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MERISI, Michelangelo

di Ferdinando Bologna - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009)

MERISI, Michelangelo (detto il Caravaggio). – Figlio di Fermo e di Lucia Aratori, nacque


verosimilmente il 25 sett. 1571 a Milano, dove fu battezzato il 30 dello stesso mese, e non a
Caravaggio, dove i genitori avevano origine e interessi e dove forse trascorse la fanciullezza
(Bologna, 2006, pp. XXIV, 358 s.).
Sempre a Milano, il 6 apr. 1584, poco più che tredicenne, il M. stipulava con il pittore Simone
Peterzano il contratto per un apprendistato di quattro anni, durante i quali il discepolo sarebbe
vissuto e avrebbe lavorato presso il maestro, e il maestro avrebbe fatto dell’apprendista un pittore
in grado di operare autonomamente (Pevsner; Cinotti).
Bergamasco di origine, Peterzano amava sottoscriversi discepolo di Tiziano; ma non è l’indirizzo
impersonato da Tiziano, né dagli altri grandi veneziani, che segnò la sua opera. I caratteri di essa,
non senza rapporti con i faticosi compromessi fra maniera e verità di G.P. Lomazzo o di G. Figino,
furono invece definiti da un collegamento ben più profondo con la cultura pittorica della
Lombardia orientale: di Brescia, di Bergamo e di Cremona specialmente. Dal momento che il
culmine di tale collegamento Peterzano lo aveva toccato negli affreschi della certosa di
Garegnano, completati giusto due anni prima dell’ingresso del M. nella sua bottega, non si fatica a
rendersi conto che al giovane apprendista l’opera pittorica del maestro, e il ciclo di Garegnano in
particolare, non tardassero a rivelarsi come punti di rifrazione dell’intera gamma di quella cultura,
e dunque a stimolarlo a risalirne i gradi direttamente: G.G. Savoldo, il Moretto (A. Bonvicino), G.B.
Moroni, soprattutto L. Lotto delle opere bergamasche (Longhi, 1928).
Scaduto da oltre un anno il quadriennio dell’apprendistato nuovi documenti accertano che dal 25
sett. 1589 il M. era tornato a Caravaggio. È a Caravaggio, infatti, che il 20 giugno 1590 il M.
vendette con il fratello Giovan Battista la parte dei terreni rimasta in comune, anche per pagare i
debiti di casa. Ed è sempre a Caravaggio che il giovane M. risiedette fino all’11 maggio 1592,
quando – morta la madre Lucia il 29 novembre dell’anno precedente –, il M. pattuì con il fratello e
con la sorella Caterina la spartizione finale dei beni di famiglia e si affrettò a realizzare in contanti
la parte toccatagli.
«Doppo [Michele] se ne passò a Roma, d’età incirca vent’anni» (Mancini, p. 224). E che le cose
andassero in questo modo, all’indomani della spartizione del maggio seguita dalla vendita della
scarsa parte ereditata, è ben più che probabile.
Ciò che non è probabile è il disegno culturale che una parte della storiografia vecchia e nuova ha
tentato di ricavare dalle tappe in cui ha preteso suddividere l’itinerario che condusse il M. a Roma.
Va innanzitutto esclusa la supposizione del viaggio a Venezia, su cui Bellori intese appoggiare la
lettura «giorgionesca» dell’opera giovanile del M., che già Federico Zuccari in persona, secondo
Baglione, avrebbe accreditato, per svalutare le novità che molti esaltavano nella Chiamata di s.
Matteo (Roma, chiesa di S. Luigi dei Francesi) appena esposta in pubblico. In secondo luogo, va
escluso che il M. s’incontrasse con il naturalista bolognese Ulisse Aldovrandi e penetrasse nelle
cerchie medicee di Firenze all’Aldovrandi collegate, per sogguardare i fogli in cui Iacopo Ligozzi
veniva ritraendo foglie di fico e vipere destinate alla documentazione botanico-zoologica. Da
ultimo, occorre rifiutare l’ipotesi che il pittore avesse condotto studi a Mantova sugli «sfondati» e i

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«sott’insù» dell’équipe di Giulio Romano in Palazzo Te, dal momento che una supposizione del
genere potrebbe essere giustificata solo nel caso che appartenesse effettivamente al M. giovane
(Bellori) il soffitto mitico-astrologico del casino Ludovisi, nella cui fisionomia la cultura mantovana
s’incrocia senza dubbi con quella protocaravaggesca, ma solo perché l’opera spetta (Bologna, 1992
e 2006) alla fase matura del pittore Pietro Fachetti, nato appunto a Mantova intorno al 1539, ma
sceso a Roma per tempo e da ultimo entrato così a dentro nella cerchia personale di Adam
Elsheimer (caravaggesco a suo modo), da fargli da testimone di nozze il 22 dic. 1606.
È invece possibile che, scendendo a Roma per la via più diretta, il M. sostasse a Parma per
prendere l’«appunto prezioso» di cui parlò Longhi: «un pensiero, allora nuovo di zecca, di Annibale
Carracci nella “Deposizione” dei Cappuccini a Parma, dove la Madonna svenuta è un anticipo per
la Madonna morta dipinta dal Caravaggio» nella pala oggi al Louvre; e che a Firenze (il
suggerimento è ancora di Longhi), stimolato da un’ indicazione letta nel Trattato di Lomazzo uscito
da poco, andasse a vedere nella cappella Brancacci del Carmine come Masaccio «solamente
allumava, ed ombrava le figure senza contorno». Ma anche queste soste, seppure ebbero luogo
effettivamente, poterono dar frutti solo parecchio più tardi. Sul momento, agli occhi
straordinariamente ricettivi del giovane M. la lezione più viva rimaneva quella appresa nella
bottega del Peterzano e per le strade di Lombardia (Bologna, 2006, p. 362).
A Roma «si accomodò con un pittore Siciliano, che di opere grossolane tenea bottega» (Baglione,
p. 136); e presso costui, che aveva nome Lorenzo, essendo «estremamente bisognoso et ignudo,
facea le teste per un grosso l’una e ne facea tre al giorno» (postilla di G.P. Bellori a G. Baglione, Le
vite…, Roma 1935, p. 136). «Poi lavorò in casa di Antiveduto Gramatica mezze figure manco
strapazzate» (ibid.). Passò quindi a stare per «alcuni mesi» presso il recanatese monsignor
Pandolfo Pucci, per cui fece «alcune copie di devozione che sono in Recanati» (Mancini, p. 224).
Ma «per sé, da vendere», fece anche «un putto che piange per essere stato morso da un racano
che tiene in mano, che fu causa che vendutolo, e preso animo da poter vivere da sé, si partì da
quel suo così scarso mastro o padrone, e doppo fece un altro putto che mondava con un cultello
una pera, et un ritratto di un oste dove si ricoverava» (ibid.). «Assalito da una grave malattia [...] fu
necesitato ad andarsene allo Spedale della Consolazione» (ibid.), che era l’ospedale dei poveri. E
qui, «nella convalescenza e dopo, fece molti quadri per il priore, che li portò in Siviglia sua patria»
(ibid.). Per altro, nel momento di maggiore difficoltà, «alcuni galant’huomini della professione per
carità l’andavano sollevando» (Baglione, p. 136); ed è verosimile che fra codesti «galant’huomini
della professione» fosse fin dal primo momento il giovane architetto milanese Onorio Longhi, figlio
di Martino senior, che si era fatto conoscere come buon costruttore già prima della morte del
padre, al quale sarebbe subentrato in fabbriche di prestigio quali la chiesa Nuova e S. Maria della
Consolazione. E fu certamente sotto queste vesti che divenne non soltanto l’inseparabile
compagno del M. in «bravate» e «insolenze» giovanilistiche d’ogni genere, fino al drammatico
duello del 1606 da cui uscirà morto Ranuccio Tomassoni; bensì anche, e con maggiore probabilità,
il suo accreditato introduttore negli ambienti più colti e modernizzanti della città. Specialmente in
quelli al cui interno la parte qualificata dei giovani trasgressivi che l’establishment si adoprava con
ogni mezzo a far passare per amorali, irreligiosi e delinquenti comuni, era invece la portatrice delle
più vivaci esigenze d’opposizione nei confronti delle gerarchie della società vigente, nonché del
complesso di credenze religiose, filosofiche e politico-sociali che ne costituivano l’ideologia.

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Che avvenisse con la mediazione personale di Longhi, non è possibile dimostrare; ma non poté
non essere in coincidenza indubbia con l’intervento dei «galant’huomini della professione»
ricordati da Baglione, che il M. andò a questo punto a stare in casa del «Cavalier Gioseppe Cesari
d’Arpino», che era più anziano di lui di soli tre anni. Baglione (p. 136) riferisce che il soggiorno
presso il Cesari durò «alcuni mesi»; nella seconda versione dei suoi manoscritti, Mancini precisa
che furono otto; e Bellori (p. 202), per il quale il M. fu «dalla necessità costretto» ad andare «a
servire il Cavalier Giuseppe», aggiunge che da questo «fu applicato a dipinger fiori, e frutti», onde
«dipinse una caraffa di fiori con le trasperenze dell’acqua e del vetro, e co’ i riflessi della fenestra
d’una camera, sparsi li fiori di freschissime rugiade, e altri quadri eccellentemente fece di simile
imitazione». Ma il M., che sempre secondo Bellori (ibid.) «si esercitava di mala voglia in queste
cose, e sentiva gran rammarico di vedersi tolto alle figure», lasciò anche il Cavalier d’Arpino.
«Indi – scrive Baglione (p. 136) – provò a stare da se stesso, e fece alcuni quadretti da lui nello
specchio ritratti: [...] un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse [...], un fanciullo che da una
lucerta, la quale usciva da fiori e da frutti, era morso». Da parte sua, Giulio Mancini (p. 224) non
parla di queste opere, né fa cenno della «prova» del M. «a stare da se stesso»; ma, di seguito al
ricordo «che fu in casa del Cavalier Giuseppe», dà quest’altra notizia: «doppo fu in casa di
Monsignor Fantin Petrignani, che gli dava commodità d’una stanza; nel qual tempo fece molti
quadri, et in particolare una Zingara, che dà la Bonaventura ad un giovanetto, la Madonna che va
in Egitto, la Madalena convertita, San Giovanni Evangelista».
Che il tempo in cui il M. si provò «a stare da se stesso» (Baglione) coincida con quello in cui il
pittore stette presso Fantin Petrignani (Mancini), è fra le cose certe, più ancora che fra le possibili.
Dal momento che Petrignani dava al M. solo la «commodità d’una stanza», non si vede infatti
perché il M. non potesse dipingervi sia i quadri elencati da Baglione, sia quelli elencati da Mancini
e verosimilmente successivi. È comunque nell’ordine delle cose che, spinto dalla necessità di
vendere, il M. si mettesse alla ricerca di un mercante, e ciò «infin che Maestro Valentino, a San
Luigi de’ Francesi rivenditore di quadri, glie ne fece dar via alcuni». È ancora Baglione (p. 136) a
riferirlo, ma con un’aggiunta della massima importanza: «con questa occasione [Michele] fu
conosciuto dal Cardinal del Monte, il quale per dilettarsi assai della pittura, se lo prese in casa»
(ibid.).
L’occasione procurata da maestro Valentino fa tutt’uno con il quadro «disposto in tre mezze figure
ad un giuoco di carte», più tardi intitolato I bari (Fort Worth, The Kimbell Art Museum), che sulla
fede di Bellori (p. 204) «fu comprato dal cardinale Del Monte», e che infatti si trovava nella
collezione di questo nel 1627, quando fu acquistato dal cardinale Antonio Barberini. Ma con
l’entrata in casa Del Monte il M. «pigliò animo e credito»: l’animo gli veniva ora dall’aver «parte e
provisione», essendosi lasciate definitivamente alle spalle le angustie dei giorni in cui «a mal
termine si era ridotto senza denari e pessimamente vestito»; il «credito» gli arrivava sull’onda dei
Bari, che il cardinale, gran «dilettante» di pittura, aveva addirittura comprato per la sua collezione.
Provando a guardare ora da vicino le opere che le fonti assegnano al M. in questa prima fase della
sua attività romana, procurando nel contempo di tradurre in termini di cronologia calendariale la
loro più probabile successione, sembra di poterne ricavare uno stato di cose non molto diverso dal
seguente.
Messe da parte le «teste» fatte «tre al giorno» e a vilissimo prezzo per il pittore siciliano «che di
opere grossolane tenea bottega», messe da parte anche le «copie di devozione» mandate poco
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più tardi nelle Marche, una prima indicazione può esser ricavata dalla notizia delle «mezze figure
manco strapazzate» fatte per Antiveduto Gramatica e che con ogni verosimiglianza dovettero
essere non dissimili dalle «teste», che nel gergo dei pittori romani si solevano chiamare
«capocce», fatte qualche mese prima. Dal momento che Gramatica risulta essere iscritto
all’Accademia di S. Luca dal 1593, e dunque a quell’epoca doveva aver smesso l’attività di «gran
capocciante» per la quale anche lui era conosciuto, e che di certo non sarebbe stata un titolo di
merito per l’ammissione in accademia, ne deriva che, venuto a Roma subito dopo l’11 maggio
1592, il M. durò questo lamentevole tirocinio per un tempo brevissimo, forse non più di qualche
mese. Ma già nei mesi successivi, che forse non intaccano ancora il 1593, dovettero veder la luce il
«Putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano», l’altro «Putto che
mondava con un cultello una pera» e il «ritratto di un oste dove si ricoverava»: tre dipinti «che non
erano neppure in grado di intitolarsi», come scrisse Longhi (Bologna, 2006, p. 365); e che per
giunta sono noti soltanto in copia, all’infuori dell’ «oste» che resta ignoto affatto; ma che indicano
fin da ora la preferenza affatto lombarda per una pittura tesa a fare una cosa sola con la vita,
scansate la «nobiltà» e la «devozione» che l’ufficialità romana ispirata alla Controriforma avrebbe
preferito. Quanto, poi, al «ritratto di un oste dove si ricoverava», ovvero estratto da un contesto
esistenziale di cui il pittore stesso aveva familiarità, e insomma «dipinto dal vero», non si fa fatica
né a presumerlo in dipendenza stretta dai modelli bergamaschi di un Moroni, né a immaginarvi
l’anticipazione diretta di quell’altro autentico ritratto di oste in cuffia, che qualche anno dopo il M.
avrebbe introdotto con tanto risalto nella Cena in Emmaus della National Gallery di Londra, chissà
se non proprio nel ricordo dell’oste presso cui si ricoverava ai tempi dell’indigenza.
Ma venuti ai mesi trascorsi presso il Cavalier d’Arpino, le supposizioni non sono più necessarie. Si
conoscono negli originali almeno due opere (i cosiddetti Ragazzo con canestro di frutta e Bacchino
malato) risalenti con certezza a quei mesi, e sono le due della Galleria Borghese di Roma, che papa
Paolo V, zio del cardinale Scipione, fece sequestrare al Cavalier d’Arpino stesso e poi donò al
nipote suo segretario di Stato.
