re. È qui che
dobbiamo seguirlo.
264

«La contemplazione per giungere ad amare»

Gli Esercizi spirituali si concludono con la «Contemplazione


per giungere ad amare», una meditazione coinvolgente che ricor-
da all’esercitante come l’amore vada espresso nei fatti piuttosto che
a parole, e suggerisce di concludere ciascuno dei quattro punti
proposti con un’offerta personale, espressa nel Suscipe.
Il primo punto chiede all’esercitante di richiamare alla me-
moria tutti i doni e i benefici ricevuti. Qui l’immaginazione e
l’affettività andrebbero coinvolte in massimo grado. Alcuni doni
sono cosmologici: l’immenso, bellissimo universo che abbiamo
considerato prima. Altri doni sono teologici, di salvezza, di gra-
zia: l’autocomunicazione di Dio, come la descrive Karl Rahner,
la nostra fede, i sacramenti. Altri sono personali: doni di fami-
glia, amici, esperienze, persone, coloro che ci hanno amato e
che abbiamo amato. Altri doni sono tecnologici, come internet,
che ci rende possibili tante informazioni. Teilhard de Chardin vi
avrebbe visto un sistema nervoso globale. Tutto questo ci entu-
siasma e ci solleva, ci fa volgere verso il nostro Dio misericordio-
so con un atto di lode e di ringraziamento.
Il secondo punto ci chiede di osservare come Dio abita nelle
sue creature, donando loro, secondo le diverse specie e varietà, la
vita, la sensibilità e l’intelligenza, rendendoci templi della sua pre-
GLI ESERCIZI SPIRITUALI IN UN’ETÀ SECOLARE

senza. Dio è presente nelle stelle del cielo, nella bellezza della Ter-
ra e delle erbe, delle piante e degli alberi che la ricoprono. Spesso
lo percepiamo quando, davanti a tanta bellezza, ci sentiamo pieni
di stupore e di timore. La natura canta il suo Creatore.
Il terzo punto ci chiede di vedere Dio all’opera nei suoi doni.
Il linguaggio di Ignazio qui non è solo figurativo. Se la crea-
zione è avvenuta nel Verbo e per mezzo di lui (cfr Gv 1,3; Col
1,16-17), allo stesso modo avverrà anche quando Cristo radunerà
tutto in sé e lo sottometterà al Padre, affinché «Dio sia tutto in
tutti» (1 Cor 15,28). Quella che Teilhard chiama «la lenta opera
di Dio»11 avviene all’interno di questo processo evolutivo. Ilia
Delio lo vede all’opera «nell’atto divino, continuo della creazio-
ne, redenzione e santificazione dell’intero universo»12 . Possia-
265
mo immaginare come l’opera creativa di Dio si renda evidente
nell’energia della vita, che è in continua espansione, superando
gli ostacoli, prorompendo in innumerevoli tipologie e varietà.
Nel quarto punto, ci si chiede di riflettere su come tutti i doni
di Dio discendano dall’alto, su come la nostra limitata potenza
promani da quella somma e infinita di Dio. La vita non si può
mai ridurre a mere interazioni chimiche o a reazioni neurologi-
che. La persona umana è più che una macchina priva di spirito e
di riferimento etico, assemblata a forza di schemi incorporati e di
leggi biochimiche che controllano il comportamento individuale.
L’intelligenza è più che i riflessi e gli algoritmi. Tommaso d’A-
quino l’ha descritta come una partecipazione della luce increata di
Dio. I doni di giustizia, bontà, pietà, misericordia e amore sono
solo riflessi limitati della loro stessa perfezione nel divino. Quante
volte siamo rimasti colpiti dalla bellezza del viso di un bambino, di
un corpo umano, di uno spettacolo naturale o di un’opera d’arte!
Abbiamo conosciuto momenti di grande bontà o misericordia, il
trionfo della giustizia sul male, o di un amore che dà la vita, in
senso sia figurato sia letterale.
Pertanto ringraziamo il Signore e diciamo il Suscipe: «Prendi, o
Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intel-

11. Da una preghiera di Teilhard de Chardin, Paziente fiducia.


12. I. Delio, Christ in Evolution, Maryknoll, NY, Orbis Books, 2008, 132.
ARTICOLI

letto, la mia volontà, tutto quello che ho e possiedo. Tu me lo hai


dato; a te, Signore, lo ridono. Tutto è tuo: tutto disponi secondo la
tua piena volontà. Dammi il tuo amore e la tua grazia, e questo solo
mi basta» (ES 234).

Conclusione

In questo articolo abbiamo cercato di offrire qualche suggeri-


mento volto ad ampliare l’immaginazione di coloro che partecipa-
no agli Esercizi spirituali, per meglio accompagnarli. Non solo la
cultura secolare da cui tanti di loro provengono ha plasmato la loro
immaginazione religiosa, e non sempre positivamente, ma molti di
loro possiedono una conoscenza solo superficiale della fede e degli
266
insegnamenti della Chiesa.
Allo stesso tempo, la nostra stessa comprensione della spiritualità
degli Esercizi oggi è diversa da quella che hanno avuto le gene-
razioni precedenti. Senza nulla togliere ai racconti biblici che so-
stengono gli Esercizi e li scandiscono, dobbiamo riflettere sui modi
opportuni per sviluppare l’immaginazione dei nostri esercitanti e
approfondire la loro comprensione.
TURCHI ED EBREI?
I CARAITI DELLA CRIMEA

Vladimir Pachkov S.I.

In una serie di documentari turchi sulla storia e sul presente di


tutte le popolazioni turche – Zaman Yolcusu. Türklerin Izinde («Un
viaggio nel tempo sulle tracce dei turchi») – viene tracciato un ampio
arco geografico che, partendo dalla Mongolia e dalla Siberia meridio-
267
nale e passando per l’Asia centrale e il Volga centrale, si estende fino a
Istanbul. Ma prima di raggiungere la meta di questo viaggio a Occi-
dente, si arriva alla popolazione turca che risiede in Europa orientale,
in particolare in Crimea, che in origine non era pagana e neppure
musulmana: si tratta dei caraiti, che professano la religione ebraica.
In turco vengono chiamati Türk Museviler («I seguaci di Mosè tur-
chi»), ma anche Hazarlar, Karaylar («Caraiti»), Kırımçaklar. Essi invece
chiamano sé stessi Karai o Karailar. Il termine deriva dalla parola ebraica
«leggere» e si riferisce a coloro che leggono la Sacra Scrittura.
È interessante il fatto che fino a oggi si discute su chi siano vera-
mente questi caraiti. Secondo alcuni, sono ebrei che professano una
religione diversa dall’ebraismo. Altri ritengono che discendano da una
popolazione turca che ha aderito all’ebraismo, ma con alcune varianti.
Altri infine affermano che sono turchi che hanno rifiutato l’islam.
Stando all’opinione più diffusa, i caraiti sarebbero una setta
ebraica, dai cui seguaci è nata una popolazione particolare in una
regione tra Russia e Polonia. Questa popolazione, da una parte, è
imparentata con i turchi e, dall’altra, se ne distacca. Perciò alcuni
pensano che i caraiti siano ebrei turchizzati. Si discute ancora sul
nesso della loro storia con la cultura e la religione ebraica, e non
solo con queste1.

1. Cfr В. С. Глаголев, Религия Караимов, МГИМО, Москва, 2018 (V. S.


Glagolev, La religione dei caraiti, Mosca, Mgimo, 2018).

© La Civiltà Cattolica 2022 III 267-275 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


FOCUS

«Sola scriptura»: i predecessori ebraici di Lutero


Anche se gli antenati di questa popolazione provenivano dall’E-
stremo Oriente – più precisamente dalla Siberia e dalla Mongolia –, il
viaggio spirituale dei caraiti ebbe inizio nel Medio Oriente dell’VIII
secolo. Il movimento è noto a pochi. Anche gli storici dell’ebraismo
ne parlano solo di sfuggita. Per esempio, nel libro di Leo Trepp Die
Juden. Volk, Geschichte, Religion («Gli Ebrei. Popolo, storia, religione»),
dei caraiti si tratta nel capitolo intitolato «Nuovi problemi», in cui si
legge: «A quel tempo [dopo che i musulmani ebbero preso il potere]
emersero diverse nuove difficoltà religiose e spirituali; verso la fine
dell’VIII secolo sorse una setta ebraica che si organizzò rapidamente: i
caraiti. Costoro negavano qualsiasi valore al Talmud e riconoscevano
268 solo e unicamente come norma la Torah così com’è scritta. Ma se si
fosse seguita l’interpretazione dei caraiti, ciò avrebbe significato un’al-
terazione dell’autentico senso e contenuto della Torah»2. Molti ebrei
credenti però avevano un’altra idea, e si unirono al movimento.
Colui che guidò il movimento che portò alla nascita del popolo ca-
raita si chiamava Anan ben David e visse nella regione dell’attuale Iraq
dal 740 al 795 ca., ossia già all’epoca della dinastia degli Abbasidi. Inse-
gnava che Mosè aveva ricevuto da Dio solo la Torah, e che nessuno dei
profeti biblici menziona le interpretazioni e gli insegnamenti successivi
dei rabbini che hanno portato alla formazione del Talmud. Ovviamen-
te, ciò gli attirò le critiche dei rabbini. Ma il califfo lo scagionò dalle
loro accuse, perché vedeva nel nuovo gruppo all’interno dell’ebraismo
un movimento analogo a quello dei cosiddetti «razionalisti», i mu’tazi-
liti nell’islam, da lui sostenuto a quell’epoca.
Poiché riteneva che ognuno dovesse trovare da solo la strada
verso Dio, Anan rinunciò a sviluppare una dottrina religiosa corri-
spondente. Egli stesso considerava Mosè, Gesù e Maometto profeti3.
È interessante notare che, nella loro opposizione al Talmud, Anan e
i suoi seguaci fecero riferimento a Gesù4.

2. L. Trepp, Die Juden. Volk, Geschichte, Religion, Hamburg, Reinbeck, 1998.


3. Cfr В. С. Глаголев, Религия Караимов, cit.
4. Cfr Г. Гретц, История Евреев от древних времен до настоящего, T. 4,
Одесса, 1905 (H. Graetz, La storia degli ebrei dai tempi antichi a oggi, vol. IV, Odessa,
Sherman, 1905).
TURCHI ED EBREI? I CARAITI DELLA CRIMEA

L’ebraismo turco

Sebbene le comunità dei caraiti si siano diffuse in molti Paesi, le


più note e più consistenti sono quelle turche. Ma come è stato pos-
sibile che una variante dell’ebraismo si sia diffusa tra le tribù turche?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerare le vicende
della diaspora ebraica del VI secolo.

COME È STATO POSSIBILE CHE UNA VARIANTE


DELL’EBRAISMO SI SIA DIFFUSA TRA LE TRIBÙ
TURCHE?

Agli inizi del VI secolo, molti ebrei dovettero fuggire dall’Impero 269
persiano, perché avevano sostenuto un movimento di opposizione al
governo, il mazdaismo. Giunti nella regione dell’attuale Daghestan, si
dedicarono all’allevamento del bestiame, conservando però le norme
della circoncisione e del riposo sabbatico5. Nel 730, Bulan, il sovrano
di uno Stato turco nell’attuale Russia meridionale, abbracciò l’ebrai-
smo e lo fece divenire la religione di Stato, garantendo però a tutti
la libertà religiosa, come riferisce in una lettera il dodicesimo khagan
(sovrano turco) di nome Joseph6. In essa si dice che i turchi del kha-
nato di Khazaria inizialmente abbracciarono l’ebraismo nella forma
della dottrina dei caraiti, e che solo in seguito questa dottrina venne
sostituita dall’ortodossia ebraica. Quanti vollero rimanere fedeli alla
dottrina dei caraiti dovettero ritirarsi dalla capitale e dai centri di pote-
re. Molti di essi andarono come predicatori della loro dottrina presso i
nomadi turchi e riuscirono a convertirne diverse persone. Così si poté
formare fra i turchi la comunità dei caraiti. Un certo rabbino Pen-
tahja, che nel 1180 fece un viaggio nella Russia meridionale, racconta
di aver incontrato seguaci dei caraiti tra i nomadi turchi7.

5. Cfr А. Я. Гаркави, Сказания еврейских писателей о хазарском


царстве, Спб., 1874 (A. Y. Garkavi, Racconti di scrittori ebrei sui cazari e sul regno
cazaro, San Pietroburgo, Tipografia dell’Accademia Imperiale, 1874).
6. Cfr П. К. Коковцев, Еврейско-хазарская переписка в X в., Ленинград.,
1932 (P. K. Kokovtsev, La corrispondenza tra gli ebrei e i cazari nel X secolo,
Leningrado, Accademia delle Scienze dell’Urss, 1932).
7. Cfr S. Szyszman, Karaites en Europe, Paris, 1986.
FOCUS

In quell’epoca i caraiti giunsero anche in Crimea. Ma già nell’XI


secolo la Bibbia era stata tradotta nella loro lingua. Se si confronta
questa traduzione con i materiali dei missionari cristiani presso i cu-
mani – la grande federazione di tribù di lingua turca – e con la tra-
duzione del Vangelo nella loro lingua, si può osservare come la lingua
dei caraiti fosse strettamente legata a quella dei cumani. Dopo l’inva-
sione dei mongoli il potere dei caraiti decadde. Essi stessi soffrirono;
la loro missione in pratica finì, e col tempo molte delle loro comunità
cessarono di esistere. Rimasero ancora soltanto due centri: uno nel
nord-ovest della Lituania e della Polonia, l’altro in Crimea.
Il principale centro dei caraiti si insediò nella città lituana di Trakai,
quando il granduca Vitoldo, nel corso della guerra con l’Orda d’Oro,
invase la Crimea, facendovi prigioniere 500 famiglie di caraiti, che
270
installò in Lituania. Già nel 1410, i cavalieri caraiti presero parte alla
battaglia di Grunwald. Per evitare che nascessero conflitti con gli ebrei
ortodossi, i sovrani polacchi proibirono a questi di insediarsi a Trakai.
Tuttavia nel 1714 si giunse a un accordo tra i caraiti e gli ebrei ortodossi
per la risoluzione autonoma delle dispute interne, senza l’interferen-
za del potere statale. In Lituania e Polonia venne affidato ai caraiti il
compito di sorvegliare le strade e i ponti. L’orientalista svedese Gustav
Peringer scriveva nel 1690, a proposito dei caraiti: «Questo popolo è
piccolo, perché partecipa continuamente alle guerre»8.
Nel XVIII secolo una parte dei caraiti si convertì al cattoli-
cesimo, e tuttora nei Paesi baltici e in Russia vivono caraiti che
professano il cristianesimo. I caraiti presenti nella penisola di Cri-
mea, data la posizione strategica favorevole di quella terra, si dedi-
carono al commercio. Per questo poterono mantenere il contatto
con le altre comunità. Essendo più ricchi dei loro correligionari in
Polonia, pagavano una parte delle imposte per loro e li assisteva-
no finanziariamente. D’altra parte, i caraiti polacchi avevano una
formazione migliore e, quando arrivarono in Crimea, assunsero
posti importanti nelle comunità. Ma in Crimea giunsero caraiti
anche dall’Asia minore e da Costantinopoli: tra questi, Aaron ben
Joseph, il quale compose il testo della liturgia caraita che divenne
obbligatorio in tutte le comunità. I caraiti coltivarono stretti rap-

8. Ivi.
TURCHI ED EBREI? I CARAITI DELLA CRIMEA

porti anche con altri Paesi: agli inizi del XV secolo giunse dall’I-
ran il famoso architetto Sinan Cheleb, e a Venezia nel 1528 venne
stampato un libro di preghiere, che costituisce la prima pubblica-
zione in lingua caraita.
Il popolo caraita si formò tra il XIII e il XVI secolo. Possedeva
una propria lingua, una propria fede religiosa, diversa da quella
dei suoi vicini, che determinò la sua mentalità e la sua cultura. Pur
non avendo un proprio Stato, aveva una regione propria in cui
abitare. Nel khanato di Crimea, fino all’annessione alla Russia nel
1787, i caraiti avevano il diritto di amministrarsi autonomamente.
Così, dal XIV secolo – cioè dal tempo in cui si è formato il kha-
nato di Crimea – fino al 1787, essi furono strettamente legati ai
tartari di Crimea: non solo vivevano gli uni accanto agli altri, ma
271
cooperavano tra loro; possedevano lingue, usi e tradizioni simili.
In Turchia oggi i caraiti – anche quelli che vivono in Polonia o
in Lituania – sono considerati turchi, come si desume anche da
una grande cartina nel Museo nazionale turco a Istanbul, su cui
vengono indicate tutte le popolazioni e le lingue turche: ai caraiti
è attribuito il numero 39.
Il popolo caraita nacque dalla fusione dei migranti ebrei prove-
nienti dal Vicino Oriente con i turchi. Ma questa non costituisce
affatto un’eccezione: anche i cosacchi russi, infatti, sono una me-
scolanza di contadini russi e nomadi turchi. La cosa più importante
non è l’origine, ma l’identificazione, e i caraiti si identificavano con
la religione ebraica (secondo la loro interpretazione) e con la lingua
e la cultura turche. Il popolo dei caraiti di Crimea appare quindi
unico sotto questo aspetto.

I caraiti in Russia

Il 1787 è l’anno in cui la Crimea, che faceva parte dell’Impe-


ro ottomano, venne annessa all’Impero russo. Questo costituì un
grande cambiamento per i caraiti. Fino ad allora essi erano vissuti
con i tatari della Crimea, a loro etnicamente vicini, ed erano con-

9. Cfr М. Я. Чофер, «Крымские Караимы», Москва, 1993 (M. J. Čofer, I


caraiti di Crimea, Mosca, 1993).
FOCUS

tenti della loro condizione nel khanato di Crimea. Ora entravano a


far parte di un Paese in cui la religione di Stato era quella ortodossa.
All’inizio essi continuarono a considerare come loro signore il
khan, versandogli le tasse (anche quando egli viveva in Russia con una
pensione del governo russo)10. Quando al khan fu concesso di recarsi
nell’Impero ottomano, essi vollero seguirlo, e il sultano assegnò loro
una regione, che corrisponde all’attuale Albania. Ma, sebbene fossero
partiti in molti, non ci fu mai una migrazione dell’intero popolo ca-
raita. Ci sono sempre stati singoli caraiti che dalla Crimea sono emi-
grati in altre regioni dell’Impero ottomano, ma la maggior parte della
popolazione è rimasta in Crimea.
All’inizio però i caraiti erano intenzionati a lasciare la Russia.
Quando fecero la richiesta all’imperatrice Caterina di lasciarli an-
272
dare in Turchia, ella si trovò in una situazione imbarazzante: un
popolo – nel quale, per giunta, non c’erano musulmani – voleva
lasciare il suo Impero per andare dai turchi! Un ulteriore motivo
per emigrare fu dato dalla legge del 1793 sulla doppia tassazione
degli ebrei. Nel 1795 il governo esonerò da essa i caraiti, mentre la
manteneva in vigore per gli ebrei ortodossi e gli asidei11.
All’inizio del XX secolo, i caraiti avevano sviluppato un vasto si-
stema di istruzione, prima religiosa e poi laica, e alla fine del XIX
secolo tra loro risultava alfabetizzato il 70% degli uomini e il 50%
delle donne12. I figli dei poveri frequentavano quasi esclusivamente le
scuole religiose, mentre i figli delle famiglie del ceto medio studia-
vano nei licei statali, e quindi in pratica non avevano contatti con la
religione. Il primo caraita che ricevette una formazione universitaria
fu Kasas (1834-1912), il quale scrisse un libro scolastico di ebraico
antico (prima in tataro e poi in russo), tradusse molte opere di fi-
losofi europei in lingua caraita e pubblicò in ebraico diversi volumi
di un’opera dedicata alla critica biblica. Ma per i caraiti l’istruzione
non ebbe soltanto conseguenze positive: quanto più gli uomini, e in

10. Cfr S. Szyszman, Le Kharaisme. Ses doctrines et son histoire, Lausanne,


l’Age d’Homme, 1980.
11. Cfr Полное собрание законов Российской империи, Т. 23, № 17340 (18
Июня 1795) (La legislazione completa dell’Impero russo, vol. 23, n. 17340, 18 giugno
1795).
12. Cfr ivi.
TURCHI ED EBREI? I CARAITI DELLA CRIMEA

particolare le donne, erano istruiti, tanto meno erano disposti a con-


trarre matrimonio con dei correligionari. Si parla addirittura di uno
«sciopero del matrimonio». Anche i tassi di natalità tra i caraiti erano
molto bassi: 15 figli ogni 1.000 persone (tra i cristiani ortodossi: 50;
tra i musulmani: 45; e tra gli ebrei ortodossi: 36).
La lingua russa sostituì progressivamente quella caraita, in
particolare tra quanti vivevano al di fuori di una comunità caraita:
da una parte, si trattò di un processo naturale; dall’altra, i carai-
ti vollero in questo modo sottrarsi alle ostilità antisemite. Per lo
stesso motivo i genitori caraiti diedero nomi russi ai propri figli.
All’inizio del XX secolo la comunità dei caraiti fu esposta al pro-
cesso di assimilazione – ma anche di secolarizzazione –, perdendo
così molti dei suoi membri.
273

I caraiti dopo la Rivoluzione

La Rivoluzione d’ottobre fu un evento tragico per tutte le


comunità religiose in Russia, ma colpì in modo particolare i ca-
raiti. Il motivo fu che molti uomini di questa piccola comunità
che erano in grado di maneggiare le armi si erano uniti ai Bian-
chi: da una parte, per le loro convinzioni monarchiche; dall’altra,
perché dopo l’inizio dei disordini e della guerra civile erano tor-
nati a casa, in Crimea, che era diventata il centro della resistenza
contro i bolscevichi. Quelli che non morirono in battaglia se ne
andarono all’estero, mentre molti di quelli che rimasero furono
giustiziati dai bolscevichi.
Ciò che era sopravvissuto alla guerra civile fu preso di mira
dalla propaganda antireligiosa. Agli inizi degli anni Trenta,
venne chiuso l’ultimo luogo di culto caraita (kenasa) e fu sop-
presso il giornale culturale Bizim Yol («La nostra via»). All’epoca
i caraiti non potevano emigrare in Egitto, dove esisteva una
loro comunità in grado di accogliere i profughi. L’altra comuni-
tà al di fuori dell’Urss era a Trakai – allora un territorio polacco
–, dove si era costituito un gruppo di studiosi caraiti e veniva
pubblicato un giornale in lingua polacca, chiamato la «Vita ca-
raita». Con l’aiuto finanziario del governo polacco venne fon-
FOCUS

dato il museo caraita, che comprendeva una biblioteca in cui si


conservavano antichi manoscritti.
Un grande pericolo per questa popolazione, oltre che dalla ditta-
tura atea bolscevica, proveniva dal nazismo tedesco. Ma alcune co-
munità caraite in Germania, che erano formate da pochi ex ufficiali
dell’Armata Bianca, dopo l’ascesa al potere del nazismo, si rivolsero
al ministero della Giustizia chiedendo che non fossero considerate
ebree. Di fatto furono riconosciute come una comunità non ebrea, e
così furono esposte solo a sporadiche persecuzioni, come avvenne per
esempio a Kiev durante l’occupazione nazista13.
È interessante notare che anche le gerarchie ortodosse in esilio
considerarono i caraiti una comunità autonoma. Il metropolita Se-
rafim affermò: «La fede dei caraiti è sempre stata vista dalla Chiesa
274
ortodossa come una religione del tutto indipendente». Un altro me-
tropolita ortodosso in esilio, Evolgij, scrisse: «La Chiesa ortodossa
ha sempre considerato la fede dei caraiti come una religione auto-
noma. […] La religione caraita accetta l’Antico Testamento con i
dieci comandamenti, che sono riconosciuti anche da tutte le reli-
gioni monoteiste (per esempio, dall’islam). Per la dottrina caraita,
Gesù e Maometto sono dei grandi profeti»14.
Nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale, alcuni caraiti
vennero trasferiti, insieme ai tatari, dalla penisola della Crimea, in
Asia centrale. Nelle Repubbliche baltiche, dei cinque luoghi di culto
caraita funzionanti finché esse facevano parte dell’Urss ne rimase
solo uno in Lituania, nella città di Trakai. E nel 1982, alla morte
dell’ultimo capo di quella comunità, venne chiuso anch’esso.
Dal censimento del 1979 risultò che in Urss vivevano 3.341
caraiti, di cui 1.151 in Crimea. In Russia e in Ucraina ci furono
molti matrimoni di caraiti con gli slavi, e parecchi caraiti abban-
donarono la propria religione. Attualmente è possibile riconoscere
in questi Paesi i caraiti soltanto dai loro nomi turchi. I figli nati
da matrimoni con cristiani divennero in gran parte anche loro
cristiani, così come i figli nati da matrimoni con i musulmani

13. Cfr «Караимы», in Краткая еврейская энциклопедия, Еврейский


Университет в Иерусалиме Иерусалим, 1988 («Caraiti», in Breve enciclopedia
ebraica, Gerusalemme, Università ebraica di Gerusalemme, 1988).
14. В. С. Глаголев, Религия Караимов, cit.
TURCHI ED EBREI? I CARAITI DELLA CRIMEA

divennero musulmani. I caraiti cercavano di trovare il coniuge


nella propria comunità, ma era difficile, perché la comunità era
molto piccola. Tuttavia, in Polonia e Lituania poterono mantene-
re la propria identità etnica e religiosa. Ma anche da quelle terre
molti di loro emigrarono in America.
Prima della Rivoluzione sorse una comunità caraita a Harbin,
in Cina, che però si disgregò a causa della guerra con il Giappone:
i suoi membri si trasferirono in Europa, in America o in Australia.
È difficile sapere anche quale sia stata la sorte dei cinesi che aveva-
no abbracciato la fede caraita15.
Nella Repubblica turca, sotto Kemal Atatürk, i caraiti furono
riconosciuti come turchi, ma con una religione propria. All’inizio
del XX secolo, la comunità caraita di Istanbul contava 200 famiglie.
275
L’origine turca dei caraiti è testimoniata anche dalla prassi adottata
per l’elezione e l’insediamento dei capi religiosi (hakhan). Il capo ve-
niva eletto da tutti i membri della comunità, e per l’insediamento si
seguivano le usanze dei turchi della Siberia meridionale16. Pertanto,
in questa cerimonia si mescolavano usanze ebraiche e turche.
Oggi le comunità caraite sono sparse in tutto il mondo: oltre
che in Russia, si trovano nei Paesi dell’ex Impero ottomano e anche
in Europa e in America. Il piccolo popolo dei caraiti rappresenta un
esempio di come tradizioni culturali e religiose differenti possano
fondersi in un’unità armoniosa.

