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Franz Schubert, Erlkönig (Johann Wolfgang Goethe)
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5. POESIA DRAMMATICA PER MUSICA NELL’EPOCA MODERNA (XVII-XIX SECOLO)
L’incontro, o meglio lo scontro fra queste due opposte concezioni estetiche e poietiche,
rappresentate nella fattispecie dal “classicismo” d’ispirazione popolare della ballata
strofica goethiana e dalla già “romantica” libertà formale ed espressiva del Lied
schubertiano, ha anche una data ben precisa, da taluni considerata addirittura, «a ragione
e a torto nello stesso tempo», «la data di nascita del Lied» (Einstein 1951, trad. it. p. 112): al
19 ottobre 1814, infatti, risale il concepimento del primo Lied goethiano di Schubert (D 118,
Op. 2, 1821), celebre intonazione della ballata-lamento Gretchen am Spinnrade (“Gretchen
all’arcolaio”), tratta dall’Atto I del Faust (1808), cui converrà a questo punto dare una breve
occhiata preliminare. Già in questo capolavoro un testo rigorosamente strofico (quartine di
dipodie per lo più giambiche, con anapesti, e ricorrenza della prima strofa a mo’ di
ritornello) viene trasfigurato in un canto libero, tripartito e incorniciato da strofe-ritornello
ma in costante mutazione, di crescente intensità drammatica anche in virtù di un
accompagnamento pianistico insolitamento attivo e dinamico, tutt’altro che subordinato
alla parte vocale e anzi svincolato ormai definitivamente dal tradizionale ruolo di mero
supporto armonico. Se lo si ascolta, anche solo una volta e tenendo d’occhio il testo poetico
– possibilmente nell’interpretazione di Elisabeth Schwarzkopf (accompagnata da Edwin
Fischer in Schubert, 1953) – si rimarrà colpiti anzitutto dalla potenza evocativa delle pur
semplicissime figurazioni ostinate dell’accompagnamento, costantemente ripartite fra
mano destra (chiave di violino) e sinistra (chiave di basso), in un Ü scorrevole ma “non
troppo veloce” (Nicht zu geschwind): duplice raffigurazione musicale del ronzio
dell’arcolaio (iterato flusso ondulatorio di semicrome) e dell’ansioso battito cardiaco della
protagonista (ancor più regolare pulsazione di crome ribattute separate da pausa, Ü ¢ ¾ ´ ¾
¢ | ¢, su pedale pressoché fisso di minima puntata).
Il canto lamentoso e tripartito di Gretchen, naturalmente, è dotato di una sua
innegabile forza espressiva, di natura puramente melodica: fondato su due semplici
motivi in levare e di orientamento ascendente, esso riparte ogni volta dallo stesso punto
d’avvio (Fa3-Sol3-La3 in ritmo anapestico) per inerpicarsi verso apici sempre più elevati
(rispettivamente Fa4, Sol4 e La4), coincidenti nelle ultime due fasi con la rievocazione
drammatica del bacio di Faust («Und ach, sein Kuß!») e con il senso anche prefigurativo di
morte che esso porta con sé («An seinen Küssen / Vergehen sollt!» [“Fra i suoi baci /
potrei morire!”]). La duplice scansione cardiaca e meccanica del pianoforte, d’altra parte,
rappresenta in modo ancor più profondo e immediato, a un tempo fisicamente palpabile e
psicologicamente incisivo, lo stato di crescente ansia erotica ed esistenziale che anima la
giovane fanciulla, agendo sui parametri concomitanti della dinamica e dell’agogica prima
ancora che su quello armonico. Da un pianissimo (pp) di partenza, attraverso crescendo e
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POESIA PER MUSICA E MUSICA PER POESIA
parlando attraverso la voce saggia e mistica del vecchio arpista, egli aveva dichiarato che
«lo strumento dovrebbe limitarsi ad accompagnare la voce», per poi paragonare le figure
melodiche o arpeggiate della musica pura a «farfalle» o «begli uccelli multicolori che ci
svolazzano davanti e che noi ci sforziamo di acchiappare e di possedere; mentre il canto
s’alza verso il cielo come un cherubino e sollecita la nostra parte migliore ad
accompagnarlo» (Goethe, 1795-96, trad. it., pp. 11, 130).
