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L’autore

Gianluca Prestigiacomo (1963), giornalista pubblicista, è stato operatore


della Digos per trentacinque anni, esperienza che gli ha permesso di
sviluppare uno sguardo analitico sui fenomeni sociali. Appassionato di
scrittura, ha collaborato con diverse testate giornalistiche, tra cui “Il
Gazzettino”, ed è autore di racconti e romanzi. È tra i fondatori
dell’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, nato subito dopo le stragi
di Capaci e via D’Amelio. Le giornate del G8 di Genova sono per lui una
ferita aperta che difficilmente potrà rimarginarsi.
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Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale)
Sandro Parenzo
Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.)
Sede: corso Sempione, 2 - Milano

ISBN 978-88-3296-481-3

Copertina
Art director: Giacomo Callo
Graphic designer: Davide Nasta
Foto © Laura Lezza / Getty Images News / Getty Images

Pubblicato in accordo con Gianluca Zanella Editing


Realizzazione editoriale: Studio editoriale Littera, Rescaldina (MI)

Prima edizione digitale: maggio 2021


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario

L’autore
Pagina di copyright
Frontespizio

Introduzione
Annus horribilis 2001
Fidarsi dello Stato
Questo libro

Prima parte. Il mio ingresso nella Digos

Io e l’uomo della P2
Un giovane commissario
«Damme retta, lascia perde»
«Non sai chi sono io»
Don Peppino
«L’unico cretino»
«Fumiamoci una canna»
Gli strumenti di un servitore dello Stato

Seconda parte. Storia di un disastro annunciato

Incubo n. 1

Genova blindata
La partenza
La celebrazione del nulla
La marcia dei migranti
Via la zona gialla
Black Bloc

Incubo n. 2

L’inizio (e la fine) di tutto


20 luglio 2001
Guerriglia
Nel corteo
«Il vostro compito è terminato»
La carica
È tutto fin troppo chiaro
Ribelle al sistema

Incubo n. 3

L’apocalisse in casa
21 luglio 2001
«Quelli lo ammazzano»
Ore maledette
L’inferno
Rastrellamento
E se…?
L’uomo sbagliato nel posto sbagliato
Chi è Stato?
L’odore del sangue
Il parafulmine
«Fate schifo»
Il ritorno

Conclusioni
Una commissione sul G8. Perché no?

Ringraziamenti

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G8. GENOVA 2001
A mio padre e a Giuseppe Impallomeni, don Peppino
Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha
partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di
età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova
abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei carruggi,
gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le «graziose» di via del
Campo. I fiori che sbocciano dal letame. I senzadio per i quali chissà
che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso,
sempre pronto ad accoglierli.
Fabrizio De André
Introduzione

Annus horribilis 2001

Tornare ai fatti di Genova vent’anni dopo, per raccontarli dal punto di vista
umano e professionale di un operatore della Digos che li ha vissuti in prima
persona, come si suol dire sul campo. Ecco il senso di questo libro. Non
avrei mai immaginato di trovarmi in un contesto come quello del G8, in cui
lo Stato, attraverso alcuni suoi rappresentanti, fece l’esatto contrario di
quello che, con gli istruttori, insegnava durante i corsi di aggiornamento o
di formazione professionale.
Forse allora era impossibile accorgersi di vivere in un mondo che stava
letteralmente impazzendo, in cui le strategie politiche che lo avevano
guidato e garantito sarebbero di colpo cessate. Il 2001 fu l’anno dello
«spartiacque». Fu la fine del terrorismo che avevamo conosciuto a partire
dagli anni Settanta, la fine delle strategie militari mirate – a modo loro – a
mantenere la pace nel mondo. Basti pensare ai rapporti tra Russia e
America: tensioni che avevano solo scopi politici, più che militari. Cessò di
colpo la certezza che veniva riposta negli Usa, nella Russia, nei paesi Nato.
Un ordine che venne meno di giorno in giorno negli anni a seguire, con una
velocità pazzesca. Era evidente, però (o comunque facile da percepire) che
ben presto un nuovo ordine internazionale avrebbe preso il sopravvento.
D’altra parte restava ancora alta la fiducia nello Stato, soprattutto sulla sua
capacità di riuscire a mantenere gli equilibri e di garantire gradualità e
legittimità alle transizioni.
Invece il disordine di quei due giorni di Genova presto divenne il caos
generale. Un terremoto sotto le cui macerie vennero travolti lo Stato e le sue
istituzioni. E sotto quelle rovine finì anche l’economia occidentale:
l’America e l’intera Europa, che era ancora nella fase della sua
proclamazione, peraltro mai avvenuta totalmente. La fragilità di
quell’Occidente miope venne alla luce in maniera drammatica. Prima a
Genova, con il più grande attacco alle democrazie occidentali, due mesi
dopo – l’11 settembre – a New York, quando il mondo intero cadde,
insieme alle Torri gemelle, sotto i colpi di un nemico per molti aspetti
invisibile.
Dopo quel 2001 nulla fu come prima. La serenità, anche nel quadro delle
grandi contestazioni, evaporò nella totale incredulità per ciò che stava
accadendo. Il 2001 per certi aspetti assomigliava al 1992, l’anno di Capaci e
di via D’Amelio. Non era questione di questo o di quel singolo evento. La
vera bomba esplosa era invisibile, quasi virtuale, e il suo rumore fu
leggermente avvertibile oltre le devastazioni di Genova e New York.
Ovviamente nessun collegamento, ma in entrambi i casi furono la debolezza
e la fragilità del sistema occidentale a emergere in tutta la loro nudità.
Rimanendo sui fatti di casa nostra, a Genova sarebbe stato sufficiente che il
governo in carica avesse lasciato sfilare il corteo delle Tute bianche fino
alla fine, come preannunciato, e non avesse permesso che i pacifici
contestatori venissero torturati. Nessuno avrebbe perso e nessuno avrebbe
vinto, perché non doveva essere una prova di forza. Ma di questo parleremo
ampiamente nelle pagine che seguono.
Il G8 di Genova fu una guerra civile durata ininterrottamente due giorni.
La sua ricostruzione attraverso i ricordi di chi lo ha vissuto, quell’inferno,
vorrebbe diventare uno strumento necessario soprattutto alle giovani
generazioni, che andrebbero accompagnate per mano a conoscere i loro
diritti e le loro responsabilità, affinché non debbano mai trovarsi in una
situazione simile. Non si può evitare l’argomento solo per togliersi il
fastidio di spiegarlo e raccontarlo.
Il meccanismo che accese le polveri non era diverso da quello degli anni
Settanta. Forse più sofisticato, ma sempre lo stesso: screditare in modo da
avere la necessaria supremazia per imporre la conservazione del potere. A
nessuno diede fastidio il sangue, anche perché nessuno dei commensali
d’eccellenza di quel G8 ebbe modo di vederlo. O meglio, vennero tenuti al
riparo da eventuali schizzi.
Noi eravamo lì a respirare l’odore dei lacrimogeni, l’aria intrisa di
violenza, il rumore assordante delle auto che scoppiavano. Ma eravamo
solo carne da macello dentro un frullatore in cui venne mescolata ogni cosa,
ogni donna e uomo che si trovavano in quelle strade. In ogni angolo della
città c’erano i segni del sangue, della devastazione senza precedenti. Tutto
questo occorreva tenerlo nascosto, perché doveva essere camuffato agli
occhi del mondo. Ma per fortuna fu impossibile nascondere quella verità su
cui lo Stato ancora non si decide a fare piena luce.
Non fu un «summit storico», come lo si voleva definire. Fu il peggiore
incontro tra potenti che si sia svolto dall’inizio della Guerra fredda, sia per
contenuti, sia per la gestione degli apparati di sicurezza. Per non parlare
delle violazioni dei diritti dell’uomo. Mi è impossibile scrivere
diversamente dopo avere visto di persona il lato oscuro di un potere capace
di metterti addosso soggezione e timore, anziché la serenità necessaria per
agire con la massima professionalità. Anche a Genova aveva funzionato,
quel potere: se non fai come ti dico io, la tua carriera finisce ancora prima
di cominciare. Non servì dirlo esplicitamente. Fu sufficiente ingannare.
Alcuni sostenevano che sarebbe stato più sicuro far incontrare gli otto
capi di Stato su una nave ormeggiata al largo del porto di Genova, come se
bastasse nasconderli per mettere al riparo la città, rendendo inutile qualsiasi
forma di protesta. Ma non fu così. Nascosti rimasero ugualmente, anche se
dovettero sorbirsi qualche refolo di fumo dei lacrimogeni. Genova pagò un
prezzo altissimo, ma le sarebbe stato imposto comunque, anche se li
avessero messi su un dirigibile. Occorreva accendere la miccia per far
saltare gli schemi, le novità che si profilavano, per mettere fine alla
minaccia politica costituita dal loro sorgere.
Più volte mi sono trovato a immaginare come sarebbe stato il mondo se
quel summit non fosse mai avvenuto. Quasi sicuramente il movimento
avrebbe continuato a coinvolgere i cittadini globali e, sono sicuro anche di
questo, la crisi del 2008 non si sarebbe mai sviluppata. Resta altrettanto
certo che ai veri padroni della globalizzazione poco interessava se in quelle
circostanze fosse morto qualcuno.
Nelle pagine che seguono, il mio obiettivo è raccontare i fatti proprio per
evitare che venga ancora una volta nascosta quella parte che non riguarda
solo la giustizia formale, ma anche l’aspetto umano. Lo scopo è anche
quello di fornire, a chi è nato dopo, il punto di vista di chi c’era, e aiutarlo
così a comprendere che da quel vertice in poi nulla fu più come prima.
Quante volte, soprattutto in questo periodo di pandemia globale, i giovani
avranno sentito pronunciare slogan tipo: «Tutto andrà bene»; «Nulla sarà
come prima»; «Ne usciremo migliori»; «Ne usciremo peggiori». Incertezze
che per molti aspetti c’erano anche prima, ma che trovarono la loro vera e
nuova determinazione soprattutto dopo il G8 di Genova.
Chi ha vissuto quei momenti in prima persona, con la consapevolezza di
ciò che stava accadendo e con senso critico, porterà sempre con sé la
convinzione che dal giorno dopo nel mondo iniziò il declino intellettuale. Il
berlusconismo era già cominciato da qualche anno, ma venne preso
sottogamba. In altre parole, l’appiattimento del pensiero collettivo e
l’avvento dell’«apparenza» quale modello a cui fare riferimento,
diventarono – purtroppo – le nuove opportunità sociali. Un danno enorme,
incalcolabile. Basti pensare alla mistificazione che avvenne in quei giorni.
Sotto i colpi della violenza, il dissenso venne fatto passare per un atto da
condannare.
Al contrario, il vero obiettivo di quel vertice fu nascondere con finte
teorie ciò che stava accadendo. In nome della libertà del commercio si stava
mettendo fine alle limitazioni nazionali. Gli interessi americani
riguardavano la vendita di armi leggere, la produzione di mine antiuomo e
l’evitare limitazioni sulla produzione di armi batteriologiche. Nei primi
mesi della nuova amministrazione Bush, venne respinto anche il Protocollo
di Kyoto sul riscaldamento globale. E lì, seduto al tavolo di quel vertice,
c’era proprio il presidente americano, il leader più globalizzatore di tutti.
L’uomo che fu capace di assoggettare i capi di Stato che sedevano accanto a
lui. Fu lui che successivamente portò il mondo in guerra. Un copione già
visto da tempo e che a Genova andò in scena senza tanti scrupoli.