15. Cfr ivi.


16. Cfr М. С. Сарач, «Слово о вере и религии Караимов», Караимские
вести, 1994, № 3 (M. S. Sarach, «Una parola sulla fede e la religione dei caraiti»,
in Notizie caraite, 1994, n. 3).
VITA DELLA CHIESA

GIOVANNI PAOLO I
La santità di un vescovo umile

Federico Lombardi S.I.

La prima volta che mons. Maffeo Ducoli, vescovo di Belluno-


Feltre, avendo ricevuto non poche sollecitazioni, parlò alla Con-
gregazione dei Santi della possibile apertura della causa per la bea­
tificazione di Giovanni Paolo I, gli fu fatto osservare che, oltre a
276
Pio X, già canonizzato, erano allora in corso le cause di Pio IX,
Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, e forse per il momento questi
papi potevano bastare. Egli quindi soprassedette, anche se i vescovi
brasiliani nel 1990 avevano già presentato a Giovanni Paolo II una
petizione in tal senso, firmata dai 226 membri della Conferenza,
interpretando l’aspirazione dei loro fedeli.
Ma il successivo vescovo di Belluno-Feltre, mons. Vincenzo Sa-
vio, continuando a ricevere molte richieste, riprese l’iniziativa nei
primi anni 2000, chiedendo che la sede dell’inchiesta diocesana fos-
se la sua diocesi e non quella di Roma, luogo della morte di papa
Luciani, data la brevità della sua permanenza nell’Urbe. Nel 2003
la Congregazione concesse il nulla osta. Nel lungo lavoro compiuto
nella fase diocesana e in quella successiva romana sono stati ascoltati
ben 188 testimoni di ogni condizione ecclesiale, fra i quali anche il
papa emerito Benedetto XVI, caso finora unico, dato che un papa
«in carica» non può testimoniare, essendo il giudice della causa.
Nel novembre del 2017 papa Francesco ha autorizzato il de-
creto di riconoscimento delle «virtù eroiche» di Luciani e nell’ot-
tobre del 2021 quello relativo alla guarigione miracolosa di una
bimba di Buenos Aires, affetta da encefalopatia acuta. Si è aperta
così la via per la beatificazione, che sarà celebrata il prossimo 4
settembre in San Pietro.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 276-290 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


GIOVANNI PAOLO I

Il seminarista e il prete bellunese

Albino Luciani nasce il 17 ottobre 1912 a Forno di Canale (oggi


Canale d’Agordo), nel Bellunese, in una famiglia di condizioni mo-
deste, e viene immediatamente battezzato dalla levatrice perché in
pericolo di vita1. Il padre Giovanni, di idee socialiste, lavora come
migrante stagionale, da marzo a novembre per 27 anni, in Ger-
mania, Francia, Svizzera e Argentina. Gli anni della Prima guerra
mondiale, e soprattutto dell’invasione austriaca dopo la rotta di Ca-
poretto, sono durissimi, di vera miseria. La madre Bortola, fervente
cattolica, avvicina il marito alla fede, tanto da concedere al figlio
Albino l’autorizzazione a entrare in seminario nel 1923 e intrapren-
dere la via del sacerdozio.
L’itinerario della sua formazione è lineare, ordinario: una vocazione 277
senza incrinature e incertezze. Prima gli studi ginnasiali nel seminario
minore di Feltre, poi il liceo e la teologia nel seminario di Belluno. Una
figura fondamentale della sua giovinezza è il parroco di Canale, don
Filippo Carli, modello di vita sacerdotale e di intelligente valorizzazio-
ne delle doti del giovane seminarista. Ad esempio, fin da piccolo Albi-
no è un lettore appassionato, divoratore di libri; per questo don Filippo
lo incarica di catalogare l’antica biblioteca parrocchiale e lo incoraggia
a scrivere sul nuovo Bollettino parrocchiale, sempre con stile semplice
e chiaro. Durante la teologia, Albino sente l’attrazione della vita reli-
giosa e chiede al vescovo di entrare nella Compagnia di Gesù, come
hanno fatto due suoi compagni2, ma la richiesta non viene accolta ed
egli prosegue serenamente nel solco della vocazione al clero diocesano.
Il 1935 è l’anno del sacerdozio: Albino non ha ancora 23 anni,
ma riceve la necessaria dispensa canonica per l’ordinazione. Il suo

1. La biografia più completa di Giovanni Paolo I è quella redatta per la Positio


della causa di beatificazione e che costituisce il quarto dei cinque volumi della stessa.
Nel 2018 ne è stata autorizzata una prima edizione a parte, e nel 2020 è stata edita
dalla Fondazione vaticana Giovanni Paolo I e dalla Libreria Editrice Vaticana: S.
Falasca - D. Fiocco - M. Velati, Giovanni Paolo I. Biografia ex documentis, con
prefazione del card. Beniamino Stella. Si tratta di un volume di grande formato, di
984 pagine, con oltre 4.300 note. Su di essa ci siamo basati per questo articolo.
2. Uno è p. Roberto Busa, che diventerà noto per l’applicazione dell’informa-
tica all’analisi linguistica dei testi di san Tommaso, e resterà amico di Luciani per
tutta la vita.
VITA DELLA CHIESA

primo ministero è ad Agordo, come cooperatore parrocchiale e


insegnante di religione nella scuola. Già in questo periodo ade-
risce all’Unione apostolica del clero, un sodalizio i cui membri
assumono l’impegno di una vita spirituale e di preghiera intensa e
fedele, pur fra gli obblighi di un servizio apostolico molto attivo.
Ma dopo due soli anni viene nominato vicerettore del Seminario
Gregoriano di Belluno.
In questo compito trascorre 10 anni interi della sua vita, collabo-
rando con la forte personalità del nuovo rettore, mons. Santin, che
lo ha voluto con sé nonostante l’ancor giovane età. Il vicerettore è
incaricato anzitutto della disciplina, dell’ordine nelle attività dei se-
minaristi nel corso dell’intera giornata, che inizia con la sveglia alle
5,40 e si conclude con il riposo a partire dalle 21 o le 22. Per la sua
278
preghiera personale don Albino si alza regolarmente intorno alle 4 del
mattino. Oltre alla vigilanza, vi sono anche diversi insegnamenti, che
spaziano dalla teologia dogmatica al diritto canonico, alla filosofia,
alla storia dell’arte e all’eloquenza sacra. Il vicerettore viene descritto
come rigoroso e molto attento; non gli sfugge nulla, ma è paziente e
non autoritario, vicino ai suoi giovani e disponibile al consiglio e al
conforto. Nell’insegnamento è chiaro, didatticamente efficace, favori-
to da una memoria eccezionale e da una cultura che continua a essere
alimentata da numerose letture, anche notturne3. Le sue lezioni sono
ben preparate e memorizzate, non hanno bisogno di appoggiarsi al
testo scritto: questa caratteristica particolare si ritroverà nella sua pre-
dicazione e nel suo magistero fino al pontificato.
Per un insegnamento più qualificato era opportuno che i pro-
fessori del seminario avessero formazione adeguata e titoli accade-
mici, però né il rettore né il vescovo erano disposti a privarsi della

3. La lista degli autori frequentati e amati da Albino Luciani, e da lui citati nei
suoi scritti e nei suoi discorsi, è vastissima. Possiamo ricordarne solo alcuni. Fra gli
ecclesiastici: sant’Agostino, san Gregorio Magno, san Bernardo, san Francesco di
Sales, santa Teresa di Lisieux, Charles de Foucauld ecc. Fra i letterati: Dante, Petrar-
ca, Shakespeare, Pascal, Molière, Goldoni, Manzoni, Dostoevskij, Papini, Dickens,
Chesterton, Trilussa ecc. L’ampiezza della sua cultura letteraria è tanto più impres-
sionante quando si pensa che non è dovuta a studi sistematici, ma alla convinzione
che la grande letteratura gli permettesse di entrare in profondità nella vicenda e nel-
la sapienza umana e fosse così lo strumento adatto per nutrire il suo sermo humilis,
che parlava della realtà della vita e del Vangelo con le parole del popolo.
GIOVANNI PAOLO I

presenza di Luciani come vicerettore: perciò la richiesta alla Sacra


Congregazione competente perché Luciani potesse iscriversi all’U-
niversità Gregoriana per conseguire la licenza e il dottorato in teo-
logia venendo dispensato dall’obbligo della frequenza. Nonostante
la grande difficoltà, la dispensa fu ottenuta. Vanno ricordati a que-
sto proposito l’incoraggiamento, l’amicizia e l’appoggio di p. Felice
Cappello, gesuita, autorevole canonista della Gregoriana e «com-
paesano» di Luciani. Fu così che don Albino riuscì a conseguire la
licenza in teologia nel 1942, e la laurea nel 1947, magna cum laude,
con una tesi su L’ origine dell’anima umana secondo Antonio Rosmini4.
Ma il raggiungimento di questi traguardi aveva richiesto uno sfor-
zo eccezionale. Non c’è quindi da stupirsi che la sua salute ne risul-
tasse compromessa. Per alcuni mesi don Albino viene ricoverato in
279
sanatorio a Belluno e dopo la convalescenza si rende necessario un
secondo ricovero, fortunatamente più breve. Ma il faticoso incarico
di vicerettore ha termine.
Anche se l’impegno in seminario e nello studio caratterizza la
quotidianità di questo decennio della vita di Luciani, non va di-
menticato che questo è allo stesso tempo il periodo drammatico
della Seconda guerra mondiale e, dopo l’8 settembre 1943, della
lotta partigiana, che coinvolge anche il Bellunese. In questo perio-
do, nel corso di una rappresaglia tedesca e della reazione partigiana
nell’agosto del 1944, si ricorda un intervento di don Albino per
salvare dalla fucilazione alcuni uomini sequestrati.
Mons. Girolamo Bortignon, diventato giovanissimo vescovo
di Belluno nel corso della guerra, ha un’alta stima di don Albino
e gli affida compiti di responsabilità crescente nella vita della
diocesi. Nel 1947 è pro-cancelliere vescovile e segretario del Si-
nodo diocesano, nel 1949 pro-vicario e direttore dell’Ufficio ca-
techistico. Nel campo della catechesi don Albino dimostra non
solo un grande impegno, ma un vero dono, di cui è espressione il
volumetto Catechetica in briciole, del 1949, per la formazione dei
catechisti: uno scritto di chiarezza, concretezza e saggezza che

4. La tesi è stata ripubblicata nel primo volume di A. Luciani/Giovanni


Paolo I, Opera omnia, a cura di G. Fedalto, Padova, Messaggero, 1988. L’Opera
omnia, in 9 volumi, raccoglie la quasi totalità degli scritti pubblicati di Luciani,
comprese le omelie, le lettere, i numerosissimi articoli sulla stampa cattolica ecc.
VITA DELLA CHIESA

non mancano di suscitare ammirazione a 70 anni di distanza5. Si


comprende subito che il suo autore, in ogni tappa della sua vita,
dedicherà il meglio di sé alla formazione alla fede, con i fanciulli,
i giovani, gli adulti…
Il nuovo vescovo, mons. Gioacchino Muccin, nel 1954 lo no-
mina vicario generale, cosicché il suo coinvolgimento nel gover-
no della diocesi continua a crescere, sia nel campo amministrativo
sia in quello apostolico (ad esempio, nella formazione dei giovani
impegnati nella vita sociale e politica bellunese). Ma vale la pena
notare che in questi anni si sviluppa anche l’attività pubblicistica sul
settimanale diocesano L’ Amico del popolo – peraltro mai interrotta
fra il 1941 e il 1956 –, senza rifuggire dai temi di attualità: non si
dimentichi che nel 1948 il clima elettorale era stato infuocato e la
280
Chiesa si era schierata per la Democrazia Cristiana. Luciani si è
sempre impegnato nello scrivere: si può dire che è un vero giornali-
sta, dallo stile scorrevole ed efficace. Ma il suo impegno non si limi-
ta alla stampa e si estende agli altri media. Nel 1956 egli promuove
il primo Cineforum cittadino, dimostrandosi attivamente partecipe
a una forma di dialogo e presenza dei cattolici italiani nella cultura
del tempo, allora in pieno sviluppo.

Il vescovo del Concilio Vaticano II

È naturale che i vescovi che lo avevano scelto come principale


collaboratore – Bortignon (nel frattempo passato a Padova) e Muc-
cin – lo propongano per l’episcopato. All’inizio del pontificato di
Giovanni XXIII don Albino viene nominato vescovo di Vittorio
Veneto. Ordinato dal Papa stesso in San Pietro alla fine di dicembre
del 1958, entra in diocesi pochi giorni dopo: ha 46 anni.
Anche questo periodo durerà esattamente un decennio e sarà
decisivo nella vita di Luciani. La disposizione spirituale con cui ac-
coglie il nuovo servizio è profonda e limpida, come egli stesso scri-
ve nella prima lettera alla diocesi: «Io la polvere; la insigne dignità
episcopale e la diocesi di Vittorio Veneto sono le cose belle che Dio

5. Anche questo scritto è ripubblicato nel primo volume di Opera omnia, cit.
GIOVANNI PAOLO I

si è degnato di scrivere su di me»6. Il motto episcopale che sceglie è


la sola parola humilitas, secondo l’esempio di san Carlo Borromeo.
Il nuovo vescovo si immerge totalmente nella vita pastorale, si
dedica alla formazione del clero e del laicato, consapevole delle tra-
sformazioni in atto nella società italiana, cura la catechesi, compie
due visite pastorali dell’intera diocesi, conduce una vita austera, ben
ordinata nella distribuzione delle pratiche religiose e dello studio e
aggiornamento, come pure delle visite ai malati. Talvolta il primo
appuntamento del mattino era fissato già alle sette! Il rapporto con
le suore che si occupano del vescovado è semplice e familiare, pieno
di rispetto e gentilezza: sono le suore di Maria Bambina, fra cui
suor Vincenza Taffarel, che lo accompagnerà fedelmente per tutta
la vita, anche a Venezia e infine a Roma…
281
Ma nei primi anni di episcopato non mancano le difficoltà. Nel
1962 viene alla luce ed esplode una gravissima situazione di disse-
sto finanziario della diocesi, di cui sono responsabili due sacerdo-
ti. Il vescovo affronta con coraggio il problema, muovendosi con
tempestività e saggezza e riesce in alcuni mesi a trovare soluzioni
soddisfacenti, per cui riceve da vescovi, sacerdoti, autorità e laici
attestazioni di solidarietà e di ammirazione. Riesce a coniugare il
rispetto dei diritti dei creditori, la collaborazione con la giustizia
civile, la carità verso i colpevoli condannati, la giusta informazione
alla diocesi coinvolta nei sacrifici da affrontare: insomma, un mo-
dello di intervento coraggioso e trasparente.
Ma il periodo vittoriese di Luciani è caratterizzato soprattutto
dalla partecipazione al Concilio Vaticano II, in tutte e quattro le sue
sessioni, dal 1962 al 1965. Egli non interverrà mai nell’Aula concilia-
re, presenterà solo un voto durante la preparazione e un intervento
scritto sulla collegialità episcopale nel 1963; ma sarà sempre presente
con viva attenzione, prendendo appunti e studiando approfondita-
mente i documenti, come appare dalle sue annotazioni e osserva-
zioni sulle bozze dei testi7. La sua partecipazione umile e intelligente

6. A. Luciani/Giovanni Paolo I, Opera omnia, cit., vol. II, 11.


7. I documenti sono conservati nell’archivio personale di Giovanni Paolo I,
custodito e studiato dalla Fondazione vaticana Giovanni Paolo I, presieduta dal card.
Pietro Parolin e diretta dalla vice-presidente e vice-postulatrice della causa, dr.ssa Ste-
fania Falasca. La Fondazione lavora anche per la ricostruzione della biblioteca perso-
VITA DELLA CHIESA

è accompagnata da una informazione assidua della diocesi e dalla


trasmissione degli orientamenti e insegnamenti conciliari, tramite gli
scritti e la parola. Egli manifesta entusiasmo per la riforma liturgica
e si impegna per la sua attuazione, avvia i consigli pastorale e presbi-
terale diocesani. La novità del Concilio lo sorprende e lo coinvolge
in un cammino paziente e profondo, verso orizzonti più larghi. Vive
la novità nella continuità e con piena disponibilità, alieno da entu-
siasmi superficiali e dalla mera enfasi verbale sui «segni dei tempi»,
sull’«aggiornamento» o sul «rapporto Chiesa-mondo». Riflette con
attenzione sulle posizioni teologiche presentate dagli episcopati eu-
ropei più preparati, sviluppa conoscenze e rapporti con vescovi del
«Terzo Mondo» che sono all’origine del suo accresciuto interesse per
le missioni e dei suoi successivi viaggi in Africa e in Brasile. La sua
282
esperienza ecclesiale e spirituale negli anni del Concilio sviluppa in
lui una sintonia molto profonda con Paolo VI e con la sua guida della
Chiesa, coraggiosa, prudente ed equilibrata allo stesso tempo. Si può
ben dire che l’episcopato di Luciani rispecchia a livello diocesano lo
spirito e lo stile del papato montiniano.
Il Luciani degli anni Sessanta dopo il Concilio è un vescovo
sempre fedelissimo ai suoi impegni diocesani, ma maggiormente
coinvolto nella Conferenza episcopale triveneta e che deve con-
frontarsi con le sfide assai difficili dei cambiamenti della cultura e
della società italiana ed europea. Lo troviamo impegnato nei pro-
blemi del mondo del lavoro e delle lotte sindacali; nel dibattito sulla
legislazione italiana sul divorzio; nelle tensioni della «contestazio-
ne», che si diffonde anche nella Chiesa, con la conseguente crisi di
vocazioni; nel dibattito sui rapporti fra i compiti del magistero e la
libertà di ricerca dei teologi. Degna di nota è l’intensità di studio
e di riflessione con cui egli si coinvolge nella delicata e discussa
questione della regolazione delle nascite. La sua sensibilità pastorale
lo fa propendere per una posizione «possibilista», offrendo alla vita
affettiva e sessuale della coppia sposata una «moderata libertà», senza
una preclusione egoista nei confronti della vita. È stato detto che «il
suo intento era quello di non tradire il Vangelo e di non porre pesi

nale di Luciani, che era stata sempre per lui uno strumento prezioso di studio e lavoro,
ma scorporata nei successivi traslochi.
GIOVANNI PAOLO I

troppo grandi agli sposi». La sua posizione era quindi diversa da


quella che sarà assunta da Paolo VI nella Humanae vitae, a cui tutta-
via egli si adegua prontamente e pienamente, non senza leggerla e
interpretarla sempre alla luce di uno sguardo ricco di comprensione
e di misericordia.

Patriarca di Venezia in un tempo difficile

Nell’autunno del 1969 muore improvvisamente il patriarca di


Venezia, card. Giovanni Urbani, e il 15 dicembre Paolo VI annun-
cia la nomina di Luciani come suo successore. Una nuova tappa
dunque, ancora in Veneto, ma in un contesto sociale e urbano di-
verso, con responsabilità e orizzonti sempre più vasti. Luciani di-
283
venta presidente della Conferenza episcopale triveneta, entra nella
presidenza della Conferenza episcopale italiana e ne è eletto vice-
presidente. Paolo VI lo nomina membro del Sinodo dei vescovi del
1971 e, quando visita Venezia nel 1972, compie il famoso e inaspet-
tato gesto di imporgli la propria stola davanti alla gente in piazza
San Marco; infine nel 1973 lo crea cardinale.
Nel suo stile di vita e di pastorale, il nuovo patriarca rimane fedele
a sé stesso, sobrio e attento ai poveri e ai malati, semplice e amabile nel
tratto. Nella sua omelia di ingresso in diocesi, l’8 febbraio 1970, ritor-
na il tema della «polvere»: «Se non mi scoraggio di fronte a un’impresa
che fa tremare le vene e i polsi, gli è perché confido nell’aiuto che il
Signore concede anche a chi vale poco. Dio, infatti, certe cose grandi
ama talvolta scriverle non sul bronzo o sul marmo, ma addirittura sul-
la polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata o dispersa
dal vento, risulti chiaro che il merito è tutto e solo di Dio. Sono io la
polvere: l’ufficio di patriarca e la diocesi di Venezia sono le grandi cose
unite alla polvere; se un po’ di bene verrà fuori da questa unione, è
chiaro che sarà tutto merito della misericordia del Signore»8.
Luciani non scrive alcun documento programmatico. Interver-
rà con le omelie e le lettere per i maggiori appuntamenti della Chie-
sa italiana, con gli articoli per il quotidiano veneziano Il Gazzettino
e per il settimanale diocesano – prima La Voce di San Marco e poi

8. A. Luciani/Giovanni Paolo I, Opera omnia, cit., vol. V, 14.


VITA DELLA CHIESA

Gente veneta – e sulla popolare rivista Messaggero di Sant’Antonio.


I suoi contributi mensili a questo periodico, nella forma originale
della lettera a personaggi famosi, in stile colloquiale, ma sempre su
temi di grande attualità, saranno raccolti nel volume Illustrissimi, la
sua opera più nota9. Luciani è uno scrittore e un predicatore di va-
glia. La semplicità del linguaggio non deve ingannare: i testi sono
molto curati, ricchi di esempi e di riferimenti tratti da grandi autori,
anche se spesso questi non vengono esplicitamente citati. La sua
cultura non viene esibita: è vissuta e assimilata così profondamente
da esprimersi con spontaneità in una grande varietà di interventi su
temi spirituali, pastorali, morali, sociali, educativi, di cui il vescovo
deve occuparsi nel corso degli anni. Il Patriarca sarà sempre molto
impegnato nel sostenere e promuovere la stampa cattolica.
284
Durante gli anni veneziani, Luciani partecipa ai tre Sinodi dei
vescovi di quel periodo: nel 1971, nel 1974, nel 1977. Si consolidano
così le sue conoscenze, le sue relazioni e il suo senso di appartenenza
alla Chiesa universale. Il Sinodo del 1977 è dedicato alla cateche-
si: un argomento in cui la sua competenza ed esperienza sono di
prim’ordine e su cui la Chiesa in Italia ha fatto un grande cammino
per la redazione dei nuovi catechismi. Il contributo del Patriarca
nel corso della preparazione e nel Sinodo stesso merita davvero di
essere ricordato. La trasmissione della fede era la gioia e l’impegno
prioritario della sua vita.
La situazione della diocesi ereditata dal card. Urbani non è fa-
cile, e Luciani, che a differenza del predecessore non viene dal cle-
ro veneziano, deve governarla nel tempo critico del postconcilio
e delle sue tensioni. Rileggere quegli anni significa ripercorrere
un periodo dinamico, ma anche assai travagliato della storia della
Chiesa italiana: è il tempo della «scelta socialista» delle Acli e della
loro rottura con i vescovi; del «compromesso storico» e della discus-
sione sulla collaborazione con i marxisti; del terrorismo; della crisi
dell’Azione Cattolica; delle divisioni in occasione del referendum
sul divorzio e delle posizioni dei «cattolici democratici»; del «dissen-
so cattolico», che si manifesta in varie forme, nella stampa come in
situazioni locali. Anche a Venezia, come in molte altre città italiane,

9. Anch’essa è ripubblicata nel primo volume di Opera omnia.


GIOVANNI PAOLO I

si giunge a situazioni di conflitto del vescovo con qualche comu-


nità concreta: in particolare, con la comunità di San Trovaso, della
Fuci. Non mancano problemi per l’insegnamento della teologia nel
seminario, come per le libertà eccessive nell’attuazione del rinnova-
mento liturgico in certe parrocchie.
Luciani è persona di dialogo, ma anche di posizioni ferme, a
cui si ritiene obbligato dal suo ministero di vescovo. In generale i
suoi interventi seguono registri molto chiari: non vengono messi
in discussione la dottrina della Chiesa e il ruolo del magistero nella
Chiesa; sia l’evangelizzazione sia la promozione umana fanno parte
della missione della Chiesa, ma la prima precede l’altra. Di conse-
guenza non mancano fratture, che non si riusciranno a sanare, e
momenti di grande sofferenza10. Ma il suo senso di responsabilità e
285
prudenza, di fedeltà alla tradizione della Chiesa e di solidarietà con
il Papa e i confratelli vescovi gli attirano una stima e una fiducia
crescente nella Chiesa italiana, e non solo. Ancora una volta, non
possiamo non osservare che le croci del pontificato di Paolo VI e
lo spirito con cui vengono portate trovano un profondo parallelo
nell’episcopato di Luciani.

