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POESIA PER MUSICA E MUSICA PER POESIA

[ Indice ]
5.3
Franz Schubert, Erlkönig (Johann Wolfgang Goethe)

5.3.1. INTRODUZIONE. GOETHE E SCHUBERT: STROFICITÀ POETICA VERSUS LIBERTÀ COMPOSITIVA

Così come l’antica chanson francese, il madrigale italiano cinquecentesco o la cantata


barocca, anche il Lied tedesco – nella veste solistico-accompagnata fiorita alla fine del
Settecento e nel corso dell’intera stagione romantica ottocentesca – costituisce non tanto un
genere vocale, quanto un universo sconfinato di letture e visioni poetico-musicali,
difficilmente riconducibili a modelli ben precisi, e sottoposte semmai a un processo di
continua ridefinizione tanto formale quanto espressiva. Dai tempi di Mozart e Beethoven a
quelli di Wolf e Mahler – passando attraverso soprattutto Schubert, Schumann e Brahms –
la varietà di soluzioni è tale da non poter neanche essere paragonata a quella dei repertori
più antichi testé citati, fatta eccezione forse per il madrigale. Già all’epoca di Rore,
Marenzio e Monteverdi, in effetti, tanto le scelte poetiche quanto i criteri di lettura
musicale tendevano ad essere attuati in piena libertà, senza dover rispettare convenzioni
particolarmente rigide o moduli formali prestabiliti: dovendo badare soprattutto ad
”esprimere” o “imitare” gli “affetti” e i “concetti” dell’”orazione”, il madrigalista
approdava inevitabilmente a esiti formali più aperti che chiusi, più spesso di tipo
durchkomponiert che strofico, ma senza precludersi a priori neanche quest’ultima
possibilità.
Esattamente lo stesso approccio esegetico di fondo, seppure a distanza di due o tre
secoli e in ben altro contesto, continua ad animare i grandi maestri del Lied romantico, e in
modo particolarmente emblematico il loro primo e più alto rappresentante, Franz Schubert
(Wien 1797-1828). Nella sua immensa produzione liederistica, più vasta di quella di
qualsiasi madrigalista, trovano posto intonazioni di ogni possibile foggia, tipologia e
carattere, basate non certo unicamente sul principio del “comporre attraverso” – ossia da
cima a fondo, senza ripetizioni prestabilite – ma anche su criteri di stroficità, variazione,
ricorrenza ciclica. Per farsi un’idea di una simile varietà formale (se non si ha già una certa
familiarità col repertorio), basterebbe anche solo leggere e ascoltare il più famoso ciclo
liederistico schubertiano, Die schöne Müllerin (Wien 1823: Op. 25, Wien 1824) su testi di
Wilhelm Müller (Berlin 1816-20: ed. Dessau 1821), preferibilmente nell’interpretazione del
tenore Fritz Wunderlich (accompagnato da Hubert Giesen: Schubert, 1966). Anche nelle
canzoni in apparenza più “semplici” e di sapore “popolare”, di cui il ciclo abbonda (ma si
pensi anche a più giovanili e non meno incantevoli Lieder quali il goethiano Heidenröslein,
del 1816, o la coeva Litanei, su cui si ritornerà nel PAR. 6.2.4), come in quelle più complesse
e svincolate dal principio strofico (secondo una tendenza che culminerà negli esiti estremi
della raccolta heineiana Schwanengesang, 1828), la musica tende comunque a svolgere la
funzione, se si vuole tipicamente “romantica”, di esprimere non solo e non tanto la parola
poetica quanto i sentimenti profondi e indicibili che essa, da sola, è in grado appena di
evocare vagamente e in superficie, così da raggiungere più direttamente l’animo
dell’ascoltatore.
È però soprattutto nell’ambito del Lied durchkomponiert, o della “canzone d’arte”
liberamente concepita, che Schubert ha dato il suo contributo più storicamente importante,
tale da oltrepassare i limiti del genere e coinvolgere su ben più vasta scala le sorti

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5. POESIA DRAMMATICA PER MUSICA NELL’EPOCA MODERNA (XVII-XIX SECOLO)

dell’espressività poetico-musicale moderna. Il punto di partenza di questo percorso


sperimentale, quasi per uno scherzo del destino, corrisponde esattamente al primissimo
incontro artistico del compositore viennese con Johann Wolfgang Goethe (Frankfürt am
Mein 1749-Weimar 1832): in assoluto il più grande poeta tedesco, ma al contempo, come si
è in parte già visto (PAR. 3.1.1 del volume), il più appassionato cultore del canto strofico e
osteggiatore di ogni possibile forma d’intonazione libera.