Fidarsi dello Stato

Fidarsi dello Stato non è così semplice. La fiducia è una cosa seria,
dicevano i vecchi saggi. Lo Stato è costituito da persone, non da elementi
astratti. Da rappresentanti eletti e nominati che devono assolvere i loro
compiti in maniera irreprensibile. Se davvero facessero tutti così, chi
volesse sottrarsi al proprio dovere potrebbe forse ritenere che la complessità
del sistema gli darebbe qualche possibilità di passare indenne, ma è
probabile che farebbe poca strada. Invece, avviene esattamente il contrario:
il sistema è marcio quasi per intero e chiunque si permetta di «mettere in
luce» il meccanismo di ricatto e corruzione che tiene uniti i suoi membri di
norma viene stritolato dall’isolamento.
Potrebbe essere la sintesi degli ultimi quarant’anni. Addirittura, la si
potrebbe definire un’analisi scontata. Ma allora perché ci siamo dati una
regola per non rispettarla? Perché abbiamo dato allo Stato, e con esso alle
istituzioni democratiche che ne rappresentano le fondamenta, una patina di
etica che poi violiamo sistematicamente? E perché il sistema continua a
mietere vittime nel silenzio generale, prima fra tutte proprio lo Stato, fino al
punto che anche questo silenzio ci sembra una cosa scontata?
Lo Stato tiene i cittadini in questo dubbio permanente, che ormai è
diventato parte della nostra quotidianità e pervade con irruenza la vita
pubblica. Tale incertezza, di fatto, ha annientato la tranquillità che dovrebbe
derivare dalla totale trasparenza delle istituzioni, i cui rappresentanti
dovrebbero essere guidati dalla necessità di «mettere in luce» le manovre
del potere, anziché occultarle o gestirle nell’ombra.
Si potrebbe continuare all’infinito nell’astrattezza generale, ma è proprio
di questa indeterminatezza che si nutre la disonesta stragrande maggioranza
dei rappresentanti dello Stato.

Questo libro

Un giorno di inizio autunno del 1979, mio padre mi chiese di


accompagnarlo in banca per sbrigare alcune pratiche. Ero libero, quella
mattina i docenti scioperavano. Andai con lui. Inaspettatamente, non ci
recammo dove aveva detto. Mi ritrovai davanti alla sede del Psi di Mestre.
E, indicandomi l’ingresso, mi disse: «Questo è il partito a cui sono iscritto
da molti anni, ma va bene anche il Pci, l’importante è avere un’idea
democratica, altrimenti c’è il rischio che il passato torni a farsi vivo
portando con sé dolore e sofferenza». In pratica, aveva appena approvato la
mia fede politica e quel giorno decise di farmelo sapere.
Mentre tornavamo a casa ci fermammo dal tabaccaio dove di solito
comprava le MS. Quella volta acquistò anche un pacchetto di Milde Sorte.
«Tieni, queste non fanno male come le emmesse, ma un pacchetto ti deve
bastare per i prossimi quindici giorni.» La giornata si chiuse in bellezza:
mio padre sapeva che ero iscritto al Pci e che fumavo. Da quel giorno, anzi,
da quella mattina, iniziai a confrontarmi con lui più o meno come facevo in
Fgci; cominciai anche a frequentare più assiduamente il partito, a macinare
chilometri in manifestazioni insieme agli operai, prendendo le distanze da
chi stava dalla parte delle Brigate rosse. Incendiare un’automobile o un
mezzo della polizia non lo consideravamo un atto politico. Da quel giorno
iniziai a diventare un uomo al pari di mio padre. O, almeno, così credevo.
Solo una volta l’ho visto seriamente preoccupato. Era il 16 luglio 2001,
il giorno in cui partii per Genova. «Stai attento, non avere paura di
scegliere, ricordati sempre che tuo padre ha combattuto per la libertà.»
Anche se non si fosse espresso così apertamente, avrei scelto comunque da
che parte stare. Ma quelle poche parole furono importanti, perché mi
diedero la forza di essere me stesso fino in fondo. Mi permisero di guardare
in faccia la violenza di chi, tradendo la Costituzione su cui aveva giurato,
provocò un massacro senza precedenti solo per servire il potere. A questa
gente bastò promettere una brillante carriera ai propri adepti per distruggere
le vite di molti, per fermare il dissenso nei propri confronti e bloccare chi
aveva un’idea diversa di società. O, per meglio dire, una visione nuova del
mondo. Le parole di mio padre mi diedero la forza di guardare in faccia il
lato oscuro del potere, quello violento, senza scrupoli, che determina la vita
di ogni singolo essere vivente.
Parliamoci chiaro, che le istituzioni democratiche siano affollate da stolti
sgomitanti è ormai cosa nota anche a loro stessi. Ma l’Italia è un paese in
cui violare la legge è necessario per emergere in ogni campo. Del resto,
buona parte di coloro che occupano scranni, posti di governo o ruoli
istituzionali di prestigio è ricattabile. Il dramma, perché di questo si tratta,
consiste proprio nell’essere consapevoli che non puoi avere – a torto –
fiducia nello Stato, pur sapendo che esso è indispensabile. Lo Stato,
purtroppo, nella sua rappresentanza molte volte fa parte di un sistema
strutturato sul ricatto e sulla derivante omertà. Quindi accade che, pur
riconoscendone la validità, lo detesti.
Quando ero uno studente, non sapevo di essere parte di un sistema. Non
sapevo nemmeno che ne esistesse uno in grado di determinare la mia vita o
quella di chiunque altro. Oggi, invece, ne sono consapevole, grazie
soprattutto all’esperienza maturata all’interno delle istituzioni. Ma ciò che
più di ogni altra cosa ha segnato in maniera incisiva la mia persona, e mi ha
fatto comprendere realmente cosa potrebbe accadere qualora nella
complessa struttura dello Stato ci fossero dei traditori, è stato partecipare al
G8 di Genova, esattamente vent’anni fa. In altre parole, proprio in quella
circostanza vidi il volto del potere, come si muove, cosa può fare per
mantenere il proprio status quo, riparandosi dietro una sorta di impunità che
garantisce ai suoi «fedeli» la continuità a prescindere dalla giustizia. Una
storia, quindi, i cui segni non sono ancora scomparsi. Sono le impronte che
quel potere molte volte invisibile lascia a chi non ha il coraggio di
riconoscerlo. Una storia che, purtroppo come tante altre, ancora oggi chiede
verità e giustizia.
Le pagine di questo libro non sono intrise di una prospettiva
autobiografica. Immaginate una telecamera che ha registrato sempre dalla
stessa angolazione tutto ciò che è accaduto, la cui memoria viene riversata
in queste pagine. Non ha importanza la marca, dove sia stata fabbricata,
quanti anni abbia o se sia più o meno moderna. Doveva solo funzionare,
fare il suo mestiere senza creare problemi.
Ecco, consideratemi al pari di una telecamera: un oggetto privo di storia,
ma che attraverso il suo obiettivo potrebbe restituire una versione
differente, magari paradossale, ma pur sempre realistica, di eventi che ci
riguardano tutti da vicino.