L’inventario del sequestro, redatto nel 1607, le descriveva di nuovo come opere impossibili da
intitolare: «un quadro di un giovane che tiene un canestro di frutti in mano»; «un altro quadretto
con un giovinotto con la ghirlanda dell’hellera intorno [al capo], et rampaccio d’uva in mano». Per
altro, se eseguite davvero presso il Cavalier d’Arpino, tali opere dovettero nascere insieme con le
nature morte di fiori e di frutti che, secondo Bellori (p. 202), l’apprendista M. sarebbe stato
«applicato a dipingere» dal Cavalier d’Arpino stesso; e in contiguità non solo con «altri quadri
eccellentemente fatti di simile imitazione», ma con la perduta «caraffa di fiori con le trasparenza
dell’acqua e del vetro e coi riflessi della fenestra», identificabile con la «Caraffa di fiori» ricordata
nella collezione Del Monte dagli inventari del 1627 e del 1628.
Naturalmente, la menzione di tutte queste nature morte apre il problema dell’apporto che il
giovane M. poté dare da tempi precocissimi allo sviluppo del «dipinger fiori e frutti», che, come
affermò ancora Bellori (p. 202), «da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che
tanto oggi diletta».
Anche senza correr dietro alle bizzarrie filologiche a cui volle indulgere Federico Zeri (Diari di
lavoro 2, 1976), quando pretese attribuire al M. stesso il gruppo di nature morte che è invece
indispensabile lasciare anonime sotto l’etichetta di «Maestro della Natura Morta di Hartford», non
si può infatti dubitare che un’area di ricezione della natura morta praticata dal M. fin dai primi
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tempi romani si formò e si qualificò prestissimo, persino a opera di pittori a lui estranei o avversi
quali Mao Salini, al quale Baglione (p. 188), che lo ebbe amico nel contrasto con il M., attribuiva
addirittura il merito d’essere stato «il primo» a dipingere «fiori con le foglie in vasi, con diverse
inventioni molto capricciose, e bizzarre».
Ma il punto nevralgico della questione è che, negli stessi giorni in cui dipingeva i fiori e i frutti di cui
parla Bellori, il M. dipingeva anche le due tele poi sequestrate al Cavalier d’Arpino: entrambe con
mezze figure di ragazzi, ma l’una con «un giovane che tiene un canestro di frutti in mano» e l’altra
con «un giovinotto con la ghirlanda dell’hellera intorno [al capo]», nella mano destra «un
rampaccio d’uva», e, sulla tavola di marmo, in primo piano, un altro «rampaccio» d’uva e due
pesche. Per giunta, questa accoppiata di figure umane e di nature morte in evidenza, proseguirà
senza tentennamenti anche in opere della fase subito successiva: il «Bacco con alcuni grappoli
d’uve diverse» (quello oggi agli Uffizi) e il «Fanciullo, che da una lucerta, la quale usciva da fiori, e
da frutti, era morso» (negli esemplari della Fondazione Longhi di Firenze e della National Gallery di
Londra), che spingono tale scelta compositiva a un risalto quasi provocatorio, fino a dare
l’impressione che il M. perseguisse fin da allora il rapporto fra mondo umano e mondo inanimato
come un’esigenza fondamentale. E infatti il marchese Vincenzo Giustiniani (Lettera sulla pittura a
Teodoro Amideni, in Lettere memorabili dell’abate M. Giustiniani, Roma 1675, parte III, n. LXXXV),
acuto estimatore del M. e suo amico personale, qualche anno dopo la di lui morte mise per iscritto
questa importantissima testimonianza: «il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era a fare un
quadro buono di fiori, come di figure». Per contro Bellori (p. 202), al racconto del giovane
apprendista messo dal Cavalier d’Arpino a dipingere «fiori e frutti», fece seguire un’altra postilla:
«Ma esercitandosi egli di mala voglia in queste cose, e sentendo gran rammarico di vedersi tolto
alle figure [...] uscì di casa di Giuseppe per contrastargli la gloria del pennello. Datosi perciò egli à
colorire, secondo il proprio genio, non riguardando punto, anzi spregiando gli eccellentissimi
marmi de gli Antichi, e le pitture tanto celebri di Rafaelle, si propose la sola natura per oggetto del
suo pennello».
Com’è noto, la storiografia ha posto da tempo questi due pareri al centro della controversia se il
M. avesse praticato o meno la natura morta come genere autonomo e se egli sia da considerare, o
meno, anche il ritrovatore dell’autonomia di tale genere. Ma, poiché la stessa storiografia ha poi
dovuto riconoscere che una natura morta esisteva prima del M. e che il M. non ne fu il ritrovatore,
ma la praticò portandola a livelli prima insospettabili (Bellori), ne deriva che il compito di chiarire
quale diverso stato di cose i pareri su riferiti sottendessero, resta ancora da assolvere.
In realtà, con il parere riferito da Giustiniani, il M. presupponeva il principio generale che figure e
fiori, cioè uomini e cose, erano per lui pari sia rispetto all’impegno occorrente per dipingerli, sia
rispetto alla qualità del risultato, ovvero rispetto al modo con cui occorreva intenderli e
rappresentarli. Bellori, d’altra parte, rimaneva legato senza dubbi alla teoria ufficiale della
gerarchia dei generi secondo i principî dell’estetica classicistica e della morale corrente (dipingere
l’uomo e le sue gesta era e doveva restare il fine del pittore; dipingere l’inanimato, ovvero la
«inferior natura», era affare di seconda classe); ma nel caso del M. egli finiva con il dichiarare la
stessa cosa. Messo a dipingere nature morte, intendeva Bellori, il giovane apprendista del Cavalier
d’Arpino le dipinse così bene da sollevarle «alla maggior vaghezza», ma non pensò affatto di
limitarsi a esse; rammaricato di «vedersi tolto alle figure», si diede «a colorire secondo il proprio
genio» e, spregiando i modelli più illustri, «si propose la sola natura per oggetto del suo pennello».
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La sola e tutta la natura, appunto; fino a preferire, da pittore «similitudinario» e «troppo naturale»
(come si disse), gli «uguali», o i «simili», se non addirittura i «peggiori» (come scrissero monsignor
Agucchi, fin dal secondo decennio del secolo, e lo stesso Bellori, in altro luogo); contaminando in
tal modo i «superiori» con i «simili» e con il «naturale»: cosa degna del più «alto biasimo»,
secondo le dottrine controriformistiche sostenute dai cardinali Gabriele Paleotti e Federico
Borromeo. Il fatto è che l’operazione avviata fin da questi tempi dal M., di prendere tutta la
«natura», «fiori» e «figure», per «oggetto del suo pennello», coincide con l’operazione culturale
più avanzata del momento: quella dell’osservazione per esperienza, che la nuova scienza veniva
conducendo sulla struttura e sulle manifestazioni del mondo naturale e che portò ben presto un
Galileo Galilei ad accorgersi, secondo quanto racconta il suo discepolo e biografo Vincenzo Viviani,
«che gli effetti della natura, quant’unque apparischin minimi e in niun conto osservabili, non
devon mai dai filosofi disprezzarsi, ma tutto egualmente e grandemente stimarsi». Per tal ragione,
conclude Viviani, Galilei era «solito dire che la natura opera molto col poco, e che le sue operazioni
sono tutte di pari grado meravigliose» (Racconto istorico della vita di Galileo Galilei, a cura di F.
Flora, Milano 1954, p. 30).
I dipinti che il M. eseguì quando decise di mettersi da solo proseguono e arricchiscono questo ben
preciso punto di vista. S’è già detto del «Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse» e del «Fanciullo
che da una lucerta, la quale usciva da fiori e da frutti, era morso». Ma occorre dire il medesimo
della Buona ventura (Parigi, Louvre), che Mancini (p. 224) menziona come «Una Cingana»
[Zingara]; del Riposo in Egitto e della Maddalena convertita, oggi entrambi nella Galleria Doria
Pamphilj di Roma, che oltre alla citazione di Mancini si meritarono anche quella di Bellori; infine
dei Bari e dei primi quadri dipinti per il cardinale Francesco Maria Del Monte: la «Musica di alcuni
giovani ritratti dal naturale», che non tutti ritengono di poter identificare con l’esemplare assai
malconcio del Metropolitan Museum di New York, da altri giudicato solo una copia di una diversa
redazione dello stesso tema; dovendosi per altro aggiungere che nel 1638, fra i beni del
maresciallo Charles de Créquy, si trovava un quadro dei Musici del M., donatogli dal cardinale
Antonio Barberini, di cui l’inventario relativo dice che era «peincte sur bois» (Macioce, 2003, n. 29,
p. 353, di contro al fatto che il quadro ora a New York è su tela e non sembra recar tracce,
contrariamente alla supposizione di altri, di un trasporto da un precedente supporto ligneo); la
seconda versione della Buona ventura, oggi al Museo Capitolino di Roma; la «rotella» degli Uffizi,
con la testa recisa e sanguinante della Medusa, dai capelli trasformati in una serqua di vipere vive
e con la livrea scintillante che le si ritorcono attorno, inviata in dono dal Del Monte al granduca di
Toscana Ferdinando de’ Medici; infine i due esemplari del Giovane che suona il liuto, l’uno dal Del
Monte passato a Vincenzo Giustiniani e oggi all’Ermitage (San Pietroburgo), l’altro proveniente
anch’esso dalla collezione Del Monte, ma ora accasato presso i Wildenstein di New York. Il primo
dei quali, per giunta, include lo splendido inserto con «una caraffa de fiori piena d’acqua, che
dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgeva con altri ripercotimenti di quella
camera dentro l’acqua, e sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finta»,
che il M. stesso, secondo quanto riferisce Baglione (p. 136), disse che fu il più bel pezzo che
facesse mai.
Ma una volta ribadito che in queste opere, ancor più che nelle precedenti, il giovane maestro
venne esibendo l’impegno di dipingere con «l’esempio davanti del naturale», resta da richiamare
l’affermazione di Baglione, che le opere dipinte dal M. quando «si provò a stare da se stesso»
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furono «quadretti da lui nello spechio ritratti». Ciò vuol dire che il M. aveva escogitato di collocare
davanti al brano di realtà che si proponeva di ritrarre uno specchio, e di ritrarre dal «sodo dello
specchio vero» l’immagine che lo stesso specchio gli rimandava: ridotta a «certezza di visione in
unità di lume circolante [...] come se, per lui naturalista, il nuovo metodo fosse pegno di certezza
più intensa» (Longhi, 1952, pp. 16-18 passim). In ogni caso, fu qualche cosa di molto simile a una
scoperta scientifica, e più ancora che «un’esperienza», fu un «esperimento» vero e proprio, nel
senso che la nuova scienza veniva praticando e insegnando negli stessi giorni.
Di qui l’importanza che nei dipinti in discorso vennero assumendo le «trasparenze dell’acqua e del
vetro», i «riflessi», i «ripercotimenti», a cui del resto le fonti, e specialmente Baglione e Bellori,
riservarono un’attenzione del tutto particolare. L’esplorazione ottica di recipienti di vetro riempiti
a mezzo di liquidi trasparenti; l’attenzione alle immagini che vi si rispecchiano, alla rifrazione della
luce che li attraversa e agli effetti di proiezione ottico-liminosa che ne derivano; la percezione del
mondo visibile che si riflette e brilla fin nelle gocce di «viva rugiada» dipinte in bilico sui petali e
sulle foglie; s’impongono in questi dipinti non solo per la frequenza e per l’altezza dei risultati
pittorici raggiunti, ma perché si dispongono in parallelo con gli esperimenti sulle «apparenze de’
specchi piani» illustrati da Giambattista Della Porta nella Magia naturalis, del 1589, nonché nel De
refratione uscito giusto nel 1593, e per un altro verso anticipano l’attenzione che J. Keplero portò
di lì a poco «alle lenti, agli specchi e persino alle bottiglie urinarie riempite di liquido trasparente
[...] per studiare la rifrazione della luce» (S. Alpers, Arte del descrivere…, Torino 1984, p. 139). Né
sarà un caso se all’inizio del nuovo secolo, fra le persone frequentate dal M., spuntò addirittura
uno «specchiaro» (vale a dire un fabbricante e riparatore di specchi) forse identificabile con il
mercante Alessandro Albani, nel cui fondaco di rione Ponte, il 5 apr. 1600, il M. stipulò il contratto
per il grande dipinto che si impegnò a eseguire per il senese Fabio De Sartis (e che poi eseguì di
fatto, ma senza che se ne siano conservate altre notizie).
Riguardo agli argomenti iconografici, che anche nei dipinti anteriori all’entrata in casa Del Monte
rimasero per il maggior numero delle volte «neppure in grado di intitolarsi», il pittore non trascurò
i temi mitologici (il Bacco, il Bacchino malato e simili) per istituire il maggiore attrito possibile fra la
finzione colta e l’evidenza oggettiva, quest’ultima aderente non senza ironia all’esperienza
quotidiana più comune; e ciò nel proposito polemicamente dissacratorio di sbarazzare il mito dalle
incrostazioni rimorte di cui secoli d’intellettualismo l’avevano avvolto, per restituirlo alla sua
originaria realtà di puro e persino ingenuo accadimento umano. Per altro anche sotto questo
aspetto, lungi dal trasformarla nel ricetto ambiguo o meramente occasionale di simboli eruditi o di
emblemi polivalenti, il M. individuò nella ricerca naturalistica in senso pittorico il cuneo con cui far
saltare entrambi, ponendola come tale proprio perché la poneva come momento primario della
rappresentazione e la definiva nella sua autonoma specificità di linguaggio. Non accadde di meno
con i soggetti religiosi, che fecero anch’essi la loro comparsa in questa congiuntura: innanzitutto il
Riposo durante la fuga in Egitto della Galleria Doria Pamphili di Roma, così intensamente poetico e
liricamente libero, nel ricordo d’un qualche arioso Presepecampestre di Lorenzo Lotto, ma
rimmerso nell’alta e pur delicata e luminosissima verità d’un paesaggio fortemente anticipatore;
quindi la Maddalena penitente, anch’essa nella Galleria Doria Pamphilj di Roma, la cui descrizione
più penetrante resta in tutti i suoi aspetti quella di Bellori.
Ribadito che il M. si era proposta «la sola natura per oggetto del suo pennello», Bellori (p. 203)
aggiunse dapprima che «nel trovare, e disporre le figure, quando incontravasi a vederne per la
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Città alcuna, che gli fosse piaciuta, egli si fermava a quella inventione di natura, senza altrimenti
esercitare l’ingegno», quindi scrisse testualmente: «Dipinse una fanciulla a sedere sopra una
seggiola con le mani in seno, in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, e
aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena»
(Bologna, 1992, p. 141).
In altri termini, fin dal tempo della Maddalena Doria, in nome dell’esigenza prioritaria dell’ «imitar
bene le cose naturali», e giusto come aveva già fatto nei pochi casi in cui aveva sfiorato gli
argomenti mitologici, il M. s’era proposto di ricuperare anche e soprattutto gli argomenti sacri a
ciò che «è necessariamente conforme alla verità».
Alla lettera, queste ultime parole sono del cardinal Gabriele Paleotti; ma occorre avvertire che, in
obbedienza alle prescrizioni tridentino-controriformistiche, il cardinale le aveva impiegate per
escludere che le circostanze di fatto da esse indicate potessero essere applicate alle
rappresentazioni cristologiche, agiografiche o comunque ecclesiologiche. Il M., invece, voltava
l’argomento sotteso da quelle medesime parole: restringere i sacri «misteri» alla realtà dolente
degli eventi comuni, era l’istanza basilare d’una religione che non volesse risolversi in pure
ostentazioni apologetiche, e il M. poteva averlo letto fin da ragazzo nelle pagine di un ben altro
scrittore, Erasmo da Rotterdam, i cui libri, nonostante la precoce messa all’Indice, erano una
lettura corrente negli ambienti della provincia lombarda in cui il giovane pittore aveva fatto le
prime esperienze.