«Lo spazio di un sorriso»

Forse è anche per questo che alla morte di Paolo VI, pur con sua
sorpresa, Luciani viene eletto papa dopo un conclave brevissimo.
La sua continuità con la linea di papa Montini era probabilmente
diventata col tempo assai più chiara ai suoi elettori di quanto egli
non pensasse. «Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tran-
quillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere»,
dirà all’Angelus domenicale del 27 agosto 1978.
Se gli otto anni e mezzo di patriarcato veneziano lasciano il
ricordo di un tempo di generoso e fedele servizio ecclesiale, ma
anche di difficoltà e sofferenza, il brevissimo mese di pontificato,
nonostante l’improvvisa e inattesa conclusione, lascia un ricordo in-

10. Drammatica la partecipazione, in preghiera e assoluto silenzio, inginoc-


chiato nel presbiterio, durante il funerale di un sacerdote suicida, che era stato al-
lontanato dalla parrocchia per volontà del patriarca (S. Falasca - D. Fiocco - M.
Velati, Giovanni Paolo I. Biografia ex documentis, cit., n. 1, 508).
VITA DELLA CHIESA

delebile di serenità e di luce. Come è stato detto efficacemente: «lo


spazio di un sorriso».
Bastarono pochi giorni per vedere e sentire novità durevoli.
Non più il rito dell’incoronazione e la tiara, a cui Paolo VI aveva
rinunciato a vantaggio dei poveri; non più il plurale maiestatico nei
discorsi e nelle catechesi, che assumono uno stile semplice e diretto
inconfondibile e manifestano la precisa volontà di farsi capire da
tutti, anche dalle persone più umili. E la libertà originale di assu-
mere un doppio nome, quel «Giovanni Paolo» che, ripreso dal suo
successore, sentiremo ripetere ancora per decenni. Esso evoca di per
sé stesso il Concilio, il rinnovamento della Chiesa nel nostro tempo,
i due pontefici – ormai proclamati santi – di cui il vescovo Luciani
si è sentito discepolo e debitore.
286
Il pontificato si apre con un messaggio inaugurale in latino che
– articolato in sei «vogliamo» – esprime i punti di un programma di
piena continuità: attuazione del Concilio, custodia della grande tra-
dizione della Chiesa, primato dell’evangelizzazione, ecumenismo,
dialogo, servizio della pace. Tuttavia rimarranno più impressi nella
memoria i cinque brevi Angelus domenicali e le quattro udienze
generali sulle virtù dell’umiltà, della fede, della speranza e della ca-
rità. Possiamo aggiungere l’attenzione e la preghiera del Papa per i
colloqui di pace per il Medio Oriente a Camp David; alcune altre
udienze e diverse lettere ufficiali di circostanza.
Ma forse il discorso che vale più la pena di ricordare è quello te-
nuto il 30 agosto al collegio dei cardinali che lo hanno eletto. È stato
pubblicato per la prima volta poche settimane fa, perché finora era
stato diffuso solo un testo ufficiale, quasi insopportabile nella sua au-
licità maiestatica, e perciò lasciato completamente da parte dal Papa11.

11. È uno dei testi più interessanti del nuovo volume: Giovanni Paolo I,
Il Magistero. Testi e documenti del Pontificato, a cura della Fondazione Vaticana
Giovanni Paolo I, Libr. Ed. Vaticana - San Paolo, 2022, 67-75. Il volume, di 470
pagine, comprende tutti i testi del mese di pontificato, non solo nella versione
ufficiale già pubblicata, ma anche – a fronte – i testi effettivamente pronunciati,
con tutte le integrazioni e varianti desunte dalla trascrizione delle registrazioni
conservate alla Radio Vaticana. Inoltre vengono riprodotti integralmente l’agenda
e il block-notes autografi del pontificato, con la loro minuziosa trascrizione e un
ampio corredo di note: si può così penetrare nella dinamica della preparazione
degli interventi del Papa.
GIOVANNI PAOLO I

Nella trascrizione della registrazione custodita alla Radio Vaticana


ritroviamo invece tutta la spontaneità di papa Luciani. Ascoltiamone
qualche brano: «Qui vedo il cardinal Felici. Con la sua solita amabili-
tà, prima che finisse lo scrutinio è venuto, perché era appena davanti
a me, e ha detto: “Messaggio per il nuovo Papa”. “Grazie”, ho det-
to io, ma non ero ancora fatto. Ho aperto. Cosa c’era? Una piccola
Via Crucis. Quella è la strada dei papi, però nella Via Crucis uno dei
personaggi è anche il Cireneo. Spero che i miei confratelli cardi-
nali aiuteranno questo povero cristo, Vicario di Cristo, a portare la
croce con la loro collaborazione, di cui io sento tanto bisogno… Al
Concilio abbiamo tentato di dare con frasi bibliche una qualche idea
della Chiesa, “vigna di Cristo, famiglia, gregge del Signore, popolo
di Dio” ecc. Nessuno che io sappia ha osato dire – non sarebbe sta-
287
to biblico – che la Chiesa è anche, almeno nella sua organizzazione
esterna, un orologio che, con le sue lancette, segna al mondo certe
direttive. Può essere detta anche così: ma allora quelli che silenzio-
samente danno ogni giorno la carica, ricaricano, sono quelli della
Congregazione, un lavoro umile, nascosto, però molto prezioso, che
va apprezzato, del quale io sono del tutto ignorante, proprio devo
dire… La prima roba che ho fatto, appena fatto papa – ho avuto un
po’ di tempo – prendere in mano l’annuario, studiarlo un po’… gli
organismi della Santa Sede, tanto sono ignorante e distante dal co-
noscere bene gli ingranaggi della Santa Sede. Spero che mi aiutiate».
E dopo aver letto alla fine il testo ufficiale della benedizione aposto-
lica: «In nome di Cristo imparto... le primizie della mia propiziatrice
Apostolica Benedizione», papa Luciani non può trattenersi dal com-
mentare: «Un po’ aulico il linguaggio. Abbiate pazienza! Devo dare
la benedizione? Sit nomen Domini benedictum…».
Sulla morte inattesa di papa Luciani e sulle sue cause è stato
scritto molto. Non ci dilungheremo. I sospetti e la confusione sono
stati in realtà favoriti dall’improvvida decisione delle autorità della
Segreteria di Stato – prese di sorpresa dagli eventi la mattina del
29 settembre – di dare, nel comunicato ufficiale della Sala Stampa,
una versione non vera. Vi si diceva che il Papa era stato trovato
morto dal segretario particolare, p. John Magee. Invece era stato
trovato da suor Vincenza Taffarel, accompagnata da suor Mar-
gherita Marin, preoccupate perché il Papa non era ancora andato
VITA DELLA CHIESA

a pregare in cappella all’ora solita, poco dopo le 5 del mattino. Il


Papa era nel suo letto, con ancora fra le mani i fogli che leggeva,
in atteggiamento composto e con un leggero sorriso, stroncato la
sera prima da morte del tutto subitanea. Ai monsignori era però
sembrato sconveniente dire che il Papa morto fosse stato trovato
da due suore entrate nella sua camera, e avevano loro imposto di
attenersi alla versione ufficiale.

QUANDO PARLA DI SÉ COME «POLVERE», LUCIANI


NON MANIFESTA UN ATTEGGIAMENTO AFFETTATO
O ARTIFICIOSO. È PROPRIO QUELLO CHE PENSA.

288
In occasione della raccolta della documentazione per la beatifica-
zione, nel 2009 viene finalmente richiesta autorevolmente la testimo-
nianza di suor Margherita Marin, l’unica ancora in vita fra le quattro
suore presenti nell’appartamento papale in quei giorni, e la sua narra-
zione, precisa e limpida, scioglie ogni dubbio. Il racconto della suora
– che è stato poi anche videoregistrato e che tutti possono vedere e
ascoltare – è davvero toccante. La Biografia documentata ricostruisce
con precisione, in modo del tutto esauriente, gli eventi degli ultimi
giorni del Papa e del suo ritrovamento ormai morto, e riporta le di-
chiarazioni del medico, il dottor Renato Buzzonetti, che constata il
decesso e lo considera «morte improvvisa», naturale, istantanea, av-
venuta presumibilmente verso le ore 23 per infarto miocardico acuto.
Si aggiunge anche un’ampia e completa «storia clinica» sulla salute di
papa Luciani nel corso della sua vita fino agli ultimi giorni. In con-
clusione, risulta che la morte improvvisa non era prevedibile12.

Quale santità?

Per concludere, possiamo domandarci quali siano le caratteristi-


che della santità di Albino Luciani.

12. Riteniamo che l’intero capitolo XII della Biografia ex documentis si possa
considerare del tutto affidabile e «definitivo». Ogni ipotesi complottistica o fanta-
siosa sulla morte di papa Luciani può essere tranquillamente archiviata.
GIOVANNI PAOLO I

Fra le virtù risalta certamente l’umiltà. Quando parla di sé come


«polvere», Luciani non manifesta un atteggiamento affettato o arti-
ficioso. È proprio quello che pensa: si riconosce chiamato per grazia
a un servizio più grande di lui. Parlando dei documenti personali
lasciati da papa Luciani, il prefetto dell’Archivio apostolico vaticano,
mons. Sergio Pagano, commentandone l’esiguità rispetto a quelli di
altri personaggi, ha fatto un’osservazione molto eloquente: «Nella
sua innata umiltà, Giovanni Paolo I non pensava affatto di passare
alla storia»13. Quando fu eletto papa, a Vittorio Veneto la gente, che
lo conosceva bene, diceva: «A forza di tirarsi indietro è diventato
papa!». Sull’intensità e fedeltà della sua vita di preghiera, specchio di
una fede vissuta, come pure sulla sua carità verso gli altri, a comin-
ciare dai malati e dai poveri, si potrebbero riportare testimonianze
289
a non finire. Ma non è necessario.
Riteniamo invece importante mettere in luce che la sua testi-
monianza è quella di un sacerdote, e soprattutto di un vescovo,
che vive fino in fondo, giorno dopo giorno, la sua missione, in
umiltà appunto, in povertà e spirito di servizio. Il Concilio Vati-
cano II ha messo in risalto il ministero del vescovo, la sua respon-
sabilità di servizio per il popolo che gli è affidato, in unione con il
papa e nel contesto della collegialità episcopale. Luciani ne è stato
certamente un modello. Parlando ai cardinali che lo hanno eletto
papa, ricorda – con un po’ di nostalgia – il suo servizio in diocesi:
«Il mio lavoro era: ragazzi, operai, malati, visite pastorali. Non
potrò più fare questo lavoro. Ma voi potete farlo. Non dovete però
pensare solo alla vostra diocesi. I vescovi devono pensare anche
alla Chiesa universale»14. Per la fedeltà alla sua missione, Luciani
ha dovuto e saputo soffrire, dimostrando fortezza pur nella sua
naturale timidezza. È un punto su cui ha insistito l’allora cardinale
Ratzinger: «Personalmente sono convintissimo che era un santo.
Per la sua grande bontà, semplicità, umiltà. E per il suo grande co-
raggio. Perché aveva anche il coraggio di dire le cose con grande
chiarezza, anche andando contro le opinioni correnti. E anche per

13. Intervento alla Giornata di studio: «Il magistero di Giovanni Paolo I alla
luce delle carte d’archivio», organizzata dalla Fondazione vaticana Giovanni Paolo I
presso la Pontificia Università Gregoriana, 13 maggio 2022.
14. Giovanni Paolo I, Il Magistero, cit., 72.
VITA DELLA CHIESA

la sua grande cultura di fede. [...] Era un uomo di grande cultura


teologica e di grande senso ed esperienza pastorale»15.
Ma l’aspetto della santità per cui alla fine più ci piace ricordare
Giovanni Paolo I, e che meglio si è manifestato al mondo intero
nel suo brevissimo pontificato, è la gioia vissuta nell’annuncio
del Vangelo, nella sua impareggiabile catechesi diretta a tutti,
a cominciare dai piccoli e dai semplici. Parlandone sulle pagine
di questa rivista, pochi giorni dopo la sua morte, un nostro caro
confratello ebbe a scrivere: «Queste conversazioni piane, alla
portata di tutti, rappresentano il vertice di una vita dedicata per
intero alla contemplazione delle cose divine e all’elaborazione
di un modo di comunicarle che fosse insieme concreto e avvin-
cente. Il richiamo alla gioia e alla serenità cristiana, fatto in un
290
momento che per il Papa non era privo di gravi preoccupazioni,
ci dice che la vita è un dono che va ricevuto con amore e offerto
senza calcoli. Per chi vive nella luce del Signore, non è da poco
poter morire col sorriso sulle labbra»16.
Una vocazione di maestro della fede pienamente realizzata.

15. J. Ratzinger, «Il Signore sceglie la nostra povertà», intervista in 30Giorni,


2003, n. 8-9, 16.
16. V. Fantuzzi, «La catechesi di Giovanni Paolo I», in Civ. Catt. 1978 IV 111.
CHE COS’È LA «PASTORALE»?
Il pensiero dei papi da Giovanni XXIII a Francesco

James Campbell S.I.

Benché oggi la parola «pastorale» sia di uso comune in tutta la


Chiesa, non ne esistono definizioni e c’è molta confusione riguardo
al suo uso e alla sua interpretazione. È da rilevare che, sebbene la
parola sia stata adottata dalla Chiesa in un contesto amministrativo-
291
giuridico, la sua etimologia rinvia alla pastorizia e fa sì che conservi
ancora il contenuto descrittivo più generale di qualità come miseri-
cordia, perdono e altri termini simili, sia nella Chiesa sia nel mondo,
cosa che papa Francesco ha voluto sottolineare1.
In questo articolo cercheremo di individuare il significato del-
la parola «pastorale» secondo l’uso che ne è stato fatto dagli ultimi
pontefici: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto
XVI e Francesco. Prenderemo in considerazione i vari modi in cui
essi hanno adoperato il termine, facendo riferimento, in particolare,
alle loro allocuzioni alla Rota Romana.

Giovanni XXIII: «pastorale» come rinnovamento e apertura al mondo

Nel discorso di apertura del Vaticano II, Giovanni XXIII


espresse il desiderio che il Concilio riformasse la Chiesa, affinché
essa fosse in grado di rispondere ai bisogni spirituali del mondo e

1. Cfr O. Rush, «Toward a Comprehensive Interpretation of the Council


and its Documents», in Theological Studies 73 (2012) 547-569. A proposito dei ter-
mini «pastorale» e «dottrinale», l’autore afferma: «Il Concilio e i suoi documenti
vanno interpretati alla luce dell’orientamento primariamente pastorale che esso si
è dato. Il Vaticano II, nel riformulare la dottrina, mirava a insegnare con parole e
azioni tese a favorire un’appropriazione spirituale più significativa della salvezza e
della rivelazione di Dio da parte del popolo di Dio» (ivi, 553). In questo contesto, il
termine «pastorale» costituisce una riformulazione della dottrina.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 291-298 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


VITA DELLA CHIESA

per il bene delle anime2. Il Papa indisse il Concilio con l’obiettivo di


un «aggiornamento» della Chiesa cattolica, che avrebbe comporta-
to grandi miglioramenti nella sua prassi3.
Pertanto, queste intenzioni di Giovanni XXIII esplicitano la sua
visione del carattere «pastorale» di quell’assemblea ecclesiale. Il Papa
desiderava che essa raggiungesse una più profonda penetrazione del
Vangelo e del mistero della Chiesa, al fine di «adottare quella forma
di esposizione che più corrispondesse al magistero, la cui indole è
prevalentemente pastorale»4.

Paolo VI: «pastorale» come stile di presentazione della dottrina

Dopo la morte di Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo VI,


292
quest’ultimo, nel discorso di apertura al Concilio riunito nell’otto-
bre 19635, ribadì i punti enunciati dal suo predecessore in Gaudet
Mater Ecclesia e vi aggiunse le proprie preoccupazioni, che riguar-
davano il tema del rinnovamento della Chiesa cattolica, il «carattere
pastorale» del Concilio – termine che Giovanni XXIII aveva usato
esplicitamente – e la necessità del dialogo6.
Durante il suo pontificato (1963-78) e dopo la conclusione del
Concilio nel 1965, Paolo VI, a partire dal suo discorso alla Rota del
1966, usò il termine «pastorale» 60 volte in quel genere di discorsi.
In una allocuzione del 1973, vi fece riferimento ben 26 volte, e così
fece capire l’importanza che questo termine aveva per lui.
Dopo una breve introduzione, l’allocuzione del 1973 tratta della
«natura pastorale del diritto della Chiesa»7, e così il termine «pasto-

2. Cfr G. Alberigo, «L’annuncio del concilio. Dalle sicurezze dell’arrocca-


mento al fascino della ricerca», in A. Melloni (ed.), Storia del concilio Vaticano II,
vol. 1, Bologna, il Mulino, 1995, 19-70.
3. Cfr ivi.
4. Giovanni XXIII, s., Discorso nella solenne apertura del Concilio Ecumenico
Vaticano II, 11 ottobre 1962 (discorso noto come Gaudet Mater Ecclesia); il corsivo è
nostro.
5. Cfr Paolo VI, s., Solenne inizio della seconda sessione del Concilio Ecume-
nico Vaticano II, 29 settembre 1963.
6. Cfr A. Melloni (ed.), Storia del concilio Vaticano II, vol. 3, Bologna, il
Mulino, 2013.
7. Paolo VI, s., Discorso al Tribunale della Sacra Romana Rota per l’apertura
del nuovo anno giudiziario, 8 febbraio 1973. Cfr M. Amen, «Canonical Equity Befo-
CHE COS’È LA PASTORALE?

rale» diventa l’oggetto stesso del discorso. Il Papa lo introduce af-


fermando che «il diritto canonico così appare non solamente come
norma di vita e regola pastorale, ma altresì come scuola di giustizia,
di discrezione e di carità operante». Dichiara che il diritto «riflette
ancor più quella aequitas canonica che è frutto della vostra carità pa-
storale e costituisce una delle sue più delicate espressioni». In seguito
il termine «pastorale» ricorre in un sottotitolo: «Natura pastorale del
diritto nella Chiesa». Il primo paragrafo di quella sezione contiene
l’affermazione che «il diritto canonico è per la sua natura pastorale».
Inoltre, lo stile o approccio caratteristico «pastorale» suggerisce di
non accentuare «il rigore del diritto, la rigidità della sua espressione
tecnica», perché al giudice viene chiesto di evitarli e di preferire piut-
tosto l’equità e la carità. Con questa carità egli dovrà anche evitare «che
293
la lettera [della legge] uccida». E, per ispirare questo stile di servizio,
viene indicato un riferimento allo Spirito Santo. Sembra che il Papa
voglia qui sconsigliare ai giudici l’applicazione rigoristica della legge.
Infatti, se è vero che le esigenze della giustizia «impongono talvol-
ta al giudice il dovere di applicare la legge più severamente», d’altra
parte «ordinariamente [lo] portano ad esercitare il diritto in maniera
più umana, più comprensiva». Paolo VI quindi sostiene che la legge
debba essere applicata con severità, ma che questo debba avvenire in
casi straordinari e che comunque ci si debba lasciare guidare dalla
compassione. Pertanto, si potrebbe dire che l’approccio «pastorale» si
identifichi con l’applicazione della legge secondo un certo «stile».
Nell’allocuzione papale del 1973 non si fa cenno a deviazioni o
a deroghe riguardo all’approccio giuridico: ci si riferisce soltanto a
come debba essere applicata la legge. Va anche osservato che, se da
una parte si dà risalto alla carità e all’equità, dall’altra vengono sotto-
lineati anche l’autorità, la dottrina e il diritto.

Giovanni Paolo II: «pastorale» come minaccia alla dottrina

Per quanto riguarda le allocuzioni di Giovanni Paolo II alla


Rota Romana, c’è da tener presente che egli aveva ereditato dal suo

re the Code», in Jurist 33 (1973) 1-25, dove l’autore discute il significato e il rilievo
della aequitas canonica nella prospettiva storica.
VITA DELLA CHIESA

predecessore il compito di attuare le decisioni del Concilio e quello


della revisione finale del nuovo Codice di diritto canonico. Questo
fu promulgato nel 1983, e fu da lui definito «l’ultimo importante
documento del Concilio»8.
Tuttavia, dopo il Concilio e il completamento della revisione
del Codice, vi fu nella Chiesa un interregno in cui il diritto entrò
in crisi ed emerse una forma di antinomismo che voleva sostituire il
legalismo del Codice esistente9. Di conseguenza vennero proposte e
attuate soluzioni «pastorali» ai problemi canonici. Ciò fece da sfon-
do alle allocuzioni papali, nelle quali il termine «pastorale» veniva
adoperato e commentato dal Papa nel contesto di un dibattito sulla
continuità e il cambiamento10.
Nel suo discorso alla Rota Romana del 1990, Giovanni Paolo
294
II si preoccupa «della dimensione pastorale del diritto canonico e,
in altri termini, dei rapporti fra pastorale e diritto nella Chiesa»11.
È interessante notare come il Papa qui non faccia alcun riferimento
alla Costituzione pastorale del Concilio Gaudium et spes, ma solo
alla Costituzione dogmatica Lumen gentium.
Giovanni Paolo II rivolge uno sguardo critico a «una distorsio-
ne» che condiziona la visione della «pastoralità» del diritto canonico
e della dottrina su cui essa si fonda: «attribuire portata ed intenti
pastorali unicamente a quegli aspetti di moderazione e di umani-
tà che sono immediatamente collegabili con l’aequitas canonica». Il
Papa sottolinea che il fatto di concentrarsi soltanto sulle eccezioni
alla legge, sull’eventuale non ricorso ai processi e alle sanzioni ca-
noniche e sullo snellimento delle formalità giuridiche costituisce
un travisamento della «rilevanza pastorale», perché così si dimentica
proprio ciò che è «pastorale», ossia che «le norme generali, i proces-
si, le sanzioni e le altre manifestazioni tipiche della giuridicità […]
sono [...] realtà intrinsecamente pastorali».

8. Giovanni Paolo II, s., Messaggio in occasione del V Congresso internazio-


nale di studio sul diritto canonico, 10 agosto 1984.
9. Cfr C. Donahue Jr., «A Crisis of Law? Reflections on the Church and
Law over the Centuries», in Jurist 65 (2005) 22.
10. Cfr J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e
Pensiero, 2010.
11. Giovanni Paolo II, s., Discorso agli officiali e avvocati del Tribunale della
Rota Romana, 18 gennaio 1990.
CHE COS’È LA PASTORALE?

Giovanni Paolo II ritiene che gli aspetti «pastorali», dottrinali


e giuridici del diritto canonico siano stati disgiunti, e che ciò sia
deplorevole. Dichiara infatti che «vanno tenute presenti ed appli-
cate le tante manifestazioni di quella flessibilità che, proprio per
ragioni pastorali, ha sempre contraddistinto il diritto canonico.
Ma vanno altresì rispettate le esigenze della giustizia, che da quel-
la flessibilità possono venir superate, ma mai negate». Il Papa affer-
ma anche che «la vera giustizia nella Chiesa, animata dalla carità
e temperata dall’equità, merita sempre l’attributo qualificativo di
pastorale», e che «non può esserci un esercizio di autentica carità
pastorale che non tenga conto anzitutto della giustizia pastorale».
Giovanni Paolo II poi introduce una nuova espressione ibrida
riguardo alle norme sul matrimonio: esse «possiedono una loro rile-
295
vanza giuridico-pastorale». In questo modo collega ancora una vol-
ta la dimensione «pastorale» a quella giuridica del diritto canonico.
Da questo discorso possiamo dedurre che Giovanni Paolo II pen-
sava che il termine «pastorale» avesse assunto un significato che a suo
giudizio non doveva avere, cioè che venisse usato come se fosse equi-
valente alla dottrina, e che in certe circostanze potesse addirittura sca-
valcarla. Il Papa si opponeva con forza a tale tendenza, perché, a suo
avviso, la «pastorale» rappresentava una minaccia per la dottrina e per
il diritto, e soprattutto perché si era arrivati a percepirla come dotata di
un proprio contenuto teologico strategico.