DIGOS, CHE COS’È

La Digos venne battezzata nel 1978 dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga a
seguito della riforma generale dei servizi segreti avvenuta l’anno precedente. L’acronimo
sta per Divisione investigazioni generali ed operazioni speciali. Nacque insieme all’Ucigos
(Ufficio centrale investigazioni generali operazioni speciali) prendendo il posto dei vecchi
«Uffici politici» dipendenti dall’Ufficio affari riservati. Le funzioni affidate furono e
restano tutt’oggi: la raccolta delle informazioni relative alla situazione generale, anche ai
fini della tutela dell’ordine pubblico; le investigazioni per la prevenzione e la repressione
dei reati contro lo Stato e l’ordine pubblico, dai reati di terrorismo a quelli di natura
politica. La Digos si occupa di terrorismo a livello nazionale e internazionale, anche di tipo
informatico e telematico. Controlla inoltre tutte le attività di gruppi estremistici che
perseguono scopi di sovvertimento sociale con il ricorso alla violenza, e contrasta
l’illegalità nelle manifestazioni sportive a opera di gruppi di tifosi violenti organizzati
(ultras). Le Digos dislocate sul territorio svolgono attività investigativa e informativa
finalizzata a contrastare attività eversive dell’ordine democratico e terroristiche; eseguono
direttamente le eventuali operazioni frutto delle proprie investigazioni.
La struttura di riferimento delle Digos in Italia è la Dcpp (Direzione centrale della polizia
di prevenzione, ex Ucigos). In altre parole, il principio fondante su cui si basò il ministro
fu quello di trovare un organismo che avesse funzioni di collante tra i servizi segreti e gli
apparati istituzionali dello Stato, in particolare le forze dell’ordine. In pratica, con
l’istituzione delle divisioni dislocate nelle province, lo scopo era quello di creare un
passaggio di informazioni a salvaguardia dello Stato contro ogni forma di eversione più o
meno organizzata. Secondo Cossiga, infatti, serviva una sorta di cuscinetto: un agente dei
servizi segreti, a differenza di un operatore della Digos, nel passaggio perde la qualifica di
polizia giudiziaria, pertanto non ha l’obbligo di riferire la notizia di reato al pubblico
ministero. Quindi non incorrerebbe nel reato di omissione in atti d’ufficio.
Prima parte
Il mio ingresso nella Digos
Io e l’uomo della P2

Un giovane commissario

La mattina del 28 luglio 1986, in divisa, con i pantaloni azzurri sistemati da


mia madre e la camicia atlantica ancora irrigidita dall’amido, misi piede per
la prima volta nella Caserma Alfredo Albanese di Venezia; erano circa le
otto.
Anche quel giorno, prima di entrare in caserma, avevo comprato
«l’Unità». Il titolo in prima pagina non lasciava ben sperare. Anzi,
nonostante il tempo passasse in fretta, la verità sul Dc-9 Itavia, abbattuto al
largo di Ustica, era ancora lontana. Era ormai convinzione di molti che non
sarebbe mai emersa da quei fondali.
Era una mattinata limpida e calda. Mentre mi prendevano in forza, lo
specchio alle spalle dell’addetto alla matricola rifletteva l’immagine di uno
sconosciuto: ero io dentro una divisa, in una situazione paradossale rispetto
al mio passato. Guardandomi, continuavo a chiedermi se la mia fosse stata
una scelta dettata solo dalla curiosità o da un recondito senso di
abnegazione che alloggiava a mia insaputa in qualche angolo della mia
testa. A ogni modo, si trattava di un passaggio obbligato, una trafila formale
nella speranza di realizzare il desiderio di essere assegnato alla Digos.
Occorreva pazienza, non c’era dubbio, ma questa virtù è sinonimo di
saggezza e quando si è giovani viene considerata una perdita di tempo.
Quando poco prima avevo letto il quotidiano, mai avrei immaginato che
di lì a qualche giorno avrei avuto accesso ai faldoni contenenti centinaia di
rapporti relativi alle indagini sulle stragi che avevano insanguinato (e che
purtroppo avrebbero continuato a farlo) il paese, causando morte e dolore.
Stragi di cui quella di Ustica era solamente un tassello.
Appena sceso nel piazzale della caserma, notai la lastra di marmo su cui
era stato inciso il nome del commissario cui era intitolata. Rimasi lì a
guardare in silenzio e con il mento sollevato. Avevo quasi ventitré anni e il
giorno in cui lo ammazzarono ne avevo già compiuti sedici. Mi tornarono
alla mente le sensazioni di quella giornata di circa sei anni prima. Era il 12
maggio 1980 e con i miei compagni eravamo appena entrati in classe.
Quella mattina – come ogni altra – indossavo l’eschimo che mi aveva
regalato mia madre. L’aveva comprato al mercatino dell’usato. Lo
desideravo perché i miei compagni di scuola e di partito lo avevano tutti.
Più che una moda, era un simbolo, qualcosa che ci univa.
Al suono della seconda campanella ci affrettavamo a ripassare la lezione
di filosofia, mentre nello stesso momento, nella stessa città, un commando
delle Brigate rosse era già sotto casa del responsabile della sezione
antiterrorismo della Digos di Venezia: il commissario Alfredo Albanese.
Prima ancora che arrivasse la notizia ufficiale, in classe già avevamo
avvertito che era accaduto qualcosa di grave. Le auto della polizia
sfrecciavano a tutta velocità in mezzo al traffico, dai negozi le persone
uscivano a vedere cosa stesse succedendo, gli autobus accostavano per
lasciar passare i mezzi di soccorso. E noi, con il collo allungato verso le
finestre, increduli, ma fin troppo abituati a scene del genere. Meno di tre
mesi prima, infatti, le Br avevano assassinato Sergio Gori, vicedirettore del
Petrolchimico di Marghera.
Mentre cercavamo di capire che cosa fosse accaduto di preciso, la porta
della classe si aprì di colpo, attirando l’attenzione di tutti. Era il preside. Sul
suo volto un’espressione sinceramente affranta. Rimase in silenzio qualche
secondo, forse sorpreso anche lui dalla nostra reazione composta. I nostri
occhi, infatti, incrociavano i suoi attendendo che dicesse qualcosa. Ci
accorgemmo che era commosso. Ci comunicò che avevamo
l’autorizzazione a recarci in piazza. L’unica raccomandazione fu di
muoverci in silenzio, per rispetto. Subito dopo la sua voce si ruppe, si girò e
se ne andò via lasciando la porta aperta.
Tutti noi rimanemmo in piedi, immobili. Ci guardammo. Ancora non
sapevamo nemmeno chi fosse stato ammazzato.

Mentre guardavo la lapide commemorativa, nella mia mente scorrevano le


immagini di quella mattina. Erano ancora nitide: la maggior parte dei
commercianti aveva chiuso le serrande, alcuni le avevano solo abbassate a
metà e le strade erano percorse dagli operai che si dirigevano verso la
piazza, in religioso silenzio.
Piazza Erminio Ferretto in poco tempo si era riempita: operai, studenti,
forze dell’ordine, sindacalisti, politici. Donne, uomini e studenti
ascoltavano attoniti il susseguirsi delle invettive contro le Brigate rosse,
tuonate soprattutto dai più incisivi rappresentanti sindacali saliti su una
sorta di palco rimediato in fretta e montato dagli operai del Petrolchimico.
Il giovane commissario Alfredo Albanese incarnava lo spirito
democratico, come uomo e come poliziotto. Era spinto da un forte senso di
giustizia, che l’aveva portato a prendere posizioni molto forti contro le Br.
Un sindacalista di quegli anni mi raccontò che una volta era stato invitato a
salire sul palco nel corso di un’assemblea sindacale. Il commissario aveva
accettato e, di fronte alla platea di operai, aveva detto: «La clandestinità non
è un posto di lavoro».
Noi studenti, adolescenti con il desiderio di impegnarci politicamente,
potevamo capire solo in parte la gravità dei fatti e le vere cause che avevano
scatenato una violenza da guerra civile. Eravamo giovani, pieni di energia e
convinti che la nostra voce, urlata nei cortei, potesse cambiare il mondo.
Erano trascorsi appena due anni dal rapimento e dal successivo
assassinio di Aldo Moro. E tante erano le domande che ci ponevamo.
I professori, quasi tutti, compresi coloro i quali erano apertamente
schierati nelle sfere più radicali della sinistra antagonista, tentavano di
spiegare il fenomeno delle Brigate rosse prendendo le distanze dalle azioni
dei brigatisti, che per alcuni di noi, invece, pur essendo gravi, apparivano
abbastanza marginali rispetto alla contestazione. Vale a dire, erano ritenute
la diretta conseguenza del terrorismo di matrice fascista. Una sorta di
giustificazione al fatto che il Pci, secondo i brigatisti, non prendeva le
distanze dal capitalismo e dall’imperialismo. Altri invece, come me,
frequentando gli ambienti del partito, si erano fatti un’idea diversa della
complessità del periodo che stavamo vivendo.
In altre parole, ci sentivamo al sicuro nel Pci; protetti dalle
strumentalizzazioni confezionate ad arte – soprattutto dall’ala conservatrice
della Democrazia cristiana e dal Msi –, per tentare di demolire la protesta
giovanile, considerata a torto dalla borghesia una sorta di ambiente
propedeutico alla sovversione delle istituzioni democratiche.
Per certi aspetti i cosiddetti liberali, che si palesavano solo quando il
vento era loro favorevole, cavalcavano la tesi secondo cui la contestazione
si poneva fuori dai confini costituzionali. Perciò, contestazione e dissenso
rientravano in un ambito eversivo. Non c’era una distinzione, e forse non
c’è neanche oggi, nel 2021. Sventolare il timore che il periodo storico del
terrorismo possa riattualizzarsi, nel tentativo di far presa su una parte di
elettorato con la paura che il contenzioso politico potrebbe sfociare in una
situazione di crisi, pare diventata una costante a partire dalla strage di
piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Anzi, probabilmente tale strategia
(della tensione) potrebbe addirittura risalire al Piano Solo (1964), il fallito
colpo di stato progettato dal generale dell’Arma dei carabinieri Giovanni
De Lorenzo. È una strategia che abbiamo visto anche nel 1994, quando
forze liberali e pezzi di una destra che già mostrava desideri fascisti, mentre
l’inchiesta Mani pulite scemava, si misero insieme nel tentativo – neanche
tanto velato – di riportare al governo un modello conservatore. Ma questa è
un’altra storia. Ci arriveremo.