Così nella Eximii doctoris Hieronimi Stridonensis vita, del 1516, e nell’assunto che «la verità ha una
sua forza intrinseca che nessun artificio eguaglia» il M. dovette riconoscersi con entusiasmo, al di
là dell’arido dibattito sulla «convenienza» e sul «decoro», in cui allora si faceva consistere il
problema della raffigurazione delle immagini, sia sacre sia profane. Tutto ciò, per giunta, in forte
anticipo sulla posizione che avrebbe assunto lo stesso Galileo.
Non è facile stabilire quanta parte di queste idee il M. ventenne avesse appreso già in patria e
quanta ne avesse appreso invece a Roma, nella cerchia delle amicizie «libertine» di Onorio Longhi.
In ogni caso, l’ingresso del pittore nella casa del cardinale Del Monte fu l’occasione per
confermarle e potenziarle tutte.
Al fine di rendersene conto, è infatti opportuno ricordare la circostanza che il cardinale, da
autentico talent scout, si era interessato al pittore perché ne aveva apprezzato il valore da
un’opera già molto particolare come i Bari, e in ciò, seppure con la mediazione di maestro
Valentino, rivenditore di quadri a S. Luigi dei Francesi, aveva impegnato non già la sua veste di
uomo di Chiesa o di esponente d’un rango sociale superiore, bensì la sua personale fisionomia di
intellettuale e la sua indipendenza mentale. Fatto è che fin dal 1588, in congiunzione con gli
interessi di scienza e di matematica sperimentale coltivati dal celebre fratello Guidubaldo, il non
ancora cardinale s’era impegnato a favore d’un altro ardimentoso talento in formazione: Galileo
Galilei appunto. E nel 1592, proprio nell’imminenza dell’incontro con il M., aveva comunicato al
granduca di Toscana un giudizio di portata storica su Tommaso Campanella, che aveva incontrato
personalmente e dal cui ingegno di ragionatore «ardito» ed «efficace» (avvolto nelle
contraddizioni più «sgangherate», ma capace di improntare «il suo concetto» a un discernimento
inconsuetamente acuto e che «promette gran cose») era rimasto colpito vivacemente. Nel 1603, al
processo intentatogli da Giovanni Baglione, il M., adoprerà parole quasi campanelliane per
affermare che essere «un pittore valenthuomo [...] appresso di me vuol dire [...] che sappi
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depingere bene et imitare bene le cose naturali». Da parte di Del Monte, per altro, i rapporti con
Galilei non s’erano fermati all’episodio del 1588; nel 1610 il cardinale s’era tenuto al corrente delle
scoperte astronomiche fatte dallo scienziato mediante il «cannone occhiale» e se n’era fatto
mandare un esemplare, insieme con una copia del Sidereus nuncius appena pubblicato; nel marzo
1611, in una lettera al granduca di Toscana, Del Monte stesso scriveva che Galilei «è mio amico
vecchio e stimo molto l’eminenza del suo valore»; il 31 maggio 1611, scrivendo sempre a Cosimo II
e mentre continuava a prestare a Galileo un aiuto che si sarebbe addirittura rinforzato nel 1615-16
al tempo della prima inquisizione del S. Uffizio, si spinse a dire: «se noi fussimo ora in quella
Repubblica Romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio, per
onorare l’eccellenza del suo valore» (riferimenti in Z. Wazbinski, Il cardinale F. Maria Del Monte,
Firenze 1994, passim).
Di contro al quadro culturale che emerge dal complesso dei dati di fatto e delle osservazioni finora
illustrate, si è invece delineata da tempo una tesi secondo cui l’orientamento di fondo della pittura
del M. sarebbe consistito nella «sottomissione» alla Chiesa della Controriforma (Calvesi) e che a
ciò avrebbe contribuito in primo luogo un legame personale con il cardinale milanese Federico
Borromeo, del quale il M. sarebbe stato non solo un adepto in devozioni e un interprete in materia
di sottili simbologie cristologiche, ma, sin da giovane, addirittura un protetto. In aggiunta, uno
scavo documentario sul giovane M. in Lombardia è tornato a riproporlo di recente un altro giovane
lombardo (Berra), con argomenti arditamente borromaici, sulla cui consistenza persino un terzo
studioso dello stesso indirizzo ha dovuto riconoscere che «gli indizi sono tantissimi», ma «prove
non ce ne sono» (Frangi).
Nondimeno, durante il decennio 1988-98 è stato pubblicato per ben tre volte un parere del
medesimo cardinale Federico fin’allora rimasto inedito, che ad altri studiosi ha suggerito
conclusioni del tutto diverse (Bologna, 2006).
«Nell’ordine delle cose humane – scriveva il cardinale – hanno osservato gl’uomini scienziati
ritrovarsi una certa isquisita corrispondenza, e proportione, della quale essi dicono così. Che quale
è la conditione del terreno, tali i frutti e le biade [...], e quali sono i corpi humani, tale esser suole,
naturalmente parlando e per lo più la conditione degli ingegni, et ultimamente quale è poi la
conditione degli ingegni, tale è la conditione dei loro componimenti per la qual cosa si ha per vero
che i vitji dello scrittore, a un certo ombroso e oscuro lume scrivendo essi si danno a vedere.
Perciò Virgilio si conosce esser stato prudentissimo in ogni atto della sua vita, e non così messer
Trifone, et il Burchiello. Nei miei di’ conobbi un dipintore in Roma, il quale era di sozzi costumi, et
andava sempre co’ panni stracciati, e lordi a maraviglia, e si vivea del continuo frà i garzoni delle
cucine dei signori di corte. Questo dipintore non fece mai altro, che buono fosse nella sua arte,
salvo il rappresentare i tavernieri, et i giocatori, overo lere che guardano la mano, overo i baronci,
et i fachini, et gli sgratiati, che si dormivano la notte per le piazze; et era il più contento huomo del
mondo, quando avea dipinto un hosteria, et colà entro chi mangiasse e bevesse. Questo
procedeva dai suoi costumi, i quali erano simiglianti ai suoi lavori» (Milano, Biblioteca Ambrosiana,
De delectu ingeniorum, Mss., F.31, cit. in Bologna, 2006). E in altro luogo di tali scritti, risolvendosi
ad abbandonare il riferimento anonimo, il cardinale Federico rivolgeva a se stesso addirittura
un’esortazione: «Narra a simile de Michel Angelo Caravaggio: in illo apparebat l’osteria, la crapula,
nihil venusti; per lo contrario Rafaelo. Etiam aspectus indicat scriptor: Titianus, Michael Angelus,
Caietanus [Scipione Pulzone], e contrario Caravagius».
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Per altro, mentre è evidente che il cardinale Borromeo menziona opere e cose relative ai soli primi
anni dell’attività romana del M. (dal 1592 alla fine del secolo), e ciò è in accordo con la sua
effettiva presenza a Roma (dal 1587, quando ebbe la porpora cardinalizia, al 1601, quando poté
insediarsi nella cattedra arcivescovile di Milano assegnatagli dal 1595); è evidente non meno che
questa sua testimonianza coincide in tutto con i tratti attribuiti e rimproverati al giovane pittore da
tutti i biografi per dir così «perbenistici» dei decenni successivi. Nella «vita» caravaggesca di Bellori
alla data del 1672, le osservazioni e i giudizi del cardinale, morto nel 1631, tornano con
un’insistenza martellante, da lasciar credere che, scontata l’identità del punto di vista derivante
dall’aggregazione al medesimo quadro socio-ideologico, Bellori le conoscesse. «[I] vecchi pittori
assuefatti alla pratica rimanevano sbigottiti [...], né cessavano di sgridare il Caravaggio, e la sua
maniera, divolgando ch’egli non sapeva uscir fuori dalle cantine, e che, povero d’invenzione, e di
disegno, senza decoro, e senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume, e sopra un piano senza
degradarle» (p. 205). Opere sue, come la Cena in Emmaus ora a Londra e quella ora a Milano,
«mancano nella parte del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme umili e vili». «Tali
modi […] acconsentivano alla sua fisonomia ed aspetto: era egli di color fosco, ed aveva foschi gli
occhi, nere le ciglia ed i capelli; e tale riuscì ancora naturalmentre nel suo dipingere».
Né le coincidenze si arrestano a questa pur impressionante ripresa del principio generale secondo
cui, in un artista, i «suoi costumi» sono «simiglianti ai suoi lavori». Lasciata Roma nel 1601,
all’indomani della scoperta delle Storie di s. Matteo che il M. aveva dipinto non senza contrasti per
la cappella Contarelli, il cardinale Borromeo non dovette rimanere all’oscuro di ciò che era seguito,
e in principal luogo dell’orientamento mostrato in crescendo dal M. durante gli ultimi anni del
secolo XVI ad applicare i suoi criteri anche ai dipinti di argomento sacro, da porre sugli altari. Il
caso del S.Matteo rifiutato a S. Luigi dei Francesi, epperò recuperato proprio dall’ospite romano
del cardinale Borromeo, il marchese Vincenzo Giustiniani, faceva testo già da qualche anno; e nel
1603 un altro cardinale della Curia romana, Ottavio Paravicino, non si peritava di ironizzare sul
fatto che il M. non solo andasse questionando di dipinti da eseguire per le chiese, ma che poi li
eseguisse «in quel mezzo tra il devoto et profano, che non l’haveria voluto vedere da lontano».
Perciò nel 1624, quando quest’altro aspetto della vicenda s’era orami concluso, ecco che cosa
tornò a scrivere Federico: «Uomini contaminati non devono trattare cose divine, essendosi resi
indegni di tale ministero; [...] pieni di vizi e di colpe come sono, non si vede come possano
infondere nelle immagini quella pietà e quella religione che essi non hanno». Dunque il M. cattivo
pittore perché di «sozzi costumi» e uomo «contaminato»: era questo il parere di colui del quale il
M. sarebbe stato un protetto, oltre che un adepto e un interprete in materia di simbologia
cristologica.
«Dipinse» per il cardinal Del Monte «una Donna in camicia, che suona il liuto con le note avanti, e
Santa Caterina ginocchione appoggiata alla rota; li due ultimi [...] riescono d’un colorito più tinto,
cominciando già Michele ad ingagliardire gli oscuri». Lo scrive Bellori (p. 204), scambiando per una
donna l’androgino suonatore di liuto replicato nel quadro ora a New York (The Metropolitan
Museum of Art), ma fondandosi principalmente sulla straordinaria S. Caterina d’Alessandria in
ginocchio della collezione Thyssen-Bornemisza oggi a Madrid, che apre anche più risolutamente la
stagione in cui il M. venne «facendosi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava
introducendo, non come prima dolce, e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi»
(ibid.), stagione compresa fra il 1594 e il luglio del 1599, che, intesa a dare il più intenso volto
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pittorico alle intenzioni storico-culturali, non meno che artistiche, maturate lungo le linee su
descritte, raggiunge vertici creativi senza pari, i cui agganci reciproci, in una forzata sommatoria,
possono essere sintetizzati così.
Fermo il punto nella S. Caterina Thyssen, che con ogni probabilità cade fra il 1596 e il 1597, è
fondato credere che, in rapporto fra loro, prendessero figura la Cena in Emmaus oggi a Londra,
National Gallery, e la Canestra di frutti della Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Accusate entrambe
di mancanza di «decoro», sono invece concepite entrambe come rappresentazione di nudi pezzi di
mondo. Uomini ordinari (fra i quali è un oste in cuffia, che al limite del blasfemo proietta la propria
ombra dietro la testa del Cristo, a fingere un’aureola di disadorna parvenza esistenziale);
«trasparenze dell’acqua e del vetro», «riflessi», «ripercotimenti», come s’è già detto più a dietro;
frutti e cose, che acquistano la grandezza impassibile dei corpi astronomici proprio quando non
nascondono i segni del deperimento, e le foglie appassite si riducono a pure impronte d’ombra. Si
può anzi dire che l’accoppiata di tali dipinti, in cui gli oscuri ringagliarditi operano a intensificare il
fulgore delle apparenze, segna il momento culminante dell’impegno del M. a scoprire la «forza
intrinseca» della verità, «che nessun artificio uguaglia».
Nel medesimo periodo, per altro rimettendo in posa il medesimo modello, il M. s’impegnò a
dipingere la Fillide, andata distrutta a Berlino nel 1945, e la Marta e Maddalenadell’Institute of
arts di Detroit: due opere in cui, di contro alla presunzione d’una dipendenza da modelli
manieristici, quali i ritratti ben altrimenti «formali» del primo e del secondo Bronzino (Alessandro
Allori) e di Scipione Pulzone, il maestro tornò a rinforzare ancora, sotto la metafora del ritratto,
l’esigenza di attenersi alle radici del vissuto.
E dovette essere allora, secondo quanto attesta Baglione (p. 138), che «colorì una Giuditta che
taglia la testa ad Oloferne per li signori Costi».
L’opera si conserva oggi nella Galleria nazionale di arte antica a Roma, ma durante il secondo
quarto del secolo XVII risulta citata più volte nella raccolta del ben noto estimatore e collezionista
del M. giovane, Ottavio Costa, al quale, sotto la menzione del «signori Costi», Baglione si riferiva
evidentemente, volendo sottindere anche una cronologia non ancora inoltrata. Il dipinto, in ogni
caso, sembra lievemente più antico dei tre sopra elencati, la S. Caterina, la Fillide e Marta e
Maddalena, che nel 1606 apparteneva pur essa al Costa; e non solo perché il modello della
Giuditta è somigliantissimo, sebbene non identico, a quello ricorrente nelle tre, ma perché nella
parte più drammatica della rappresentazione, vale a dire nella testa recisa dell’Oloferne che grida,
l’opera mostra il punto di riscontro più preciso con lo straordinario S. Francesco in estasi della
collezione Johnson di Princeton, la cui identità con il «San Francesco in estasi di Michel Agnolo da
Caravaggio» posseduto dal cardinale Del Monte è il punto che pretende di essere più
risolutamente ribadito e le cui referenze interne portano con sufficiente sicurezza alla datazione
sul 1596-97 (Bologna, 2006, pp. 466-471, figg. 119-120). E a prova di come i dipinti ricordati si
leghino fra di loro nel giro degli stessi mesi, possono valere non solo la sostanziale identità di come
nell’Oloferne della Giuditta e nella testa del S. Francesco un passaggio di luce rimbalza dal bordo
superiore della palpebra al sottarco del sopracciglio, suscitando dentro la fossa dell’occhio destro
invasa dall’ombra un inenarrabile dramma di mezze luci riverberate; bensì ancor più sottilmente,
sia nella S. Caterina Thyssen sia nel S. Francesco Johnson (i quali per altro, secondo l’inventario
della collezione Del Monte del 1626, pendevano l’una accanto all’altro sulla medesima parete), la
sclerotica degli occhi sia percorsa dalle stesse sottili venature azzurrine, e dietro la testa di
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entrambi balugini il lieve cerchio d’oro dell’aureola in prospettiva, che si rivedrà più volte nelle
opere sacre del M., e qui fa probabilmente una delle prime apparizioni, se non la prima addirittura.
