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L'«oubià» è servita La riscoperta dell'antico dolce di Grana L'«oubià» è servita Poche cuoche

custodiscono il segreto della fragrante cialda Ogni famiglia un tempo aveva il suo «ferro» per
marchiarle GRANA. Il Ferragosto granose, oltre al concorso dei balconi fioriti e alla gara di
macchinine radiocomandate, offre anche la possibilità di riscoprire un dolce antico. Sono le oubià
(si legge tibia). Pare che li abbia addirittura assaggiati Napoleone dopo la battaglia di Marengo
(1800), al ritorno di alcuni suoi soldati da Grana dove, per festeggiare la vittoria, avevano innalzato
l'albero della libertà, nella piazza principale del paese. L'origine di queste cialde, presenti anche
nella tradizione toscana, non è certa; si sa comunque che il loro nome — anticamente «obbiada» —
deriva dal termine latino «oblata» (offerta, ostia). Il loro aspetto, infatti, ricorda quello di una
grande ostia; hanno un diametro di 14 centimetri per pochi millimetri di spessore; sono fatte di
farina, latte, burro, uova, zucchero e vaniglia. Per cuocerle ci vuole un apposito stampo in ferro,
formato da due dischi combacienti, tra cui viene messa la pastella, decorati all'interno in
bassorilievo, uniti da un perno ed azionati da due lunghe e sottili aste. Un tempo quasi tutte le
famiglie del paese possedevano «il ferro» per fare le oubjà, ora ne sono rimasti pochi. Ognuno era
caratterizzato da une diversa decorazione, dalla data di fabbricazione e dalle iniziali di chi li usava,
facendo così delle dolci leccornie granosi i primi biscotti firmati della storia. Il maestro Abele
Truffa (morto una decina di anni fa), attento cultore della storia di Grana, riuscì addirittura a trovare
uno stampo per oubià risalente alla seconda metà del 1700. Un altro granese, Nino Oddo ne (attuale
maestro della corale parrocchiale), ha scritto una poesia dedicata a questa «ostia andouràja, fàcja 'd
roba bouna», dolce caratteristico del paese, che un tempo le donne facevano quando in casa c'era
qualcuno da festeggiare. «L'oubjà — precisa don Gatti, parroco di Grana — è per noi il dolce
dell'amicizia, perché, oltre ad essere il protagonista di tutte le nostra feste, veniva e viene tuttora
regalato ai malati come ricostituente, in quanto molto nutriente e digeribile». Dello stesso parere
sono anche Lina e Filippa Arrobbio, due sorelle granesi che stanno imparando dalla madre
Angiolina, ormai ottantenne, «l'arte delroubjà». «Il segreto per farli buoni — commentano — sta
nella qualità degli ingredienti, nei tempi di lievitazione dell'impasto e in quelli di cottura, ma
soprattutto nella consistenza della pastella». Il procedimento è presto detto: dopo aver lasciato
lievitare la pasta se ne prende un cucchiaio, si mette tra i due dischi di ferro, già riscaldati, si fa
cuocere sul fuoco di canne e piccoli rami per un minuto o poco più, e così, una cialda alla volta, per
quattro o cinque ore di seguito. «Mia madre — continua Lina Arrobbio — ha smesso di farli perché
non riusciva più a reggere per tanto tempo il ferro che pesa circa tre chili e stare davanti al fuoco
con questo caldo è davvero una gran fatica». Brunella Ma scari no

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