«Damme retta, lascia perde»

Mi trovavo ancora di fronte a quella lapide, quasi ipnotizzato. A un certo


punto un collega, forse notando il mio spaesamento, si fermò accanto a me:
«Buongiorno, mi chiamo Domenico, sei uno dei nuovi arrivati?». Annuii
con cautela. Avevo il cappello più grande della testa e ci ballavo dentro.
Dovevo evitare movimenti bruschi per non farlo cadere.
«Sì, sono appena arrivato, piacere mio, Gianluca.»
L’uomo fece un cenno verso la lapide: «Conoscevi il commissario?».
«Non di persona, ma sono nato a Mestre…»
«Anch’io sono di Mestre.»
Mi invitò allo spaccio e mi offrì un caffè.
Più che una scelta, il mio era stato un tentativo andato a buon fine. In
quegli anni optare tra giornalismo e polizia non era una questione di
sopravvivenza. Era già passato il periodo in cui la polizia veniva percepita
come uno di quei posti di lavoro sicuri, che garantivano una certa dignità
sociale soprattutto a coloro i quali non avevano potuto proseguire gli studi.
Per quanto mi riguardava, invece, avevo la necessità di scoprire la
differenza tra il mondo visto con gli occhi di chi vive al di qua di quello che
è apparentemente un muro invalicabile, senza sapere cosa ci sia oltre, e chi
invece va dall’altra parte di quel muro. Volevo accedere a quel mondo
misterioso, quasi impenetrabile, dove si pensa (a volte a torto, altre meno)
che qualsiasi cosa accada inneschi connessioni e intrecci che nemmeno i
migliori giallisti del Novecento sarebbero stati in grado di elaborare per
tenere i lettori incollati alle loro pagine.
Quindi, quando rinunciai al giornalismo e decisi di entrare in polizia non
mi ero trovato di fronte a un’opzione obbligata: avevo scelto senza
costrizioni, anche perché non ero nemmeno figlio d’arte. Mio padre,
siciliano, faceva il ferroviere, aveva in tasca la tessera del Psi, appunto, e
quella della Cgil. Era stato un partigiano. I nazisti avevano tentato di
ammazzarlo, ma non c’erano riusciti grazie all’inceppamento di una Luger.
Fu così che venne ospitato nella baracca di una famiglia povera, dove
ricevette le cure necessarie affinché le costole rotte dai calci delle SS si
aggiustassero. Lì conobbe una giovane ragazza dall’aria fresca come il
nome che portava: Lina. Mia madre.

Il 28 luglio 1986, dunque, fu il mio primo giorno di servizio effettivo dopo


un anno di corso nella scuola di polizia di Alessandria. Diciamo che non
svolsi nessun genere di mansione. Quella mattina, dopo il caffè con il
collega, nell’ufficio del personale mi fecero qualche domanda e trascrissero
le mie generalità. Sui volti degli addetti era chiaramente visibile quella sorta
di sadismo felpato nel vedere un giovanotto di primo pelo del tutto spaesato
in un ambiente sconosciuto, impacciato dentro una divisa raffazzonata, di
una taglia più grande rispetto alla sua corporatura mingherlina.
«E tu ndo’ vorresti esse’ assegnato?» mi chiese una signora dall’accento
romano, mentre fotocopiava i miei documenti.
«Alla Digos. Vorrei essere assegnato alla Digos.»
Si fece una gran risata: «Ah, alla Figos vorresti esse’ assegnato, alla
difficile? Guarda che nun pijano tutti, devi esse’ raccomannato, mica è così
come al corso, qua sei in questura».
In quel momento mi mancò la terra sotto i piedi e il sangue si gelò. Lì
per lì pensai seriamente che se non avessi potuto raggiungere il mio
obiettivo, mi sarei dimesso. La possibilità di diventare un giornalista non
l’avevo ancora scartata.
«Devi fa’ a gavetta, nun te ce mandano alla Figos, damme retta, lascia
perde, mo’ te fai qualche anno de volante e poi, forse, potrai domannà de
fatte assegnà.»
Diciamo che l’incoraggiamento non mancava. E se avessi avuto anche il
minimo dubbio, avrei potuto rassegnare le dimissioni subito, proprio in
quello stesso ufficio.
Comunque, alla fine, quella simpatica signora dai capelli rossicci ebbe
un po’ di pietà nel vedermi vittima della mia stessa goffezza.
«Dai, mo’ te ce porto io dal dirigente dell’ufficio del personale, dovete
annà da lui voi nuovi, ve deve assegnà.»
A un tratto si fermò e si mise a guardarmi da testa a piedi: «Ahò, ma nun
c’avevano ’na divisa mejo da datte? Ce stamo ’n due dentro alla tua».
Entrai in una stanza molto ampia. Credo fossimo una decina di
matricole. Tutti eravamo già passati da quell’impiegata.
Dopo qualche minuto, arrivò un graduato. Un ufficiale che subito diede
l’idea di essere un uomo di una certa importanza, nonostante celasse un
animo paterno. Sulle spalline aveva una torre e due stelle. Il che significava
che era un vicequestore. Non che fosse il vice del questore. Era proprio il
grado che si chiamava così. Nell’esercito lo stesso grado rappresentava un
tenente colonnello. Riconoscere i gradi era stata la prima cosa che ci
avevano insegnato al corso. Ma avendo già svolto il servizio di leva, sotto
questo aspetto non ebbi molte difficoltà. Di quel grado gerarchico mi
ricorderò bene. Il motivo lo racconterò più avanti.
«Benvenuti a Venezia, sono il dirigente della divisione del personale e vi
porto i saluti del questore. Tra pochi minuti vi informerò sulle vostre
assegnazioni. Ovviamente sono provvisorie: nei prossimi giorni, o anche
subito, potrete consegnare alla mia segreteria le domande per accedere ai
vari uffici della questura. Ci sarà una graduatoria e, quando arriverà il
vostro turno, verranno prese in considerazione. Gli unici uffici dove non c’è
la trafila della graduatoria sono la Digos e la Squadra mobile. È il dirigente
che sceglie.»
Diciamo che non stavo molto attento a quello che diceva, ma quando
alla fine aggiunse che per accedere ai due uffici operativi, ambìti da quasi
tutti i novizi, non c’erano graduatorie, alzai di colpo la testa. Il vicequestore
se ne accorse: «Vedo che qualcuno di voi è particolarmente interessato alla
Digos o alla Squadra mobile». Mi guardò sorridendo, poi salutò e tornò nel
suo ufficio.
Scoprii solo in seguito che il suo nome era Enzo Margagliotti. E scoprii
pure che appena apprese la notizia dell’assassinio di Alfredo Albanese partì
subito da Trieste, dove si trovava per motivi di lavoro, e raggiunse Mestre.
A lui toccò l’onere di organizzare il corteo funebre. Le Br avevano
assassinato un suo collega a cui era molto legato. Da quel giorno, imparai a
interpretare i profondi segni incisi sul suo viso come la conseguenza diretta
del dolore nel vedere quel corpo. Il corpo di un servitore dello Stato riverso
in una pozza di sangue.

Mi assegnarono al corpo di guardia dicendomi che si trattava di una


mansione molto importante, perché quello era l’ingresso principale, quindi
un’attenta e scrupolosa vigilanza riduceva il rischio di eventuali incursioni
di matrice terroristica. Non conoscevo nessuno e, durante i miei turni di
servizio, chiunque fosse entrato avrebbe dovuto mostrarmi un documento.
Quasi tutti sbuffavano, ma l’«incursione di matrice terroristica» mi era
rimasta impressa e già mi vedevo, qualora fossi sopravvissuto, in un’aula di
tribunale in cui avvocati, giudici e magistrati m’incolpavano di avere
provocato una strage con la mia negligenza.
Quella stessa mattina presentai la richiesta di assegnazione alla Digos.