Benedetto XVI: «pastorale» come ermeneutica

Nel discorso alla Rota Romana del 2012, Benedetto XVI


usa due volte il termine «pastorale», in modo da suggerirne una
nuova interpretazione. Egli afferma che «sono state proposte
delle vie ermeneutiche che consentono un approccio più con-
sono con le basi teologiche e gli intenti anche pastorali della
norma canonica»12 . Il Papa ne parla a causa delle recenti «cor-
renti di pensiero [che] hanno messo in guardia contro l’eccessivo
attaccamento alle leggi della Chiesa, a cominciare dai Codici,

12. Benedetto XVI, Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudi-


ziario del Tribunale della Rota Romana, 21 gennaio 2012.
VITA DELLA CHIESA

giudicandolo, per l’appunto, una manifestazione di legalismo».


Benedetto XVI riconosce i diversi modi in cui viene usato il
termine «pastorale», ossia in modo ermeneutico e non solo in
riferimento ai pastori, come egli stesso e il suo immediato pre-
decessore avevano fatto. Non fa alcun riferimento al modo in cui
Giovanni XXIII aveva concepito questo termine.

Francesco e l’«urgenza pastorale»

Papa Francesco inizia il suo discorso alla Rota Romana del 2014
affermando che la dimensione giuridica e quella pastorale del mini-
stero della Chiesa «non sono in contrapposizione»13.
Nell’allocuzione alla Rota Romana del 2016 usa due volte il
296
termine «pastorale». La prima volta per riferirsi all’«atteggiamento
spirituale e pastorale» della Rota riguardo alla famiglia e al con-
cetto di famiglia che la Chiesa ha sviluppato nel recente Sinodo
su di essa. La seconda volta il Papa ricorre all’espressione «ur-
genza pastorale», che fa riferimento alle strutture della Chiesa
coinvolte in un nuovo catecumenato per quanto riguarda la pre-
parazione al matrimonio14. Nella prima occorrenza, il termine
«pastorale» è legato anche alla misericordia, all’«amore miseri-
cordioso di Dio verso le famiglie» e, in particolare, verso «quelle
ferite dal peccato e dalle prove della vita». Nella seconda occor-
renza, il termine si riferisce alle strutture della Chiesa, chiamate
a un impegno comune per quanto riguarda la preparazione al
matrimonio. In entrambi i casi si rimanda al lavoro dei pastori e
non al significato qualitativo del termine, che il Papa introduce
con il riferimento alla «misericordia».
L’uso che Francesco fa del termine «pastorale» nelle sue allo-
cuzioni alla Rota Romana esprime un’interpretazione che appro-
fondisce quella di Giovanni XXIII e della Gaudium et spes, senza
limitarsi a considerarlo uno dei doveri dei pastori.

13. Francesco, Discorso al Tribunale della Rota Romana per l’inaugurazione


dell’anno giudiziario, 24 gennaio 2014.
14. Cfr Id., Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tri-
bunale della Rota Romana, 22 gennaio 2016.
CHE COS’È LA PASTORALE?

«Pastorale» senza significato fisso

Finora abbiamo visto che, a partire da Giovanni XIII e fino a


oggi, il termine «pastorale» non è stato usato dai papi in modo uni-
voco, ma come vocabolo polisemico, perché il suo significato spa-
zia dal referenziale al descrittivo, dal qualitativo all’ermeneutico. In
quanto tale, esso ormai fa parte del linguaggio dei dibattiti eccle-
siali, e il suo significato non è fisso. Quindi, può essere usato come
un termine qualitativo per parlare di misericordia, perdono, com-
passione e così via, ma anche per riferirsi ai doveri dei pastori. Per il
professore di diritto Jeremy Waldron, è importante tale possibilità,
perché indica che il termine «pastorale» ha un valore aggiunto, alla
stregua di parole come «libertà» o «dignità»15.
297

IL TERMINE «PASTORALE» NON È STATO USATO


DAI PAPI IN MODO UNIVOCO, MA COME VOCABOLO
POLISEMICO.

Si può dire che nel discorso ecclesiale il termine «pastorale» ha


un valore funzionale più che un significato univoco. In questo caso,
«pastorale» nel suo senso qualitativo compete con «pastorale» inteso
come doveri dei pastori.
Questo termine ha anche una «funzione istituzionale», in quan-
to alla natura «pastorale» della Chiesa ci si è riferiti prima, durante e
dopo il Concilio Vaticano II, e il suo significato è ancora in fase di
elaborazione da parte della Chiesa.
Il termine «pastorale» inoltre ha una «funzione concettuale»,
perché racchiude in sé qualità e aspettative che la Chiesa intende
promuovere. Ad esso «come concetto» possono ricorrere fruitori di-
versi, anche se non intendono necessariamente le stesse cose.
Questo termine può facilitare un dialogo permanente con
persone che desiderano dare un contributo alla Chiesa: ad esem-

15. Cfr C. McCrudden (ed.), Understanding Human Dignity, Oxford, Oxford


University Press, 2013, 13, nota 42.
VITA DELLA CHIESA

pio, facendo appello a soluzioni «pastorali» per soddisfare bisogni


«pastorali»16.
Inoltre, nella Chiesa il termine «pastorale» nel suo senso qualita-
tivo si presta a usi diversi. In primo luogo, può essere assunto «come
una bandiera» sotto la quale gruppi o persone chiedono misericor-
dia, perdono, compassione ecc., permettendo così di soddisfare i
loro bisogni, specialmente quando la dottrina e la legge non vi ri-
escono. In secondo luogo, viene usato «come concetto fondamen-
tale» riguardo al modo in cui la Chiesa deve trattare con le persone
e svolgere la sua missione, perché esprime ciò che di meglio c’è in
essa. Infine, è il termine a cui si ricorre quando una determinata
questione non viene risolta dalla dottrina e dal diritto in modo sod-
disfacente, e allora si propugna una «soluzione pastorale».
298
Il termine «pastorale» può essere inteso anche come «un veicolo
per cercare di ottenere consenso», in caso di disaccordi. Quindi,
esso può facilitare il dialogo, in quanto fa appello alla misericor-
dia, alla compassione e al perdono, ossia a desideri e aspirazioni che
dovrebbero far parte del nucleo stesso della missione della Chiesa e
prevalere persino sulla dottrina e sul diritto. Il termine «pastorale»
può anche non fornire una risposta, ma il richiamo a esso può crea-
re le condizioni per cercare di trovarne una, o quantomeno per ac-
cogliere valori e diritti in conflitto – il senso qualitativo del termine
e i doveri dei pastori, quando divergono tra loro –, e pertanto ha
una «funzione integrativa».

16. Cfr B. Schlink, «The Concept of Human Dignity: Current Usages, Fu-
ture Discourses», in C. McCrudden (ed.), Understanding Human Dignity, cit., 635.
ALONSO DE BARZANA
«Il Francesco Saverio delle Indie occidentali»

Wenceslao Soto Artuñedo S.I.

P. Alonso de Barzana fu uno dei primi missionari gesuiti in


Sudamerica, in particolare a Tucumán (Argentina). Gli echi della
sua attività raggiunsero p. Jorge Bergoglio nel corso della sua per-
manenza in quella zona, e lui, una volta divenuto papa Francesco,
299
ha incoraggiato la ricerca storica, che ha reso possibile dichiarare
Alonso venerabile nel dicembre 20171.

La tappa spagnola (1530-1569)

Alonso nacque a Belinchón (Cuenca, Spagna) verso il 1530, pri-


mogenito di una famiglia di origine ebrea, composta dal padre (me-
dico itinerante), dalla madre, da due sorelle e da un altro fratello. A
causa della professione del padre, ebbe un’infanzia itinerante. Dopo
la morte del padre, avvenuta ad Alcaudete (Jaén), la famiglia si stabilì
a Baeza, quando Alonso aveva circa 15 anni. «Vestiva un abito molto
bello, dignitoso e pregiato; voleva farsi notare ed essere conosciuto,
come di fatto lo era dovunque fosse, in quanto era di carattere buono,
con una corporatura ben proporzionata, e con un viso così piacevole
e sereno che lo rendeva amabile. Era abile, discreto, misurato e for-
male, pronto agli scherzi e ai divertimenti, che erano le sue più grandi
marachelle. Altre non ho saputo né ho sentito che ne avesse fatte»2.

1. Cfr W. Soto Artuñedo, «Alonso de Barzana, S.I. Apóstol de Andalucía


y Sudamérica», in Archivo Teológico Granadino 79 (2016) 5-130; Id., «El deseo de
las Indias: las cartas indípetas de Alonso de Barzana SJ (1530–1597)», in Archivum
Historicum Societatis Iesu 85/170 (2016) 405-444; Id., Alonso de Barzana, SJ (1530-
1597), el Javier de las Indias Occidentales: vida y obra, Bilbao, Mensajero, 2018.
2. J. Baptista, «Iznatoraf ( Jaén), 18 dicembre 1608», in Archivio Romano del-
la Compagnia di Gesù [Arsi], Hist. Soc. 177, t. 2, ff. 309-310, «Vocationes Illustres».

© La Civiltà Cattolica 2022 III 299-311 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


PROFILO

1. Alla scuola di san Giovanni d’Ávila

A Baeza (Jaén) Alonso entrò in contatto con i discepoli di san


Giovanni d’Ávila, in particolare con il professore Bernardino de
Carleval, docente e rettore dell’università. Ascoltando un suo ser-
mone, ebbe una conversione così radicale che passò i sette anni
successivi tra digiuni e mortificazioni. Entrò nella scuola di san
Giovanni d’Ávila, che era caratterizzata dallo zelo apostolico nel
contesto della riforma della Chiesa, da una vita austera, da una soli-
da spiritualità e dalla guida di san Giovanni. Sembra che il maestro
avesse pensato di fondare una congregazione, ma, vedendola già
realizzata da sant’Ignazio, rinunciò al progetto e orientò verso la
Compagnia un buon numero dei suoi discepoli. Quanto a lui, pur
300 non essendo entrato nella Compagnia, chiese di essere sepolto nel
collegio dei gesuiti a Montilla (Córdoba).
Mentre studiava, Alonso svolgeva anche la funzione di precettore del
figlio di don Luis Chacón, per poter mantenere la famiglia. Ricordiamo le
tappe del suo curriculum accademico: nel 1547 si iscrisse al corso di gram-
matica di Juan Giménez, al livello più alto; nel 1548 incominciò a studiare
filosofia; nel 1551 divenne baccelliere nelle arti; nel 1555, licenziato nelle
arti; nel 1558, maestro delle arti; nel 1557, baccelliere in teologia3.
In seguito entrò a far parte del corpo docente dell’università di
Baeza, dal 1559 al 1562. Ci aiuta a cogliere l’ambiente universitario
di quella città un interessante verbale del collegio dei docenti, data-
to 23 febbraio 1560, in cui i professori «ordinavano che d’ora in poi
qualsiasi studente, iscritto o non iscritto, che ascolti le lezioni all’u-
niversità non si dia al gioco e non tenga bisca in casa, né entri nelle
case da gioco, né si fermi a guardare chi gioca e, se sapesse di stu-
denti che lo fanno, venga a riferirlo; e non esca di notte con armi,
né le introduca in questa università; se ciò verrà accertato dal rettore
e dai docenti, la punizione sarà di non essere ammesso alle lezioni
e all’iscrizione in questa università; e inoltre, se uscisse di notte con
armi o le introducesse nella scuola, oltre alla punizione di cui sopra,
le armi che avesse introdotto verranno sequestrate dal rettore»4.

3. Cfr Archivo Universidad Baeza (Aub), Libro de Grados, n. 1, dal 9 set-


tembre 1549 al 20 giugno 1580.
4. Aub, Libro y Memorial del claustro, f. 7v.
ALONSO DE BARZANA, «IL FRANCESCO SAVERIO DELLE INDIE OCCIDENTALI»

Dal 1554 Alonso percorse le province di Jaén e di Córdoba, cri-


ticando i vizi ed elogiando le virtù, nello stile missionario di san
Giovanni d’Ávila. «Cominciò nei giorni festivi ad andare per le
strade con un Cristo in mano, e altre volte suonando una campa-
nella, e istruiva i bambini nella dottrina cristiana, radunando gran-
de concorso di folla, a cui rivolgeva discorsi spirituali meravigliosi.
Era ascoltato sempre con molto piacere, e con profitto di tutti»5.
Alonso aveva una particolare predilezione per la città di Iznatoraf,
provincia di Jaén, che fu il suo laboratorio di pastorale a partire dal
1554, un anno prima della sua ordinazione presbiterale a Granada. Vi
operò molto e vi subì anche una grave aggressione nel 1556, dopo
aver convinto una cittadina, nipote di un ricco del paese, a confessare
pubblicamente di avere diffamato un’altra donna facendola passare per
301
mezzana. Lo zio di quella donna, Lucas González, che aveva interpre-
tato questo fatto come un’offesa arrecata alla sua famiglia, «un giorno
del mese di agosto […], animato da spirito diabolico, sgravati gli ani-
mali che il suo garzone portava carichi di raccolto, prese il bastone, di
solito destinato a questa mansione, e andò a cercarlo alla cappella di
San Cristoforo, dove lo trovò in preghiera […] e, trovandolo così ben
occupato, lo colpì, a mo’ di saluto, con una bastonata, e poi con molte
altre, mentre diceva: “Va’ a lavorare, sfaticato, ché io ho 6.000 ducati e,
guarda un po’, vengo qui e ti trovo all’ombra”, e come unica reazione
quello replicò con grande gioia: “Così sia per l’amore di Dio”; e Lucas
González, bastonandolo, diceva: “E per l’amor di Dio te le suono io”,
fino a lasciarlo molto malconcio e frastornato e con un braccio rot-
to in due parti. Quando uscì dalla cappella, González s’imbatté in un
brav’uomo di nome Parra, che era lì seduto, e gli disse: “Anche tu sei
della cricca di quell’illuminato?”, e, dandogli quattro forti bastonate,
gli ripeté quello che aveva già detto al maestro: “Andate a lavorare,
sfaticati!”. Il chiasso arrivò al luogo dove mi trovavo, e allora andai a
vedere che cosa fosse accaduto al maestro Barçena. E il suddetto Lucas
Gonçalez, vedendomi venire, mi disse: “Vieni qui, cristiano da cam-
panella, guarda com’è ridotto questo bastone con cui le ha appena suo-
nate al tuo padrone”, e aveva con sé quel legno incrinato. Io, siccome

5. Archivum Romanum Societatis Iesu (Arsi), Historia Societatis, 177, 2,


309 s.
PROFILO

né ora né allora sono mai stato pronto a ricevere tanta misericordia, mi


scansai e mi protessi, e poi la gente venne alla cappella e lo presero in
due, sostenendolo, come potevano, dalle braccia e dal corpo»6.
Quando il vicario gli propose di denunciare l’aggressore e di
chiedergli un risarcimento, Alfonso non volle assolutamente farlo,
sostenendo che quelle botte se le era meritate, sicché avrebbe dovuto
piuttosto ringraziarlo. Poiché il vicario insisteva perché cercasse di
ottenere del denaro per la sua famiglia povera, si spaventò: «Gesù
Signore, soldi per le botte! Io non devo chiedere proprio niente».
A Jaén, Alonso ebbe un’altra esperienza di tipo diverso: «Una
signora rinomata, ricca e avvenente, di famiglia illustre, cominciò
a seguire le sue prediche con tanta assiduità che a lui parve che lo
amasse più del giusto. Cominciò a ritirarsi e non voleva parlarle se
302
non solo in chiesa, con molto ritegno. In effetti, da parte di quella
donna si evidenziò un amore carnale, e gli offriva la sua persona,
regali e possedimenti. A tutto ciò lui resisteva e la respingeva, one-
sto com’era, cercando di disilluderla, e lei, tanto bella quanto stolta,
vedendo la sua fermezza e integrità, gli disse: “Be’, è chiaro che siete
giovane, perché non cogliete l’occasione e la misericordia che no-
stro Signore vi offre”. E con questo Dio lo liberò»7.

2. Nella Compagnia di Gesù

Nel 1552, quando lesse le lettere di san Francesco Saverio, Alonso


decise di farsi gesuita per andare in missione, ma san Giovanni d’Ávila
lo trattenne a causa dell’impegno familiare che incombeva su di lui,
dato che era il figlio maggiore. Infine venne ammesso nella Compa-
gnia di Gesù, a Córdoba nel 1566, e da qui passò a Siviglia, nella casa
che ospitava il noviziato e una scuola in cui aveva studiato Miguel de
Cervantes. Il suo maestro dei novizi era il converso Francisco Vázquez.
Nel noviziato vivevano 70 gesuiti, i quali dovettero affrontare
un’epidemia scoppiata in città nel 1568. Dopo il primo anno di no-
viziato, quando stava per pronunciare i primi voti, poiché era già
sacerdote Alonso venne destinato a predicare e a confessare, prima

6. Ivi.
7. Ivi.
ALONSO DE BARZANA, «IL FRANCESCO SAVERIO DELLE INDIE OCCIDENTALI»

di essere inviato a Granada, dove c’era bisogno di predicatori. Nel


1567 tenne la predica nell’inaugurazione della comunità gesuita di
Marchena (Siviglia).
Due mesi dopo l’ingresso in noviziato, Alonso scrisse al Preposito
generale dei gesuiti, Francesco Borgia, chiedendogli di poter andare
in missione. Non ricevendo risposta, continuò a scrivergli altre quat-
tro lettere. Questo tipo di lettere è noto come letterae indipetae («let-
tere che chiedono le Indie»), e le successive al 1580 sono conservate
in una specifica raccolta presso l’Archivio Romano della Compagnia
di Gesù. Le sue lettere sono piene di umiltà: «È vero che, essendo
come sono, ciò mi sgomenta e mi impaurisce, perché questa impresa
richiede una tempra diversa dalla mia […]. Per quel che mi riguarda,
quanto a virtù, preghiera eccetera, è tutto carenza e miseria; confido
303
in nostro Signore che, se per sua grazia mi manderà a tale impresa,
mi darà ciò che non ho ed è necessario. […] Ebbene vedo, e mi viene
da svenire al pensarci, che queste cose non vengono offerte se non a
persone molto mature e provate nelle virtù, e non a novizi come me.
Vedo che la mia capacità è nulla per una simile impresa […]. Io sono
la feccia di tutti quelli che possono andarci»8.
Alonso esprime con accenti saveriani il desiderio di evangelizzare
coloro che non conoscono Cristo: «Vivere tra i miei padri e fratelli di
Siviglia mi sembra un paradiso; amo tutti, tutti mi amano, e ciò nono-
stante, quando penso a tante anime che si perdono senza aver sentito
la Buona Notizia di Gesù Cristo, insegnare a persone tanto dotte mi
sembra una perdita di tempo […]. Che cosa fai a seminare in terre già
seminate tante volte? […] Perché fai una vita così tranquilla, quando ti
aspettano tanti lavori? Perché passare la vita, così breve, crogiolandoti
a Siviglia, quando nel mondo ci sono tanti luoghi assai bisognosi?»9.
Francesco Borgia non rispose alle sue lettere, ma prese nota e,
quando Filippo II gli chiese una seconda spedizione di gesuiti nel
vicereame del Perù, che sarebbe partita nella primavera del 1569

8. «Carta de Barzana a Borja», Siviglia, 26 maggio 1566, in Arsi, Hisp. 103,


210-211v.; Instituto Historico Societatis Iesu, Monumenta Peruana (Mon. Per.)
(1565-1604), a cura di A. Egaña, 8 voll., Roma 1954-1981, I, 83-85.
9. «Carta de Barzana a Borja», Siviglia, 25 settembre 1567, in Arsi, Hisp. 107,
51.
PROFILO

con il viceré Francisco de Toledo, pensò a Barzana come sostituto


di p. Martín Gutiérrez, che non vi poteva andare.
E così Alonso salpò, con una spedizione di 12 gesuiti, da Sanlúcar
de Barrameda (Cadice) il 19 marzo 1569. Fu una traversata lun-
ga e faticosa, nella quale i gesuiti viaggiarono distribuiti in varie
navi della flotta. Una di esse doveva continuamente essere svuotata
dall’acqua; un’altra navigò senza timone, miracolosamente protetta
dalla reliquia di un lignum crucis che un fratello gesuita aveva con
sé. Passarono da San Sebastián de la Gomera (Isole Canarie), e da lì
si diressero all’Isola Martinica (Antille, oggi fa parte della Francia)
e a Santa Marta (Colombia), per giungere infine a Cartagena de
Indias (Colombia).
Una seconda navigazione condusse Barzana fino a Nombre de
304
Dios (Panama), dove uno dei gesuiti morì, e lui si ammalò. Da qui
attraversarono a piedi l’istmo, per intraprendere una terza traversata
dalla città di Panama fino al porto di Callao (Perù), dove arrivarono
l’8 novembre. Giunsero a Lima dopo otto mesi di viaggio.

La tappa americana (1569-97)

In America Barzana compì un tragitto di circa 20.000 chilome-


tri, percorrendo l’importante via di comunicazione che va da Lima
verso sud, in quattro tappe: Perù, Bolivia, Argentina, Paraguay.

1. Perù (1569-79)

A Lima, Alonso cominciò a predicare in quechua, che aveva ap-


preso nel corso del viaggio, ed ebbe occasione di discutere questioni
teologiche con Francisco de la Cruz, al quale predisse che sarebbe
stato condannato come eretico dall’Inquisizione, cosa che poi accad-
de realmente nel 1578. In Perù, il metodo ideato per l’evangelizzazio-
ne degli indios prevedeva di concentrarli in doctrinas10, o parrocchie,
a loro riservate, ma i gesuiti erano riluttanti a farsene carico, perché

10. Nell’epoca della Conquista spagnola, le doctrinas erano affidamenti di


gruppi di indios a un missionario, incaricato di catechizzarli. È più o meno l’equiva-
lente religioso di ciò che per i coloni spagnoli erano le encomiendas, di cui si parlerà
più avanti.
ALONSO DE BARZANA, «IL FRANCESCO SAVERIO DELLE INDIE OCCIDENTALI»

ciò andava contro la povertà prescritta dalle Costituzioni (avrebbero


ricevuto un salario e degli stipendi) e contro la disponibilità e la mo-
bilità, per l’obbligo connesso a un incarico parrocchiale. Ciò nono-
stante, essi accettarono temporaneamente la parrocchia di Huarochirí
(1570-73), una circoscrizione estesa con 77 piccoli centri abitati, inca-
stonata nella zona più impervia della cordigliera andina, e fu questa
la prima destinazione di Barzana fuori Lima. I gesuiti deplorarono
l’ubriachezza e i culti pagani, e adattarono canti religiosi in quechua
e danze rituali, a cui diedero un contenuto cristiano. Alonso si occu-
pava di andare a cercare le tribù di indios disperse nella zona.
I gesuiti si fecero carico di un’altra doctrina a titolo definitivo: quella
creata nel 1570 a Santiago del Cercado, che era un villaggio di indios
vicino a Lima, recintato per isolare e proteggere gli indios. In occasio-
305
ne dell’inaugurazione, Barzana predicò in quechua. Ma 10 mesi dopo
fu inviato a Lima per sostituire il superiore della comunità. Arrivò a
Cuzco, nello stesso momento in cui l’inca Túpac Amaru veniva cat-
turato da Martín García Oñez de Loyola, pronipote di sant’Ignazio, e
condannato a morte dal viceré per ribellione. Poiché conosceva il que-
chua, Barzana venne incaricato di catechizzare il detenuto, in modo
che potesse essere battezzato prima di morire. Barzana e altri chiesero
invano che la pena venisse commutata, ma infine ci fu l’esecuzione.
Alonso poi continuò il suo apostolato itinerante, e così nel 1573
si recò ad Arequipa (Perù) e sul lago Titicaca, dove imparò l’aymara.
Nel 1574 fu a La Paz e a Potosí (Bolivia), e nel 1575 tornò a Lima per
partecipare alla Congregazione provinciale dei gesuiti e per formulare
gli ultimi voti. In quella Congregazione vennero adottate le seguenti
strategie per l’evangelizzazione degli indios: 1) Accettare il ruolo di
parroci nelle doctrinas; ma, viste le difficoltà, vennero concordate varie
prassi, tra cui quella di chiedere al Preposito generale la dispensa, per
la provincia peruviana, dall’osservanza alle Costituzioni in ciò che era
incompatibile con le parrocchie delle doctrinas. 2) Svolgere missioni
tra gli indios, risiedere dove ce n’erano molti, come a Potosí, e aprire
scuole per i figli dei capi (caciques). 3) Si stabilì di scrivere in quechua
un breve catechismo per gli «incolti», che tutti avrebbero imparato
a memoria, e un altro più dettagliato, nonché una grammatica, e la
Congregazione affidò questi compiti a Barzana.
PROFILO

Conclusa la Congregazione, Barzana tornò al lago Titicaca (1576)


e partecipò alla fondazione del collegio di Cuzco (1576) e all’avvio del-
la doctrina di Juli, pur continuando a operare nei paesi vicini al lago.
Questa missione ebbe un’importanza decisiva per Alonso, in quanto
finì per diventare il laboratorio sperimentale di quello straordinario
metodo missionario che si sarebbe affermato nelle Riduzioni del Pa-
raguay. Diego de Torres Bollo, superiore della comunità di Juli, fu il
primo provinciale del Paraguay e introdusse nel Paese tale metodo.
Barzana partecipò anche alla prima fondazione di Arequipa (1578), che
per un certo tempo venne chiusa dal viceré, avverso ai gesuiti.