A quegli stessi anni risale il Lied di Zelter Einsamkeit (Solitudine) (1795), intonazione
rigorosamente strofica – a dire il vero tutt’altro che banale o inespressiva – della terza
canzone dell’arpista (Wer sich der Einsamkeit ergibt [Chi solitario esser vuole], dal Wilhelm
Meister, II, 13, 140), in cui si può riconoscere l’incarnazione stessa dell’ideale poetico-
musicale goethiano (se ne ascolti l’interpretazione di Fischer-Dieskau e Reimann in Zelter,
1984). A simili intonazioni egli stesso deve aver pensato qualche anno più tardi, nei già
citati elogi del cantante Ehlers (1801) e dell’«ottimo Zelter» (1803) (cfr. il volume, PAR.
3.1.1), senza neanche poter immaginare la nuova e più libera forma che Schubert, nel
decennio successivo, avrebbe conferito a quegli stessi testi poetici, inclusi i tre canti
dell’arpista del Wilhelm Meister (Harfenspieler I-II-III, 1816, eseguiti da Fischer-Dieskau e
Jörg Demus in Schubert, 1960/1999). Prima che ciò accada, e anche prima che il
diciassettenne Schubert osi avvicinarsi al lamento di Gretchen, nell’estate del 1812 Goethe
ha già modo di crucciarsi del trattamento riservato da Beethoven e Ludwig Spohr (1784-
1859) a un’altra ballata strofica con ritornelli del suo Wilhelm Meister, il famosissimo Lied di
Mignon (Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn [Conosci la terra dei limoni in fiore]): quel
che “non riesce a capire”, in particolare, è come essi «abbiano potuto fraintendere il Lied e
comporlo in modo non-strofico; i segni di separazione che si trovano allo stesso posto in
ogni strofa sarebbero, riterrei, bastanti al compositore per indicargli che da lui mi aspetto
semplicemente un Lied. Mignon, per come è, può ben cantare un Lied, ma non un’aria»
(Lettera a Wenzel Johann Tomaschek, 6 agosto 1812, in Goethe, 1992, p. 87).
Tutto ciò non toglie che Goethe, aiutato da compositori e teorici suoi confidenti
quali lo stesso Zelter o il più giovane Johann Christian Lobe (1797-1881), ma stimolato
anche dalle proprie esperienze di musicista (dilettante di violoncello e pianoforte) e di
ascoltatore onnivoro, giunga gradualmente a posizioni più flessibili e “moderne”, fino ad
ammettere non solo la nuova autonomia espressiva e artistica raggiunta nella sua epoca
dalla musica pura, ma anche la possibilità che essa instauri un rapporto più dinamico e
interattivo con la poesia.
Già in una lettera del 1810, scritta dopo aver ascoltato la cantata di Zelter Johanna
Sebus, Goethe definisce l’intrinseca forza espressiva della musica come «una sorta di
simbolismo per l’orecchio, attraverso il quale l’oggetto, sia in movimento o meno, non è
imitato, né dipinto, ma creato dall’immaginazione in un modo del tutto proprio e
inafferrabile» (A Zelter, 6 marzo 1810, ivi, p. 86). Lo stesso punto è ribadito in una
successiva lettera ad Adalbert Schöpke, datata 16 febbraio 1818: la musica «non può
imitare tutto ciò che percepiscono i sensi esterni; ma può imitare tutto ciò che sente
attraverso questa percezione dei sensi. Imitare il tuono in musica non è arte: il musicista,
però, che susciti in me la sensazione del sentir tuonare sarebbe molto apprezzabile. [...]