«Non sai chi sono io»

Dopo un paio di giorni, verso le nove, un signore distinto, con un abito


chiaro di lino, camicia bianca e cravatta turchese, si avvicinò alla sbarra a
bordo della sua autovettura. Era un’Opel Kadett azzurra. Un vecchio
catorcio arrugginito. Non conoscevo quell’uomo, che continuava a farmi
cenno con la mano di alzare la sbarra. Non lo avevo mai visto prima. La sua
bassa statura era evidente perché con la testa superava di poco lo schienale
del sedile. All’epoca non tutte le auto avevano il poggiatesta di serie. Solo
quelle considerate di lusso, le più costose.
Mi avvicinai al vetro antiproiettile e gli indicai il vicino parcheggio
comunale.
A un certo punto il tipo scese dall’auto e con un’andatura rilassata venne
verso l’ingresso del corpo di guardia. Aprì lui stesso la porta e con tono
quasi goliardico mi chiese: «Perché non vuole alzare la sbarra?». Osservai
quel signore: era elegante anche nei modi, non solo nel vestire. Aveva i
capelli tutti tirati indietro, il fazzoletto bianco che usciva dal taschino della
giacca e profumava di buono. Dava l’idea di essere una persona molto
sicura di sé.
«Buongiorno, scusi, non la conosco, prima di farla entrare dovrebbe
mostrarmi un documento, oppure un permesso. Sa, sono nuovo e ancora
non conosco i volti di tutti.»
«Ah, ma allora lei nun sape cu sugnu io!»
Parlava praticamente in siciliano, con un accento marcato di cui avevo
già fatto esperienza in passato. Anzi, mi perseguitava.
«Le ripeto, sono appena arrivato dal corso e non conosco tutti, mi
perdoni. Comunque, basta solo farsi riconoscere e può entrare. Non mi
metta in difficoltà.»
«Bene, allora c’u dico io cu sugno: sono il dottor Giuseppe Impallomeni,
il dirigente della Digos. Che dice, ora posso entrare?»
Mi sentii morire.
Lo conoscevo di fama, ma avevo completamente rimosso il fatto che
proprio lui fosse a capo dell’ufficio a cui ambivo.
Lì per lì mi venne solo di porgergli la mano e di presentarmi.
«Piacere, Gianluca Prestigiacomo. Prego, ci mancherebbe, entri pure. Mi
scusi. Buona giornata.»

Ecco, addio Digos, pensai. Quando la sfiga ti perseguita non c’è via di
scampo. Mi sedetti guardando la strada al di là del vetro antiproiettile.
Avevo appena mandato in frantumi la mia aspirazione e cominciavo a
prendere atto che un anno prima avrei davvero dovuto scegliere la via del
giornalismo. Passai la mattinata all’insegna di una silenziosa disperazione.
Ero solo, il collega anziano doveva sbrigare alcune pratiche negli uffici.
Quando tornò, gli raccontai cos’era appena accaduto.
«Figurati, neanche si ricorderà di te, sai quanti cazzo di problemi ha il
dottore? Alla Digos non c’è vita facile, lì non si sa neanche cosa fanno, non
lo sa nessuno. Si chiudono nei loro uffici e studiano, indagano, ascoltano i
telefoni, si infiltrano nella politica. No, lascia perdere, alle volanti hai più
soddisfazione, sei più operativo. Sei dentro la città, impari a conoscere il
territorio, le persone. Non hai nessuno che ti dice cosa devi fare, gli
interventi li gestisce il tuo capopattuglia. Senti a me, fai domanda per le
volanti, impari a stare in strada.»
Lasciai che parlasse, non gli dissi che il territorio lo conoscevo come le
mie tasche. Non sapeva che fino all’anno prima in quelle strade ero con i
miei compagni a manifestare. E nemmeno lo informai che a me non
interessava l’operatività come la intendeva lui.
«Guarda» proseguì, «hai visto quei due che sono appena entrati? Ecco,
quelli sono della Digos.»
Li osservai interessato, aspettandomi di vedere chissà che cosa.
Uno era alto, magro. L’altro più basso. Il primo era biondo con il codino,
il secondo moro, capelli lunghi fino alle spalle. Entrambi indossavano un
giubbino leggero di jeans, sbiadito. Andavano talmente di fretta che
nemmeno si fecero riconoscere. Se non ci fosse stato il collega anziano,
avrei trascorso la mattinata a identificare mezza Digos.
A un certo punto gli chiesi di sostituirmi qualche minuto. Andai a
prendere un caffè allo spaccio e prima di entrare guardai ancora la lapide
del dottor Albanese. Mi fermai qualche instante, sentivo come la necessità
di ottenere la sua benedizione.
Appena tornato al corpo di guardia, cominciò a squillare il telefono.
Rispose il collega e poi mi passò la cornetta: «Vogliono parlare con te».
«Pronto?»
«Chi parla?»
«Prestigiacomo.»
«È la Digos, lei deve venire qui, il dirigente la vuole subito nel suo
ufficio.»
Ecco fatto, pensai. Finite tutte le speranze. Già mi vedevo costretto a
considerare le dimissioni.
«Visto?» dissi dopo aver riattaccato. «Il dirigente della Digos mi ha
appena convocato nel suo ufficio, non si è dimenticato. Questa mattina l’ho
fatto incazzare e ora mi dirà che posso scordarmela, la Digos.»
Il collega rimase in silenzio qualche attimo, pensieroso. Poi, di colpo, mi
disse: «Hai semplicemente fatto il tuo dovere, mandalo a fare in culo e digli
che la caserma è sorvegliata e tutti quelli che lavorano negli uffici possono
stare tranquilli. Al corpo di guardia della questura controlliamo chiunque.
Manco il questore entra senza esibire un documento».
Peggio di così, quella mattina non avrei mai potuto immaginarla. La
speranza di essere parte integrante della Digos della mia città si era appena
spenta.
«Quando devi andare dal capo della Digos?»
«Adesso, ma neanche so dov’è la sede della questura.»
Dopo qualche attimo squillò ancora il telefono. Era la stessa voce di
prima: «Alla sezione mare c’è un motoscafo che la sta aspettando».
Guardai il collega con stupore. In quel momento ebbi la percezione che
la Digos riuscisse a leggere nella mente.

In pochi minuti mi ritrovai davanti all’ingresso della questura. Durante il


breve tragitto i colleghi della volante lagunare mi avevano chiesto se fossi
nuovo e da dove arrivassi.
Per la prima volta, avevo visto il canale della Giudecca da
un’imbarcazione diversa dal classico vaporetto. Subito dopo essere usciti
dal rio della Scomenzera si era aperto uno scenario paradossalmente
suggestivo. Alle mie spalle Porto Marghera con le sue ciminiere fumanti e
di fronte la chiesa del Redentore, l’isola di San Giorgio e l’ingresso al
bacino San Marco. Una visione antinomica, in quella mattinata azzurra,
difficile da descrivere. Il fascino di Venezia consisteva anche nella difficoltà
di comprendere come quella città meravigliosa fosse per molti aspetti
vittima dell’area industriale più grande d’Europa: la cosiddetta chimica di
Porto Marghera. E mentre le onde della laguna facevano sobbalzare il
motoscafo, la prima cosa che mi venne in mente, osservando lo scenario più
bizzarro che avessi mai visto, fu ancora il commissario Alfredo Albanese:
se il conte Volpi non avesse permesso la realizzazione del polo chimico,
probabilmente il commissario non sarebbe mai stato ammazzato.

Don Peppino

Entrai in questura, era la prima volta in vita mia.