2. Bolivia: La Paz, Charcas, Potosí (1580-85)


306
Tornato a Juli (1579), Alonso fu uno dei fondatori del collegio di La
Paz (1582). In quello stesso anno venne inviato al collegio di Potosí che,
pur essendo stato appena fondato, si era guadagnato una buona fama
per la formazione umana e spirituale che offriva agli studenti. Vi fu an-
che nominato docente delle lingue quechua, aymara e puquina (1583-
85), con il compito di insegnarle e di verificare che i parroci degli indios
avessero una preparazione sufficiente. Ma rinunciò a questo incarico
– sovvenzionato dalla Corona spagnola –, perché riceveva pressioni per
promuovere chi non lo meritava.

3. Argentina: Tucumán e Chaco (1586-93)

Nel 1586 Barzana fu uno dei primi gesuiti a entrare nel nord dell’Ar-
gentina, nel governatorato di Tucumán: Santiago del Estero, Talavera
de Esteco e Córdoba. Qui si era diffusa l’istituzione dell’encomienda
degli indios ai coloni spagnoli: i primi dovevano pagare all’encomendero
un tributo in denaro o in lavoro per riceverne in cambio assistenza e
protezione. All’inizio questo sembrava una buona cosa, ma poi aveva
prodotto abusi e aveva finito per diventare una forma di sottomissione
e di sfruttamento degli indios. Inoltre, quelle erano zone di frontiera,
e spesso venivano inviate spedizioni armate nei territori degli indios
per procurarsi manodopera. Per tutti questi motivi gli evangelizzatori
iniziarono a prendere le distanze dagli encomenderos, ne denunciarono
gli abusi e cercarono di difendere gli indios.
ALONSO DE BARZANA, «IL FRANCESCO SAVERIO DELLE INDIE OCCIDENTALI»

Alonso fu missionario tra gli indios che lavoravano per gli spagno-
li, ma si recava anche presso le tribù di indios disperse sul territorio,
dove censiva, catechizzava, battezzava e celebrava matrimoni. Riprese
a studiare lingue nuove, come il tonocoté e il kakán. Scriveva gram-
matiche, catechismi, vocabolari ecc. Poiché conosceva il territorio, ac-
compagnò il vescovo in visita pastorale nella zona dei fiumi Dulce e
Salado. Il suo sogno era di raggiungere gli indios della Patagonia, ma
il vescovo nel 1587 lo nominò visitatore e vicario della diocesi, e poi lo
inviò a Río Salado, nelle terre dei toba, dei mocoví e dei diaguitas, che
parlavano la lingua tonocoté. Barzana la insegnò ai suoi compagni, ma
poi si ammalò e fu costretto a tornare per qualche tempo a Santiago.
Nel marzo 1588 dovette accompagnare il governatore nella valle di
Calchaquí, dove gli indios si erano ribellati, ma egli cercava sempre di
307
recarsi da loro prima del governatore, per accordarsi con loro, affinché
accettassero la pace, si arrendessero e non venissero puniti con la morte.
Nel 1590 predicò fra gli Iules, ma si ammalò e dovette rientrare in città,
a San Miguel de Tucumán; tornò di nuovo da loro l’anno successivo.
Nel 1591 si stabilì, con Pedro de Añazco, a Río Bermejo, tra i
matará. Catechizzava, predicava, amministrava i sacramenti (bat-
tesimo, confessione e matrimonio). Inoltre cominciò a scrivere
grammatiche delle lingue che già conosceva. Cercò di andare da-
gli indios frentones, ma dovette desistere a causa della loro forte
ostilità, sebbene si fosse rifiutato di accompagnare il governatore
in una spedizione punitiva perché era stato ucciso suo fratello. Più
tardi Alonso si espresse così su questo episodio: «Ne hanno ucci-
si più di quattrocento, e questo ha destato in me una grandissima
compassione»11. In seguito ci fu un’altra spedizione dello stesso tipo,
che provocò la morte di molti indios ribelli: «Del tutto contro la
nostra volontà [hanno ucciso] la maggior parte della gente, sicché
su duemila anime che c’erano ne rimangono appena centoventi»12.
Il tempo non passava invano, e nel 1593 Barzana scrisse: «Sono
ormai molto vecchio e canuto, completamente sdentato»13. Sembra

11. «Carta de Barzana al Provincial», Matará, 10 gennaio 1592, in Mon. Per. V,


389-392.
12. «Carta de Barzana al Provincial», Matará, 20 aprile 1592, in Mon. Per. V, 33 s.
13. «Carta de Barzana al Provincial», Matará, 27 luglio 1593, in Mon. Per. V,
277-280.
PROFILO

che la sua permanenza tra i matará abbia coinciso con la sua stagio-
ne aurea come missionario. Nell’attuale località argentina di Matará
(Río Salado, vicino a Santiago del Estero) si conserva ancora una
piccola croce di legno che riportava scolpiti episodi di Cristo e della
passione che erano oggetto della sua catechesi. Si è venuto a sapere
dell’esistenza di questa croce nel 1971. Si ritiene che sia la più antica
croce d’America e un simbolo della prima evangelizzazione; perciò
è stata solennemente installata nella cattedrale di Añatuya. Sembra
che debba risalire al tempo della predicazione di Alonso tra i matará
nei pressi del Rio Bermejo, perché egli deve aver usato croci del ge-
nere come strumenti catechistici. Quell’insediamento fu distrutto
da altri indios nel 1629, e molti matará emigrarono e si stabilirono
nel 1645 nella nuova Matará, nella regione del Río Salado.
308

4. Governatorato del Paraguay (1594-97)

L’itinerario missionario di Barzana verso il Sud lo condusse ad


Asunción (Paraguay), dove svolse il suo apostolato con indios e spa-
gnoli della città. Ma la vecchiaia lo incalzava. Cadde malato nel 1594,
e se ne lamentava in una lettera al provinciale: «Non ho più fiato
per nuove lingue, né la forza per fare peregrinaggi tra i gentili […].
Morirei volentieri nella nazione nuguara, un popolo tra i più miti e
privi di vizi che sia stato scoperto: essi non sanno neppure che cosa
sia ubriacarsi o sposarsi con più di una donna». Ma concludeva con
arguzia: «Quando Vostra Riverenza saprà della mia morte, non metta
limite alle Messe, perché anche le mie mancanze non hanno limiti»14.
Questa tappa fu la più prolifica sotto il profilo letterario, per-
ché, non potendo più andare in missione, Barzana scriveva lettere
e grammatiche. Compose anche un’opera teatrale per una recita
scolastica per l’inaugurazione della seconda chiesa. Ma nel dicembre
1595 subì una paralisi – un accidente de perlesía («episodio di debo-
lezza muscolare»), dicono le fonti – e, poiché le sue condizioni non
miglioravano, nel gennaio 1597 il provinciale gli ordinò di andare
a Lima, per ricevere le cure necessarie.

14. «Carta de Barzana al Provincial», 7 febbraio 1594, in Mon. Per. V, 324-327.


ALONSO DE BARZANA, «IL FRANCESCO SAVERIO DELLE INDIE OCCIDENTALI»

Nel viaggio di ritorno a Lima, percorse circa 3.000 chilometri,


ma morì a Cuzco il 31 dicembre 1597. Fu sepolto nella chiesa dei ge-
suiti, che in seguito fu devastata da un terremoto nel 1650 e sostituita
con un’altra, costruita a partire dal 1661, in cui non c’è traccia del
luogo della sua sepoltura.
Quando la notizia della sua morte giunse a Baeza, la gente lo
considerò martire della fede nelle Indie, come dichiararono alcuni
testimoni al processo di beatificazione di Giovanni d’Ávila nel 1624.

BARZANA HA INCARNATO APPIENO L’OPZIONE


PREFERENZIALE PER LA MISSIONE ITINERANTE
TRA GLI INDIOS DISPERSI.
309

Tratti distintivi

Come gesuita, Barzana ha incarnato appieno l’opzione prefe-


renziale per la missione itinerante tra gli indios dispersi, piuttosto
che concentrarsi sugli spagnoli nelle città appena fondate. Ora cer-
chiamo di dare una valutazione del suo straordinario curriculum,
individuando alcune sue qualità.

1. Linguista

Alonso non ha lasciato opere stampate, ma si è guadagnato la


fama di essere uno dei migliori linguisti del suo tempo. Imparò
ben 11 lingue native, e in molti casi fu il primo tra gli europei a
impararle: 1) quechua (Perù e Impero inca), che studiò nel corso
della traversata oltreoceano; 2) aymara (Perù e attuale Bolivia);
3) puquina (estinta, Moquegua); 4) guaraní-chiriguano (Para-
guay); 5) tonocoté (estinta); 6) kakán o kakana (Tucumán e San-
tiago del Estero); 7) Natixa o mogozna (Río Bermejo); 8) toba o
quom (Gran Chaco); 9) quiroquini; 10) abipónica; 11) quiranqui.
Di molte lingue apprese Alonso diede una sistematizzazione, con
un metodo che strutturò progressivamente, avvalendosi di alcuni in-
dios, uomini e donne, che conoscevano un po’ di spagnolo. Defini-
va questo processo «riduzione a precetti». Così scrisse grammatiche,
PROFILO

vocabolari, raccolte di sermoni, professioni di fede e catechismi. A


riprova della sua competenza, come si è detto, la prima Congregazio-
ne provinciale (1576) gli diede il compito di elaborare grammatiche
e catechismi in quechua e in aymara; in seguito egli fu docente di
lingue native a Potosí, stipendiato dalla Corona spagnola.

2. Missionario e indio

Le lettere che Barzana scrisse a Francesco Borgia rivelano la sua


passione per l’evangelizzazione, fin dal noviziato, la stessa di san
Francesco Saverio. Si calcola che in America Alonso abbia battez-
zato circa 200.000 indios. Egli diceva: «Vorrei che tutti gli indios
del Perù, che non hanno sacerdoti, o che ne vengono abbandonati,
310
venissero affidati alle mie cure! Io non smetterei di coltivarli, li cer-
cherei continuamente nelle grotte, nelle rocce e nei dirupi, a costo
di farmi a pezzi»15. Pertanto, secondo lo storico gesuita León Lope-
tegui, Barzana è il vero «conquistatore spirituale nel Sud America»16.
Alonso fu un modello da imitare già in vita, come lo descriveva
il Preposito generale p. Acquaviva nel 1584: «Infatti, oltre ai frutti
copiosi che con il suo lavoro ottiene ovunque vada, con l’esempio e
con i buoni successi che il Signore le dà lei risveglia negli altri vivi
desideri di imitarlo e di seguirlo dappertutto»17.
Barzana si oppose decisamente ai metodi coercitivi, preferendo
la dolce persuasione e l’educazione. Amò gli indios, le loro culture,
le loro lingue, al punto di farle proprie, attuando un tipo di incultu-
razione analogo a quello adottato nella Cina, sebbene diverso. Egli
stesso sintetizza così la sua vita in una lettera del 1553 indirizzata
a un amico gesuita di Siviglia: «Se Vostra Riverenza vuole sapere
qualcosa della mia vita, in una parola, sono venuto dalla Spagna con
il desiderio di diventare indio e ci sono riuscito»18.

15. B. Alcázar, Chrono-historia de la Compañía de Jesus en la Provincia de


Toledo y elogio de sus varones ilustres, Segunda parte, Década III, Año IX, Cap. V, §
II (1569), a cura di J. Garcia Infaçon, Madrid, J. Garcia Infaçon, 1710, 272 s.
16. L. Lopetegui, El Padre José de Acosta S. I. y las misiones, Madrid, Consejo
Superior de Investigaciones Científicas, 1942, 138.
17. «Carta de Acquaviva a Barzana», Roma, aprile 1584, in Mon. Per. III, 424.
18. «Carta de Barzana a Ignacio del Castillo», Río de la Plata, 26 luglio 1593, in
J. De Santibáñez, «Historia de la Provincia de Andalucía de la Compañía de Jesús»,
ALONSO DE BARZANA, «IL FRANCESCO SAVERIO DELLE INDIE OCCIDENTALI»

3. Un uomo santo

Barzana ha incarnato in modo eccellente le virtù del religioso


e del missionario, come sottolineano i suoi biografi. Gli sono stati
attribuiti anche miracoli e fatti meravigliosi (dono di divinazione,
bilocazione, apparizioni dopo la morte ecc.). Per questo lo storico
gesuita Guillermo Furlong racconta che nella congregazione pro-
vinciale del Perù del 1637 si era deciso di chiedere all’ordinario di
avviare il processo canonico sulle sue virtù e santità, cosa che però
non si realizzò fino al 201519.
Pur avendo operato in molti Paesi, Barzana ha avuto i maggiori
riconoscimenti in Argentina, dove gli sono state intitolate alcune
strade, una biblioteca e perfino un’associazione sportiva.
Il suo modello è stato san Francesco Saverio. Papa Francesco, nel 311
riferirsi a lui come al san Francesco Saverio dell’America Latina, trae
spunto da una testimonianza molto significativa data da un compa-
gno di missione di Barzana, Pedro Añazco, nel 1585: «Non smetto
di ringraziare Dio nostro Signore e la Vostra Riverenza per il grande
dono che mi hanno fatto di inviarmi a queste terre [del Tucumán] e
in compagnia del mio amatissimo p. Barzana, del quale posso dire in
tutta verità che, sebbene io non abbia visto il santissimo p. Francesco
Saverio nell’India orientale, ho visto il p. Alonso de Barzana, vecchio di
sessantacinque anni, completamente sdentato, in somma povertà, con
profondissima umiltà…, farsi vecchio con l’indio vecchio, e con la vec-
chia fatto terra: sedendosi su questi suoli per guadagnarli a Cristo, e con
i caciques e con gli indios eminenti, con i ragazzi e con i bambini, così
ansioso di portarli al Signore che sembrava che gli scoppiasse il cuore»20.
Ci auguriamo di poter vedere presto Alonso Barzana sugli altari
come intercessore nostro e dei suoi indios.

Granada, Universidad de Granada, Biblioteca Hospital Real, Caja B-050, 152.


19. G. Furlong, «Alonso Barzana S.J., apóstol de la América Meridional», in
Estudios 49 (1933) 450-459; 50 (1934) 57-64; 128-140; 211-222.
20. «Carta de p. Añasco al Provincial de Perú», in P. Lozano, Historia de la
Compañía de Jesús en la Provincia del Paraguay, vol. 1, Madrid, Imprenta de la viuda
de Manuel Fernández, y del Supremo Consejo de la Inquisición, 1754, c. 20.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

Giancarlo Pani S.I.

I primi numeri di Tex, pubblicati nel 1948, sono di nuovo in


edicola, nel formato a strisce caratteristico dell’epoca, dove risalta il
prezzo (Lire 15): è «l’albo più ricco al prezzo più povero!»1. Il 1948 è
la data di nascita del personaggio creato da Giovanni Luigi Bonelli
312
(detto Gianluigi: 1908-2001) e disegnato da Aurelio Galleppini, in
arte Galep (1917-94). Il suo nome originario era Tex Killer, che fu
cambiato all’ultimo momento su proposta della moglie, Tea Bertasi,
in Tex Willer, per evitare censure. Nel 1948 erano nati anche Topolino
e Nembo Kid: Tex sembra la risposta italiana all’«invasione» straniera.

La nascita di Tex Willer

In verità i due autori, già lanciati nell’editoria con diversi fu-


metti, puntavano a un personaggio, Occhio Cupo: una storia di cap-
pa e spada, che si rivelò subito un insuccesso, mentre riscuoteva le
simpatie del pubblico Tex, che prende il nome non dal Texas, ma
dall’insegna di un negozio genovese di tessuti, Tex Moda2.
Chi è davvero Tex? Una studiosa dei fumetti attesta che l’eroe è un
«amalgama di Daniel Boone, Davy Crockett e Buffalo Bill», gli eroi
più popolari del Far West3. Le loro storie erano una leggenda vivente

1. Cfr D. Bonelli, «Capitani coraggiosi», in Tex. 70 anni di un mito, Milano,


Sergio Bonelli, 2018, 17. I primi album sono ripubblicati in stampa anastatica dal Corriere
della Sera e dalla Gazzetta dello Sport. Il primo numero, Il totem misterioso, fu stampato in
circa 40.000 esemplari. I primi numeri erano già stati ristampati nel 1956 («Serie rossa»),
nel 1959 («Serie Gigante» II), nel 1985 («Tutto Tex»), nel 1996 («Nuova Ristampa Tex»).
2. Cfr R. De Falco, Tex. Fiumi di china italiana in deserti americani. La storia,
il costume, il mito di un eroe del fumetto, Roma, Npe, 2013, 26.
3. Cfr E. Leake, Tex Willer. Un cowboy nell’Italia del dopoguerra, Bologna, il
Mulino, 2018, 40.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 312-326 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

e incarnavano il mito del Wild West; soprattutto puntavano alla con-


danna dei soprusi e delle ingiustizie. Tex sembra riprenderne le ca-
ratteristiche: è un «uomo nuovo», libero dalle istituzioni e dalle leggi,
ma sempre combattivo e intraprendente per ristabilire l’onore di chi
è ingiustamente aggredito o condannato. Nella Guerra di secessione
(1861-65) egli partecipa per l’abolizione della schiavitù. Si potrebbe
definire un «“cow-boy dal volto umano”, onesto, coraggioso, talora
impulsivo, ma sempre pronto a gettarsi nella mischia per difendere
i deboli e gli oppressi, bianchi o rossi che siano, dalle angherie dei
corrotti, dei prepotenti, dei criminali, delle teste calde di ogni risma.
In fondo all’animo, nonostante tutti gli sforzi del potere costituito di
ingabbiarlo (salvo a ricorrere a lui ad ogni piè sospinto, non appena
si manifesti un caso un po’ più complesso del solito), si è mantenuto
313
l’irriducibile anarchico individualista che era in gioventù»4.
In realtà Tex non è altro che il suo autore, Gianluigi Bonelli, che
si definiva «un romanziere prestato al fumetto e mai più restituito»5,
cioè un autore di romanzi, e ne ha anche scritti diversi. La sua fan-
tasia è un vulcano in continua eruzione, e le avventure di Tex, se si
sanno leggere, rispecchiano la sua vita avventurosa e imprevedibile:
ragazzo di bottega, tuttofare, emigrante in Svizzera, ma soprattutto
geniale come autore e ideatore. Di lui è stato detto che ha raccolto
l’eredità di Emilio Salgari e ne ha portato avanti il «testimone in
un’ideale staffetta della fantasia che ha fatto sognare, sia pure in una
differente dimensione, intere generazioni»6. Da giovane ha diretto
diversi periodici, tra cui Rin Tin Tin, Jumbo, L’ Audace, Primarosa.
Nel 1937-39 lavora a Il Vittorioso e porta il settimanale cattolico a
120.000 copie7; non va taciuta la singolare collaborazione per La
Bibbia illustrata per la gioventù8. Infine, accanto a Tex, numerose
altre testate, tra cui Zagor e Mister No; e tra il 1990 e il 2000 il

4. Cfr R. Mantegazza - B. Salvarani, Disturbo se fumetto? Dylan Dog e


Martin Mystère, Tex Willer e Nathan Never: ipotesi per un uso politicamente corretto,
Milano, Unicopli, 1998, 127.
5. Cfr Un romanziere prestato al fumetto, in http://www.snackmates.org/
FM2/Armando/Archivio/7.html
6. C. Scaringi, Tex «Superstar», Roma, Gremese, 1998, 25.
7. Cfr R. De Falco, Tex. Fiumi di china…, cit., 97.
8. La Bibbia illustrata per la gioventù, Milano, S.A.D.E.L., 1941-42. Cfr G.
Frediani, «Text by G. L. Bonelli», in Tex. 70 anni di un mito…, cit., 52.
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successo di Dylan Dog e Nathan Never. Insomma, una grinta e una


fantasia inesauribili…

Il successo di «Tex»

Tex rappresenta da 70 anni il fumetto italiano più famoso nel


mondo. All’inizio è pubblicato nel formato a strisce dall’ Audace,
che poi diventa Araldo. La prima Collana del Tex, dal 1948 al 1967,
realizza 973 fascicoli. Nel 1952 si ha la prima ristampa delle storie,
nel quindicinale Albo d’Oro (205 numeri fino al 1960)9. Nel 1958 il
fumetto abbandona la formula della striscia per inaugurare il for-
mato detto «bonelliano» (tre strisce per pagina), che poi diviene il
formato classico dei fumetti. Dal 1948 a oggi Tex è pubblicato in 25
314
collane diverse, di cui 13 in corso; ed è passato dalle 40.000 copie
iniziali alle 700.000 negli anni Sessantacinque-Settanta10.
Bonelli muore nel 2001: passa così alla storia il più grande scrit-
tore italiano di fumetti. Lo rimpiazza il figlio Sergio, sceneggiatore
ed editore, fino al 2011, quando viene sostituito da Mauro Boselli,
al quale si deve l’idea dell’autobiografia dell’eroe: Tex Willer. Il ro-
manzo della mia vita11.
Sotto la direzione di Sergio il gruppo editoriale è divenuto uno
dei primi in Europa, facendo evolvere il concetto generico di fu-
metto in «letteratura per immagini»12. Nel 1986 il lancio di Dylan
Dog, protagonista di una serie horror, ha un successo notevole ri-
spetto a Tex: successo che però diminuisce nel tempo. L’eroe si è
ripreso il ruolo di leader e continua a cavalcare per le vaste praterie

9. Le ristampe sono numerosissime, fino all’ultima del 2021 (cfr R. De Fal-


co, Tex. Fiumi di china…, cit., 191-205); così pure le collane parallele, fino a Tex-
color ancora in auge (cfr ivi, 117 s).
10. Gli album sono stampati in bianco e nero, eccetto il n. 100, e i suoi mul-
tipli, a colori; così anche il n. 575, che celebra il 60° anniversario del personaggio.
Il volume del 2003, dedicato a Tex da la Repubblica, nella serie «I grandi classici del
fumetto», ha venduto più di 500.000 copie. Nel 2007, la Repubblica e L’Espresso
hanno ristampato a colori le edizioni di Tex, passando dai 50 volumi previsti a 239,
per un venduto di oltre 26 milioni di copie (cfr R. De Falco, Tex. Fiumi di china…,
cit., 54; 201; 204). Le copertine della serie «Gigante» sono realizzate fino al n. 400
da Galep, poi da Claudio Villa, ancora oggi disegnatore.
11. Cfr M. Boselli, Tex Willer. Il romanzo della mia vita, Milano, Mondadori, 2011.
12. R. De Falco, Tex. Fiumi di china…, cit., 56.
TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

dell’avventura. Nel 2028 si celebrerà l’ottantesimo della nascita di


Tex, e già risalta nelle copertine la sigla augurale dell’anniversario.
Va segnalato anche il seguito internazionale del fumetto: esso
viene tradotto in numerose nazioni13, ma non ha successo negli Sta-
ti Uniti, dove già esiste una tradizione fumettistica legata a narra-
tive locali14. Tex si caratterizza anche per un’impostazione etica15.

Il protagonista

Il protagonista è Tex Willer: vive in un universo che potrebbe


essere quello di un uomo comune – sia pure dotato d’intelligenza,
furbizia ed esperienza di vita –, senza nessun potere particolare. A che
cosa è dovuta la sua fortuna? Alla straordinaria velocità nell’estrarre la
315
pistola e non sbagliare un colpo: suo maestro d’armi è stato Gunny
Bill, anziano amico del padre. Tex è il più formidabile tiratore del
West: riesce perfino a colpire il fucile o la rivoltella di chi sta per ucci-
derlo. È un buon «picchiatore», ma anche un abile persuasore.
All’inizio Tex è «il fuorilegge solitario»16, per aver vendicato gli
assassini del padre dopo che gli hanno rubato le mandrie. Nell’inse-
guirli, dal Texas sconfina in Messico, e le guardie, accortesi degli spari,
tentano di raggiungerlo. Feriscono a morte l’amico Gunny. Tex riesce
a mettersi in salvo, uccidendo le guardie. Ora è un assassino ricercato
con taglia. Dapprima trova lavoro in un rodeo, dove guadagna il suo
fedele destriero, l’indomabile Dinamite, ma rifiuta collaborazioni con

13. Non solo in tutta Europa, ma anche in Turchia, Israele, India, Sri Lanka,
Canada, Messico, Argentina, Venezuela, Colombia, Cile, Brasile ecc. (cfr R. De
Falco, Tex. Fiumi di china…, cit., 209-224).
14. Cfr ivi, 209.
15. Negli anni Cinquantacinque-Sessanta gli editori per ragazzi decidono di
adottare una forma di autocontrollo sui testi, cui partecipa anche Bonelli: la ga-
ranzia era certificata con la sigla GM (Garanzia morale). Nel 1950, per la stampa
cattolica, Tex era un fumetto proibito ai ragazzi, per la violenza e i dialoghi triviali
(cfr R. De Falco, Tex. Fiumi di china…, cit., 32). L’editore modifica alcuni passaggi
brutali e certi abiti ritenuti audaci dei personaggi femminili (peraltro rari: cfr C.
Scaringi, «Tex e le donne», in Id., Tex «Superstar», cit., 63-71).
16. Così è definito nel primo fumetto: Tex. Il Totem misterioso, Milano, Au-
dace, 1948, 4. L’eroe completa la definizione affermando che egli «uccide solo chi
merita di essere ucciso» (ivi).
ARTE MUSICA SPETTACOLO

delinquenti e ladri di bestiame: non viene meno ai princìpi di onestà


insegnatigli dal padre.
La svolta della sua vita è dovuta allo scontro con la banda «Mano
Rossa», specializzata in ogni sorta di rapine. Rischiando l’arresto, Tex si
presenta spontaneamente al colonnello Hogart e gli promette di con-
segnargli la banda dei delinquenti di cui è sospettato di far parte. Non
manca di spiegargli che cosa intenda per «giustizia»: «Colonnello, sono
un fuorilegge, ma voi dovete ben sapere come fui costretto a lasciare la
mia città e come io non mi sia mai macchiato di furti e rapine». «Uh!
La vostra strada è seminata di morti, Tex!». «Ma erano tutti ladri, bari e
assassini, colonnello, non dimenticatelo!». «E voi non dimenticate che la
legge punisce l’omicidio»17. Tex riesce a riconquistare il denaro rubato e
a consegnare i componenti della banda. In tal modo è riabilitato, può di-
316
ventare un ranger18, anche se molti sceriffi conservano ancora nel cassetto
gli avvisi di una sua taglia. Tuttavia è il più pericoloso avversario che un
bandito o un malvivente possa incontrare sulla propria strada.
Il fisico di Tex è atletico, ma non massiccio; indossa pantaloni az-
zurri, camicia gialla, stivali con speroni a metà polpaccio, cinturone
con la cartuccera e le immancabili Colt 45.
I disegnatori si ispirano ai western del tempo e fanno di Tex una
sorta di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, o di John Wayne in
Ombre rosse19. In ogni caso, i due attori diventano punti di riferimento
basilari per Bonelli e Galep20.