Ripeto: porre l’interiorità in suoni, senza utilizzare i comuni mezzi esterni, è la più grande
e nobile prerogativa della musica» (ivi, p. 88). Ancor più significativa è l’ammissione
rivolta a Carl von Schölzer due anni più tardi (27 agosto 1820): «Un interesse
profondamente sentito per una qualsiasi produzione poetica non può essere espresso
meglio di quando un musicista vi si immerge, per infonderle la vera vita e caratterizzarla
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POESIA PER MUSICA E MUSICA PER POESIA
attraverso la sua personalità. Ne scaturisce un nuovo poema che deve sorprendere il poeta
stesso» (ivi, pp. 89-90). Tanto più che l’anno dopo (lettera a Marianne von Willemer, 12
luglio 1821), dovendo citare l’esempio di un compositore che «in questo ha fatto miracoli»,
Goethe chiama in causa non più il solito Zelter ma lo stesso Beethoven che dieci anni
prima aveva “frainteso” la stroficità del Lied di Mignon: nelle sue «pregevoli» intonazioni
ci si può ora «vedere rispecchiati, raccolti», persino «ampliati» (ivi, p. 90). Non è
improbabile che a tale svolta abbia contribuito il ventenne Lobe, il quale l’anno prima, nel
corso di una conversazione privata col poeta ormai ultrasettantenne, aveva duramente
criticato la «forma antiquata» dei Lieder di Zelter – il carattere puramente declamatorio
della loro melodia, nonché l’eccessiva semplicità di un accompagnamento che «raramente
è qualcosa in più del necessario riempimento armonico, del completamento e del
bilanciamento del flusso ritmico» – contrapponendo loro il più moderno «linguaggio
musicale» elaborato già da Haydn, Mozart e Beethoven non solo in quanto «più fiorito,
espressivo, aggraziato», ma anche perché in esso «ogni voce secondaria porta un
contributo, sia pur minimo, all’espressione del sentimento» (ivi, pp. 91-2).
Si può così spiegare come mai Goethe, pur tardivamente, e non per propria esplicita
ammissione ma sempre secondo il resoconto di altri testimoni, si sia infine deciso ad
apprezzare i risultati ottenuti dal più grande liederista contemporaneo, per di più in
diretto riferimento al più celebre e studiato dei suoi Lieder a struttura libera: l’intonazione
della ballata goethiana Erlkönig, concepita già nell’autunno del 1815 (in ben più d’una
versione) ma pubblicata solo nel 1821 (D 328). Stando alla testimonianza del commerciante
e appassionato d’arte Johann Gottlob Quandt, risalente al 1826, dopo aver ascoltato il Lied
di Schubert nell’esecuzione della grande soprano Wilhelmine Schröder-Devrient, Goethe
avrebbe elogiato gli esiti espressivi e drammatici raggiunti dal compositore prima ancora
che dall’interprete, in termini di per sé eloquenti: «ora, bisogna dire che il compositore ha
espresso in maniera eccellente lo scalpitìo del cavallo. Non si può negare che nella
composizione, apprezzata da molti, l’atroce e lo spaventoso siano suscitati dal
compositore, specialmente se la cantante ha intenzione di farsi sentire» (ivi, p. 94). La
seconda testimonianza, quella del cantante Edward Genast, risale a quattro anni più tardi
(aprile 1830), ma è probabile che si riferisca alla stessa occasione; come si legge nel
resoconto, il poeta sarebbe stato colpito non solo dall’interpretazione lirica della Devrient
ma anche da quella pianistica della signora Genast (moglie del cantante), così da rivalutare
il valore stesso di una composizione che in passato lo aveva lasciato indifferente: «sebbene
non amasse i Lieder senza ripetizioni strofiche, la drammatica interpretazione
dell’incomparabile Wilhelmine lo rapì in modo tanto vigoroso che prese la sua testa fra le
mani e baciandola sulla fronte le disse: “Mille grazie per questa grandiosa esecuzione!”.
Poi seguitò: “In passato avevo già sentito questa composizione e non mi aveva detto
molto; eseguita così però il tutto si raffigura in un’immagine visibile. Ringrazio anche Lei,
cara signora Genast – rivolgendosi a mia moglie – per il Suo accompagnamento pieno di
carattere”» (ivi, pp. 94-5).
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