Per noi giovani la sede della polizia era il commissariato di Mestre.
Eravamo consapevoli che c’era la questura a Venezia, ma nessuno sapeva
dove fosse.
Digos era considerato l’acronimo della repressione. I «digossini» erano
percepiti come spioni, servi del potere. Uomini che tendenzialmente
celavano la propria estrazione fascista.
Riflettevo su questo mentre salivo lentamente le scale. Il collega del
corpo di guardia mi aveva appena indicato la strada: «Collè, sali la scala
fino a quando finisce, ti troverai in un androne. Là, ci sono gli uffici della
Digos, ma a quest’ora non ci sarà nessuno, saranno andati tutti a pranzo».
Indossavo la divisa e per lui era una garanzia.
Al primo piano c’era l’ufficio del questore. Il mio disorientamento era
palese. Un signore in abiti civili mi chiese se stessi cercando qualcuno. Gli
risposi che ero stato convocato dal dirigente della Digos.
«Ah, don Peppino? Adesso ti accompagno io.»
Fu in quel momento che la mia tensione si allentò. Dissi tra me e me: dal
momento che lo chiamano don Peppino, deve essere una brava persona,
soprattutto socievole. Eppure, non riuscivo a scacciare dalla mente quel
ricordo: l’uomo che stavo per incontrare era lo stesso che da studente avevo
detestato quando sui giornali era apparsa la notizia del suo trasferimento
dalla Sicilia a Venezia.
D’un tratto, mi passarono davanti agli occhi le immagini di quei giorni.
Manifestavamo scandendo slogan di forte impatto, come fossero dei
mantra: «Via la P2 da Venezia, Impallomeni tornatene a Palermo». Deglutii.
Gli scalini terminavano in un ambiente enorme. Attorno c’erano gli
uffici, chiusi da porte color panna. Al centro, accostato al muro, un divano
in pelle consumato dal tempo. «Ecco, questa è la Digos, nella porta in fondo
c’è la segreteria. Arrivederci e benvenuto a Venezia. Mi chiamo Cesare
Porta, sono il capo di gabinetto del questore.» Per non sbagliare mi
presentai porgendogli la mano. Me la strinse con energia. Non c’erano
dubbi sulle sue origini partenopee.
In segreteria, una stanza molto grande con tavoli di legno ai due lati,
c’era un signore con una canottiera anch’essa panna. Indossava dei
mocassini senza calze. Dalla parte opposta dell’ingresso una vetrata enorme
proprio sopra la Fondamenta San Lorenzo.
«Mbè, lei chi è?»
Il tipo era davanti a un ventilatore enorme.
Mi presentai e, quando lui capì chi fossi, mi venne incontro dicendomi
di attendere un momento. Aprì la porta dell’ufficio lì accanto e si affacciò
soltanto con la testa: «Dottore, c’è Prestigiacomo, lo faccio aspettare?».
Riconobbi subito quella voce un po’ roca: «No, digli di accomodarsi,
fallo entrare».
Appena arrivai davanti alla porta il dottor Impallomeni si accorse del
bizzarro abbigliamento estivo dell’uomo che mi aveva appena annunciato.
«Minchia, Giovanni, in canottiera ti presenti davanti al tuo dirigente?»
«Dottore, fa caldo, a noi mica ci hanno montato l’aria condizionata.»
Subito dopo Giovanni mi indicò la porta, entrai e rimasi in piedi quasi
senza fiatare.
«Prego, si accomodi, si sieda qui sul divano. Hanno installato l’aria
condizionata proprio ieri, prima non si respirava.»
L’ufficio di Impallomeni era grande, il tavolo pieno di carte. Notai subito
che non era davanti alle due finestre, ma a ridosso di una parete. Durante il
corso gli istruttori non smettevano mai di ricordarci quanto l’autotutela sia
fondamentale per mettere in sicurezza sé stessi e gli altri.
Mi sedetti sul divano e lui sulla poltrona di fronte. Non rimase dietro al
suo tavolo.
Senza perdere troppo tempo decisi di affrontare l’argomento, anziché
aspettare che fosse lui a farmi domande.
«Posso immaginare il motivo di questa convocazione urgente, perciò
chiedo scusa per quanto accaduto stamane, non volevo mancarle di rispetto.
So che avrei potuto uscire dalla guardiola, salutare alla visiera e chiederle
gentilmente di farsi riconoscere.»
Mentre parlavo, mi guardava con occhi sottili. Poi, si accese una MS col
filtro.
«Lei ha fatto il suo dovere in modo ineccepibile, tutti gli agenti del
corpo di guardia dovrebbero comportarsi allo stesso modo. E bene ha fatto a
rimanere dentro la guardiola blindata. Provi a immaginare se fossi stato un
terrorista, avrei estratto una pistola e l’avrei uccisa. Era solo, in quel
momento, avrei alzato la sbarra e sarei stato libero di entrare. Avrei
ammazzato altri poliziotti e la mia azione dimostrativa avrebbe avuto una
risonanza mondiale. Immagini i titoli in prima pagina sui giornali del giorno
dopo: “Le Brigate rosse entrano nella Caserma Albanese e ammazzano
ancora”.»
Fu proprio quello specifico avverbio a farmi comprendere
immediatamente la portata dell’azione compiuta dalle Brigate rosse il 12
maggio 1980. Nell’ipotizzare un possibile titolo giornalistico Impallomeni
aveva usato il termine «ancora», come volesse farmi capire bene in quale
ufficio mi trovassi in quel momento. Lo stesso ufficio in cui aveva prestato
servizio il giovane commissario Alfredo Albanese. Per un momento rimasi
quasi senza fiato. Non capivo se la sua ironia celasse una velata accusa, o se
stesse inaspettatamente elogiando il mio comportamento. Sta di fatto che
aprì il frigorifero e prese due bottigliette d’acqua.
«Fa un caldo che si muore, oggi. Bisogna bere molto, si rischia la
disidratazione. Deve bere anche lei, tenga.»
Era in maniche di camicia, senza la cravatta azzurra. La giacca di lino
era ben riposta sullo schienale della sua sedia. I pantaloni, invece, erano
stropicciati.
«Allora, ho saputo che ha inoltrato la domanda per essere assegnato qui
da noi. Non ci sono graduatorie, i miei collaboratori li scelgo direttamente
io, in quanto dirigente. Infatti, l’ho convocata proprio per questo motivo.
Stamane ho notato la sua calma e nello stesso tempo anche una tenacia
insolita. Poi ho svolto qualche accertamento. L’ho fatto di persona, senza la
collaborazione di nessuno. Ho appreso che lei era iscritto alla Fgci,
praticamente un giovane comunista.»
«Quindi, come dire, il fatto che sia o sia stato comunista significa che
non potrò mai essere uno dei suoi collaboratori?»
«Non ho detto proprio niente di tutto ciò. Anzi, ho molta ammirazione
per i comunisti, nonostante sia fondamentalmente un democristiano. Al
liceo frequentavo gli ambienti di Comunione e Liberazione. Le idee non
sono pregiudizi, nessuna.» Lo vidi fermarsi a pensare, poi aggiunse:
«Tranne una: il fascismo».
Mi resi conto che era sincero e, appena si proclamò antifascista, di colpo
tutte quelle dicerie sul fatto che i digossini fossero fascisti si collocarono
nella mia mente all’interno di un retaggio culturale incompatibile con la
realtà.
«Inoltre, mi sembra di capire che suo padre sia siciliano.»
«Sì. Di Bagheria, per l’esattezza.»
«Conosco Bagheria, nel 1981 ero il dirigente della Squadra mobile di
Palermo. Fa parte del triangolo con la più alta densità mafiosa.»
Il Maxiprocesso non era cominciato, Falcone e Borsellino erano ancora
vivi. L’attentato all’Addaura sarebbe avvenuto tre anni dopo. La mafia,
Cosa nostra, Buscetta, il giovane De Gennaro, i movimenti antimafia non
erano ancora considerati a sufficienza. Non appena mi disse che era stato il
capo della mobile di Palermo, fu come se fossi stato proiettato dentro una
realtà fino a quel momento immaginaria, raffigurata solo dai racconti e dalle
cronache giudiziarie. Di fronte a me c’era uno dei protagonisti di una delle
tante, sciaguratamente troppe, stagioni violente che lo Stato cercava di
affrontare con mezzi ancora troppo inadeguati. Sì, ebbi proprio la
sensazione di trovarmi di fronte un uomo che non aveva paura. Un uomo
potente. Lo era perché dava l’idea di essere una persona che sapeva, una
persona preparata.
«Mio padre fece la guerra. Nel 1943, dopo la fuga dalla prigionia,
arrivato a Trieste entrò nelle file dei partigiani. È socialista, ma spero che
tutto questo non sia ostativo alla mia aspirazione.»
«Per niente. Servono persone capaci di distinguere tra il bene e il male.
In questo mestiere occorre usare l’intelligenza. Molti brigatisti sono
laureati, sanno parlare, hanno una cattedra e non tutti sono stati identificati,
chissà quanti sono sfuggiti ai servizi segreti, alla Digos, all’ex Ufficio
politico, rimanendo in clandestinità.»
A un certo punto sembrava mi conoscesse da sempre. Avrà indagato a
fondo sul mio passato da studente comunista, pensavo. Avrebbe potuto
investigare su tutta la mia famiglia, la cosa importante era che nulla potesse
impedire il mio ingresso alla Digos.
«Credo che avremo molto da raccontarci, di solito il mio, come dire,
sesto senso non sbaglia mai. Benvenuto alla Digos, allora. Domani mattina
venga qui. Anzi, vieni qui, ma non in divisa, qui nessuno la indossa.»
«Scusi, come faccio? Devo avvertire il vicequestore della Divisione
personale, il turno di domani me lo hanno già comunicato.»
«Allora non mi sono spiegato bene, sono il dirigente della Digos, mica il
primo che passa. Parlo io con il questore, tu domani mattina vieni qui, del
resto non preoccuparti.»

«L’unico cretino»