“Durchkomponiert Lied”: il precedente di Gretchen am Spinnrade (1814)

L’incontro, o meglio lo scontro fra queste due opposte concezioni estetiche e poietiche,
rappresentate nella fattispecie dal “classicismo” d’ispirazione popolare della ballata
strofica goethiana e dalla già “romantica” libertà formale ed espressiva del Lied
schubertiano, ha anche una data ben precisa, da taluni considerata addirittura, «a ragione
e a torto nello stesso tempo», «la data di nascita del Lied» (Einstein 1951, trad. it. p. 112): al
19 ottobre 1814, infatti, risale il concepimento del primo Lied goethiano di Schubert (D 118,
Op. 2, 1821), celebre intonazione della ballata-lamento Gretchen am Spinnrade (“Gretchen
all’arcolaio”), tratta dall’Atto I del Faust (1808), cui converrà a questo punto dare una breve
occhiata preliminare. Già in questo capolavoro un testo rigorosamente strofico (quartine di
dipodie per lo più giambiche, con anapesti, e ricorrenza della prima strofa a mo’ di
ritornello) viene trasfigurato in un canto libero, tripartito e incorniciato da strofe-ritornello
ma in costante mutazione, di crescente intensità drammatica anche in virtù di un
accompagnamento pianistico insolitamento attivo e dinamico, tutt’altro che subordinato
alla parte vocale e anzi svincolato ormai definitivamente dal tradizionale ruolo di mero
supporto armonico. Se lo si ascolta, anche solo una volta e tenendo d’occhio il testo poetico
– possibilmente nell’interpretazione di Elisabeth Schwarzkopf (accompagnata da Edwin
Fischer in Schubert, 1953) – si rimarrà colpiti anzitutto dalla potenza evocativa delle pur
semplicissime figurazioni ostinate dell’accompagnamento, costantemente ripartite fra
mano destra (chiave di violino) e sinistra (chiave di basso), in un ܜ scorrevole ma “non
troppo veloce” (Nicht zu geschwind): duplice raffigurazione musicale del ronzio
dell’arcolaio (iterato flusso ondulatorio di semicrome) e dell’ansioso battito cardiaco della
protagonista (ancor più regolare pulsazione di crome ribattute separate da pausa, ܜ ¢ ¾ ´“ ¾
¢ | ¢, su pedale pressoché fisso di minima puntata).
Il canto lamentoso e tripartito di Gretchen, naturalmente, è dotato di una sua
innegabile forza espressiva, di natura puramente melodica: fondato su due semplici
motivi in levare e di orientamento ascendente, esso riparte ogni volta dallo stesso punto
d’avvio (Fa3-Sol3-La3 in ritmo anapestico) per inerpicarsi verso apici sempre più elevati
(rispettivamente Fa4, Sol4 e La4), coincidenti nelle ultime due fasi con la rievocazione
drammatica del bacio di Faust («Und ach, sein Kuß!») e con il senso anche prefigurativo di
morte che esso porta con sé («An seinen Küssen / Vergehen sollt!» [“Fra i suoi baci /
potrei morire!”]). La duplice scansione cardiaca e meccanica del pianoforte, d’altra parte,
rappresenta in modo ancor più profondo e immediato, a un tempo fisicamente palpabile e
psicologicamente incisivo, lo stato di crescente ansia erotica ed esistenziale che anima la
giovane fanciulla, agendo sui parametri concomitanti della dinamica e dell’agogica prima
ancora che su quello armonico. Da un pianissimo (pp) di partenza, attraverso crescendo e

