Sei sulla pagina 1di 1

La notte dell’innominato comincia dopo l’incontro con Lucia da cui era “partito, o quasi scappato”.

Durante
una consueta visita in alcune stanze del castello, nella mente dell’uomo continuava a raffigurare l’immagine
della ragazza e delle parole da lei pronunciate. In “fretta” ovvero quella di allontanarsi e “furia” cioè la
rapidità dei suoi gesti, si chiude in camera sua e si corica sul letto. In questo momento inizia il suo monologo
interiore in cui si chiede perché abbia voluto incontrare Lucia e dando ragione al nibbio per quel sentimento
di compassione che gli aveva scaturito non lo faceva sentire più uomo. L’innominato ripensa alle volte in cui
aveva visto uomini e donne piangere davanti a lui e non gli avevano scosso nulla nell’animo. La
rimembranza di questi però non provocava nel suo animo orgoglio, bensì una “molesta pietà”quindi
compassione, pentimento. Dopo pensa per la prima volta a una risoluzione di questi tormenti interiori
facendo una buona azione, ovvero liberare Lucia e chiederle perdono. Ritorna poi l’homo vetus, la sua
lucidità criminale, che lo riporta a riflettere su cosa aveva appena pensato, che “sono sciocchezze” e
passeranno. Manzoni in seguito fa una similitudine animalesca, ovvero paragona a un cavallo che rimane
bloccato e non riesce a muoversi spaventato da un’ombra, la sofferenza dell’innominato nel non poter più
trovare consolazione e piacere nel rimembrare le sue azioni criminali passate. Nel suo animo provava una
tristezza, uno spavento “de’ passi già fatti” e anche il pensiero di tornare dai sui bravi gli sembra una
prospettiva fastidiosa. Ritorna di nuovo all’idea di liberare Lucia ma allo stesso tempo pensa alla promessa
che aveva fatto a Don Rodrigo. Inizia qui “l’esame di coscienza” dell’innominato, in cui ripercorrere tutta la
sua vita, fatta solo di orrori e crimini terribili e il solo riportare alla mente quelle azioni che lui stesso aveva
compiuto perché “eran tutte sue, eran lui”, diventa insopportabile. L’innominato allora, abbandonato a
questi, prende una pistola, ed è sull’orlo della fine dello scontro interno romantico, decide per un attimo di
farla finita per sempre, suicidadondosi come aveva fatto Didone. Nello stesso istante però risalgono alla
mente delle riflessioni ovvero la confusione che ci sarà il giorno dopo nel castello, la felicità di saperlo morto
suicida dai suoi nemici e soprattutto la paura del morire di notte, perché questa la rendeva ancora più
spaventosa. L’ultima e la più importante domanda che si pone è quella mentre tiene il dito verso il grilletto
della pistola ovvero, se non ci fosse niente dopo la morte che importanza avrebbe morire, ma se invece
quella prospettiva che gli avevano raccontato da bambino, dunque che una vita dopo la morte esistesse
davvero, sarebbe il più peggiore dei suoi destini. Scosso da questo rischio, c’è una scena descritta da
Manzoni volta a provocare pathos, cioè l’innominato posa la pistola, si mette le mani nei capelli e trema
battendo i denti. In quel momento gli tornano in mente le parole di Lucia: “dio perdona tante cose per
un’opera di misericordia” e così prova una sorta di sollievo nel sapere di poter far del bene liberando il
giorno dopo la ragazza. Ci sono nuove domande, cosa farà poi il giorno dopo o quello dopo ancora, fuggire e
andare lontano dal castello, e come avrebbe superato fra dodici ore una nuova notte piena di tormenti. Questi
pensieri bui si contrappongono all’albeggiare del mattino, la luce, i rumori allegri che venivano dalla
campagna che metaforicamente segnano la fine della notte dell’innominato.

Potrebbero piacerti anche