L’ episodio del rifiuto del S. Matteo, andato perduto anch’esso a Berlino, dovette aver luogo subito
prima delle opere radunate intorno alla S. Caterina, e fra tante discussioni contrapposte, che
ancora non cessano di assediare inutilmente la questione (Bologna, 2006, pp. 457-463), la tesi
meglio argomentata sembra che il M. eseguisse il dipinto anteriormente al gennaio 1596,
approfittando delle esitazioni dei committenti; e ciò perché costoro, riassaliti dall’incertezza se
porre sull’altare di S. Luigi dei Francesi una statua anziché un dipinto, proprio nel gennaio 1596
decisero a favore della statua, avendo giusto allora rifiutato il dipinto del M., che a causa delle
risapute ragioni di «decoro» ideologico, «non era a veruno piaciuto» (ibid.).
A conferma ultima sono le ragioni stilistiche che rendono indispensabile una datazione alta del S.
Matteo già a Berlino. Valgano soprattutto le strette somiglianze che esso ha con la Cena in
Emmaus di Londra, dove il modello utilizzato per il Cristo è similissimo, se proprio non è lo stesso,
a quello dell’angelo nel quadro in discorso, e la seggiola «alla Savonarola» su cui nella stessa Cena
siede l’apostolo di sinistra in primo piano è fisicamente la medesima di quella del S. Matteo: e non
si trascuri che il ritorno di uno specifico oggetto in posa, esattamente come il ritorno di un
medesimo modello umano, non può non assumere il valore di indizio obbligante, anche di
cronologia, nel caso di un M. inteso a dipingere sempre con «l’esempio davanti del naturale».
Una ulteriore accoppiata di opere da collocare ai vertici creativi della fase anteriore a quella
Contarelli manda insieme la Conversione di Saulo della collezione Odescalchi Balbi di Roma e il
Sacrificio d’Isacco (Firenze, Uffizi).
Deve infatti ritenersi privo di fondamento il parere che si ostina a ricondurre la
ConversioneOdescalchi alla commissione del 1601 per i dipinti della cappella Cerasi in S. Maria del
Popolo e vedervi una prima versione, rifiutata, della tela del medesimo soggetto ancora in situ.
Sebbene non sia condivisibile nemmeno il parere di Longhi (1951), che datava il dipinto «almeno
dieci anni prima delle opere di Santa Maria del Popolo», è di gran lunga più fondato credere, come
lo stesso Longhi poi indicò con precisione, che questa Conversione di Saulo sia databile in
contiguità soprattutto con il Sacrificio d’Isacco degli Uffizi, con il quale ha in comune non solo lo
«stupendo brano di paese», ma la non meno stupenda figura di giovane, che nel Sacrificio appare
come Isacco e nella Conversione come angelo che sorregge il Cristo. Il Sacrificio d’Isacco, per altro,
proviene senza dubbi dalle raccolte di Maffeo Barberini, il futuro papa Urbano VIII (Bellori), ma per
evidenti ragioni di stile non può esser messo in rapporto con i pagamenti a compenso d’un quadro
non precisato, che il prelato versò al M. fra il 20 maggio 1603 e l’8 genn. 1604. È verosimile invece
che il dipinto risalga al tempo in cui il pittore attese al ritratto di Maffeo oggi in collezione privata
fiorentina, che per l’età e le vesti non ancora cardinalizie del ritrattato va riferito agli anni 1598-99.
Occorre soprattutto far conoscere meglio che la Conversione di Saulo, passata agli Odescalchi di
Roma dai Balbi di Genova, in una lettera del 23 ott. 1774 fu ricordata con entusiasmo dal
cremonese Giovanni Battista Biffi in visita a Genova: «per la prima volta ho visto in casa Balbi
Michelagnolo nostro da Caravaggio, in una caduta di San Pavolo. Il grande, il sublime, il fiero
pittore!» (F. Venturi, Settecento riformatore, V, Torino 1990, p. 673). Apprezzata l’importanza di
un giudizio del genere in pieno illuminismo, da parte d’un italiano come Biffi che aveva tradotto D.
Diderot e ammirava J.-J. Rousseau, è importante non meno il riferimento alla Conversione di Saulo
allora a Genova, che dunque già da prima si sapeva essere opera del Merisi.
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Fra il 23 luglio 1599 e il 4 luglio 1600 il M. eseguì le tele con la Chiamata di s. Matteo e il Martirio
di s. Matteo per la cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi a Roma.
Era la prima esposizione in pubblico di ciò che il maestro pensava da tempo dovessero essere
opere di argomento sacro da porre sugli altari, e che di lì a poco il cardinale Ottavio Paravicino,
scrivendone ironicamente a Paolo Gualdo, disapprovò dicendo che il M. non solo s’impacciava di
dipinti da eseguire per le chiese, ma che li eseguisse «in quel mezzo tra il devoto et profano, che
non l’haveria voluto vedere da lontano» (G. Cozzi, Intorno al card. Paravicino…, in Rivista storica
italiana, LXXIII [1961], 1, pp. 36-68).
Se, come i documenti ormai attestano innegabilmente, i due quadri furono eseguiti nel giro di
meno d’un anno e non, come supponeva Longhi, in un tratto di tempo più lungo, restano però in
piedi le tesi principali che lo stesso Longhi aveva fondato sull’analisi stilistica: essi sono concepiti
con molti tratti ancora propri della prima fase del M.; il M. tornò «più volte su queste opere
complesse, per aggiornarle al proprio accrescimento interno, ciò che del resto sembra confermarsi
anche dai molti e visibili “pentimenti”»; e «per un ingegno che si va affilando, un tempo brevissimo
può talora contrassegnare una crisi di risoluzione che in un placido e neghittoso svolgimento
comporterebbe forse degli anni» (Longhi, 1928 e 1951). Occorrerà prendere atto, semmai, che la
durata della «crisi di risoluzione», dell’«aggiornamento al proprio accrescimento interno», della
realizzazione a ritorni successivi di queste opere complesse, fu per il M. in fase Contarelli anche più
breve di quel che si potesse supporre, fornendo la misura d’una rapidità di crescita intellettuale e
di lavoro che per il maestro fu regola, non eccezione.
Delle due tele sono disponibili da tempo anche gli esami radiografici (Bologna, 1992, figg. 19-22),
che per un verso hanno attribuito un corpo più preciso all’osservazione di Longhi sui «molti e
visibili “pentimenti”», per un altro hanno costituito la base per più d’un tentativo di ricostruzione
della vicenda interna delle due opere. Rinviando alla particolareggiata esposizione di tali tentativi
data da altri (Cinotti, pp. 528-533), è nondimeno necessario accennare a ulteriori precisazioni.
Innanzitutto, occorre condividere il parere di coloro che non considerano influente, ai fini di una
eventuale precedenza del Martirio rispetto alla Chiamata, il fatto che la prima stesura del Martirio
ricostruibile dalla radiografia mostrerebbe figure di misure più piccole di quelle della Chiamata. In
realtà, sullo sfondo d’una rovina architettonica, poi soppressa, tali figure sembrano più piccole
solo perché collocate in secondo piano, avendo il maestro appostato in primo termine l’imponente
figura dell’armigero di spalle, le cui dimensioni sono del tutto simili a quelle della redazione finale.
È assai probabile, perciò, che il M. incominciasse dalla Chiamata, secondo l’ordine della narrazione
agiografica; bensì stendendo per prima la parte di sinistra, con Levi e i gabellieri intorno alla tavola,
che si rifà manifestamente a idee elaborate in opere quali I bari, risalenti a non meno d’un lustro
prima. Se si eccettuano i piccoli aggiustamenti relativi al volto del giovane in corsetto listato di
rosso, sul fondo, e alla gamba destra del giovane seduto di spalle, sullo sgabello in primo piano,
questa è anche la parte di entrambe le opere in discorso meno interessata da ripensamenti o
stratificazioni: segno evidente d’una concezione nata con sicurezza e senza conflitti dal progresso
d’una ricerca avviata già da tempo a maturazione. Lasciata a mezzo la Chiamata – o, forse, proprio
mentre vi impostava la figura del Cristo, che per l’atto della mano destra e il suo aggiustamento
successivo è la prima del ciclo Contarelli che mostri di sottendere l’interferenza della controversia
sulla pittura d’azione opposta alla pittura «di ferma» –, il M. dovette porre mano al Martirio. E
dovette incominciare con l’imperniarlo, oltre che sulla rovina architettonica posta a fondoscena,
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sulla figura dell’armigero, collocata di poco al di là della linea mediana della rappresentazione, di
spalle in primo piano, evidentemente con il proposito di generare una qualche corrispondenza alla
figura collocata in posizione analoga nella tela dirimpettaia. Non è facile ricostruire nei particolari
come si svolgessero le fasi successive, durante le quali l’inseguimento da parte del M. d’una
pittura d’azione che convenisse con le sue idee generali dovette essere particolarmente affannoso:
tanto più che non sembrano aver torto quegli studiosi i quali, avvertendo l’impossibilità di riferire
con sicurezza all’uno o all’altro stadio del processo esecutivo più d’una delle numerose figure
rivelate dalle radiografie, hanno insistito sul fatto che i diversi interventi hanno carattere
frammentario e non formano né composizioni compiute, né stadi di esse definiti o distinguibili.
Con ogni probabilità il M. procedé per tentativi reiterati, con affanno e rovello se non proprio con
furia; e durante tali tentativi, che poterono occupare anche soltanto lo «spazio d’un mattino»,
ebbe modo di soffermarsi su momenti o frammenti singoli, che dagli esami radiografici sembrano
iscrivibili fra i maggiori dell’arte del M., e poterono includere anche opere del tutto autonome,
quale l’Amore vincitore dipinto per Vincenzo Giustiniani, che sembra di dover datare giusto in
questo frangente. È verosimile, per altro, che il maestro non lasciasse il Martirio prima di averlo
condotto allo stadio definitivo, il quale, alla sostituzione d’un ordine compositivo basato sulla
semplice presentazione, con un altro aperto ad ali e incardinato sulla figura del carnefice
seminudo che risale dal fondo, fa corrispondere una inedita drammatizzazione della funzione
rivelatrice della luce, del cui abbattersi sulla scena proprio la figura del carnefice costituisce
l’appoggio in maggiore evidenza. Ma il punto è che, dopo aver ottenuto questi risultati, il M.
dovette rimetter mano alla Chiamata. La figura di S. Pietro, che la radiografia dimostra aggiunta
per intero, ha tutte le caratteristiche d’impianto e di «maneggio» pittorico che connotano la
stesura finale del Martirio; il Cristo stesso, il cui gesto della mano protesa ne modifica uno
precedente che sembrava più accusare che chiamare, dovette essere aggiornato e ritessuto
anch’esso sul nuovo metro; e non si può escludere che persino la soluzione più alta della scena,
vale a dire la straordinaria rappresentazione delle luci, delle ombre e delle penombre sulla parete
di fondo, al fuoco della traversa di sole che s’indirizza sul gruppo dei gabellieri dopo aver
perlustrato tutti gli incassi e i meccanismi della finestra, sia sì il prodotto d’un ripensamento delle
osservazioni ottiche condotte a suo tempo sui fondi della Maddalena, del Suonatore di liuto e
simili, bensì d’un ripensamento slargato sulla base delle più vaste esperienze fatte a margine del
Martirio, e in forza dell’ulteriore incremento di quelle ridotto a una limpidezza così consapevole.
Il seguito vede l’arricchimento sempre maggiore delle acquisizioni fatte con l’esperienza Contarelli,
e per gli anni della rimanente permanenza romana, dal 1601 al maggio 1606, dipana una matassa
di eventi esistenziali fra i più complessi e drammatici di ogni tempo. Una serie incalzante di
capolavori è punteggiata da vicende giudiziarie, litigi per contrasti esistenziali, ferimenti in duelli e
risse, fughe repentine, oltre ai nuovi rapporti con committenti e fautori diversi dal cardinal Del
Monte: i Cerasi, i Crescenzi, i Giustiniani, Laerzio Cherubini, i Mattei, i Massimo, i membri della
Confraternita dei Palafrenieri.
Nell’ordine dei tempi, la Crocifissione di s. Pietro e la Conversione di Saulo, compiuti fra il 24 sett.
1600 e il 10 nov. 1601 per la cappella Cerasi in S. Maria del Popolo, portano al livello di massima
concentrazione esistenziale il criterio narrativo sperimentato nelle tele Contarelli e mettono a
punto un discorso pittorico di pura macchia e di sgombra verità ottica che si rivedrà allo stesso
livello solo nella Morte della Madonna (Parigi, Louvre). Commessa da Laerte Cherubini nel giugno
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1601 e venduta a Roma nel febbraio-marzo 1607 – dopo il clamoroso rifiuto da parte dei
carmelitani di S. Maria della Scala, che a Lionello Venturi (p. 942) ha poi suggerito il giudizio: «Ma
la Morte della Madonna rifiutata dagli altari è forse il quadro più profondamente religioso del
Seicento» –, va fatta invece rientrare nel gruppo di opere eseguite dal M. per il cardinale Mattei.
La commissione del dipinto ora al Louvre fu infatti stipulata quando il pittore era passato da poco
ad abitare «in palatio illustrissimi et reverendissimi domini cardinalis Matthei» (l’atto d’impegno
contiene anzi la prima testimonianza del passaggio del M. da casa Del Monte a casa Mattei), e
l’opera costituisce la base e pietra di paragone del nuovo vertice a cui il M. si levò con le
straordinarie tele dipinte durante il biennio 1602-03: l’ Andata a Emmaus pagata nel gennaio 1602
(l’esemplare conservato a Hampton Court Palace, vantato recentissimamente come l’originale,
forse non è altro che una sua buona copia antica); l’Incredulità di s. Tommaso del 1601-02, ora a
Potsdam Sanssouci, in cui il maestro diede figura a un manifesto anche ideologico dell’autentica
esigenza di «verifica» e «constatazione» da lui posta a base di tutta la sua opera; la Presa di Cristo
nell’orto pagata nel gennaio 1603 (dunque eseguita anch’essa nell’anno precedente) e descritta da
Bellori, il cui originale, prima identificato nell’esemplare di Odessa, è stato riconosciuto nella tela
che è ora nella National Gallery di Dublino.
L’ultimo tempo romano annoverò non meno di altri tre capolavori. La Sepoltura di Cristoora nella
Pinacoteca Vaticana, eseguita dopo il 9 genn. 1602 ma completata prima del 6 sett. 1604, quando i
rettori di S. Maria della Vallicella, da dove l’opera proviene, specificarono che «il quadro nuovo del
Caravaggio» era stato «per sua cortesia fatto fare» dal «nepote del sig. Pietro Vittrici», Gerolamo.