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POESIA PER MUSICA E MUSICA PER POESIA

accelerando sempre più energici – spesso corrispondenti a progressioni armoniche – si


giunge dapprima a un semplice forte (f ) (prima sezione), in seguito, alla fine della sezione
centrale, ad un fortissimo (ff) preceduto dall’interruzione del battito cardiaco e seguito
dalla fermata stessa dell’arcolaio; se il cuore cessa di battere proprio nel momento in cui
l’ombra di Faust si affaccia sulla scena del ricordo («Sein hoher Gang» [“Il suo fiero
passo”]), il ronzio dell’arcolaio si spegne immediatamente prima del bacio, che può così
risuonare, acutissimo e stridente, sugli accordi più dissonanti dell’intero Lied: dalla
conferma del precedente Si! (ach) si passa ad una settima diminuita enarmonica fondata su
Si (con Sol3 al posto di La!3) e infine su di una settima di dominante in primo rivolto
fondata su La (pausa vocale seguita da sein), la quale – proprio in corrispondenza con la
parola chiave Küss! – viene non solo lasciata in sospeso, senza risolvere sull’atteso re
minore, ma ulteriormente “drammatizzata” tramite trasmutazione interna in settima
diminuita (La56-[La]90). Dopo aver ripreso assai debolmente la loro rispettiva pulsazione,
nella terza parte del Lied l’arcolaio e il battito cardiaco ripercorrono lo stesso tragitto
dinamico-agogico precedente, ora però anticipandone il climax all’inizio della seconda
quartina, insieme all’ennesimo bacio («Und Küssen ihn»), e rimanendo in fortissimo per
tutti i dieci versi successivi (gli ultimi dei quali aggiunti da Schubert), così da dare il
massimo risalto al raggiungimento dell’apice melodico di Sol4 e alla definitiva
affermazione di re minore: tutti elementi che contribuiscono a sancire l’unione finale di
Eros e Thanatos. Un ancor più cupo e luttuoso senso di privazione, tuttavia, ci viene
trasmesso subito dopo il quarto e ultimo ritornello vocale, ossia dopo che Gretchen ha
ribadito per l’ennesima volta, ma ora in decrescendo, ritardando e pp, con un filo di voce, il
suo stato irrimediabile d’inquietudine e “pesantezza del cuore” («Meine Ruh ist hin, /
Mein Herz ist schwer»): nell’esaurirsi graduale dell’arcolaio e del battito cardiaco,
diminuendo e ppp, in assenza di parole, non si può davvero cogliere altro che la più
semplice ed efficace rappresentazione della morte.

Poesia e musica nel pensiero estetico di Goethe:


dal culto della stroficità assoluta al recupero tardivo dell’Erlkönig schubertiano

Nessun compositore prima dello Schubert di Gretchen am Spinnrade – neanche il Mozart


dell’altrettanto goethiano Das Veilchen (1785), fra i primissimi esempi di Lied
durchkomponiert – era mai arrivato a conferire al pianoforte un tale grado di autonomia e
potenza espressiva, né a farlo interagire in modo così dinamico, sullo stesso piano e ad
armi pari, con la melodia vocale, un po’ come se si trattasse di una seconda voce. Tanto
più che gli esponenti della cosiddetta “Berliner Lieder-schule”, fra cui spiccano Johann
Friedrich Reichardt (1752-1814), Johann Abraham Peter Schulz (1747-1800) e soprattutto il
già citato Carl Zelter – intimo confidente di Goethe e in assoluto il suo compositore
prediletto – continuavano a remare nella direzione opposta, interessati più che altro a
semplificare tanto la melodia vocale quanto l’accompagnamento, nel pieno rispetto della
stroficità originaria del testo poetico, così da ridurre la musica a poco più d’un mero
supporto sonoro dell’espressione verbale. Non ci si può dunque meravigliare che Goethe,
almeno inizialmente, avesse reagito in modo tutt’altro che entusiastico a simili incursioni
della musica strumentale pura nel mondo cristallino della propria poesia lirica, soprattutto
in quella “per musica” e multistrofica del genere ballata. Sin dai tempi del romanzo di
formazione Wilhelm Meister Lehrjahre (Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, 1795-96),
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5. POESIA DRAMMATICA PER MUSICA NELL’EPOCA MODERNA (XVII-XIX SECOLO)