Di lì a poche ore diventai uno degli agenti della Digos di Venezia. L’ultimo
arrivato, certo. Ma avevo tutto il tempo per imparare, capire, osservare. Già,
osservare. Era questa la cosa più importante: osservare. Cominciando dai
miei colleghi più anziani ma, soprattutto, dal mio dirigente.
Forse per la giovane età, forse per quella mia appartenenza politica che
sembrava averlo positivamente colpito, fin da subito divenni l’ombra di
Giuseppe Impallomeni. Sembrò la cosa più naturale del mondo e nessuno
degli altri operatori ne fece ragione di risentimento nei miei confronti. Lui
mi prese sotto la sua ala, introducendomi come un padre in un mondo che
non conoscevo.
Riguardo l’appartenenza alla P2, la cosa strana, che mi lasciava molto
scettico di fronte alle voci riportate a denti stretti sulle sue frequentazioni
massoniche, era la fiducia che in lui riponevano proprio due magistrati, che
ben presto sarebbero divenuti noti in ambito internazionale per le loro
inchieste: Felice Casson e Carlo Mastelloni.
«Saprai che sono stato iscritto alla P2, da buon comunista quale sei o eri
non può esserti sfuggito questo particolare sul mio conto» mi disse un
giorno mentre stavamo andando in tribunale.
«Però» proseguì senza darmi modo di replicare «anche tu conosci solo la
verità riportata dai giornali. Il resto, tutto ciò che non scrivono e mai
scriveranno, sono notizie che farebbero poco clamore. Devi sapere che
quando la commissione interministeriale decise di sentire gli affiliati,
ricordo bene cosa dissero gli appartenenti alle forze dell’ordine i cui nomi
erano comparsi negli elenchi. Affermarono che si trovavano lì per indagini.
L’unico cretino fu il sottoscritto. Davanti alla commissione dissi
semplicemente che ero risultato iscritto perché mi ero iscritto. Ricordo
ancora i loro volti: si guardarono quasi increduli a sentire le parole che
avevo appena pronunciato. Mi ero iscritto per una raccomandazione. Il
questore che avrebbe sostituito Vincenzo Immordino sarebbe stato
Giuseppe Nicolicchia, un massone, lo sapevano tutti, pertanto un giornalista
che aveva anticipato la notizia mi propose di aderire alla P2. Avrei voluto
rimanere a Palermo, non volevo che mi trasferissero, perciò fu per me un
modo per ingraziarmi il nuovo questore.»
Ogni volta che mi parlava dei suoi trascorsi ascoltavo in silenzio e poi
andavo a documentarmi. Di tanto in tanto dedicavo un po’ di tempo in
archivio alla ricerca di articoli di giornale che potessero chiarirmi chi fosse
realmente Giuseppe Impallomeni. Trovai un articolo de «la Repubblica» a
firma di Attilio Bolzoni in cui don Peppino veniva descritto come il
peggiore degli arroganti, il normalizzatore della questura di Palermo, giunto
a sostituire Boris Giuliano subito dopo la morte di quest’ultimo. Feci una
fotocopia e la mattina dopo glielo consegnai insieme ai giornali, appena
scese dalla sua abitazione.
«Cos’è?» Guardò la data e lesse le prime righe: «Lo conosco, non è così,
tutte cose non vere, ma non per colpa del giornalista, che considero persona
per bene e in gamba, ma perché le cose non si sanno, certi fatti non possono
essere trattati con superficialità. La prima inesattezza riguarda proprio la
sostituzione della buonanima di Boris Giuliano. Ho sostituito Bruno
Contrada, non Boris Giuliano. Contrada venne nominato ad interim dopo
l’uccisione di Giuliano, non fui io a sostituirlo, le indagini le iniziò una
Squadra mobile scassata e guidata da Contrada».
Quella mattina lo avevo fatto innervosire per bene, ma dovevo capire.
Durante il tragitto non disse nulla. Prendemmo un caffè e arrivammo in
questura a piedi. Ma solo dopo essere passati a salutare un giovane
magistrato che già era considerato un ficcanaso dalle alte sfere del ministero
e da certi ambienti politici.
Quando entrammo nella stanza del giudice Felice Casson, don Peppino
neanche lo salutò. Era come se si conoscessero da molto tempo: «Dottore
Casson, i trafficanti d’armi li dobbiamo arrestare a tutti».
Erano gli anni in cui si cominciava a capire da dove partissero i flussi
dei traffici d’armi, le triangolazioni per violare gli embarghi. Impallomeni si
era messo in testa che gli armamenti all’Iran arrivassero anche dall’Italia,
nonostante l’embargo imposto, soprattutto dagli Stati Uniti. Ma su questo
torneremo.
Da quella mattina, per qualche giorno, ci fu un po’ di distacco tra me e
Impallomeni, fino a quando mi chiese se conoscessi qualcuno di fidato a cui
rivolgersi perché doveva fare delle iniezioni per sfiammare la sciatica. «Mia
mamma» gli dissi. Così, la mattina dopo, quando scese da casa lo
accompagnai da mia madre. Gli fece la prima di una serie di iniezioni e
preparò pure il caffè. Il rapporto si ristabilì, ma nei giorni successivi non
persi tempo e pretesi che mi spiegasse bene la vicenda della P2.
«La P2 esisteva già da tempo, si dice che il primo venerabile maestro
fosse stato Garibaldi. Ma c’è poco da meravigliarsi, viviamo in un sistema
ormai consolidato nel perseguire e proteggere interessi che derivano da
attività più o meno illecite. La massoneria, come tanti altri ambienti occulti,
è un centro di potere. Anche nelle logge minori ci sono interessi, pur non
essendoci evidenti illeciti. Si tratta di favori che ci si fa tra affiliati.
All’interno puoi trovare chiunque, dal giornalista al poliziotto, dal
banchiere al politico, ma non è questo il punto su cui indagare.
Bisognerebbe capire chi c’è dietro a questi sodalizi e perché politicamente
non si interviene. Tina Anselmi aveva ragione, infatti fu molto osteggiata
anche all’interno della commissione che presiedeva.»
Ero molto giovane, eppure mi accorgevo che le sue parole nascondevano
un fondo di amarezza e di cose non dette. Non insistevo, stavo al mio posto,
ascoltavo e incameravo le informazioni. Ero sicuro che sarebbe venuto il
tempo per approfondire certe questioni. E non mi sbagliavo.
«Fumiamoci una canna»

Una mattina di fine agosto arrivò in ufficio un signore elegantissimo. Un


collega, ovviamente. Era rientrato dalle ferie. Quando don Peppino lo vide,
lo salutò sorridendo e gli disse: «Emireni, solo i ricchi come a tia vanno in
ferie venti giorni d’estate e venti giorni d’inverno! Cca c’è da lavorare, i
trafficanti d’armi non vanno in ferie».
E, giusto per ristabilire i rapporti di sempre, gli scroccò una Marlboro
rossa. «Mi mancavano le tue sigarette, per colpa tua ho dovuto fumare solo
le mie emmesse.»
Quell’uomo elegante, soprattutto nei modi, era il motore dell’ufficio. Me
ne accorsi subito, non c’erano dubbi.
Roberto Emireni era il sottufficiale che collaborava direttamente con il
giudice Casson. In ufficio lo chiamavano «il cavaliere».
Quel giorno mi riservò solo uno sguardo, nulla di più.
Fu al mattino successivo che, appena entrato in ufficio, si avvicinò
dicendomi: «Andiamo a fumarci una canna?».
Rimasi perplesso, poi capii che si riferiva a una delle sue Marlboro
rosse.
Uscimmo dall’ufficio e andammo a prendere un caffè. Mi offrì una
«canna» e poi mi disse: «Noi due ci siamo già visti». Mi colse impreparato.
Sorrise: «Anzi, ti dirò di più, noi ci conosciamo già».
Rimasi perplesso. Lo guardavo sorridere, fin quando non decise di
mettere fine a quella che stava diventando una specie di tortura.
Era il 1978. Ero ancora un adolescente, lui un giovanissimo digossino.
Quella mattina pioveva, saremo stati un migliaio. Era una manifestazione a
favore del popolo palestinese. Qualche giorno prima – il 30 marzo – sette
giovani palestinesi erano stati uccisi mentre manifestavano contro
l’esproprio di terre in Galilea e nel Neghev.
Quel tipo l’avevo già visto. Mi ero accorto di lui più di una volta, nel
corso di altre manifestazioni. Lo scoprivo a fissarmi e non distoglieva mai
lo sguardo, anzi, con un cenno del capo sembrava volermi salutare. Lo
ignoravo. Avevo capito benissimo chi fosse e che cosa volesse.
Il disprezzo verso gli operatori delle forze dell’ordine, che accomunava
alcuni compagni, come dire, quelli più duri e puri, non mi apparteneva, ma
ero comunque molto scettico e guardingo.
Quel giorno mi si era avvicinato. Indossava un impermeabile chiaro.
«Buongiorno, che si dice?»
Dopo un primo scambio di convenevoli, anche in quell’occasione mi
offrì una Marlboro rossa.
«Ci andiamo a prendere un caffè?»
«Non lo bevo il caffè.»
«Allora una Coca-Cola.»
Non so perché quella mattina riuscì a fare breccia. Forse il freddo, forse i
suoi modi gentili, che parvero sinceri. Insomma, alla fine accettai l’invito.
«Manifestazione non preavvisata, che facciamo con la violazione
dell’articolo 18 del Tulps [Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza,
ndr]?»
Le sue parole mi riportarono subito alla realtà: eravamo diventati
colleghi. Lo guardai, diedi un tiro voluttuoso alla sigaretta e scoppiammo a
ridere: «Sì, ora ricordo. Quel giorno non sapevo cosa risponderti.
Rimediasti scrivendo lì per lì il preavviso su un pezzo di carta che avevi
chiesto al barista e, offrendomi la penna che avevi usato, mi invitavi a
firmare a nome della Federazione».
«Esatto. Avevi il timore che qualcuno dei tuoi compagni venisse a
saperlo.»
«In Federazione c’era una gerarchia quasi militaresca; se l’avessero
saputo, mi avrebbero fatto pagare il fatto di aver firmato un preavviso
preparato da un poliziotto della Digos. Come minimo un mese a ripulire la
sala dopo le riunioni.»
«E ora sei qui… Capiterà anche a te di rimediare a certe situazioni, ti
abituerai, in fondo la mediazione nei servizi di ordine pubblico è proprio
uno dei compiti della Digos.»

Qualche giorno dopo un ex maresciallo mi chiamò nel suo piccolo ufficio.