La Madonna di Loreto, o dei Pellegrini, della cappella Cavalletti di S. Agostino a Roma, eseguita
dopo il 4 sett. 1603 ma prima del 2 marzo 1606, nella quale, sulla fede di Giovanni Baglione, i
«piedi fangosi» e la «cuffia sdrucita» dei due pellegrini, ma anche «la Madonna di Loreto ritratta
dal naturale», suscitarono le vociferazioni favorevoli e conclamate, anzi «estreme» dei «popolani»,
che in quelle immagini tolte dal naturale si erano evidentemente riconosciuti. Terza fu la
Madonna del serpe o dei Palafrenieri, eseguita fra il 31 ottobre-1° dic. 1605 e il 12-13 marzo 1606,
ma rimossa per ordine dei cardinali dall’altare di S. Pietro per il quale era stata dipinta e acquistata
subito dopo a buon mercato da Scipione Borghese, per la propria galleria di Roma, dove si trova
ancora. Nondimeno il discorso su questo estremo capolavoro romano del M. richiede ben altre
aggiunte.
Per ricostruire le circostanze che portarono il M. a Napoli, e in particolare alla commissione del
primo dei dipinti importanti della sua stagione meridionale (la tela per il Pio Monte della
Misericordia), è opportuno rifarsi a qualche mese prima che il pittore, coinvolto nel ben noto e già
ricordato ferimento a morte di Ranuccio Tomassoni, in una rissa «per un giudizio dato sopra un
fallo, mentre si giuocava alla racchetta», fosse costretto a fuggire da Roma.
Il 24 ott. 1605, ferito alla gola e all’orecchio sinistro, il M. si trovava nella casa romana
dell’avvocato Andrea Ruffetti da Toffia, non lontana da piazza Colonna. È lì infatti che, venuto a
interrogarlo, il notaio della Corte criminale lo trovò «jacente[m] in lecto [...] vulneratum in gutture
et auricola sinistra», e ne raccolse la dichiarazione – a dir poco provocatoria – che quelle ferite se
le era procurate da solo: «io me so’ ferito da me con la mia spada, che so’ cascato per queste
strade, et non so dove sia suto, né c’è stato nessuno». Ma, a parte il fatto già vistosamente
sintomatico che in un caso di tale gravità il M. scegliesse di ricoverarsi presso codesto Ruffetti, è di
gran lunga più significativo che in casa di costui il pittore si fermasse per altri quattro mesi (dal 31
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ottobre al 13 marzo dell’anno successivo), per dipingere l’opera più impegnative dei suoi ultimi
tempi romani: la Madonna del serpe, destinata alla cappella dell’arciconfraternita dei Palafrenieri
di S. Anna in S. Pietro vaticano (ma di lì, come si sa, rimossa prima d’un mese, per disposizione dei
cardinali). Apprendiamo tutto questo, per altro, da una lettera ormai lontana dai fatti, che Gian
Vittorio Rossi, alias Janus Nicius Erytraeus, indirizzò il 4 sett. 1620 a Giovanni Castellini Zaratino:
una lettera dalla quale apprendiamo anche che Andrea Ruffetti, mentre la pala del serpe era
compiuta e sostava in casa sua in attesa d’essere portata a S. Pietro, aveva chiesto a Castellini di
comporre un epigramma in lode di quell’opera (Della Pergola, doc. n. 79, e Cinotti, p. 244).
Ma allora (Bologna, 2006, pp. 384-387), chi era codesto Andrea Ruffetti, disposto a ospitare il M.
ferito e a dargli la comodità di dipingere in casa sua un’opera dell’importanza di destinazione,
dell’impegno estetico e della grandezza fisica della Madonna del serpe e chi erano l’Eritreo e
Castellini, gli altri due membri del sodalizio di Ruffetti con i quali il M. era in familiarità così
fiduciosa, e dai quali evidentemente era apprezzato a onta dei rifiuti che le sue opere avevano
subito, ultima la Morte della Madonna per S. Maria della Scala.
La cerchia rappresentata dagli attori di questa vicenda si delinea e anzi si conferma a una data
ormai inoltrata qual è il biennio 1605-06, come uno schieramento di punta, sotto il riguardo
artistico-letterario, giusto del nesso ideologico-culturale che s’è intravisto più a dietro. E Onorio
Longhi, che della cerchia faceva parte in prima fila, era stato l’introduttore del M. negli ambienti
più colti e modernizzanti della città.
Quando, negli ultimi giorni del maggio 1606, il M. dovette lasciare Roma, si nascose, fuggiasco, fra
Zagarolo, Paliano e Palestrina, che erano feudi di don Marzio Colonna. Delle due opere dipinte in
quelle settimane dal M., l’una, una mezza figura di Maddalena svenutadi cui non s’è ancora
ritrovato l’originale, dovette rimanere in possesso del M. stesso; l’altra, la struggente e
sconsolatamente sobria Cena in Emmaus (Milano, Brera), fu acquistata e portata a Roma dal
genovese Ottavio Costa, il mercante-banchiere che si era fatto patrono e committente del pittore
fin dagli ultimi anni del secolo precedente. Riemergeva così la traccia della più caratteristica classe
di committenti caravaggeschi degli anni romani; onde non sarà stato per caso se proprio un
mercante di granaglie, il raguseo operante a Bari Niccolò Radulovich, fu quegli che il 6 ott. 1606
diede a dipingere al M. il suo primo quadro napoletano, purtroppo non pervenuto sebbene
documentato. Epperò, pur avendo superato la stretta di una congiuntura così difficile, il M. non
avrebbe avuto modo di accedere alla commissione di un dipinto quale la pala con Le opere di
misericordia per l’appena costituito Monte della misericordia, senza una qualche convinta
apertura di credito.
A proposito della tela per il Pio Monte, occorre premettere due considerazioni. La prima è che
dalla «capitolazione» originaria del Pio Monte, redatta nel 1603, emerge con chiarezza la
propensione dei fondatori all’esercizio della «misericordia corporale», e in più all’indipendenza dal
controllo ecclesiastico: «vogliamo finalmente, che questo nostro Monte non sia suggetto
all’ordinario, ma che l’opere d’esso Monte siano libere et essente dalla giurisdizione di detto
ordinario». Il che fu anche concesso dall’autorità papale, ma alla condizione che la concessione
rimanesse segretissima. In ogni caso, l’intento del Monte era una carità messa in atto in modo del
tutto personale e autonomo, legata al concreto «exercitio» e «prattica» di esse, nell’interesse e
per il sollievo effettivo, corporale in primo luogo, dei «bisognosi» (Bologna, 2006, pp. 388-393). La
seconda si appunta nel vivo delle intenzioni poetiche e morali del M., riguardo alle opere d’arte di
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argomento sacro. S’è già ricordato come una sorgente importante della visione artistico-
iconografica caravaggesca si trovasse fra le pieghe delle dottrine di Erasmo da Rotterdam. Ebbene,
quando il M. si trovò a dare corpo pittorico al nuovissimo tema iconografico che gli si proponeva,
s’impegnò a cercare in primo luogo proprio il punto di congiunzione fra la «misericordia
corporale», esercitata senza vincoli formalistici e d’autorità da una congregazione di uomini volti a
una carità operativa, e quell’idea di «divino» e di «santo», d’impronta erasmiana, su cui aveva
fondato tutti i dipinti d’argomento sacro compiuti fino a quel momento.
Nella parte superiore della composizione rappresentò la Madonna col Bambino in pura veste
esistenziale: non solo come Madonna «senza seggiola» – secondo l’ironica definizione di Roberto
Longhi, che intendeva adombrare l’intenzione del maestro di rifare su natura la celebre Madonna
della seggiola di Raffaello –, piuttosto come una creatura dolcemente terrestre. Intanto il ragazzo,
che si sporge in basso verso il punto climaterico del quadro, il maestro lo raffigurò in posa,
nell’atto di scaricare il peso del proprio corpo e di tutto il gruppo sulla mano arrossata dal sangue,
che affluisce per lo sforzo verso la piegatura del polso. Ma il punto più rivolgente è che quel
medesimo ragazzo, intanto riesce a fingere la sua condizione di angelo, in quanto, con un
autentico colpo di genio, il M. ha preso la decisione di sottrarre (vale a dire di nascondere non
rappresentandolo) il piano d’appoggio su cui il gruppo si libra (Bologna, 2006, p. 391).
Nella parte inferiore, non è dubbio che il M., come i committenti, intese rappresentare la
«prattica» di «opere», e non la «sola fede» in cui le dottrine protestanti riponevano la speranza
della salvezza. Ma a maggior ragione gli parve necessario di rappresentare opere di misericordia
corporale, trasformando la rappresentazione delle Opere di misericordia, da situazioni astraenti e
canonicamente simboliche, in groppi di dolente vita vissuta: di notte, in un vero vicolo di città,
all’angolo di una prigione. Nella schiera di gente sorpresa nel vicolo nell’atto di muoversi e andare
dal che quella mobile impronta di umanità in cammino, che non implica nulla di simbolicamente
statico o di men che veritiero. Verso sinistra, due pellegrini (il primo con la conchiglia di s. Giacomo
sulla berretta), a cui un oste ritratto sicuramente dal vero indica la direzione del ricovero, mentre
un altro, sbalzato dalla luce all’estremo limite del quadro, si abbevera a una mascella d’asino
(come il Sansone biblico), e un altro ancora, in panni eleganti e cappello piumato, divide il
mantello (come il s. Martino della leggenda) con l’ignudo derelitto seduto a terra in primo piano.
Al centro è un monatto, che trascina alla sepoltura un morto (del quale, fuori dal lenzuolo con cui
è trasportato, spuntano lividi i soli piedi), con l’assistenza di un chierico che alza una torcia,
squarciando il buio del vicolo al canto della prigione. E in primo piano, sulla destra, una donna
spaventata che porge la mammella nuda a un vecchio recluso (come si dice che facesse l’antica
Pero con il padre Cimone), del quale, tra le sbarre della carcere, affiora a fatica, investita dalla luce,
la sola testa, con qualche goccia di latte sulla barba.
«Per la chiesa della Misericordia – scrisse Bellori (p. 209), sebbene non senza qualche imprecisione
–, dipinse le Sette Opere in un quadro lungo circa dieci palmi [...]. Fra l’altre figure vi appariscono li
piedi e le gambe di un morto portato alla sepoltura, e dal lume della torcia di uno che sostenta il
cadavero si spargono i raggi sopra il sacerdote con la cotta bianca e s’illumina il colore». Scontato
l’apprezzamento del «colore» che «s’illumina», mette conto rilevare che la premura con cui Bellori
richiama l’attenzione sulla parte del dipinto dove «appariscono li piedi e le gambe di un morto
portato alla sepoltura» al lume di una torcia, non solo tende a rilevare il punto forse più

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desolatamente cruciale della rappresentazione, ma spinge a domandarsi se soprattutto quel punto
non sia fondato su cose effettivamente viste e sofferte.
Le Opere di misericordia, a cui per stile e cronologia può essere accostata la sola mezza figura di
Davide con la testa di Golia (Vienna, Kunsthistorisches Museum), segnano nell’arte caravaggesca
l’avvio a un nuovo rapporto con la realtà. Ma il momento cruciale della svolta, raggiunto con una
bruciante rapidità di crescita, va fissato subito dopo, nella Crocifissione di s. Andrea che è oggi al
Cleveland Museum of art.
In un documento visto in copia nel 1929 da O.H. Green, ma andato perduto durante gli eventi della
seconda guerra mondiale, pare si dicesse che il conte di Benavente, rientrando in Spagna dopo la
conclusione del suo viceregno napoletano, l’11 luglio 1610, portava con sé due quadri del M.: una
«Crocifissione di sant’Andrea» e un «Santo decollato» (Bologna, 2006, p. 413). È ancora tutto
molto incerto sul «Santo decollato», ma i più sono d’accordo nel ritenere che la «Crocifissione di
sant’Andrea» debba essere identificata con il quadro oggi a Cleveland, la cui provenienza dalla
raccolta vallisoledana del Benavente è documentata dal dicembre 1652. Per altro, nel 1672 Bellori
scrive che «il conte di Benavente che fu viceré di Napoli, portò ancora in Ispagna le Crocefissione
di Sant’Andrea». Nonostante ciò, resta dubbio se il quadro sia stato commesso dal Benavente
medesimo al M., e in quali circostanze, o se il Benavente ne fosse venuto in possesso per vie
diverse. Il che, per altro, mette in discussione se il M. trovasse con eccezionale tempestività,
proprio all’indomani dell’impresa pittorica compiuta per il Pio Monte, il maggior riconoscimento e
la maggior gratificazione possibile nella Napoli viceregnale con la conseguente ricaduta di merito
sul Benavente stesso, che in tal caso diverrebbe l’unico esponente del potere ufficiale dimostratosi
capace, fino a quel momento, di apprezzare l’opera di un maestro che dall’ufficialità
istituzionalizzata non aveva ancora ottenuto nulla di simile, e anzi aveva ricevuto solo contrasti e
rifiuti. Benavente è anche il supposto committente della Madonna del Rosario (Vienna,
Kunsthistorisches Museum) che invece era in vendita a Napoli già nel settembre del 1607, quando
Benavente era ancora presente in sede nel pieno possesso dei poteri.
Quanto al dipinto, ne è stata già notata la rarità iconografica. S’è insistito, in primo luogo, sul fatto
che la croce a cui il martire è legato non è quella decussata, a forma di X, che prende nome proprio
dal santo che vi fu crocifisso; bensì dalla croce detta latina, quella di Cristo. E s’è insistito ancora di
più sul fatto che, nella rappresentazione principale, la preferenza sia stata accordata non già al
momento in cui l’apostolo è messo sulla croce, bensì a quello successivo del non riuscito tentativo
di slegarlo per farlo tacere, e chi ci si provò restò con le braccia inaridite come legno secco. A
preferenza di altre ipotesi, è verisimile credere che il tutto risalga a ciò che si leggeva nella
Leggenda aurea di Iacopo da Varazze. Il M. si attenne alla narrazione tradizionale in tutti i
particolari, fissandola al suo culmine: il santo è nudo sulla croce (di una nudità impietosa, scavata
dallo sforzo di protendersi in avanti) e sporge la testa verso il basso per parlare al guerriero in armi
(il proconsole Egeas), che invece, chiamato, leva la testa verso di lui, mentre il carnefice, salito
sulla scala per slegare il crocifisso, s’inarca all’indietro come paralizzato, aggrappandosi alle corde
che sta allentando. Inoltre la ricerca iconografica, lasciati indietro i prototipi remoti e lontani,
richiama un esempio prototrecentesco presente proprio a Napoli: l’affresco del S. Andrea
crocifisso di Pietro Cavallini, esistente nella cappella Brancacci di S. Domenico Maggiore a Napoli
(Bologna, 2006, p. 415).

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Certo è che il M. puntò le sue carte pittoriche migliori proprio sulla rappresentazione dei groppi di
corde con cui le braccia del martire sono annodate alle braccia della croce: veri pezzi di natura
morta di tempra inedita. Ne esce esaltato anche il carattere prerembrandtiano di brani come il
braccio e la mano sinistra del santo ignudo, avvolti dai reiterati giri di corda: un lampo di luce
passante li illumina subitaneamente, anticipando il dramma dell’ombra proiettata a strappo sul
chiarore che si apre subito al di sotto.