parlando attraverso la voce saggia e mistica del vecchio arpista, egli aveva dichiarato che
«lo strumento dovrebbe limitarsi ad accompagnare la voce», per poi paragonare le figure
melodiche o arpeggiate della musica pura a «farfalle» o «begli uccelli multicolori che ci
svolazzano davanti e che noi ci sforziamo di acchiappare e di possedere; mentre il canto
s’alza verso il cielo come un cherubino e sollecita la nostra parte migliore ad
accompagnarlo» (Goethe, 1795-96, trad. it., pp. 11, 130).
A quegli stessi anni risale il Lied di Zelter Einsamkeit (Solitudine) (1795), intonazione
rigorosamente strofica – a dire il vero tutt’altro che banale o inespressiva – della terza
canzone dell’arpista (Wer sich der Einsamkeit ergibt [Chi solitario esser vuole], dal Wilhelm
Meister, II, 13, 140), in cui si può riconoscere l’incarnazione stessa dell’ideale poetico-
musicale goethiano (se ne ascolti l’interpretazione di Fischer-Dieskau e Reimann in Zelter,
1984). A simili intonazioni egli stesso deve aver pensato qualche anno più tardi, nei già
citati elogi del cantante Ehlers (1801) e dell’«ottimo Zelter» (1803) (cfr. il volume, PAR.
3.1.1), senza neanche poter immaginare la nuova e più libera forma che Schubert, nel
decennio successivo, avrebbe conferito a quegli stessi testi poetici, inclusi i tre canti
dell’arpista del Wilhelm Meister (Harfenspieler I-II-III, 1816, eseguiti da Fischer-Dieskau e
Jörg Demus in Schubert, 1960/1999). Prima che ciò accada, e anche prima che il
diciassettenne Schubert osi avvicinarsi al lamento di Gretchen, nell’estate del 1812 Goethe
ha già modo di crucciarsi del trattamento riservato da Beethoven e Ludwig Spohr (1784-
1859) a un’altra ballata strofica con ritornelli del suo Wilhelm Meister, il famosissimo Lied di
Mignon (Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn [Conosci la terra dei limoni in fiore]): quel
che “non riesce a capire”, in particolare, è come essi «abbiano potuto fraintendere il Lied e
comporlo in modo non-strofico; i segni di separazione che si trovano allo stesso posto in
ogni strofa sarebbero, riterrei, bastanti al compositore per indicargli che da lui mi aspetto
semplicemente un Lied. Mignon, per come è, può ben cantare un Lied, ma non un’aria»
(Lettera a Wenzel Johann Tomaschek, 6 agosto 1812, in Goethe, 1992, p. 87).
Tutto ciò non toglie che Goethe, aiutato da compositori e teorici suoi confidenti
quali lo stesso Zelter o il più giovane Johann Christian Lobe (1797-1881), ma stimolato
anche dalle proprie esperienze di musicista (dilettante di violoncello e pianoforte) e di
ascoltatore onnivoro, giunga gradualmente a posizioni più flessibili e “moderne”, fino ad
ammettere non solo la nuova autonomia espressiva e artistica raggiunta nella sua epoca
dalla musica pura, ma anche la possibilità che essa instauri un rapporto più dinamico e
interattivo con la poesia.
Già in una lettera del 1810, scritta dopo aver ascoltato la cantata di Zelter Johanna
Sebus, Goethe definisce l’intrinseca forza espressiva della musica come «una sorta di
simbolismo per l’orecchio, attraverso il quale l’oggetto, sia in movimento o meno, non è
imitato, né dipinto, ma creato dall’immaginazione in un modo del tutto proprio e
inafferrabile» (A Zelter, 6 marzo 1810, ivi, p. 86). Lo stesso punto è ribadito in una
successiva lettera ad Adalbert Schöpke, datata 16 febbraio 1818: la musica «non può
imitare tutto ciò che percepiscono i sensi esterni; ma può imitare tutto ciò che sente
attraverso questa percezione dei sensi. Imitare il tuono in musica non è arte: il musicista,
però, che susciti in me la sensazione del sentir tuonare sarebbe molto apprezzabile. [...]
Ripeto: porre l’interiorità in suoni, senza utilizzare i comuni mezzi esterni, è la più grande
e nobile prerogativa della musica» (ivi, p. 88). Ancor più significativa è l’ammissione
rivolta a Carl von Schölzer due anni più tardi (27 agosto 1820): «Un interesse
profondamente sentito per una qualsiasi produzione poetica non può essere espresso
meglio di quando un musicista vi si immerge, per infonderle la vera vita e caratterizzarla