I soci: i «pards» Kit Carson e Tiger Jack

Kit Carson è un ranger di una certa età, tanto che dagli indiani
Navajos viene chiamato «Capelli d’Argento»: è la spalla di Tex, il
compagno saggio, sempre disposto ad aiutarlo nelle diverse avven-
ture. Tex, in modo simpatico, lo ha ribattezzato «Vecchio cammel-

17. G. L. Bonelli - A. Galleppini, La Mano Rossa, Milano, Sergio Bonelli,


1996, 42 s.
18. Cfr S. Bonelli - F. Busatta, Come Tex non c’è nessuno. Vita pubblica, se-
greti e retroscena di un mito, Milano, Mondadori, 2008, 42. I rangers costituiscono un
corpo ausiliario alle forze dell’ordine che sono in difficoltà. Vengono riconosciuti
ufficialmente nel 1835. Sono parte integrante della storia del Texas e del Far West.
19. Cfr R. Mantegazza - B. Salvarani, Disturbo se fumetto?..., cit., 128.
20. Cfr G. Frediani, «Text by G. L. Bonelli», in Tex. 70 anni di un mito, cit., 68.
TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

lo». Per carattere è un pessimista, talora un «brontolone», ma ha


anche lui una mira infallibile. Da vecchio scapolo non disdegna la
compagnia femminile, e a volte Tex lo deve richiamare all’ordine.
Tiger Jack è un guerriero navajo, fratello di sangue di Tex
e suo compagno nelle vicende che hanno per protagonisti gli
indiani. La sua specialità consiste nel ritrovare le tracce e seguire
le piste più difficili. È un personaggio silenzioso, ma fedelissi-
mo. Usa bene il fucile, ma anche l’arco e il tomahawk. Sa anche
leggere e scrivere, è maestro d’armi del figlio di Tex, Kit Willer.
Jack rappresenta la fusione della cultura dei bianchi con quella
degli indiani. È il segno anticipatore, quasi profetico, di un’aper-
tura mentale – notevolissima per quel tempo – che valorizza la
cultura dei nativi indiani e la loro tradizione. Carson e Jack sono
317
i soci di Tex, i pards.

La moglie di Tex: Lilyth

Talora Tex è accusato di essere discretamente «misogino»: in


real­tà, è sposato con Lilyth, figlia del capotribù Navajo Freccia Ros-
sa. Dopo essere stato catturato, Tex è condannato a morte al palo
della tortura. Improvvisamente interviene Lilyth, che si pone da-
vanti al padre, interrompendo l’esecuzione. Nelle usanze indiane, la
figlia del capo che salva un condannato a morte deve sposarlo. La
donna è stata educata nella missione delle suore di Nostra Signora
della Carità (le Suore Bianche) di Alamosa in Colorado, e forse il
Vangelo che ha assimilato da bambina l’ha spinta a difendere un
innocente, di cui conosce la fama di uomo giusto e leale. Tra i due
viene stipulato un patto di sangue e Tex torna a essere libero21. Il
matrimonio è intenso ma breve, poiché Lilyth morirà per un’epi-
demia di vaiolo causata da un gruppo di delinquenti che ne paghe-
ranno le conseguenze. La moglie resta sempre nel cuore di Tex,
che le rimane fedele. Un giorno l’eroe la descriverà così: «Era come
il chiaro di luna in una notte d’estate e i suoi occhi verdi facevano

21. Su questa vicenda, cfr G. L. Bonelli - A. Galleppini, Tex. Il salto del


diavolo, Milano, Sergio Bonelli, 1950, 7-15; rist. Il patto di sangue, ivi, 1960, 78-81.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

ricordare lo scogliere delle acque del Colorado fra le alte gole del
Gran Canyon»22.
Dalla loro unione nasce Kit Willer, col nome indiano di «Piccolo
Falco», che studia alla scuola dei padri missionari. Sveglio d’intelligenza
e di riflessi, diviene compagno del padre nelle sue mirabolanti imprese.
Tex, avendo sposato Lilyth, diviene membro della tribù Navajo e ri-
ceve il nome di «Aquila della Notte». Dopo la morte di Freccia Rossa, è
acclamato loro capo, veste con giacca e pantaloni scamosciati a frange,
e mocassini. Riceve il wampum, una cintura sacra, in pegno di fratel-
lanza: si tratta di un vero «passaporto» che egli esibisce negli incontri
con le tribù indiane. Vivendo con i Navajo, egli impara a comprenderne
gli usi e i costumi, ne apprezza il coraggio e la lealtà. Sa parlare la loro
lingua ed è capace di comunicare attraverso i segnali di fumo. Più volte
318
afferma: «Sono i miei indiani». In seguito diviene anche l’agente india-
no della riserva Navajo in Arizona, nominato dal governo statunitense.

RISTABILIRE LA GIUSTIZIA (CON LA MAIUSCOLA) È


LA VOCAZIONE DI TEX.

La giustizia di Tex

Ristabilire la Giustizia (con la maiuscola) è la vocazione di Tex.


Suo padre gli ha insegnato «quello che lui sapeva bene: la differenza
tra ciò che è giusto e ciò che non è giusto»23. E insieme, il bisogno
di legalità, la difesa dei più deboli. Praticamente andrebbero citati
tutti gli albi per documentare queste caratteristiche24. Le descrive
lo stesso Bonelli in un’intervista del 2011, riferendosi all’eroe: «So
che cosa vogliono i miei lettori: il trionfo del bene, la carogna presa
a cazzotti. La gente odia il militare arrogante, il pezzo grosso, il

22. Cfr Idd., Tex. Il giuramento, ivi, 1991, 15.


23. P. Pietroni, Caro Tex ti scrivo. Da grande farò il Carabiniere, Milano, Cairo
(Rcs Mediagroup), 2020, 13.
24. Cfr, tra i tanti volumi, G. Bonelli - A. Galleppini, Tex. La giustizia di
Tex, Roma, I Fumetti di Repubblica - l’Espresso, 2010; Idd., Sangue navajo, Milano,
Mondadori, 1996, dove un giornalista difende Tex perché «non è contro la legge.
Impiega indubbiamente metodi inconsueti, ma al servizio di un nobile scopo: il
riconoscimento della giustizia» (ivi, 138).
TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

banchiere. Odia il potere, e anch’io odio il potere o, come si dice


oggi, il “palazzo”. Siamo tutti anarcoidi, ribelli, infastiditi da mille
problemi. […] Ecco perché la gente cerca di evadere. E io gli offro
l’evasione». E giunge a una conclusione attualissima: «Gli italiani
non leggono, sono pigri. Io ho vinto la loro pigrizia»25.
Qualche avventura va citata. Golden Pass narra di due giovani cer-
catori d’oro che tentano di uccidere Tex e Carson mentre attraversano
una gola mineraria, per rapinarli. I rangers tentano prima di immo-
bilizzarli, poi, vedendo la loro inesperienza e sincerità (era la prima
volta che i due tentavano una rapina), donano loro perfino 100 dollari
perché possano tornare a casa e rifarsi una vita26. Con un consiglio:
«Scavando nella terra, dalle vostre parti, riuscirete soltanto a rimediare
patate e carote, ma sarà sempre meglio passare la vita mangiando ver-
319
dura piuttosto che finire stecchiti quassù, tra questi sassi»27. All’indul-
genza di Tex, Carson protesta, e lui commenta: «Non te la prendere
troppo, fratello... Poiché proprio come bravi fratelli, queste danna-
tissime cinque miglia [per raggiungere il villaggio] le affronteremo
dividendoci la mia sella e il mio cavallo, está bien?»28. L’episodio illustra
anche la sua generosità. Allo sceriffo poi paga il conto dei danni pro-
vocati da un loro amico in un saloon di Georgetown29.
Interessante un numero sui «quaccheri», Terra promessa30, che
mette a confronto il loro mondo e il modo di agire di Tex. I quac-
cheri costituiscono una frangia dei gruppi sorti in Inghilterra du-
rante la rivoluzione ed emigrati in America: sono i primi a combat-
tere la schiavitù, vivono sobriamente e rifiutano l’uso delle armi. La
fedeltà alla propria coscienza è il loro valore più alto.
Tex e i pards li accompagnano nel lungo viaggio verso la Cali-
fornia. «Sono della gran brava gente, con i cervelli imbottiti di idee
che non hanno niente a che fare con la realtà – commenta l’eroe –, e

25. M. Paganelli, «Conversazione con Gianluigi Bonelli», in L’audace Bonelli.


L’ avventura del fumetto italiano, Roma, la Repubblica - L’Espresso, 2011, 191.
26. G. Nolitta - M. Boselli - G. Ticci, Golden Pass, Milano, Mondadori, 2007, 36.
27. Ivi, 37.
28. Ivi, 40; 79. La ragione: era stato ucciso il cavallo di Carson.
29. Ivi, 78.
30. G. L. Bonelli - G. Ticci, Tex. Terra promessa, Milano, Mondadori, 2012.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

purtroppo tocca a uomini come noi dare loro una mano per impe-
dire che […] diventino cibo per avvoltoi lungo le piste del West»31.
A proposito della condanna a morte di un responsabile di
razzie a danno delle carovane, uno dei quaccheri, rivolto a Tex,
dice: «Non potreste lasciare al Signore il compito di far giusti-
zia? Dice la Bibbia: “Mia sarà la vendetta e la rappresaglia…”».
«Spiacente, signor Glendon! Generalmente, la giustizia di cui
parlate arriva sempre troppo tardi per punire i grossi mascalzoni
e proteggere la povera gente»32 . Poi, rivolto a Carson: «Il mon-
do è grande e c’è spazio per tutti: tonti e furbi, galantuomini e
tagliagole, perciò perché non dovrebbe esserci posto per quegli
ingenui, ma bravi quaccheri?»33.
Uno degli ultimi numeri è Gli amanti del Rio Grande34: un’in-
320
tricata vicenda, dove uno spietato ranchero commerciante di cavalli,
con un’avvenente moglie, incontra Tex e un gruppo di cowboy
reduci dall’aver sventato una rapina a suo danno. Tra questi, un
giovane un po’ ingenuo, Tom, il quale aveva incontrato la signo-
ra tempo prima, danzatrice in un saloon, e se n’era invaghito, ma
senza successo. Ora la donna gli dà, di nascosto, un appuntamen-
to notturno, proponendogli una fuga d’amore. Tra i due inizia un
colloquio franco: lui le rimprovera di aver tradito i suoi sogni; lei
gli mostra sul suo corpo i segni di violenza del marito. Scoperti da
un servo, riescono a fuggire. Il ranchero organizza la ricerca della
moglie, sospettando di Tex e del suo gruppo, ma interviene il ranger
a chiarire gli equivoci. Intanto i due tentano di attraversare il Rio
Grande, per sconfinare in Messico. Il tentativo fallisce, perché la
moglie viene presa al laccio dal marito. Alla fine il ranchero, mentre
sta torturando Tom, viene sorpreso da Tex e Carson con le loro
Colt. Consiglio finale di Tex alla donna: «Spero che questa brutta
esperienza vi insegnerà a scegliere meglio gli uomini»35.

31. Ivi, 192.


32. Ivi, 375.
33. Ivi, 376.
34. J. Rauch - S. Scascitelli, Tex. Gli amanti del Rio Grande, Milano, Sergio
Bonelli, 2020.
35. Ivi, 160.
TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

Il grande nemico: Mefisto, il re della magia

Il principale nemico di Tex è Mefisto. La prima apparizione è


nel 1949, nelle vesti di un illusionista un po’ cialtrone, di nome Ste-
ve Dickart, che si esibisce nei saloon con la sorella Lily, bionda e
procace danzatrice, nello spettacolo «Mefisto, il re della magia»36.
Da prestigiatore da strapazzo, egli affina il proprio talento di
illusionista e sembra acquisire poteri paranormali, satanici: si allea
con gli indiani Hualpai, mostrando di essere un potente stregone.
Mefisto riesce a catturare Carson e Kit Willer: li ipnotizza, convin-
cendoli che sono dei fuorilegge, e li costringe a combattere contro
Tex e Tiger. Attraverso rocambolesche vicende, l’eroe è in grado di
salvarli e Mefisto, colpito da Tiger Jack, precipita in un burrone37.
Nel 2002 c’è un clamoroso ritorno di Mefisto, deciso a vendicarsi 321
delle sconfitte passate, grazie all’aiuto della sorella. Durante una seduta
spiritica, mediante un santone indiano, Lily chiede di evocare lo spiri-
to del proprio fratello38. Questi si materializza nei panni del santone a
Phoenix, in Arizona, e assume le sembianze di un insospettabile dot-
tore del luogo. Attraverso alcuni tranelli riesce a catturare prima Car-
son, poi Kit Willer e infine Tiger Jack39. Ma il suo sogno è catturare
vivo Tex, contro il quale scatena la furia dei demoni della follia. Ma
un braccialetto dello stregone del villaggio salva Aquila della Notte,
che riesce a liberare i pards, ma non può impedire la fuga di Mefisto40.
Mefisto riappare nel figlio Yama: questi eredita dal padre pote-
ri magici per vendicarne la morte, ma non ha il carisma del geni-
tore. La sua missione fallisce e viene rinnegato con parole feroci:
«Mio figlio mi ha deluso! Willer e i suoi cani sono sempre riu-
sciti a sconfiggerlo e dopo l’ultimo scontro i nervi di Yama sono
crollati»41. Il pubblico si aspettava un avversario che mettesse in
difficoltà Tex. Le arti del rancoroso stregone sembrano riuscirci,

36. G. Frediani, «Tex contro Mefisto: un match infernale», in G. L. Bonelli


- A. Galleppini, Tex e il figlio Mefisto, Milano, Mondadori, 1994, 9.
37. Ivi, 12.
38. Cfr C. Nizzi - C. Villa, Tex. Mefisto!, Milano, Sergio Bonelli, 2002, 16.
39. Idd., Tex. Una trappola per Carson, ivi, 88; Il potere delle tenebre, ivi, 46; 79.
40. Idd., Tex. Il covo del male, ivi, 22-26; 37 s.
41. Cfr G. Frediani, «Text by G. L. Bonelli», in Tex. 70 anni di un mito, cit., 69.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

anche se alla fine – non più con le pistole, ma grazie a un amuleto


magico – la vittoria è di Tex42 .
Va da sé che il personaggio rappresenta la forza del male, il de-
moniaco presente nella vita, che spesso sembra essere stato scon-
fitto e invece comporta un confronto difficile e talora un’accetta-
zione sofferta43.

La religiosità, i francescani e i gesuiti

L’elemento religioso non è molto presente in Tex44, dove preva-


le la legge antica: «Occhio per occhio, dente per dente». Tuttavia,
come si è visto, il senso di giustizia pervade l’intera epopea. Il sacro
si esprime nel rapporto con la natura, il trascendente, il mistero
322
della vita e della morte. Quando trova un cadavere per strada, Tex
ne cura la sepoltura e vi pianta sopra una croce. Va anche detto che
l’istituzione religiosa è ben presente. Lilyth, la moglie, da giovane è
stata educata dalle Suore Bianche; il figlio Kit studia nella missione
di Santa Anita, in California. Se in ambito religioso sembra più
presente il pastore protestante, i religiosi della Chiesa cattolica sono
una bella presenza, soprattutto i francescani: tra l’Arizona, il Messi-
co e il Texas è documentata la loro missione.
Una volta, per quel che è dato sapere, compaiono i gesuiti. Si
tratta della storia di una banda di Apache mescaleros, che assalta, ra-
pina e uccide allo stesso modo dei coloni bianchi: rubano il denaro
e soprattutto l’oro, fatto insolito per gli indiani, per nulla attaccati
al metallo prezioso. Con una caratteristica: dopo le sanguinose ra-
pine si trasformano in innocui pastori messicani. Il loro capo, inve-
ce, Lucero, dotato di intelligenza e furbizia, assume l’identità di un

42. Il 2022 segna il ritorno di Mefisto dopo 20 anni. L’avversario di Tex è


protagonista di due storie scritte da M. Boselli e disegnate da R. e G. Cestaro e da
F. Civitelli, che si estendono per sette fascicoli.
43. Ci sono anche altri personaggi diabolici: Proteus, il trasformista capace di
assumere le sembianze di qualsiasi individuo, compreso lo stesso Tex; John Coffin, il
primo nemico, un ranchero privo di scrupoli; Pedro Galindez, detto «il Cobra»; l’Uomo
di Flagstaff progetta un piano per far mettere in prigione Tex e impadronirsi dell’oro
dei Navajos; Zhenda e Sagua preparano un piano criminale per far fuori Tex ecc.
44. Si veda tuttavia B. Salvarani - O. Semellini, Il vangelo secondo Tex Wil-
ler, Torino, Claudiana, 2020.
TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

haciendero, don Fabio Esqueda, insospettabile e ricchissimo uomo


d’affari. Questi è spinto alle rapine dall’odio contro i bianchi, che
hanno invaso le terre degli Apache. Accortosi di essere ricercato
da Tex, Lucero vuole cancellare le tracce della sua precedente vita.
Travestito da eremita, riesce ad entrare nella missione San France-
sco Saverio, dove aveva studiato. Qui trova e brucia un’antica foto
che lo ritraeva, e uccide p. Michele, l’unico sacerdote rimasto tra
quanti lo avevano conosciuto da giovane45.
Il bandito sembra inafferrabile per Tex e gli amici, i quali, se-
guendo le sue tracce, vengono a conoscere la storia di Lucero. Da
bambino, sopravvissuto a un’irruzione di soldati che avevano insan-
guinato il suo villaggio, egli era stato raccolto dai gesuiti, e alla loro
scuola aveva ricevuto una formazione scolastica e culturale, tanto
323
da arrivare a essere il migliore della classe. Divenuto grande, gli era
stato proposto di entrare nella Compagnia di Gesù, ma si era rifiu-
tato. Una notte, improvvisamente, Lucero era fuggito, rubando il
denaro dei padri e portando via un crocifisso d’oro di p. Tommaso.
Finalmente Tex raggiunge la missione dei gesuiti, dove lo at-
tende una tragica sorpresa. Lucero è venuto qualche giorno prima,
in fin di vita, ferito in uno scontro a fuoco. Benché i padri lo voglia-
no curare, egli si fa riconoscere, spaventando i religiosi: li supplica di
voler assolutamente vedere la tomba di p. Michele. Accompagnato,
traballante, vi si inginocchia e, deponendo la preziosa croce sulla
tomba, chiede perdono: «A padre Tommaso… presi il crocefisso…
e… a lui la vita. Potrò mai… essere perdonato?»46. Gli risponde un
padre: «Dio perdona sempre, Lucero! Ha perdonato al buon ladrone
che era crocefisso alla sua destra, ma ha sicuramente accolto nel suo
regno anche quello che stava alla sua sinistra»47. Poi Lucero muore.
Questa volta Tex – cosa che accade di rado – arriva in ritardo e deve
arrendersi di fronte alla misericordia divina.
La storia di Lucero è una delle migliori narrazioni di Bonelli e Let-
teri. C’è solo un piccolo neo, che non nuoce alla bellezza di una pagina

45. G. L. Bonelli - G. Letteri, Tex. Odio senza fine, Milano, Sergio Bonelli,
1973, 82 s.
46. Idd., Tex. Una campana per Lucero, ivi, 1993, 45.
47. Ivi, 46.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

evangelica: nel racconto, i gesuiti sono raffigurati con il saio dei fran-
cescani48, pur essendo noti per i loro collegi e la formazione scolastica.

I pregi di Tex

Un prodotto commercialmente così riuscito com’è il fumetto Tex


si sottrae alle sofisticazioni originate dalle troppe mani che vi collabo-
rano. Se l’autore del personaggio è Gianluigi Bonelli, e il figlio, Sergio,
ha svolto per lungo tempo la parte di sceneggiatore e revisore, va ricor-
dato anche il primo disegnatore, Galep. Il tratto di Galep appare essen-
ziale, sempre immediato, con rari fronzoli, ma nell’insieme tutt’altro
che povero. Quando nel 1994 è scomparso, ne ha fatto un elogio il col-
lega Milo Manara: «La sua preoccupazione di raccontar bene, in modo
324
che tutti i lettori potessero essere coinvolti nell’avventura, era la più alta
forma di rispetto e di amore per il prossimo che un disegnatore possa
dimostrare… “Quando si finisce di leggere una storia di Tex disegnata
da Galep non si pensa ‘che grande disegnatore’, bensì ‘che bella Storia’”.
Questo è il segno che il disegnatore è veramente “grande”»49.
I disegnatori sono stati molti e si alternano nel tempo: nei fa-
scicoli venuti più tardi ci sono altre voci con diverse funzioni, che
cambiano ancora più spesso50. Nel volume commemorativo Tex. 70
anni di un mito vengono messi a confronto i 100 volti del ranger rea­
lizzati dai diversi illustratori e ordinati cronologicamente51.
È degna di rilievo la parte grafica, minuziosa, circostanziata,
capace di offrire non soltanto la linea narrativa, ma anche la corpo-
sità degli stati d’animo evocati via via: il paesaggio, il riflettersi dei
fatti sugli oggetti presenti, le angolature dell’immagine, le pause o
le accelerazioni imposte dal moltiplicarsi e dal diradarsi delle strisce.

48. Cfr F. Accrocca, «Gesuiti vestiti da francescani», in Oss. Rom., 5 giugno


2020: cfr www.osservatoreromano.va/it/news/2020-06/gesuiti-vestiti-da-francescani.
html
49. R. Mantegazza - B. Salvarani, Disturbo se fumetto?..., cit., 133.
50. Cfr G. Bono, Foto di famiglia. 293 autori del fumetto bonelliano, Milano,
Sergio Bonelli, 1993. Tra gli oltre 100 disegnatori, vanno ricordati: Giovanni Ticci,
Vincenzo Monti, Francesco Gamba, Guglielmo Letteri, Erio Nicolò, Claudio Villa,
Fernando Fusco, Virgilio Muzzi, Alberto Giolitti, Carlo Raffaele Marcello, Fabio
Civitelli.
51. Cfr L. Barbieri, «Pop d’autore», in Tex. 70 anni di un mito, cit., 257-262.
TEX WILLER: «I MIEI INDIANI»

Anche se abbonda di imprevisti, la storia va avanti senza fretta, con


tutte le diluizioni necessarie a renderla fruibile, nonostante la com-
plessiva inverosimiglianza. Insomma, non meno che la corposità e
rifinitura grafica, il ritmo è calcolato con molta sensibilità. È meno
persuasiva la consistenza linguistica dei dialoghi, che si affidano
perciò alla resa grafica.
Nelle avventure create da Gianluigi Bonelli, per quanto si può
vedere, la coerenza e omogeneità dell’invenzione è meno incerta: la
sua impronta è chiarissima52.
Notiamo due caratteristiche dell’eroe e del tratto redazionale. La
prima è che ogni vicenda viene interrotta in un punto cruciale, in
modo da invogliare il lettore ad acquistare il numero seguente. L’al-
tra consiste nello stuzzicare la curiosità sul come si concluda la storia
325
che ci sta entusiasmando: tutti sappiamo che trionferà Tex, ma non
sappiamo come; ogni volta l’eroe riesce a districarsi in maniera nuo-
va e originale. L’originalità e la non ripetitività sono il segreto della
riuscita delle avventure di Tex.
Fatto raro ai nostri giorni, sia pure in rapporto alle date fitti-
zie dei personaggi, pare che manchino del tutto le storie d’amore
e il diversivo sessuale. Alla domanda sul perché in tutte le forme
di spettacolo il successo è legato alla presenza di storie amorose,
mentre «Tex sopravvive senza di esse», Bonelli risponde: «A me non
interessano. […] Non le metto, perché sono inutili»53.