Il rinvio al quadro del Pio Monte, consegnato ai committenti fra gli ultimi giorni del 1606 e il 9
genn. 1607, riporta così il discorso sull’ultimo problema posto dalla Crocifissione di s. Andrea: la
sua datazione. A ciò può aiutare un sistema di confronti istituiti proprio con la tela della
Misericordia. Fra questi è la somiglianza che rilega il giovane seminudo, puntato di spalle ai piedi
del cavaliere piumato nella tela del Pio Monte, con il dorso ugualmente seminudo dell’aguzzino
che tenta di sciogliere la corda del crocifisso nel dipinto di Cleveland. All’impressione di trovarsi
dinnanzi alla riproposizione del medesimo modello fisico, secondo un criterio non raro in tutta
l’opera del M., corrisponde il sorpasso in crescita rapida del secondo sul primo, per una marcatura
di forme e ombre che si accentua in progresso, e una tensione espressiva nella ricerca di una più
avventante evidenza corporea, che si carica a vista. Non si può dubitare che tutto ciò si traduca nei
termini temporali di un prima e di un dopo in accelerazione, sì da ordinare in successione i due
momenti, ma senza lasciare troppo spazio fra di essi. Dal capo opposto, è già stata messa in
evidenza l’intrinsecità pittorica della testa del s. Andrea con quella del s. Girolamo della
cocattedrale di La Valletta a Malta, che fu fatto dipingere da Ippolito Malaspina ed è così vicino alle
cose del primo soggiorno del M. a Napoli, da aver suggerito la possibilità che sia stato dipinto non
a Malta, ma a Napoli e di lì inviato a Malta.
Per confermare l’appartenenza della Crocifissione di s. Andrea agli ultimi mesi del primo, piuttosto
che al secondo soggiorno napoletano del M., due ultimi confronti possono essere istituiti. Uno fra
la donna del gozzo nel quadro di Cleveland e la donna, con la medesima deformazione, che fa da
assistente a Giuditta nella versione della Giuditta e Oloferne vista in vendita a Napoli da Pourbus
nel settembre del 1607 (per come la conosciamo dalla copia appartenente alle vecchie collezioni
del Banco di Napoli); il secondo, più problematico ma manifesto, fra l’armigero che impersona il
proconsole romano, sempre nel S. Andrea, e quello che assiste all’incoronazione di spine nel
quadro di Vienna. Nel caso della donna con il gozzo, data per buona la derivazione della copia del
Banco di Napoli dalla Giuditta che Pourbus aveva visto a Napoli nel settembre 1607, il fatto che lo
stesso Pourbus dicesse che tale Giuditta era stata «fatta qui», accerta che il M. l’aveva dipinta
prima del giugno di quell’anno, donde la ripercussione immediata sulla data del S. Andrea. Nel
caso dell’armigero, l’innegabile coincidenza fra le due figure deve fare i conti con le opinioni
divergenti sia intorno alla cronologia del quadro di Vienna (se appartenga ad anni romani o ai mesi
napoletani del biennio 1606-07), sia circa la sua stessa autografia. Le osservazioni che sono state
riproposte negli ultimissimi tempi su una qualche piattezza e persino asprezza d’esecuzione del
dipinto portano comunque a concludere che l’invenzione dell’opera spetti senza dubbi al M., ma
che l’esecuzione sia d’altra mano: napoletana con ogni probabilità, secondo la primitiva tesi di
Longhi, che l’attribuiva a Battistello Caracciolo (Bologna, 2006, p. 417).
A questo punto s’impone la differenza radicale fra tutto questo e la celeberrima Madonna del
Rosario del Kunsthistorisches Museum di Vienna, che, secondo quanto ha sostenuto Denunzio, si
vorrebbe collegare a un’altra commissione personale del viceré don Juan Alonso Pimentel de
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Herrera, conte-duca di Benavente, questa volta garantita addirittura dalla presenza, nelle vesti del
commitente, del proprio ritratto. Ma poco probabile appare l’attribuzione al Benavente dal
momento che è ingiustificabile che un quadro fatto dipingere dal viceré nel pieno dei poteri si
trovasse rifiutato e posto addirittura in vendita sulla stessa piazza metropolitana (Bologna, 2006,
pp. 417 s.).
In tali condizioni, torna a imporsi la differenza radicale a cui si accennava più a dietro fra il Rosario
e la sequenza che dalle Opere di misericordia porta alla Crocifissione di s. Andrea, rivendicando un
peso molto maggiore ai riscontri stilistici che collegano all’indietro il Rosario alle opere degli ultimi
cinque anni romani.
Il confronto con la Morte della Madonna al Louvre, da un lato, con la Sepoltura di Cristo della
Pinacoteca Vaticana e la Madonna dei Pellegrini in S. Agostino a Roma, dall’altro, pone in evidenza
un così stringente nesso di rispondenze da rendere indubitabile la contestualità sostanziale delle
quattro pale.
Riprendendo il discorso dall’accelerazione che il M. aveva impresso alla sua pittura quand’era
passato senza esitazioni dalle Opere di misericordia alla Crocifissione di s. Andrea, appare a questo
punto indubbio che il trasferimento del maestro a Malta fosse segnato dalla prosecuzione
altrettanto immediata di quelle ricerche, come infatti si rileva nel S. Girolamodi La Valletta. Dal
momento che il S. Girolamo reca lo stemma di Ippolito Malaspina, vale a dire fu commesso da lui,
pare attendibile che dal Malaspina si debba prendere l’avvio, anche per intendere qualche cosa in
più sui motivi e le occasioni della partenza – altrimenti così sconcertante – del M. per Malta.
Delle ricerche di Keith Sciberras (2002) pare importante la conclusione che il gran maestro
dell’Ordine di Malta, Alof de Wignacourt, non fosse mosso da alcun interesse preventivo nei
confronti del M., quando questi decise di trasferirsi nell’isola; e che la sua ammirazione per il M.
maturasse a Malta, a seguito delle prove date dal Merisi. Ebbene, fra Ippolito Malaspina dei
marchesi di Fosdinovo, committente del S. Girolamo, era balì dei Cavalieri di Malta a Napoli ed era
consigliere di Wignacourt. Dal novembre del 1606 aveva fatto conoscere al gran maestro la sua
intenzione di venire «in convento», cioè a Malta, dov’era la sede centrale dell’Ordine. Per altro il
Malaspina era imparentato con un vecchio committente e protettore del M., il genovese Ottavio
Costa, che aveva a Malta importanti interessi commerciali, nonché rapporti stretti con l’Ordine;
senza dire di Vincenzo Giustiniani, conclamato collezionista del M. durante tutto l’arco della sua
attività e anche lui, con il fratello cardinale Benedetto e i cugini Marc’Aurelio e Orazio, in rapporti
stretti con Malta, con Costa e i cavalieri di S. Giovanni.
Va ricordato inoltre che l’anno precedente un altro corrispondente del gran maestro a Napoli, fra
Giovanni Andrea Capeci, s’era trovato coinvolto nel passaggio del M. a Malta. Wignacourt
desiderava avere un pittore al suo servizio, ma non erano andate a buon fine alcune trattative
correnti nei primi mesi del 1606 con un ignoto pittore di Firenze. Malaspina, che era pertanto a
conoscenza del desiderio di Wignacourt di avere un pittore al proprio servizio e dei successi
napoletani del M. (magari anche per indicazione di Ottavio Costa, che aveva appena comprato la
Cena in Emmaus ora a Brera, dipinta dal M. fuggiasco durante i mesi trascorsi fra Paliano e
Palestrina) venne a trovarsi nella migliore opportunità per soddisfare il desiderio del gran maestro.
E se è vero che, come dimostra lo stesso Denunzio, il M. raggiunse Malta su una delle galee
dell’ordine, partite da Napoli al comando di Fabrizio Sforza Colonna, viene fatto di concludere che

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il M. salpò verso la nuova sede di lavoro insieme con Malaspina, oltre che per il suo
interessamento.
Da questo quadro d’insieme esce innazitutto ridimensionato il ruolo che si sarebbe voluto
accordare a Fabrizio Sforza Colonna quale ponte privilegiato all’entrata del M. presso il gran
maestro dell’Ordine gerosolimitano. E con il ridimensionamento dello Sforza Colonna esce
ridimensionato anche il particolare ruolo che s’è voluto assegnare da tempo alle famiglie Sforza e
Colonna nel ricupero del M. alla disciplina cattolico-tridentina: un ruolo che, fra parentele,
alleanze, solidarietà e scelte ideologiche, avrebbe dovuto ricondurre sempre al cardinale Federico
Borromeo.
Con l’emergere di fra Ippolito Malaspina, invece, il panorama si delinea in altro modo: la
commissione del S.Girolamo al M. si rivela indenne da retropensieri di natura ideologica e va a
connettersi con il programma di offrirlo al Wignacourt, per la cappella dei cavalieri della «lingua
d’Italia», a prova del valore del maestro. Di qui il seguito dei rapporti anche personali del M. con il
gran maestro, il quale solo il 29 dic. 1607 incominciò ad adoprarsi per ottenere dal papa la
dispensa ad ammetterlo per meriti specialissimi nel novero dei «cavalieri magistrali».
Dai documenti del 29 dic. 1607 concernenti l’avvio delle pratiche per procedere all’investitura del
M., emerge due volte anche il nome di Francesco dell’Antella, commendatore dell’Ordine
gerosolimitano, al quale si è soliti far risalire la commissione dell’altro dipinto di scala minore
eseguito dal M. a Malta: l’Amore dormiente (Firenze, Galleria di Palazzo Pitti), che è iscritto nel
rovescio «Opera del Sr Michel Angelo Maresi da Caravaggio in Malta 1608» e risulta inviato a
Firenze nel luglio 1609, dal commendator Francesco al senatore Niccolò dell’Antella, suo fratello. Il
M., per altro, ricevette la croce di Malta senza aver ancora completato l’opera fondamentale e
gigantesca per la quale il suo soggiorno maltese è ricordato: la Decollazione del Battista (La
Valletta, cattedrale).
Nella celebre segnatura mozzata nel sangue con la quale il M. firmò questo capolavoro, il nome
«MichelAng» è preceduto da una «f», e questa è sicuramente l’abbreviazione di «fra», ossia del
titolo «frater» con cui il nome dei cavalieri gerosolimitani incominciava solitamente. Il fatto prova
che il quadro non fu consegnato, e forse ultimato, prima del 14 luglio 1608, quando il M. acquistò
il diritto di chiamarsi ufficialmente «fra Michelangelo», e, trascorso il prescritto anno di noviziato,
che sarà stato conteggiato a partire dalla data d’arrivo del pittore a Malta (12-13 luglio 1607), si
preparava la cerimonia d’inaugurazione del quadro, che sarebbe dovuta avvenire il 29 agosto,
festa canonica di S. Giovanni decollato.
Probabilmente l’inaugurazione si fece, ma in assenza del suo autore, il quale due giorni prima, il 27
agosto, e nove giorni dopo la rissa scoppiata la notte del 18 in casa dell’organista della chiesa
conventuale di S. Giovanni, fra Prospero Coppini, era stato arrestato, insieme con fra Giovanni
Pietro da Ponte ritenuto responsabile principale della zuffa, e rinchiuso nel forte Sant’Angelo. Di
dove fuggì avventurosamente il 6 ottobre, per approdare a Siracusa, sulla costa orientale della
Sicilia, con la complicità di favoreggiatori rimasti misteriosi. Contumace, il 1° dic. 1608 il M. è
condannato alla «privatio habitus in absentia».
Diversamente dal S. Girolamo Malaspina, la grande tela della Decollazione del Battista cambia
ancora una volta il discorso pittorico e dalla concitazione con cui il M. era pervenuto allo strappo
della Crocifissione di s. Andrea, il maestro si ritrae per murare il dramma nella obiettività
inesorabile di un’esecuzione capitale, alla quale si può assistere persino con curiosità, oppure
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prender parte con l’orrore disperato della vecchia che non sa rendersi conto di come la giovane
aspetti di ricevere nel bacino la testa sanguinante del decapitato. Il tutto in un cortile di prigione di
muta e impietrata solennità, in cui le bugne nere e grevi del portale, l’androne che lascia scorgere
il cortile interno attraverso le doghe di un cancellaccio dissestato, le mura illividite da una luce di
prima mattina, la mostra della finestra inferriata da cui traguardano gli incarcerati, e la doppia
corda che scende dall’alto per andare ad annodarsi a un anello inchiavardato nella muraglia e
ricadere a terra serpeggiando, sono guardati e visti come pezzi di una natura morta grandeggiante
nella sua evidenza.
Da questo dipinto alle mura scortecciate e all’arcone nell’interno di un rudere archeologico vuoto,
dentro cui ha luogo il Seppellimento di s. Lucia nella pala di Siracusa (chiesa di S. Lucia), il passaggio
è immediato; e a quel passaggio, oltre alla somiglianza già messa in evidenza fra il gesto della
vecchia che si prende la faccia fra le mani nella Decollazione e la straziante riedizione del
medesimo pensiero nella vecchia inginocchiata dietro il fossore di destra nel Seppellimento
siracusano, contribuisce non poco anche l’Amore dormiente dipinto per Francesco dell’Antella
negli stessi mesi del gran quadro di La Valletta.
Messe a fronte, la figura di Amore e quella della s. Lucia del quadro siracusano rivelano una
sorprendente identità di concezione, nella continuità evidente di una ricerca in via di
approfondimento. Basti osservare come la sversata della luce che prende di sotto in su il volto di
Amore sia rimessa in opera sul volto della s. Lucia: desolato fantasma di morte, quasi pregoyesco,
in cui, proprio per la strisciata passante della luce sui tratti facciali ridotti all’essenziale, tutta quella
storia si riassume e conclude.
Nel Seppellimento il M. inverte il rapporto fra figure e ambiente, scopre anche il vuoto delle
muraglie come grandiose nature morte e fa altri passi avanti nel processo di trasformazione di
«questi stanzoni simili a vasti magazzini sgomberati» in «vaso luminoso e in fondo come superficie
coloristica» (Longhi, 1915, in Scritti giovanili, pp. 193 s.; Bologna, 2006, p. 427).
Risale alla fine del 1608 l’episodio narrato nel 1613 dall’archeologo siracusano Vincenzo Mirabella
(Dichiarazioni della pianta delle Antiche Siracuse e d’alcune scelte medaglie d’esse e de’ principi
che quelle possedettero, Napoli 1613) per il quale, giusto in forza dell’osservazione, oltre che
dell’imitazione, della «natura» da parte del M., il carcere siracusano della latomia del Paradiso
ebbe il nome di «Orecchio di Dionisio»: «E mi si ricorda che avendo io condotto a veder questa
carcere quel pittore singolare de’ nostri tempi Michel Angelo da Caravaggio, egli considerando la
fortezza di quella, mosso da quel suo ingegno unico imitatore delle cose della natura, disse: Non
vedete voi come il tiranno per voler fare un vaso che per far sentire le cose servisse, non volse
altrove pigliare il modello, che da quello che la natura per lo medesimo effetto fabbricò? Onde ei
fece questa carcere a somiglianza d’un orecchio. La qual cosa sì come prima non considerata così
dopo saputa, ed esaminata ha portato a’ più curiosi doppio stupore» (Bologna, 2006, pp. 427 s.).
Senza avere il «tono troppo accademico» e «notomico» lamentato da Longhi, il discorso del
Mirabella è già «galileiano», attento senza remore a «quello che l’esperienza e il senso ci
dimostra»; tale, per giunta, da fornire una spiegazione flagrante di ciò che nel metodo del M.
significasse effettivamente l’«osservanza della cosa», e di quali fossero i percorsi conoscitivi sui
quali questa «osservanza» si basava (ibid., p. 428).