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POESIA PER MUSICA E MUSICA PER POESIA

attraverso la sua personalità. Ne scaturisce un nuovo poema che deve sorprendere il poeta
stesso» (ivi, pp. 89-90). Tanto più che l’anno dopo (lettera a Marianne von Willemer, 12
luglio 1821), dovendo citare l’esempio di un compositore che «in questo ha fatto miracoli»,
Goethe chiama in causa non più il solito Zelter ma lo stesso Beethoven che dieci anni
prima aveva “frainteso” la stroficità del Lied di Mignon: nelle sue «pregevoli» intonazioni
ci si può ora «vedere rispecchiati, raccolti», persino «ampliati» (ivi, p. 90). Non è
improbabile che a tale svolta abbia contribuito il ventenne Lobe, il quale l’anno prima, nel
corso di una conversazione privata col poeta ormai ultrasettantenne, aveva duramente
criticato la «forma antiquata» dei Lieder di Zelter – il carattere puramente declamatorio
della loro melodia, nonché l’eccessiva semplicità di un accompagnamento che «raramente
è qualcosa in più del necessario riempimento armonico, del completamento e del
bilanciamento del flusso ritmico» – contrapponendo loro il più moderno «linguaggio
musicale» elaborato già da Haydn, Mozart e Beethoven non solo in quanto «più fiorito,
espressivo, aggraziato», ma anche perché in esso «ogni voce secondaria porta un
contributo, sia pur minimo, all’espressione del sentimento» (ivi, pp. 91-2).
Si può così spiegare come mai Goethe, pur tardivamente, e non per propria esplicita
ammissione ma sempre secondo il resoconto di altri testimoni, si sia infine deciso ad
apprezzare i risultati ottenuti dal più grande liederista contemporaneo, per di più in
diretto riferimento al più celebre e studiato dei suoi Lieder a struttura libera: l’intonazione
della ballata goethiana Erlkönig, concepita già nell’autunno del 1815 (in ben più d’una
versione) ma pubblicata solo nel 1821 (D 328). Stando alla testimonianza del commerciante
e appassionato d’arte Johann Gottlob Quandt, risalente al 1826, dopo aver ascoltato il Lied
di Schubert nell’esecuzione della grande soprano Wilhelmine Schröder-Devrient, Goethe
avrebbe elogiato gli esiti espressivi e drammatici raggiunti dal compositore prima ancora
che dall’interprete, in termini di per sé eloquenti: «ora, bisogna dire che il compositore ha
espresso in maniera eccellente lo scalpitìo del cavallo. Non si può negare che nella
composizione, apprezzata da molti, l’atroce e lo spaventoso siano suscitati dal
compositore, specialmente se la cantante ha intenzione di farsi sentire» (ivi, p. 94). La
seconda testimonianza, quella del cantante Edward Genast, risale a quattro anni più tardi
(aprile 1830), ma è probabile che si riferisca alla stessa occasione; come si legge nel
resoconto, il poeta sarebbe stato colpito non solo dall’interpretazione lirica della Devrient
ma anche da quella pianistica della signora Genast (moglie del cantante), così da rivalutare
il valore stesso di una composizione che in passato lo aveva lasciato indifferente: «sebbene
non amasse i Lieder senza ripetizioni strofiche, la drammatica interpretazione
dell’incomparabile Wilhelmine lo rapì in modo tanto vigoroso che prese la sua testa fra le
mani e baciandola sulla fronte le disse: “Mille grazie per questa grandiosa esecuzione!”.
Poi seguitò: “In passato avevo già sentito questa composizione e non mi aveva detto
molto; eseguita così però il tutto si raffigura in un’immagine visibile. Ringrazio anche Lei,
cara signora Genast – rivolgendosi a mia moglie – per il Suo accompagnamento pieno di
carattere”» (ivi, pp. 94-5).

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