Un fumetto americano, tutto «italiano»

Il fumetto, soprattutto negli anni del dopoguerra, riflette un’Italia


segnata dalle conseguenze del conflitto mondiale. Una nazione in cri-
si, ma decisa a rimboccarsi le maniche e a riprendersi economicamente
e socialmente: non si tratta tanto di «un’Italia povera ma bella», quanto
piuttosto di una nazione umiliata eppure piena di energie, ambiziosa,
creativa e, a suo modo, gioiosa. Si noti che Tex dimentica subito i torti
subiti e i colpi a tradimento, ed è un uomo vero, senza ambiguità e

52. Vanno ricordati altri autori, in particolare Guido Nolitta (cioè Sergio Bo-
nelli), Claudio Nizzi, Mauro Boselli, Decio Canzio, Pasquale Ruju, Giancarlo Be-
rardi, Michele Medda, Tito Faraci, Jacopo Rauch.
53. M. Paganelli, «Conversazione con Gianluigi Bonelli», cit., 192.
ARTE MUSICA SPETTACOLO

ipocrisie: difende i deboli, i perseguitati, rispetta le tradizioni, e alla


fine è anche così intelligente da risolvere un contrasto con abbondanti
boccali di birra. Una sua affermazione di rispetto e di tolleranza è at-
tuale: «Non commettete l’errore di credere che tutti gli indiani siano
crudeli, e desiderosi solo di raccogliere scalpi. Sono uomini come noi e
la loro differenza consiste nel colore della pelle. Vi sono indiani buoni e
vi sono, naturalmente, indiani anche cattivi. Ma se voi li trattate come
vostri pari, e non come selvaggi, non avrete mai a pentirvene»54.
In altre parole, Tex è l’uomo nuovo che trasferisce le ansie ita-
liane sul terreno del Far West, ma senza mai accettare una salvezza
fatta di «stelle e strisce». Nonostante il personaggio sia mutato nel
corso di più di sette decenni, i valori appresi nella casa paterna ri-
mangono per lui fondamentali.
326
Che dire degli innumerevoli omicidi dei racconti? Risponde un
giornalista e sceneggiatore: «Tex non uccide uomini, ma macchiette.
Ombre dalle parvenze umane che mettono al riparo i lettori da crisi
di coscienza che, in verità, dovrebbero essere senza soluzione di con-
tinuità, visti i numeri dell’ecatombe»55. Quando Tex spara e uccide, lo
fa per legittima difesa, e non colpisce nessuno se è possibile disarmarlo.
Nel 2008 L’Osservatore Romano, nel 60° di Tex, ha dedicato un pa-
ginone al personaggio. Qualche giorno dopo, l’eroe in persona ha ri-
sposto al quotidiano. Si lamenta che dopo l’articolo deve sopportare le
battuttacce di quel vecchio cammello di Kit Carson: «Ha cominciato a
chiamarmi San Tex! […] Ma io non sono uno stinco di santo. Di uo-
mini ne ho uccisi tanti. E per alcuni di loro non ho rimorsi. […] Posso
dire che non ho paura di guardarmi in faccia e non faccio sconti alla mia
coscienza. Ho una mia idea della giustizia. Non sopporto i farabutti e i
prepotenti, chi se la prende con i più deboli. Non so se questo abbia a che
fare con la religione. So che ha che fare con quello che sono: un uomo»56.

54. G. L. Bonelli - A. Galleppini, Tex. Lupi nell’ombra, Milano, Audace,


1953; cfr E. Leake, Tex Willer…, cit., 47.
55. R. Genovesi, «In difesa dei più deboli e della giusta causa. Lo stretto sen-
tiero di Aquila della notte», in Oss. Rom., 15 agosto 2008, 4. L’articolo celebra i 60
anni di Tex.
56. Cfr Tex Willer, «L’“Osservatore Romano” beatifica Tex», in www.
ilgiornale.it/news/losservatore-romano-beatifica-tex.html/, 23 agosto 2008. L’au-
tore del testo è Mauro Boselli.
IL MESTIERE DELLO STORICO
L’esperienza di John W. O’Malley
Festo Mkenda S.I.

Introduzione Questa lezione ci viene proposta


ora da uno dei più importanti stori-
Non possiamo chiedere ai per- ci del nostro tempo. A molti il suo
sonaggi storici come mai le do- nome farà venire in mente la sua ope-
mande che si sono posti fossero ra più popolare, The First Jesuits, del 327
importanti ai loro tempi, e tanto- 19932, tradotta in 12 lingue, o l’altra
meno possiamo indurli a rispon- del 2008, What Happened at Vatican
dere a quesiti che sono significativi II3. Quest’ultimo libro, pubblicato
ai giorni nostri. Qualche medio- per il cinquantesimo anniversario
cre studioso potrebbe approfittare dell’annuncio del Concilio Vaticano
di questa loro assenza per liquida- II da parte di san Giovanni XXIII,
re sbrigativamente il passato come ha catturato l’attenzione mondiale.
insulso nella sua epoca e inservibile Dall’alto del curriculum di 12 mono-
nella nostra. Tuttavia nel suo libro grafie a sua firma, quattro delle qua-
più recente, intitolato The Education li di impatto rivoluzionario e molte
of a Historian: A Strange and Won- altre pluripremiate, nella classifica
derful Story1, il gesuita statunitense degli studiosi O’Malley occupa un
John W. O’Malley spiega come la posto rilevante. Tuttavia, è pronto a
storia non ci consenta di fare una ricordarci che «gli storici non sono
simile affermazione. La prospettiva spiriti disincarnati». E forse sarà sta-
di un bravo storico ci aiuta invece a to il timore di essere scambiato per
capire perché e come il passato ab- un titano di stirpe divina che gli ha
bia senso entro i propri termini. ispirato The Education of a Historian,

1. Cfr J. W. O’Malley, The Education of a Historian: A Strange and Wonderful


Story, Philadelphia, Saint Joseph’s University Press, 2021.
2. Cfr Id., The First Jesuits, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1993; in it.
I primi gesuiti, Milano, Vita e Pensiero, 1997.
3. Cfr Id., What Happened at Vatican II, Cambridge, MA, Harvard University
Press, 2008; in it. Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

© La Civiltà Cattolica 2022 III 327-336 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


RIVISTA DELLA STAMPA

come un testamento che rivolge a di avanzare una critica negativa. Per


noi proprio allo scopo di attestare quanto mi riguarda, è stato soltanto
la sua profonda umanità. Questo li- dopo aver letto Vatican I di O’Malley
bro racconta «la storia di come abbia che ho imparato qualcosa sul contesto
fatto un giovane di modeste origi- e sui contenuti di quel Concilio. Nel
ni di una piccola città dell’Ohio a suo stile abituale, semplice e accessi-
raggiungere credito internazionale bile, egli ha reso umani i personaggi
come storico della cultura religiosa «pre-vaticani» e ci ha mostrato quanto
dell’Europa moderna» (p. 2). fossero serie le domande che essi si po-
Nel corso degli anni la scrittura di nevano.
O’Malley è stata guidata da un preciso In The Education of a Historian
principio: se avesse davvero capito un O’Malley ci racconta come fa uno
problema, avrebbe dovuto essere capa- storico a raggiungere quel livello
328
ce di spiegarlo a un vispo bambino di di chiarezza. Scritto per un vasto
10 anni. «Se non ne fossi stato in gra- pubblico, il libro è accessibile – fi-
do – egli scrive –, sarebbe stato segno nora – a chiunque sappia leggere
che stavo girando intorno al problema, l’inglese. Si potrebbe dire che se ne
piuttosto che colpire nel segno». Leg- sentiranno direttamente interpel-
gere questa affermazione mi ha fatto lati tre tipi di lettori: lo storico, il
pensare ad alcuni dei suoi altri scrit- cristiano e il gesuita.
ti, in particolare a Vatican I 4. Alla mia
generazione di africani il Concilio Va- Il mestiere di storico
ticano II (1962-65) ha offerto la possi-
bilità di diventare cattolici senza dover Per O’Malley, la professione del-
rinunciare alla nostra africanità. E i lo storico è sostanzialmente un me-
termini «pre-Vaticano II» e «Vaticano stiere. Attraverso la formazione, egli
I» ci suonavano sprezzanti, anche se acquisisce le competenze di base per
non avevamo idea di che cosa fosse il esercitarlo. La pratica gli conferisce
Vaticano I (1869-70). Studiando teolo- poi l’esperienza e lo munisce di nuo-
gia, ne avevamo appreso solo sporadi- vi strumenti, che aggiungerà uno
che frasi e, occasionalmente, sentenze dopo l’altro alla sua cassetta degli
riprese da fonti secondarie allo scopo attrezzi. The Education of a Histo-

4. Cfr J. W. O’Malley, Vatican I: The Council and the Making of the Ultramontane
Church, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2018; in it. Vaticano I. Il concilio e la
genesi della Chiesa ultramontana, Milano, Vita e Pensiero, 2019; cfr G. Pani, «Il Vaticano I.
Un nuovo contributo di John O’Malley», in Civ. Catt. 2020 II 76-81.
IL MESTIERE DELLO STORICO: L’ESPERIENZA DI JOHN W. O’MALLEY

rian ci permette di guardare dentro cessibile, informazioni su questioni


quella di O’Malley. È difficile im- complesse, evitando facili congedi
maginare un qualsiasi storiografo, di eventi come il Vaticano I.
maestro o apprendista, poco interes- Quando viene ben compresa, la
sato a scoprire quali strumenti que- missione dello storico infonde pote-
sto artigiano di successo abbia usato re in chi la pratica, sicché il secondo
nel corso degli anni. strumento che propongo è proprio
Ne evidenzierò solo quattro, il potere dello storiografo. I prodotti
tutt’altro che esaustivi rispetto a che egli forgia modellano la socie-
ciò che si trova nel libro. Il primo tà, passata e presente. Persone che
strumento, semplice ma indispen- da sole non frequenterebbero mai
sabile, è avere una missione chiara. gli archivi vedranno il passato dal
Così O’Malley descrive la propria: punto di vista dello storico. E in vir-
329
«Aiutarci a capire da dove veniamo, tù della visione che ne ricaveranno,
aiutarci a capire come siamo arri- cambierà anche la loro comprensio-
vati a essere quelli che siamo, che ne del presente. Studiamo la storia
cosa siamo, dove siamo, e quindi perché «il passato riguarda il presen-
aiutarci ad affrontare la realtà in cui te e il presente riguarda il passato»,
viviamo» (p. 153). Secondo lui, lo afferma O’Malley. Inoltre, il passa-
storico, mettendosi al servizio di to «ci fa da memoria collettiva, e la
questa missione, rende «operante la memoria è ciò che costituisce l’iden-
memoria del nostro passato colletti- tità» (p. 2). In questo senso, recepi-
vo nelle nostre vite». Compito non re bene il passato non è un’opzione
facile, anche perché «una compren- che possiamo ignorare, e tantomeno
sione completa [di quel passato col- possiamo fare a meno del mestiere
lettivo] è impossibile a noi mortali». dello storico.
La maggior parte degli storici sa- O’Malley parla del potere «spa-
rebbe d’accordo sul fatto che «anche ventoso» della conoscenza storica,
eventi a volte apparentemente sem- che può distruggere «miti su cui
plici si rivelano, a un esame, molto le persone hanno costruito la loro
più complessi di quanto sembrasse- vita» (p. 39). A questo riguardo,
ro a prima vista» (pp. 174 s). Questa egli condivide una linea di pen-
schietta ammissione di finitezza ri- siero sostenuta da vari famosi stu-
chiede una grande umiltà da parte diosi, che mettono in luce quante
dello storico e, ovviamente, di tutti falsità, a volte accuratamente ela-
noi. Nel suo lavoro, O’Malley ha borate, modellino l’esistenza del-
fornito ai lettori, con il suo stile ac- la società. Nel suo libro del 1983
RIVISTA DELLA STAMPA

intitolato Imagined Communities5, Uniti. Seguendo questa linea di pen-


per esempio, lo storico e politolo- siero, diventa ovvio che per miglio-
go britannico Benedict Anderson rare il presente è essenziale descrivere
osserva che l’«imbiancatura» delle correttamente il passato.
tragedie passate è una procedura Da O’Malley apprendiamo inol-
comunemente usata nella moder- tre che il potere richiede la respon-
na costruzione delle genealogie sabilità, requisito che viene proposto
nazionali. Tali genealogie gene- come terzo strumento. Il potere di
rano una sorta di «egoismo na- cui lo storico dispone lo costringe a
zionale» – prendiamo a prestito la prestare attenzione al prodotto che
brillante espressione dell’umanista presenta al pubblico. Il suo fardello
britannico Sir Victor Gollancz6 –, di responsabilità non riguarda sol-
che a sua volta giustifica l’esclusio- tanto noi nel presente, ma anche co-
330
ne e può portare all’impoverimen- loro che vissero nel passato. Come
to, alla guerra e al genocidio. un bravo storico non si divertirebbe
Quando lo storiografo espone il a screditare i miti altrui, così nep-
vero significato del passato, insidia pure manipolerebbe il passato per
quanti godono di privilegi grazie a trarne una narrazione consona a
genealogie distorte e libera coloro odierne considerazioni partigiane.
che sono tenuti prigionieri per mez- O’Malley sostiene che le «apologie»
zo di storie falsificate. In un libro re- settarie non hanno niente a che ve-
cente, intitolato Reimagining Human dere con la buona storia. Il passato,
Rights7, il gesuita americano William in questa, ha senso nel modo in cui
R. O’Neill ha collegato il successo è accaduto. Si tratta di una lezione
nella promozione dei diritti umani metodologica che lo storico gesuita
alla nostra capacità di confutare fal- ha appreso all’inizio della sua carrie-
se narrazioni come quelle che han- ra. La descrive come una svolta che
no generato e sostenuto l’apartheid in è avvenuta in un momento preciso
Sudafrica, il genocidio in Ruanda e della sua formazione, mentre la-
la segregazione razziale negli Stati vorava alla sua tesi di dottorato su

5. Cfr B. Anderson, Imaged Communities: Reflections on The Origin and Spread


of Nationalism, Condon, Verso, 1991; in it. Comunità immaginate, Roma - Bari, Laterza,
2018.
6. Cfr V. Gollancz, My Dear Timothy: An Autobiographical Letter to his Grandson,
London, Camelot, 1952, 292.
7. Cfr W. R. O’Neill, Reimagining Human Rights: Religion and the Common Good,
Washington, Georgetown University Press, 2021.
IL MESTIERE DELLO STORICO: L’ESPERIENZA DI JOHN W. O’MALLEY

Egidio da Viterbo (1472-1532), frate tica del sospetto e un’ermeneutica


agostiniano, cardinale, umanista e della compassione» (pp. 50; 132).
teologo rinascimentale. Egli scrive: Si sarebbe forse indotti a credere
«Stavo cercando di indurre Egidio che la missione, il potere e la respon-
da Viterbo, un pensatore del XVI sabilità che uno storico deve assumersi
secolo, a rispondere alle mie do- potrebbero trasformare il suo mestiere
mande del XX secolo». E aggiunge in un fardello preoccupante. Eppure,
che più si sforzava di utilizzare quel The Education of a Historian ci presen-
metodo, più gli risultava fallimen- ta un uomo che lo ha trovato piace-
tare. «Avevo bisogno di operare un vole e soddisfacente. O’Malley ne trae
cambiamento radicale: era necessa- la conclusione che quando si svolge la
rio che entrassi nella sua mente e co- missione dello storico con fedeltà e re-
gliessi quali fossero le sue domande» sponsabilità, questo processo approda
331
(p. 73). Una volta apportato questo a «una comprensione del passato che
cambiamento metodologico, Egi- ci è sufficiente» (p. 176). Non affer-
dio risultò comprensibile a O’Mal- ma, si noti, che lo storico abbia l’ulti-
ley nei termini di Egidio stesso. A ma parola su un qualsiasi argomento,
sua volta, O’Malley, rimanendo fe- nemmeno su un singolo personaggio
dele al contesto e al contenuto degli come Egidio da Viterbo. Le riflessio-
scritti del cardinale, si è reso respon- ni dello storico gesuita schiudono la
sabile nei suoi confronti. possibilità di un apprendimento con-
Fa parte della responsabilità del- tinuo, vale a dire aperto a costruire o
lo storico verso il passato, insiste a correggere ciò che è stato già realiz-
O’Malley, «la necessità di tempera- zato, da sé o da altri.
re il sospetto con la compassione, Il libro abbonda di esempi che il-
quando si tratta di interpretare le lustrano come la carriera di O’Mal-
motivazioni dei personaggi stori- ley abbia beneficiato della ricerca e
ci». Se infatti è impossibile acquisire dell’esperienza altrui. Mostra inoltre
una conoscenza completa di tutto, e come si sia sviluppata la sua abilità di
per giunta i personaggi del passato artigiano, sempre più affinata, man
oggi non possono difendere sé stes- mano che acquisiva nuove capacità ed
si, è anche vero che il presente ci ha esaminava nuovi materiali. Una «se-
esposti a fatti del tutto sconosciuti a rie continua di spunti» gli ha fornito
coloro che vissero su questa Terra «una comprensione sempre più pro-
prima di noi. O’Malley consiglia al fonda del mestiere dello storico» (p. 1).
bravo storico di attenersi a «un giu- Egli può permettersi in proposito una
dizioso equilibrio tra un’ermeneu- battuta scherzosa: «È facile scrivere un
RIVISTA DELLA STAMPA

libro quando stai plagiando te stesso»; incentrate sul mestiere dell’uomo


ma poi si premura di spiegare che i che la investiga. Ma The Education
suoi libri precedenti gli hanno dato of a Historian offre anche lezioni su-
un’idea chiara dello scopo che voleva gli effetti benefici che la buona storia
ottenere in ciascun capitolo di ogni produce in noi. La lettura trasmette
nuovo saggio che scriveva. A suo giu- la sensazione che l’autore sia sereno
dizio, «non c’è niente che spinga un nel momento presente e ottimista
autore a procedere più velocemente» riguardo al futuro, perché conosce
(p. 168). il passato. Questa convinzione non
Potremmo quindi assumere si incrina nemmeno quando egli
come quarto strumento un’osserva- racconta crisi sconvolgenti alle quali
zione che O’Malley fa proprio alla ha assistito di persona. O’Malley era
fine del libro: «La professione storica a Firenze durante la grande alluvio-
332
si autocorregge». Questa è una pro- ne del 1966; era a Detroit durante
posta confortante, uno strumento le catastrofiche rivolte del 1967; è
essenziale nella cassetta degli attrezzi stato nella regione di Boston, dove
dello storico, utile a dissipare qualsiasi con vergogna e orrore ha assistito
sentimento di timidezza o di compe- all’emergere dello scandalo sessuale
tizione. «Gli storici rivedono e revi- relativo al clero locale, origine di un
sionano il lavoro degli altri, e ciò fa sì terremoto che presto avrebbe scosso
che le lacune vengano colmate e gli la Chiesa cattolica. Ma può vantare
errori siano corretti», afferma O’Mal- anche l’esperienza romana nel cor-
ley. Il compito di reperire un signi- so di due delle sessioni del Vaticano
ficato dal passato è, in questo senso, II, quando stava rielaborando la sua
condiviso da tutti i buoni storiogra- tesi in vista della pubblicazione; e di
fi. E anche se la «comprensione del nuovo nella Città eterna quando,
passato che emerge dal processo può negli anni Ottanta, furono restaura-
non cogliere [ancora] la piena portata ti gli affreschi di Michelangelo nella
di ciò che è accaduto […], nondime- Cappella Sistina (cfr pp. 3 s).
no la distingue quanto basta per far- Il volume costituisce anche un
ci comprendere a che punto siamo e atto di generosa condivisione di sé
come ci siamo arrivati» (p. 176). stesso da parte di O’Malley con i suoi
lettori, perché descrive chiaramente
La storia come àncora della fede com’è accaduto che la sua vita si sia
intrecciata con questa professione.
Fin qui le lezioni sul metodo con «Quale che fosse il suo obiettivo spe-
cui affrontare lo studio della storia, cifico – afferma –, il mio libro non
IL MESTIERE DELLO STORICO: L’ESPERIENZA DI JOHN W. O’MALLEY

può non rivelare me stesso, un esse- lo ha invogliato a studiare la storia


re umano che affronta le sfide della italiana piuttosto che quella tede-
vita, compresi i ricorrenti dubbi per- sca, e una crisi della Compagnia di
sonali» (p. 4). Lo storico ci descrive Gesù, negli anni Settanta e Ottan-
la sua infanzia, in particolare il suo ta, lo ha portato a ricentrare la sua
rapporto con i genitori, di cui era ricerca sui gesuiti. Comunque gli
l’unico figlio, e con la sua famiglia si presentasse, il presente diventava
allargata. Apprendiamo quali fossero una finestra da cui poteva guardare
le relazioni con i vicini e i compagni il passato. Mentre siamo intenti nella
di scuola. Si fa riferimento alla morte lettura, possiamo quasi sentirlo riba-
della madre e al secondo matrimo- dirci con fermezza che, se vogliamo
nio del padre. L’autore ci descrive la comprendere il passato, dobbiamo
decisione di entrare nella Compa- prendere sul serio il nostro presente.
333
gnia di Gesù, e che cosa abbia signi-
ficato per i suoi genitori quella scelta Trovare Dio in tutte le cose
del loro unico figlio, e la successiva
formazione come gesuita. Ci fa con- Per quanto O’Malley affermi
siderare il peso che la Compagnia di che il libro non riguarda la sua re-
Gesù ha avuto sulla sua carriera di lazione con Dio, di fatto esso ci mo-
storiografo. Sotto questo profilo, il stra come egli abbia trovato Dio in
libro sarà utile a ogni lettore che de- quasi tutto ciò che lo circondava. Il
sideri trarre beneficio dal resoconto concetto di trovare Dio in tutte le
dell’itinerario esistenziale di un’altra cose risale a sant’Ignazio di Loyola,
persona. Si può parlare di una lettura il fondatore dei gesuiti. In parole po-
edificante, non perché il libro con- vere, ci viene suggerito di cogliere la
tenga rivelazioni o eventi miracolosi presenza di Dio fedele a noi in qua-
vissuti dall’autore, ma per la sua or- lunque circostanza ci troviamo. Al-
dinarietà, perché lascia l’impressione cune situazioni ci appaiono del tutto
che chiunque potrebbe diventare un casuali, e non avremmo mai scelto di
O’Malley. viverle. Eppure, anche in esse Dio ci
Nell’insieme, la narrazione ci ri- rivela sé stesso. Questo tema traspare
trae l’autore alle prese con le persone nella narrazione di O’Malley, quan-
e le vicende della sua vita, piccole o do ci racconta, per esempio, «come
grandi, banali o serie, e ci mostra incontri casuali abbiano cambiato la
come ognuna di esse abbia contri- [sua] vita e la [sua] carriera di studio-
buito alla sua formazione. La sua so, talvolta in modo radicale» (p. 3).
passione per il gelato, per esempio, Ci sono stati molti eventi del genere,
RIVISTA DELLA STAMPA

che hanno aperto le porte a conqui- di quanto fosse limitata la portata


ste magnifiche. di quella conoscenza, e quindi mi
Come ogni memoria autobio- ha reso dolorosamente consapevole
grafica, The Education of a Historian della vastità di ciò che non sapevo»
ci propone una visione soggettiva. (p. 77). Dalla stessa sorgente lo sto-
Ma per gran parte dell’opera questa rico ha attinto lezioni di giustificato
considerazione può essere presa in orgoglio e di umiltà.
senso positivo. A rendere O’Malley Prima abbiamo detto che tra i
uno storico responsabile è in effet- lettori che si sentiranno interpella-
ti il suo ruolo attivo nella storia che ti in prima persona da O’Malley ci
racconta. La nozione di obiettivi- sono i gesuiti. In effetti, si può allar-
tà, talora fin troppo enfatizzata in gare questo pubblico, fino a com-
ambito accademico, in questo caso prendere tutti i religiosi e le religio-
334
viene temperata dalla responsabili- se, specialmente quelli che si ispirano
tà personale. Nessuno, per quanto alla spiritualità ignaziana. Nel passa-
ci provi, può spersonalizzarsi fino to, ai novizi e ai giovani gesuiti in
a trattare un tema come se fosse formazione venivano proposti brani
uno spirito disincarnato. O’Malley tratti dalle Lettres édifiantes et curieu-
ci rende partecipi dei dettagli del- ses, che per lo più riferivano crona-
la sua vita, perché crede che «ogni che missionarie di imprese grandi e
comprensione che uno storico ha miracolose compiute in terre lonta-
del passato sia colorita dalla sua per- ne. Non rimpiangiamo la scomparsa
sonalità, dai suoi pregiudizi e dalle di tale genere di strumento formati-
sue esperienze» (p. 175). vo, perché probabilmente molti no-
Questa ammissione, se da un vizi contemporanei non ne rimar-
lato giustifica il suo orgoglio per ciò rebbero edificati. E, d’altra parte, c’è
che ha realizzato, dall’altro lo rende la possibilità di imparare dalla storia
profondamente umile. Il suo non è di qualcun altro, specialmente se è
mai l’unico punto di vista su qual- una persona più avanti nella vita re-
cosa, tantomeno quello definitivo. ligiosa. Un racconto come quello di
Sulla base delle sue scoperte, egli O’Malley, nella sua ordinarietà, mi
ha potuto affermare con un sincero sembra che abbia tale qualità.
sentimento di fiducia: «Sapevo quel- Nella stessa giornata in cui mi è
lo che sapevo e sapevo di saperlo». E giunta la copia di The Education of a
questa stessa consapevolezza lo ha Historian ho ricevuto la mail di un
portato ad aggiungere: «Sapere ciò giovane gesuita di Abidjan, in Co-
che sapevo mi ha reso consapevole sta d’Avorio, che mi confidava la sua
IL MESTIERE DELLO STORICO: L’ESPERIENZA DI JOHN W. O’MALLEY