Orbene, dagli studi che Salvatore Russo (ibid., p. 633 n. 91) ha condotto su Mirabella e i suoi
orientamenti, risultano i dati seguenti.
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Vincenzo Mirabella nel 1590 sposa Lucrezia Platamone, con i capitoli matrimoniali rogati dal
notaio Vincenzo Leone il 29 ag. 1592. Nel frattempo, il 10 genn. 1590, sottoscrive un atto, rogato
dallo stesso notaio Leone, «pro Reverendo Monasterio Santae Luciae Santissimae», in forza del
quale «don Vincentius Mirabella et spett. donna Lucrezia de Mirabellis et Platamone coniuge»
impegnano 10 onze l’anno in favore del suddetto monastero di S. Lucia, coincidente con la chiesa
di S. Lucia al Sepolcro dove fu collocata dall’origine la pala luciana del M., fatto che impone di
credere che quella pala fosse commessa al maestro proprio da Vincenzo Mirabella. Archeologo,
frequentatore dei maggiori esponenti della ricerca scientifica del momento, linceo della prima ora
e attentissimo corrispondente di Galilei, del quale seguiva da competente le scoperte e gli
esperimenti, Mirabella mena finalmente allo scoperto, anche più dei Del Monte e dei Gualdo, di
Onorio Longhi, di Ruffetti e di Giovanni Battista Manso, la radice profonda della fisionomia
intellettuale del M.: non già disciplinato e sottomesso adepto dei Borromeo, che lo disprezzavano,
bensì autonomo anticipatore pittorico della rivoluzione scientifica moderna, ben accolto anche a
Siracusa dalle intelligenze a rischio di «sinistri incontri».
La Resurrezione di Lazzaro (oggi nel Museo regionale di Messina), dipinta per il messinese Giovan
Battista de’ Lazzari fra il 6 dic. 1608 e il 10 giugno 1609, prosegue con reinvenzioni geniali, ma con
contiguità da corto circuito tutti gli aspetti del Seppellimento di s. Lucia, al punto di spingere a
supporre che il maestro dipingesse i due quadri in contemporanea, come se facesse la spola fra
Siracusa e Messina e alternasse il lavoro appoggiando gli stessi pennelli ora sull’una ora sull’altra
tela.
L’organizzazione compositiva e il rapporto fra i grandi vuoti della parte superiore e i pieni in
dislocazione diagonale della parte inferiore sono improntati in entrambi i casi allo stesso
sentimento per le muraglie di ruderi vuoti, prevalenti come pezzi di mondo non ancora esplorato,
sulle schiere di uomini che errano dentro quei recinti. E se a Siracusa si tratta di una sepoltura, a
Messina si tratta di una riesumazione, il cui racconto figurale deflagra drammaticamente ed
esplode nella tenebra, al lampo della luce che la squarcia. In entrambi i casi una mano protesa
svetta nel vuoto sopra le teste dei presenti, e a Messina il gesto si fa assoluto. Per toccare il punto
di più acuta coincidenza, persino di contenuto fattuale, fra la testa della s.Lucia e quella di Lazzaro,
tutt’e due rovesciate all’indietro, e consumate di sotto in su, dall’urto dello stesso raggio di luce.
Quanto al resto, occorre non dimenticare che la commissione del dipinto, voluta dal già nominato
Giovan Battista de’ Lazzari per una cappella nella chiesa dei Crociferi, prevedeva un quadro
raffigurante la Madonna, s. Giovanni Battista (di cui il committente portava il nome) e altri santi. Il
M. consegnò invece il quadro attuale, in cui, come è specificato nella ricevuta del 10 giugno 1609,
«fuit et est depicta resurrectio Lazzari cum imagine domini nostri Jesu Christi et cum imaginibus
Martae et Magdalenae et aliorum» (Bologna, 2006, p. 432). Per F. Susinno (Le vite de’ pittori
messinesi… [1724], Firenze 1950, pp. 114 s.) il cambiamento sarebbe dipeso dalle sollecitazioni
fatte dal M. stesso sul committente affinché la figurazione evocasse il nome della casata (de’
Lazzari) e non il suo personale (Giovan Battista): si tratta di un fatto eccezionale nella storia della
committenza e proprio perciò è altamente indicativo delle reali attitudini del M. nei confronti delle
prescrizioni iconografiche (Bologna, 2006, p. 432).
Nello stesso documento in cui è sancita l’accettazione del quadro per de’ Lazzari «non obstante» il
cambiamento del soggetto, il M. è indicato come «fr. Michelangelus Caravagio miles
gerosolimitanus». E ciò, nonostante che alla data del 10 giugno 1609 il governo dei cavalieri di
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Malta avesse già inflitto al pittore, in precedenza salutato come l’Apelle dell’isola e ora contumace,
la «privatio habitus».
Dell’Adorazione dei pastori, pervenuta al Museo regionale di Messina dalla chiesa di S. Maria degli
Angeli dei frati cappuccini, per la quale l’aveva fatta dipingere il Senato della città durante la prima
metà del 1609, s’è voluta sottovalutare la circostanza che l’opera era stata ordinata da
un’istituzione pubblica; e s’è voluta prospettare un’altra versione della tesi del M. osservante e
fautore delle nuove devozioni post-tridentine: questa volta, appoggiandola al fatto che sia
l’Adorazione messinese, sia quella subito successiva (rubata) di S. Lorenzo a Palermo, nella quale
per altro s. Francesco è introdotto in persona, furono dipinte per chiese facenti capo alla branca
più recente dell’Ordine francescano, la pauperistica dei cappuccini.
Senza negare che un punto di consonanza fra il pauperismo dei cappuccini e quello sui generis del
M. tardo si possa anche trovare, non può essere condivisa la tesi che ciò risulterebbe dall’adozione
in entrambe le tele, che presentano tutt’e due la Madonna distesa a terra, dell’antico schema
iconografico della Madonna dell’Umiltà, per altro rappresentato proprio a Palermo dalla nota
Nostra Domina de Humilitate di Bartolomeo Pellerano da Camogli, che è uno degli esempi più
antichi e più autorevoli di quello schema. Gli studiosi di iconografia sanno invece che la formula
iconica più antica della nascita di Gesù mostra la Madonna giacente sul rudimentale letto del
parto, poggiato sulla nuda terra, mentre si solleva per guardare il bambino dormiente nella
greppia o per sollevarlo dalla greppia e tenerlo in braccio.
Che negli ultimi tempi il M. mostrasse qualche interesse per le antiche iconografie non si può certo
escludere. A suo tempo (Bologna, 1980; 1992) ne furono segnalati almeno altri due esempi: nella
perduta Resurrezione per i Fenaroli a S. Anna dei Lombardi a Napoli e nella S. Orsola per
Marcantonio Doria. Ma si trattò pur sempre di ricerche volte a recuperare non già metafore e
simbologie, bensì appoggi a una restituzione quasi etimologica della narrazione sacra al grado zero
della verità esistenziale da cui ebbe origine. Nel caso delle tele di Messina e Palermo, il M. tenne
sicuramente a differenziarsi dagli schemi correnti; ma, senza allontanarsi dall’intenzione di
restituire alla narrazione evangelica le circostanze effettive in cui non poté non verificarsi, si tenne
lontano da simboli e metafore e si adoprò invece a risalire alla particolare linea dell’elaborazione
iconografica che giudicò più congeniale a quella sua irrinunciabile istanza.
Bellori (p. 210) notò molto bene che a Messina il M. «colorì a’ Cappuccini il quadro della Natività,
figuratavi la Vergine col Bambino fuori la capanna rotta e disfatta d’assi» e Susinno mise in
evidenza il «campo nero con legni rustici che compongono la capanna». E Longhi rilevò, fra le assi
rotte e disfatte, una «natura morta “dei poveri” – tovagliolo, pagnotta e pialla da falegname, in tre
toni di bianco, bruno e nero–». Presumendo che insieme con la capanna, e dentro di essa, questa
«natura morta dei poveri» costituisse il tratto altamente espressivo di tutta l’opera, lo stesso
Longhi concluse che questa «si restringe a un’essenza disperata» (Bologna, 2006, p. 434).
A Palermo il M. riprese l’idea di Messina con variazioni al solito geniali. Dell’asino e del bue, nel
quadro messinese ritti in piedi sul fondo, per tutta la larghezza della staccionata presso la
mangiatoia, riaffiora solo la lunga testa dell’asino, ma quasi a pari con lo straordinario s. Lorenzo.
Le assi della capanna disfatta sono rialzate in diagonale per far posto all’angelo neolottesco, il
quale con le braccia aperte in verticale e le ali appuntate verso l’alto svola al di sotto di quelle assi
come una farfalla gigantesca: e non precipita perché è trattenuto dalla corda di sicurezza degli
acrobati, nascosta accuratamente. In basso, in mezzo ai tre santi raccolti fra stupore e perplessità,
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con lo stalliere visto di spalle, la giovane puerpera «finta» per Madonna si solleva da terra e si
appoggia a un ripiano per guardare meglio il neonato nudo, posato alla rovescia su d’un
lenzuolino, posato a sua volta su d’un mucchio di paglia vera. Il s. Lorenzo, con il camice e la
dalmatica giallo-oro franti dalle ombre come nessun’altra parte del quadro, s’insinua nella lama di
luce con una crudezza che prelude al giovane Velázquez dell’Adorazione dei magi (1617: Madrid,
Prado).
«E navigò di nuovo à Napoli – scrive Bellori (p. 211) – dov’egli pensava di trattenersi, sin tanto che
havesse ricevuto la nuova della gratia della sua remissione[...]. Cercando insieme di placare il Gran
Maestro, gli mandò in dono una mezza figura di Herodiade con la testa di San Giovanni nel
bacino».
Non si tratta naturalmente di Erodiade, ma di Salomè, figlia di Erodiade, e il dipinto che combacia
alla lettera con la descrizione di Bellori, e ha caratteri caravaggeschi del tutto convenienti al M.
degli ultimi tempi, è la «mezza figura» di Salomè «con la testa di San Giovanni nel bacino» della
Collezione Arditi di Castelvetere al Castello di Presicce presso Lecce, e ora a Roma. Identificata
dallo scrivente oltre vent’anni fa, s’è venuta confermando nel tempo, e con il contributo delle
verifiche ravvicinate dei restauratori, opera di autografia non solo indiscutibile, ma della qualità
più alta, e in proporzione inversa alla dimensione, che non è grande. Per di più, tale Salomè non
tarda a prender luogo fra i dipinti del maestro più pungentemente originali, anche per
l’interpretazione del tema. Con la geniale spregiudicatezza che lo distingue, infatti, il M. qui
introduce la figlia di Erodiade come una ragazzetta un po’ troppo svelta e quasi sfrontata, che s’è
messa all’orecchio un pendente di raffinata oreficeria e s’è cinta la testa di nastri che le ricadono
svolazzando sulle spalle, per compiere il gesto inaudito di portarsi sottobraccio quel reperto, quasi
fosse un cesto di panni appena lavati. Quanto alla situazione artistico-cronologica, il dipinto
presenta somiglianze stringenti proprio con le opere del maestro collocabili fra Malta, la Sicilia e
Napoli, a cavallo degli anni 1608-09. A guardar bene, questa Salomè è la stessa che nella
Decollazione di Malta si china a raccogliere la testa del martire; e anche il bacino è, fisicamente, lo
stesso di Malta, tanto da lasciar supporre che, nel tentativo di rendere un omaggio riparatore al
gran maestro dell’Ordine gerosolimitano, il M. si sforzasse di ricordargli l’opera che poteva
rappresentarlo presso di lui con il maggior merito. Dall’altro lato, il nesso pittorico «testa di San
Giovanni nel bacino» è davvero molto somigliante a quello corrispondente nella Salomè
dell’Escorial, che dovette essere dipinta a ruota (Bologna, 2004).
Con la Salomè dell’Escorial si chiama in causa anche la Salomè della National Gallery di Londra, che
a sua volta si lega alla Flagellazione dei Di Franco a S. Domenico Maggiore a Napoli.
Indicata da Baldinucci come la prima opera dipinta dal M. a Napoli (forse per un fraintendimento
della menzione fattane da Bellori, rimasta per vario tempo l’unica nella letteratura più antica), la
Flagellazione di S. Domenico è stata riassegnata al primo dei due soggiorni napoletani del maestro
anche dopo lo spostamento al secondo proposto da Longhi, vero riscopritore dell’esistenza, in
termini storico-artistici, di tale secondo soggiorno. La datazione al 1607 è parsa anzi trovar
conferma nei documenti, i quali, sia pure per un’opera di soggetto rimasto imprecisato di cui s’è
voluta mettere in dubbio a torto l’identità con la tela in questione, attestano due pagamenti al M.
da parte di Tommaso Di Franco: uno di 100 ducati, a compimento di 250, in data 11 maggio 1607;
l’altro di 40,9 ducati, il 28 dello stesso mese. Dopo una qualche alternanza dei pareri, la datazione
più antica sembra essere addirittura prevalsa. Senonché, a taluni rilievi in contrario già fatti negli
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ultimi anni, se ne sono aggiunti altri che permettono di ricapitolare la situazione nei termini
seguenti. Innanzitutto, resta confermato che nessuno dei due pagamenti su ricordati è a saldo; per
il pagamento maggiore è detto anzi, esplicitamente, che è «in conto del prezzo» di un’opera «che
li haverrà da consignare». In secondo luogo, il M. partì per Malta appena un mese dopo quei
pagamenti, e non v’è motivo di ritenere fondata l’ipotesi che ne tornasse prima della fuga da La
Valletta. In terzo luogo, alcune radiografie avevano già rivelato, fuor d’ogni dubbio, l’esistenza di
una prima redazione della composizione, lasciata incompiuta sulla destra, con l’abbozzo di un
ritratto straordinario, forse del committente, poi tralasciato (Bologna, 2006, p. 437). Per ultimo, gli
esami condotti durante il restauro recente hanno messo in evidenza, a partire dal ritratto
tralasciato o poco più avanti, l’esistenza di un ampio tratto di tela aggiunto sul lato destro. Tutto
ciò non può non indicare che il M. avesse incominciato l’opera prima di partire per Malta e, con la
rapidità che era sua, l’avesse portata abbastanza avanti. Indotto a partire subitamente, la lasciò in
abbozzo e la riprese al rientro dal soggiorno siciliano. Già si era avanzata la possibilità che
principalmente il grande e straordinariamente adombrato flagellatore di destra, posto a coprire
l’abbozzo del ritratto tralasciato, fosse il frutto del secondo intervento; era stato anche rilevato
che la mole, la costruzione pittorica e l’azione di quel flagellatore richiamavano a tal punto il
fossore addetto a maneggiare la pala nel Seppellimento di s. Luciaa Siracusa, da non poter essere
inteso senza di esso. La scoperta che quella parte della Flagellazione è il risultato di un
ingrandimento programmato, induce ora a sostenere che il M., decisa la soppressione del ritratto
del committente, forse perché giudicato troppo ansioso dal committente stesso, o perché sempre
questi considerava irriverente la vicinanza in cui il proprio ritratto sarebbe apparso accanto alla
sacra figura del flagellato, decidesse di sua scelta di riutilizzare quella figura per rinventarla nel
nuovo contesto. Si potrebbe sostenere, anzi, che proprio la riutilizzazione del fossore siracusano
nella Flagellazione di Napoli sia la prova lampante del rifacimento di questa dopo il rientro del M.
dalla Sicilia. Né la riorganizzazione della scena poté non essere l’occasione di un vero e proprio
rimaneggiamento dell’intero quadro: dalla figura del flagellatore inginocchiato ad annodare i rami
del flagello, il cui profilo in ombra si sgrana contro luce sulla carne abbagliante della gamba del
Cristo, che a sua volta sfiamma come quando un corpo opaco passa contro il disco fulgido del sole;
sino alla figura del flagellatore in piedi sulla sinistra, che si raccorda anche nel taglio dei panni e
nella loro fattura con il carnefice della Salomè di Londra, la cui figura rivela di essere stata ritratta
dallo stesso modello vivente, e così chiude la tornata cronologica.
Sul filo della messa in posa per la terza volta di quel medesimo modello, quale è dato di costatare
nella Flagellazione del Musée des beaux-arts di Rouen – almeno nell’invenzione opera sicura del
M. di questi mesi –, il discorso può passare a illustrare un’altra circostanza, che introduce nello
stesso giro di relazioni sociali e di patronato da cui dovette avere origine la commissione della S.
Orsola per Marcantonio Doria.
Alla ricerca di fonti per ricostruire la genesi iconografica della Flagellazione, gli studi hanno
svariato dalla Flagellazione di Sebastiano del Piombo, a quella «raffaellesca» di S. Prassede in
Roma (attribuita a Giulio Romano, a Simone Peterzano e persino a Peter de Kempner), a una
Flagellazione del Romanino (Girolamo da Romano: K. Christiansen, cit. in Bologna, 2006, p. 438). È
invece possibile accreditare una ben altra fonte, se rammentiamo che il M., riparato a Genova
dopo il 24 luglio 1605 per restarvi fino a poco prima del 24 agosto, era entrato in rapporti
d’interesse artistico specifico con i membri della famiglia Doria, e in particolare con Marcantonio,
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futuro committente del Martirio di s. Orsola (Napoli, Banca Intesa San Paolo; Bologna, 2006, pp.
263-280).
Fra i diversi testamenti con i quali Marcantonio preparò la divisione dei beni da legare in morte ai
suoi due figli, quello del 1645 stabilisce che al primogenito Niccolò sarebbero toccati i quadri più
preziosi per valore affettivo e pregio venale, e fra questi, al primo posto, davanti alla stessa S.
Orsola del M., «il Christo alla colonna di Titiano». Dal momento che al figlio minore Giovan
Francesco, Marcantonio lasciò «li quadri di ritratti», fra i quali era quello del «quondam signor
Giacomo avo, per mano di Tiziano», e Giacomo Doria, nonno di Marcantonio, era stato ritratto da
Tiziano «in virtù di servizi finanziari» prestatigli, non è difficile ricavarne che anche il «Christo alla
colonna» provenisse dall’asse ereditario di Giacomo. Certo è che, sempre insieme con la S.Orsola,
quel quadro resta fra le reliquie dell’asse ereditario di Marcantonio fino al 1832 (data del
trasferimento a Napoli nel palazzo Doria d’Angri progettato da Luigi Vanvitelli), e anche oltre, fra le
vicende non sempre chiare della malinconica dispersione che ne seguì durante il secolo successivo.
Il 30 apr. 1903, a una pubblica asta giudiziaria tenuta in Roma presso il notaio Filippo Delfini, andò
in vendita «un quadro ad olio, 0,90 x 1,10, rappresentante Cristo alla Colonna – proveniente dalla
Galleria Angri in Napoli, ove era indicato – Tiziano – Cristo alla Colonna», e fu acquistato dal
pittore romano Giuseppe Micocci, abitante in villa Stuart, via Trionfale 68, a Montemario.
Fortunatamente, il quadro esiste ancora, in proprietà dei discendenti del Micocci (Bologna, 2006,
pp. 439-441).
Non si esita ad affermare inoltre che, quando il M. impostò la sua Flagellazione e per essa volle
cercare una diversa messa a fuoco della soluzione che aveva già tentato nella composizione di cui
è copia quella di palazzo Camuccini a Cantalupo in Sabina, dovette ricordarsi dello straordinario
Cristo alla colonna di Tiziano che aveva visto a Genova nel 1605, in casa dei nipoti di Giacomo
Doria.
Illustrando un analogo caso di «citazione tizianesca nel Caravaggio», colto nell’Ecce Homodipinto
per il principe Massimi, Roberto Longhi (1954) scrisse che, anche dopo la dimostrazione
dell’impossibilità di un viaggio giovanile del M. a Venezia, «restava intatta, e più comprensibile, la
possibilità che il M. ristudiasse il problema della quasi “pittura pura” dei cinquecentisti veneti e, in
primis, tizianesca». Il caso descritto ripone lo stesso problema in termini diversi: è infatti evidente
che la ricerca fatta dal M. sul Cristo alla colonna Doria d’Angri, s’impegnò a recuperare dentro la
«quasi “pittura pura” del grande cadorino il punto in cui, per via d’intensità, quella pittura riscopre
nel medesimo tempo un senso quasi fidiaco della figura dell’uomo, e la sua calda carnalità»
(Bologna, 2006, pp. 440 s.).
Con l’Annunciazione di Nancy (Musée des beaux-arts; che dovette esser lasciata incompiuta e
completata più tardi e a più riprese da altri, all’infuori dell’angelo «portentoso», come lo definì il
Longhi, in cui è ripreso e continuato evidentemente l’angelo che squarcia le tenebre
nell’Adorazione del Bambino già in S. Lorenzo a Palermo), l’opera di maggiori dimensioni e
d’impegno superiore a cui il M. mise mano a Napoli dopo il completamento della Flagellazione fu
sicuramente la Resurrezione di Cristo destinata alla cappella del bergamasco Alfonso Fenaroli in S.
Anna dei Lombardi. Dal momento che tale cappella fu concessa al Fenaroli il 24 dic. 1607, l’opera
non può essere stata eseguita prima della fine del 1609, nonostante l’ipotesi del tutto romanzesca
(e fondata su documenti inattendibili) di un ritorno del M. a Napoli durante il pur breve soggiorno
a Malta.
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Per ragioni di spazio, non è ora possibile riprendere il discorso sulla genesi, anche iconografica,
dell’opera, oltre che sulle fonti che la descrivono improntata a «idea bassa e indecente al
rappresentato». Non si può omettere di notare, nondimeno, che nella collezione di Giovan Carlo
Doria a Genova, a partire dal 1617 circa, risultano presenti, al n. 276, «una risurrezione d’un Cristo,
copia del Caravaggio, maniera napoletana», con cornice di noce, e al n. 277 «un Cristo legato alla
colonna, grande con figure intiere, pure con cornice di noce». L’accoppiata si ripete negli inventari
successivi, da quello databile entro la fine del 1621, in cui ai nn. 252 e 253 risultano insieme «una
ressuretione di Nostro Signore et una flagellazione alla colonna fati a Napoli», fino a quello del 12
giugno 1641, dove, «nel mezzano abasso a mandritta ascendendo alla sala», con il n. 287, è «una
resurettione di Cristo», e «nel mesano a man sinistra salendo la scala», con il n. 368, è «un Cristo
alla colonna, grande». Oltre all’interesse dell’esistenza di copie tratte da due grandi opere del M.
presenti entrambe a Napoli e di tale importanza, per giunta entrate nella letteratura solo parecchi
anni dopo la menzione degli inventari genovesi, è importantissimo che le due opere fossero
accostate tanto strettamente da faire pendant. Erano, insomma, ricevute come paragonabili e
contemporanee, nell’unità sostanziale del discorso sia pittorico sia iconografico. Donde un solido
contributo a dirimere definitivamente le diatribe della cronologia: posto che la Resurrezione non
poté essere dipinta prima degli ultimi mesi del 1609, anche la Flagellazione dové essere
completata – se non addirittura rifatta – nel medesimo giro di mesi (Bologna, 2006, pp. 441 s.).
Quel che resta da dire sull’attività del M. fino alla sua partenza verso la morte, potrebbe essere
oggetto d’una monografia. Due punti vanno però messi in risalto. Il primo è che, dei Battista alla
fonte, l’esistenza di un prototipo indiscutibilmente caravaggesco non è opinabile ma va ancora
individuato in un esemplare genuino; la versione più schietta resta quella che era molti anni fa a
Roma presso Francesco Romano, e che Longhi suggerì di attribuire a Battistello, Bologna al
primissimo Alonzo Rodríguez, ottenendo qualche udienza. Il secondo riguarda qualche
conseguenza del recente restauro del Martirio di s. Orsola (Il Martirio di s. Orsola restaurato,
Milano 2004) che dopo i trovamenti archivistici del 1980 e i pochi altri succedutisi nel tempo, può
considerarsi uno dei quadri meglio documentati del secolo XVII, non soltanto del M. (Bologna,
2006, p. 443).
La bellissima mano dell’accompagnatore della principessa, che la pulitura del restauratore
Giantomassi ha recuperato sotto i resti di vecchie ridipinture, ha restituito alla composizione
dell’opera e al momento in essa rappresentato un’animazione e quasi un subitaneo sussulto che
non era stato ancora notato. Evidentemente, il M. intese esaltare il tumulto che l’evento della
freccia scoccata a bruciapelo non poté non provocare, e portò al massimo dell’evidenza la sua
antica propensione a cogliere il momento culminante della narrazione, quando l’evento precipita
senza riparo. Quella mano respinge in dietro la piccola schiera dei protagonisti, per lasciar cogliere
meglio la sconvolta e repressa tensione che la agita e la ributta avanti. Ciò, per altro, permette di
precisare meglio il problema dell’iconografia elaborata dal maestro; il quale voltò le spalle
dall’inizio alla suggestione delle undicimila vergini, e procurò di concentrarsi sul momento della
leggenda in cui il re unno, rifiutato, configge di persona, con una freccia scoccata a corta distanza,
la riottosa; ma lo fa – come gli ultimi esegeti non hanno rilevato – andando a recuperare i rarissimi
casi della tradizione che avevano curato d’integrare la raffigurazione della freccia scoccata giusto
con l’episodio della mano protesa dall’accompagnatore.

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Notato ancora che fra i resti di una redazione precedente, riemersi nella S. Orsola Doria durante il
restauro, sono comparse fronde metalliche ottonate, da ritenere frammenti di un elmo o di
un’armatura, occorre dare enfasi al fatto che tali frammenti sono identici ai girari dell’elmo della
Negazione di s. Pietro al Metropolitan di New York, esattamente, del resto, com’è per l’intera
corazza del tiranno: segno palmare che le due opere sono cronologicamente simultanee, come se
il maestro le eseguisse insieme, su cavalletti addirittura contigui. E non può essere trascurato che,
sul filo di un’analoga concomitanza, il gesto del carnefice nella Salomè di Londra, di spingere avanti
il braccio per deporre nel bacino la testa recisa del Battista tenuta per i capelli, è la prefigurazione
del gesto con cui il Davide Borghese esibisce, tenendola ugualmente per i capelli, la testa recisa e
grondante sangue di Golia. Dove il tragico autoritratto, che grida nella morte, prosegue
l’autobiografia che il M. aveva incominciato a narrare con l’autoritratto incluso nella S. Orsola,
sconvolto da un’ansia indominabile rispetto a quello, ancora giovane e intatto, che aveva incluso
nella Cattura di Cristo oggi a Dublino nella National Gallery.
Il M. morì il 18 luglio 1610 a Porto Ercole, dove era giunto da Napoli mentre cercava di raggiungere
Roma.
«Ond’egli, quanto prima gli fu possibile montato sopra una feluca, pieno di acerbissimo dolore,
s’inviò a Roma [...]. Pervenuto alla spiaggia, la guardia Spagnuola che attendeva un altro Cavaliere
[di Malta?], l’arrestò in cambio, e lo ritenne prigione. E se bene fù egli tosto rilasciato in libertà,
non però rividde più la sua feluca che con le robbe lo conduceva [...]. Giunto a Porto Hercole si
abbandonò e [...] morì in pochi giorni». Bellori (p. 211), che scriveva così, non aveva consultato di
certo le lettere che ha trovato ultimamente Pacelli (e ha ripubblicato Macioce, pp. 265 s.), ma
sembra che narri l’episodio dell’arresto a Palo, e sappia della feluca tornata indietro con «le
robbe», sola.
Fonti e Bibl.: Gli scritti sul M., sulla sua vita, sulle sue opere, sui problemi tecnico-pittorici posti da
queste e sul complessissimo nodo storico-culturale che lo riguarda, sono numerosi ed
estremamente diramati. Bibliografie analitiche, ragionate e aggiornate fino alle date relative, si
trovano nei tre seguenti lavori monografici: M. Cinotti, M. M. detto il Caravaggio. Tutte le opere, in
I pittori bergamaschi. Il Seicento, I, Bergamo 1983, pp. 297-309; J.T. Spike, Caravaggio, CD-ROM,
Abbeville Press, New York 2001; S. Macioce, M. M. da Caravaggio. Fonti e documenti: 1532-1734,
Roma 2003. Per una diversa organizzazione del materiale bibliografico e per l’integrazione di voci
mancanti nei repertori indicati, si veda: F. Bologna, L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle
«cose naturali», Torino 1992; Id., L’incredulità del Caravaggio…, nuova edizione accresciuta, Torino
2006. Della bibliografia più frequentemente utilizzata cfr: G. Mancini, Considerazioni sulla pittura…
(1617-21), a cura di A. Marucchi - L. Salerno, I, Roma 1956, pp. 223-226; G. Baglione, Le vite de’
pittori scultori et architetti…, Roma 1649, pp. 136-139; G.P. Bellori, Le vite de’ pittori scultori et
architetti moderni, Roma 1672, pp. 197-216; N. Pevsner, Eine Revision der Caravaggio Daten, in
Zeitschrift für bildende Kunst, LXI (1927-28), pp. 386-392; R. Longhi, Quesiti caravaggeschi, I,
Registro dei tempi, in Pinacotheca, I (1928), pp. 17-33; L. Venturi, in Enc. Ital., VIII, Roma 1930, pp.
942-944; Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi (catal., Milano), introduzione a cura di R.
Longhi, Firenze 1951; R. Longhi, Il Caravaggio, Milano 1952; Id., L’ «Ecce Homo» del Caravaggio a
Genova, in Paragone, V (1954), 51, pp. 3-13; P. Della Pergola, Galleria Borghese. I dipinti, Roma
1959, II, ad ind.; M. Calvesi, Caravaggio o la ricerca della salvazione, in Storia dell’arte, 1971, nn. 9-
10, pp. 93-142; K. Sciberras, Riflessioni su Malta al tempo del Caravaggio, in Paragone, LIII (2002),
29
629, pp. 3-20; Caravaggio y la pintura realista europea, a cura di J. Milicua - M. Cuyàs (catal.),
Barcelona 2005; G. Berra, Il giovane Caravaggio…, Firenze 2005; G. Frangi, Caravaggio, s. Carlo e
donna Costanza, rec. a G. Berra, in 30 giorni, 2005, n. 6, pp. 72-75.

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