passione per la storia. Questo deside- mio programma nulla interferisca


rio lo aveva indotto a porsi domande con essi» (pp. 173 s).
importanti. Egli scriveva: «Onesta-
mente non so da dove cominciare e Conclusioni
come affrontare questa disciplina»,
per poi aggiungere: «Sto cercando Infine, c’è un messaggio speciale
di capire come questo mio interesse anche per gli anziani, soprattutto per
possa essere utile alla Compagnia di quanti di loro trovano difficile ve-
Gesù». Non riesco a pensare a un re- nire a patti con l’idea del pensiona-
galo migliore del libro di O’Malley mento. Probabilmente conosciamo
da inviare a quel giovane gesuita. E la massima «Prega come se tutto di-
potrebbero esserci molti altri giovani pendesse da Dio; lavora come se tut-
interessati alla storia come lui. to dipendesse da te», spesso attribuita 335
Ai gesuiti e ad altri religiosi il a sant’Agostino d’Ippona e talvolta a
libro può offrire insegnamenti an- sant’Ignazio di Loyola. Alcuni stu-
che in modo più generale. C’è chi diosi hanno sostenuto che questa di-
vorrà sapere come si sia comportato chiarazione in realtà è stata fraintesa.
O’Malley quando, dopo gli studi di Una corretta interpretazione della
dottorato, gli è stato assegnato un spiritualità ignaziana condurrebbe a
ministero senza previa consultazio- operare come se tutto dipendesse da
ne. In effetti, dalla sua narrazione Dio e a pregare come se tutto dipen-
si evince che pochi dei servizi che desse da noi. La differenza è sottile,
egli ha svolto furono dovuti a sug- ma decisiva. Nell’opinione del ge-
gerimenti fatti da lui ai superiori. suita William A. Barry, «la versio-
Nel libro anche queste semplici ne consueta […] porta facilmente a
parole rivelano il suo animo: «Nel- una implicita visione in cui ci sono
la mia vita di gesuita, [...] per me è due sfere di attività: il nostro mon-
sempre più importante l’abitudine do ordinario, che va avanti come se
alla meditazione quotidiana che ho Dio non vi avesse nulla a che fare,
imparato da novizio a Milford. Mi e un mondo soprannaturale, in cui
ha nutrito e rasserenato ogni giorno, Dio agisce e dal quale egli, occa-
anche nei momenti che parevano più sionalmente, interviene nel nostro
oscuri. Mi ha permesso di affrontare mondo ordinario». Secondo Barry,
anche l’oscurità che trovavo dentro di quando preghiamo come se tutto
me. Ecco perché apprezzo quei trenta dipendesse da noi e lavoriamo come
o sessanta minuti di preghiera ogni se tutto dipendesse da Dio, la nostra
mattina, e faccio in modo che nel esistenza viene guidata da un atteg-
RIVISTA DELLA STAMPA

giamento spirituale completamente O’Malley. Mostra che egli non ha


diverso: «Mi dedico con tutto il cuo- mai sposato l’arte dello storico al
re a qualunque compito mi venga punto di sottomettere la propria
assegnato e faccio tutto il possibile persona alle sue prerogative. Ciò
perché il mio operato abbia successo. appare evidente quando leggiamo
Ma non sposo quell’impresa al pun- della sua decisione di ritirarsi: «Ho
to da identificarmi totalmente con il pregato per avere luce. Ho parla-
lavoro o con il posto che occupo o to con gli amici. Ovviamente ho
con le persone con cui lo svolgo. La consultato il mio provinciale e ho
mia identità dipende principalmen- avuto diversi colloqui con il mio
te dalla mia relazione con Dio, che superiore a Georgetown. [Poi] mi
agisce per il suo fine dentro e attra- sono dimesso dalla mia carica uni-
verso di me. Sicché, se quell’impresa versitaria e il 12 giugno 2020 mi
336
fallisce, o se vengo assegnato a un sono trasferito nella nostra comu-
altro compito, o se non sono più in nità di gesuiti pensionati a Balti-
grado di portarla avanti per motivi mora» (p. 171).
di salute, non ne resto sconvolto e Dopo queste parole conclusive
posso, come Ignazio (sebbene forse dell’autore, non resta che aggiun-
non così facilmente), ritrovare il mio gere soltanto una considerazione:
equilibrio attraverso la preghiera»8. ci vuole qualcuno del calibro di
The Education of a Historian O’Malley per concentrare così tan-
rivela quale persona sia John W. te cose in meno di 200 pagine.

8. W. A. Barry, «Jesuit Spirituality for the Whole Life», in Studies in the Spirituality
of Jesuits 31 (2003/1) 14 e 26.
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

I
337
FARISEI
a cura di JOSEPH SIEVERS - AMY-JILL LEVINE
Cinisello Balsamo (Mi) - Roma, San Paolo – Gregorian & Biblical Press,
2021, 432, € 45,00.

Il libro contiene una raccolta di contributi, curata dal professore Joseph


Sievers e dalla professoressa Amy-Jill Levine, a seguito del Convegno Gesù
e i farisei. Un riesame interdisciplinare, svoltosi a Roma dal 7 al 9 maggio
2019, in occasione del 110° anniversario della fondazione del Pontificio
Istituto Biblico, con la partecipazione di una significativa rappresentanza
di istituzioni e organizzazioni ebraiche e cristiane.
Nel discorso rivolto ai partecipanti al Convegno, papa Francesco ha messo
in risalto, da una parte, i risultati raggiunti dal documento conciliare Nostra
aetate, sui rapporti con il popolo ebraico e le religioni non cristiane, e, dall’al-
tra, gli elementi dottrinali che Gesù condivideva con i farisei, riconoscendo
che gli stereotipi sui farisei nel passato hanno fomentato pregiudizi e contri-
buito all’antisemitismo. Una parte del Convegno è stata dedicata proprio agli
stereotipi sui farisei: per esempio, nell’arte figurativa, nella filmografia e nel
teatro, nelle omelie, nella catechesi e nei libri di testo della religione cattolica.
I contributi della prima parte del volume riguardano l’origine e la storia
dei farisei e le loro caratteristiche. A proposito del primo punto, non è certa né
la provenienza dei farisei né la loro posizione nei riguardi di Gesù e dei primi
discepoli: nei Vangeli, piuttosto, la loro caratterizzazione è funzionale agli
scopi della narrazione. Per quanto riguarda il secondo punto, si discutono le
caratteristiche della loro identità negli scritti di Giuseppe Flavio, sottolinean­
do la loro popolarità a proposito dell’interpretazione della legge mosaica,
considerata troppo liberale da parte degli esseni, i quali li definiscono dorshey

© La Civiltà Cattolica 2022 III 337-342 | 4131-4132 (6 ago/3 set 2022)


RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

hachalaqot («cercatori di cose lisce»). Come la loro origine, così pure le loro
caratteristiche e le loro posizioni non sono chiare e definite.
Le questioni storiche sono trattate da specialisti del Nuovo Testamento, da
esperti di lingue bibliche, studiosi di storia del cristianesimo antico e del giu-
daismo del secondo Tempio. Esse includono l’origine del nome «farisei», la loro
halachà, le caratteristiche sociali che si desumono dalla loro pratica religiosa e
dall’interpretazione biblica. Un aspetto importante per la comprensione del
ruolo dei farisei nei Vangeli è rappresento dalle polemiche giuridiche – come il
sabato, le abluzioni, il divorzio, il comandamento più grande ecc. –, con la pra-
tica dell’ermeneutica biblica orientata dalla «tradizione», molto popolare anche
tra l’uditorio di Gesù, il quale però spesso sarebbe più vicino alle posizioni
«bibliche» dei sadducei. I farisei non sarebbero stati tanto preoccupati del livello
di osservanza della Legge, quanto piuttosto di favorire «una particolare forma
di osservanza della Legge che, seguendo la loro ideologia religiosa e sociale,
autorizzava in ultima analisi la mediazione umana della legge divina» (p. 206).
338
Gesù condivideva con i farisei l’«umanizzazione» della Legge, riassunta nel-
la regola d’oro: «Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a
loro». Nel suo discorso rivolto ai partecipanti al Convegno, papa Francesco l’ha
menzionata come una pratica su cui si deve basare il dialogo ebraico-cristiano.
L’importanza di tale regola risalta in modo particolare oggi, nella crisi globale
della pandemia e con la guerra in Ucraina. L’applicazione dell’insegnamento
biblico riassunto da questa regola, come è formulata e adattata alla ricerca sto-
rica, all’istruzione e allo studio delle fonti da Massimo Grilli e Joseph Sievers,
determinerà un risultato importante per il futuro dei farisei, cioè per come
essi saranno compresi, e per come di conseguenza saranno compresi sia alcuni
aspetti storici del ministero di Gesù sia la prassi «cristiana» dei suoi discepoli. La
pratica della regola d’oro porterà buoni frutti per la realizzazione dell’umanità
fraterna, di cui parla l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti.
Pino Di Luccio

ANGELO CALECA

A L SERVIZIO DELL’ITALIA E DEL PAPA.


LE TANTE VITE DI BERNARDINO
NOGARA (1870-1958)
Bologna, il Mulino, 2022, 392, € 30,00.

L’ingegnere Bernardino Nogara è una figura chiave della storia delle fi-
nanze vaticane. A lui Pio XI affidò con assoluta fiducia la gestione dell’ingente
somma resa disponibile dall’Italia in base alla Convenzione finanziaria com-
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

presa nei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929: 750 milioni di lire in contanti
e un miliardo in buoni del Tesoro. A questo scopo venne istituita l’Ammini-
strazione speciale della Santa Sede, la cui guida fu delegata dal Papa appunto
a Nogara. Pio XI seguiva con molta attenzione tutto ciò che riguardava l’e-
dificazione delle strutture del nuovo Stato della Città del Vaticano e l’ammi-
nistrazione, che rendeva possibile la straordinaria dinamica operativa del suo
pontificato. I suoi rapporti personali con Nogara furono quindi assai profondi.
Ma il libro che presentiamo non si limita a trattare dei 25 anni vissuti
da Nogara nel palazzo del Governatorato Vaticano. Si tratta infatti di una
biografia completa, assai documentata – anche grazie all’archivio familiare –,
dettagliata e avvincente, che ci permette di comprendere bene da dove veniva
quest’uomo e perché riscuotesse tanta stima da parte di Pio XI.
Bernardino nasce nel 1870 a Bellano, sul Lago di Como, da una famiglia
benestante di fede cattolica molto solida - dei 13 figli, tre dei quali morti molto
presto, 5 saranno sacerdoti e l’unica figlia suora –, ben imparentata e inserita
339
nell’alta società milanese. Da giovane, studia al Politecnico di Milano e inizia la
sua attività come ingegnere minerario, operando sul campo prima nel Brescia-
no, poi nel Galles e quindi nei Balcani. La moglie Ester lo segue con fedeltà e
coraggio nelle diverse sedi: in Gran Bretagna, poi a Salonicco, infine a Costanti-
nopoli. Gli affetti e gli impegni familiari – testimoniati dalle tante lettere ripor-
tate nel volume – sono il tessuto umano e spirituale di fondo di una vita molto
intensa. Le circostanze portano l’ingegnere a trasformarsi in manager e uomo
d’affari. Egli si muove in un contesto internazionale in drammatica evoluzione,
nel declino e nello sfaldamento dell’Impero ottomano, e assume responsabilità
sempre più rilevanti come rappresentante di interessi economici e politici italiani
nel tempo giolittiano. Dopo la guerra italo-turca viene nominato rappresentan-
te dell’Italia nel Consiglio di amministrazione del Debito pubblico ottomano.
Dopo la Prima guerra mondiale, i suoi compiti nell’ambito della diplomazia
economica si sviluppano ulteriormente, tanto che viene chiamato a partecipare
alla Conferenza di pace di Parigi nel 1919 e poi alla Conferenza di Losanna
nel 1922. Dal 1924 fa parte della delegazione italiana a Berlino per l’attuazione
del Piano Dawes sugli impegni tedeschi postbellici di riparazione. Nogara ha
quindi rapporti continui con il ministero degli Esteri, e anche personalmente
con Mussolini, con cui dialoga sull’espansionismo economico italiano all’estero.
Collabora perciò di fatto con il regime, ma eviterà sempre di dichiararsi fascista.
Con la guerra d’Etiopia la sua distanza dal fascismo diventerà netta.
È dunque un uomo di grande esperienza internazionale, che ha saputo de-
streggiarsi con abilità e prudenza anche nelle crisi belliche più gravi, tessendo
fitti rapporti nel campo economico, finanziario, diplomatico, politico, e gua-
dagnandosi stima e fiducia per la sua integrità morale. A lui Pio XI si rivolge
per il compito di grande responsabilità di cui abbiamo parlato. Dai suoi anni
milanesi il Papa conosceva e stimava la famiglia Nogara, e il fratello maggiore
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

di Bernardino, Bartolomeo, era già stato nominato nel 1920 direttore generale
dei Musei Vaticani da Benedetto XV.
Nogara risponde senza incertezza, trasferendosi con la moglie in Vaticano,
sapendo di assumere un servizio difficile per la Chiesa. La sua strategia diffe-
renziata di investimenti è dinamica e ad ampio raggio, si sviluppa in diversi
Pae­si, in obbligazioni, in azioni e anche in immobili, poiché i tempi sono diffi-
cili e i rischi molto alti. Bisogna far fronte con prontezza alla grande crisi degli
anni Trenta e alle conseguenze delle tensioni internazionali che sfoceranno
nella Seconda guerra mondiale.
Alla morte di Pio XI, diversi degli uomini di fiducia «longobardi» di
cui il Papa si era circondato vengono sostituiti da «romani», ma Nogara
resta al suo posto, confermatovi da Pio XII. In verità è molto difficile sosti-
tuirlo, ed egli può ancora contare sulla fiducia del segretario di Stato, card.
Maglione, nonostante un clima vaticano meno favorevole.
Nei primi anni della ricostruzione dopo la guerra, Nogara gode di grande
340
prestigio e autorevolezza nel mondo economico e finanziario italiano, con cui
aveva sempre conservato diversi rapporti, in particolare tramite la Banca com-
merciale italiana. Nelle ultime pagine del volume l’A. tratteggia le dure criti-
che a proposito delle costruzioni edilizie a Roma e della gestione della Società
Immobiliare, di cui il Vaticano era un importante azionista. A suo parere, se
Nogara aveva consapevolmente investito nelle aziende che avrebbero operato
nella ricostruzione, non dipese poi da lui la loro successiva discussa gestione.
In effetti, nel 1954 Nogara, a 84 anni, si ritirò a vita privata e rientrò a Mi-
lano con la sua inseparabile Ester. Diversi gravi lutti familiari li colpirono, ma
poterono trascorrere insieme ancora tre anni. Nel 1958, a distanza di pochi mesi,
prima lei, poi lui, vennero a mancare. Poche settimane prima della sua morte era
stato eletto papa Angelo Roncalli, suo amico, che espresse la sua stima per lui de-
finendolo «servo buono e fedele». Come non mancarono le espressioni di apprez-
zamento del card. Montini, che lo aveva conosciuto a lungo negli anni romani.
Insomma: una vita lunga e molto operosa. Nell’Introduzione, l’A. scrive:
«Ingegnere, uomo d’affari, cattolico, finanziere, diplomatico, giolittiano, ban-
chiere Comit, tecnocrate internazionale, uomo del Vaticano: non è facile tro-
vare una definizione unica per Bernardino Nogara» (p. 19). Tuttavia, a fine
lettura, ci pare che il titolo del libro riesca a esprimere una buona sintesi: «Al
servizio dell’Italia e del Papa». Un laico cattolico che con integrità dedica straor-
dinarie risorse di intelligenza e operosità al servizio del suo Paese e della Chiesa,
accompagnato e sostenuto da una moglie eccezionale, che lo ama senza riserve
e ne è pienamente ricambiata.

Federico Lombardi
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

FEDERICO RAMPINI

I CANTIERI DELLA STORIA.


RIPARTIRE, RICOSTRUIRE, RINASCERE
Milano, Mondadori, 2020, 252, € 19,00.

Società, nazioni e imperi crollano, ma anche rinascono. Questa è la buo-


na notizia dello studio di Rampini, che attraversa trasversalmente periodi de-
cisivi della storia mondiale: l’Impero romano, la lotta contro lo schiavismo, le
crisi economiche e le ricostruzioni del dopoguerra.
Insieme al tema della rinascita, un altro aspetto messo in rilievo è la
complessità degli elementi in gioco in questi eventi, come, ad esempio, a
proposito della Guerra di secessione negli Usa per l’abolizione della schia-
vitù. Il profondo intreccio di problematiche esplose nel conflitto mostra il
differente percorso storico, economico, sociale e culturale degli Stati del
Nord rispetto a quelli del Sud: «Lo schiavismo mantenne l’economia del
341
Sud in una situazione di arretratezza, la disponibilità di una manodopera
a buon mercato ritardò la sua modernizzazione. I latifondisti erano a loro
volta in una “trappola ereditaria”: avevano ricevuto in lascito un sistema di
sfruttamento molto redditizio, ma anche degradante, pericoloso e instabi-
le» (p. 42). Per quanto riguarda il Nord, le condizioni di vita di un operaio
delle grandi industrie non erano molto migliori di quelle degli schiavi co-
stretti a lavorare nelle piantagioni.
L’armistizio del 1865 mise fine solo in apparenza alla conflittualità tra
le parti, lasciando un rancore di fondo. Anche i diritti degli afroamericani,
in nome dei quali si scatenò una guerra sanguinosissima (700.000 morti),
rimasero di fatto lettera morta fino alla presidenza Johnson, e ancora oggi
l’«uguaglianza» è una parola più sbandierata che attuata. Il movimento anti-
razzista diventa sempre più popolare, ma rischia di trasformarsi in un feno-
meno cool, una versione aggiornata dell’America puritana.
La rapida rinascita del Giappone dopo la sconfitta è un altro argo-
mento intrigante. Pur priva di materie prime, questa nazione diventa in
breve la seconda potenza mondiale. Una sorpresa che si mostra già dalla
maniera con la quale la popolazione collabora all’occupazione statunitense,
smentendo facili cliché: un Paese distrutto e ridotto alla fame mette rapida-
mente da parte l’ideologia militare per dedicarsi alla ricostruzione. Aiutata
in questo, come in Germania Ovest, da una classe politica attenta al bene
della nazione e ai legami comunitari. Il miracolo economico è stato prece-
duto da un miracolo politico.
Il Giappone è stato però anche favorito dal desiderio statunitense di non
umiliare il nemico (l’errore che aveva portato alla Seconda guerra mondiale),
ma di aiutarlo a rinascere: «Una parte delle riforme calate su Tokyo si ispira
a quel modello sociale con cui l’America degli anni Trenta ha cercato di
RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

attutire le sofferenze della grande depressione» (p. 165). Un modello che si


rivela in effetti vincente anche per la ricostruzione in Europa: «investimenti
pubblici per far ripartire la crescita, nel quadro di un’economia aperta, con
lo smantellamento dei protezionismi» (p. 122). Sono investimenti in cui si
presta a fondo perduto, eppure proprio così entrambi i contraenti ci gua-
dagnano. È quello che viene chiamato il «gioco a somma positiva, in cui
l’arricchimento di un soggetto non impoverisce l’altro, anzi» (p. 122).
Sono storie che mostrano luci e ombre. Anche quei giganti conosco-
no una stasi: il Giappone nel 1989; gli Usa nelle frequenti crisi economiche,
ben presto esportate nel resto del mondo. Ma nelle diversità delle situazioni
emergono punti in comune alla base della rinascita: l’altruismo; una politica
priva delle miopi preoccupazioni di gestire i propri interessi; la fiducia della
popolazione nelle istituzioni: una fiducia guadagnata grazie a governanti che
hanno vissuto il loro compito come un servizio alla nazione e non come mero
tornaconto personale.
342

Betty Varghese
OPERE PERVENUTE

AGIOGRAFIA SPIRITUALITÀ
KELLY T. M., Rutilio Grande. Quando il CURTAZ P., Sul dolore. Parole che non ti
Vangelo mette radici, Cinisello Balsamo (Mi), San aspetti, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2022,
Paolo, 2022, 272, € 22,00. 256, € 16,00.
SALVARANI B., Fino a farsi fratello di tutti. DONADIO F., Sullo «spirito» dell’Enciclica
Charles de Foucauld e papa Francesco, Assisi (Pg), «Fratelli tutti», Caserta, Saletta dell’Uva, 2022,
Cittadella, 2022, 184, € 14,90. 96, € 10,00.
MARTIN J., Insegnaci a pregare, Cinisello
Balsamo (Mi), San Paolo, 2022, 247,
ECCLESIOLOGIA € 20,00.
PAVLOU T., La Chiesa, sposa mistica di SAMBONET G., Vangelo a cento voci.
Cristo. Sintesi teologico-sistematica di ecclesiologia L’esperienza di una comunità in preghiera
in chiave simbolica, Città del Vaticano, Libr. Ed. secondo il metodo degli Esercizi Spirituali
Vaticana, 440, 2022, € 42,00. di Ignazio di Loyola, Milano, Àncora, 192,
2022, € 17,00.

MORALE STORIA
ZUCCARO C., Le dinamiche del
BINNI A. ET AL., L’impresa di Fiume
discernimento. Verso la soluzione dei conflitti morali,
(1919-1920). Tra mito e realtà, Lesmo (Mb),
Brescia, Queriniana, 2022, 216, € 20,00.
Etabeta, 138, 2022, € 12,00.
BRUCKBERGER R. L., La Repubblica
SACRA SCRITTURA americana, Crotone, D’Ettoris, 2021, 152,
€ 16,90.
CANOPI A. M., La loro voce percorre la terra. PERRONE N., Il realismo politico di De
Lectio divina sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Gasperi. Fanfani invece vuole i missili ame-
Balsamo (Mi), San Paolo, 2022, 350, € 22,00. ricani, Roma, BastogiLibri, 2022, 124,
Cose nuove e cose antiche (Mt 13,52) (A. € 15,00.
SANTIAGO - G. DE VIRGILIO), Bornato in
Franciacorta (Bs), Sardini, 244, 2021, 24,00.
DI PALMA G., L’ annuncio della salvezza nel TEOLOGIA
primo secolo cristiano da Gesù a Paolo, ivi, 2021, CARRÓN J. - GALIMBERTI U., Credere,
264, € 26,00. Milano, Piemme, 112, 2022, € 16,50.
SACHA FORNACIARI C., Le pietre del SEQUERI P., L’iniziazione. Dieci lezioni
Tempio. Costruttori e cantieri nella Bibbia, Torino, su nascere e morire, Milano, Vita e Pensiero, 208,
Lindau, 2022, 140, € 14,50. 2022, € 16,00.
WERBICK J., Dio-umano. Una cristologia
SOCIOLOGIA «elementare», Brescia, Queriniana, 2022, 336,
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COZZI M., Dio ha le mani sporche. Il grido
degli innocenti, le angosce dei carnefici, l’arroganza
dei boss, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 208, VARIE
€ 16,00. FERRAIUOLO L., Italia sacra, straordinaria
CRISTIANO G., Storie di Covid. Storie e misteriosa. Viaggio per esploratori con l’anima,
di persone. Per non dimenticare, Cosenza, Luigi Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2022, 352,
Pellegrini, 2021, 152, € 15,00. € 20,00.
VARISCO S. M., Il giorno di chi è in cammino. NAGAI T. P., Pensieri dal Nyokodo. L’ audacia
Storia della Giornata mondiale del migrante e del rifu­ di un cuore che ogni mattino si rimette all’opera, ivi,
giato in Italia, Todi (Pg), Tau, 2020, 250, € 10,00. 2022, 304, € 16,00.

NOTA. Non è possibile dar conto delle molte opere che ci pervengono. Ne diamo intanto un annuncio
sommario, che non comporta alcun giudizio, e ci riserviamo di tornarvi sopra secondo le possibilità e lo
spazio disponibile.
BEATUS POPULUS, CUIUS DOMINUS DEUS EIUS

RIV ISTA INTERNAZIONALE DEI GESUITI

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