Anche lui mi aveva già visto, ma non ricordava in che occasione. A un
certo punto aprì un armadio, estrasse un album fotografico grandissimo e
iniziò a sfogliarlo. In ogni pagina erano state appiccicate fotografie di volti,
gruppi di manifestanti, fotocopie di cartellini di identità. Un vero e proprio
archivio informale. Anzi, lo si potrebbe definire personale.
«Sono convinto che da qualche parte ci sei anche tu.»
Non so perché, ma ero inquieto.
A un certo punto mi riconobbi: ero stato immortalato con la bandiera del
partito arrotolata sulla spalla, insieme a un paio di compagni. Ma nella foto
ero anche l’unico che aveva un cerchio rosso intorno al viso.
«Ecco, sì, mi sono riconosciuto» dissi con ingenuo entusiasmo
adolescenziale, senza pensare alle eventuali conseguenze.
Fossi stato zitto, avrebbe continuato a girare le pagine, ma questa storia
che tutti fossero interessati al mio passato doveva finire. Quindi, mi venne
naturale contribuire alla ricerca.
«Beccato.»
Fu questa l’unica parola che disse avvicinandosi alla foto, dopo avere
appoggiato degli occhialini quasi sulla punta del naso. La staccò dalla
pagina e la osservò attentamente.
«Guarda un po’ il destino» mi disse alzando gli occhi per scavalcare gli
occhialini, «avevo perso le speranze di dare un nome a questo volto, invece
alla fine eccoti qua. Sei il mio nuovo collega.»
Prese quella foto e me la mise in mano: «Ora andiamo dal dirigente, ci
facciamo un paio di risate».
All’improvviso mi sentii annientato. Non riuscivo a capire se stesse
prendendo sul serio la situazione, oppure se c’era veramente da farsi due
risate, come aveva detto.
«Non credo di essere stato un sovversivo» dissi tentando di
sdrammatizzare, mentre ci dirigevamo nell’ufficio del capo. «Stavo solo
manifestando, all’epoca.»
Appena entrammo nell’ufficio del dottor Impallomeni l’ansia svanì
come d’incanto.
Don Peppino era seduto al suo tavolo e stava leggendo un giornale.
Subito esordì: «Date le circostanze internazionali bisogna fare qualche
indagine sui traffici d’armi. Gli americani in qualche modo fanno arrivare le
armi all’Iran, e secondo me, caro maresciallo, passano anche dall’Italia».
Poi, appena realizzò che stava pensando a voce alta e si accorse che
eravamo entrati nel suo ufficio, chiese ironicamente: «Be’, che minchia
volete da me?».
«Dottore, ho identificato lo studente misterioso» disse l’uomo che era
con me, invitandomi a posare la foto sul tavolo e spingendomi il braccio per
aiutarmi a superare l’evidente timore. Impallomeni la visionò con
attenzione e poi mi guardò sornione.
«Minchia, sei stato riconosciuto, ora abbiamo un infiltrato del Pci nella
Digos» disse mentre si accendeva una MS. «Sicuramente farai parte del
Cominform! Bene, avremo notizie fresche e di prima mano.»
Gli strumenti di un servitore dello Stato

Fu proprio questo inizio che mi diede gli strumenti per riuscire a interagire
con quella sorta di schiacciasassi che si chiama «potere». Schiacciasassi
perché contestarlo significa andare incontro a conseguenze inattese. Non sei
allineato? Non importa, ma ci scorderemo di te. Verrai relegato alla
condizione di negletto e, fino a quando non te ne andrai, sarai costretto a
convivere con questo stato. Una punizione. Per fortuna, però, qualche volta
quel potere viene smascherato e, pur riuscendo a garantire qualcuno dei
suoi «fedeli», viene messo nelle condizioni di non nuocere più. Il
riferimento non è affatto casuale. I fatti del G8 di Genova passarono sotto
processo, i colpevoli sono stati condannati, ma dopo avere «pagato» il conto
con la giustizia, alcuni di loro sono rientrati in servizio. Un «regalo» che
permise – o sta permettendo – proprio a quei fedeli di arrivare alla
pensione. Perché di questo si tratta.
È paradossale che all’interno di un meccanismo, per quanto complesso
sia, possano coesistere persone che darebbero la vita per lo Stato e altre che
lo usano come scudo.
È vero, i «traditori» sono la netta minoranza, ma sarebbe necessario,
data la prospettiva di un futuro sempre più difficile, soprattutto sotto
l’aspetto sociale, che anche quel residuo venisse definitivamente
emarginato. Il perché non è difficile da intuire: coloro i quali crearono prove
false, impedendo anche la libera contestazione, di fatto furono il braccio
armato di un potere molto più ampio, che riuscì a portare il mondo intero
verso la catastrofe sociale. Quelle azioni, considerate reati dal Codice
penale, effettivamente fecero danni incalcolabili. Oltre a consegnare i
cittadini nelle mani di chi aveva un progetto molto più grande, segnarono le
coscienze di tanti, a cominciare proprio dai servitori onesti, quelli che
darebbero la vita per lo Stato, pur di proteggerlo da qualsiasi sorta di
eversione. Certo, furono azioni e condotte nate nell’inconsapevolezza di
tutto ciò. Ma non è una giustificazione. Un uomo di Stato non può servire
qualcuno o mettersi a sua disposizione per un tornaconto personale, senza
minimamente riflettere sulle conseguenze delle sue azioni. Un uomo di
Stato deve vivere nella totale rettitudine. È qualcosa che viene da dentro,
che prescinde dal coraggio e dall’abnegazione. È un modo di essere. A
differenza di altre professioni, chi giura fedeltà alla Costituzione è chiamato
a incarnarne i valori e la struttura democratica che si eleva su quei
sacrosanti diritti umani troppe volte oltraggiati nel loro principio, più che
nella forma. Un uomo di Stato deve essere la più alta espressione della
democrazia.
Ho avuto la fortuna di avere degli esempi importanti, a cominciare dalla
mia famiglia. Ma se nella parte più decisiva della mia vita dentro le
istituzioni democratiche non avessi incontrato persone capaci, competenti,
professionalmente preparate, donne e uomini con la schiena dritta, non
avrei mai potuto fare le mie scelte durante quei due giorni maledetti.
Sì, ho avuto modo di imparare cosa fosse un’analisi, come si procede nel
corso di un’indagine o come ci si procura le informazioni necessarie per
scongiurare un attacco alla democrazia e al cuore dello Stato, come scrivere
un rapporto, come fare un collegamento tra i fatti per individuare i colpevoli
e dare modo alla magistratura di assicurarli alla giustizia. Ma non avrei mai
potuto assimilare la cosa più importante: il rispetto verso gli altri, verso i
più deboli, gli indifesi, tutte quelle persone emarginate e per questo non
degne di accedere ai cosiddetti privilegi. Non avrei mai potuto sfruttare il
mio piccolo potere per mettermi a disposizione degli invisibili o di chi
veniva considerato carne da macello.
Perciò, quando mi si è presentato improvvisamente davanti l’inizio di un
qualcosa che mai avrei immaginato potesse diventare la mia vita sociale e
professionale, proiettandomi in un contesto sconosciuto e mettendo in
secondo piano il mio ancora breve e acerbo passato, ho subìto uno
sconvolgimento, ma nello stesso tempo mi sono reso conto che è meglio un
brusco impatto, anziché una transizione lenta. E fu proprio quell’impatto
che mi portò a essere la persona che sono oggi.
«Quando conosci le regole, il Codice penale, la Costituzione, puoi stare
tranquillo che nessuno potrà mai obbligarti a fare quello che non devi.
Scrivi, non preoccuparti, scrivi, fossero anche apparentemente puttanate,
ma scrivi, non si sa mai» dicevano i vecchi marescialli. Scrivere. E non
avere paura di nessuno. Questo mi hanno insegnato Giuseppe Impallomeni
e i colleghi incontrati appena entrato alla Digos.
Avevo imparato che il timore reverenziale porta solo a effimere
soddisfazioni: la solita pacca sulla spalla o la promessa – molte volte
neanche mantenuta – di accontentarti nell’avvicinarti a casa, oppure di farti
vincere un concorso interno. Quel timore deferente avevo imparato a
riconoscerlo. Avevo imparato a fare i conti con me stesso, a «pararmi il
culo», come si dice in certi ambienti. Quando ero giovane, nemmeno
sapevo cosa significasse essere un «paraculo», non conoscevo questo
termine. Non lo avevo mai sentito, prima del servizio di leva. Ovvero,
prima di iniziare a vivere un mondo che ancora non mi apparteneva, prima
dello svezzamento.
Quel giorno in cui il dirigente ironizzò sul mio passato, che oggi sarebbe
stato compromettente e determinante nel farmi diventare parte di un Ufficio
info-investigativo di altissima importanza per la salvaguardia delle
istituzioni democratiche, ebbi la sensazione che lo Stato non avesse
pregiudizi, anzi, che avesse avuto bisogno di cercare un equilibrio al suo
interno. Ero sorpreso che un comunista venisse accolto dallo Stato al suo
interno con tanta volontà.
Mi sentivo pervaso da un forte senso di responsabilità. Come dire:
«Adesso vediamo cosa sai fare, vediamo come sarai in grado di comportarti
quando ti troverai non più a partecipare alla contestazione ma a gestirla,
affinché venga salvaguardato non solo il diritto sancito costituzionalmente,
ma anche lo Stato, le sue strutture, il suo quotidiano lavoro attraverso le
istituzioni».
Impallomeni, così come molti altri, ripose una grande fiducia in me e
credo di essergli stato riconoscente mettendo in atto i suoi consigli. Nel
luglio del 2001 erano passati quindici anni da quando ero giunto alla Digos.
Impallomeni era morto nel 1999, nel mese di marzo. Una meningite
fulminante.
Seconda parte
Storia di un disastro annunciato
Incubo n. 1

Un boato.
Corro.
Senza sapere dove, corro.
Urto persone, cose. Provo l’impulso di scappare, ma non so da chi o da
cosa.
Le mie orecchie fischiano, qualcosa mi colpisce all’altezza del
sopracciglio. Non ci bado.
Gli occhi bruciano, la gola anche.
Le lacrime si uniscono alle secrezioni del naso che impregnano il
fazzoletto che mi copre il volto, ormai del tutto inservibile.
C’è fumo intorno.
Fumo nero, fumo bianco. E in mezzo urla.
Dove sono? Impossibile capirlo.
Un fiume di gente impazzita di terrore, per un attimo mi torna alla
mente l’immagine della migrazione dei grandi erbivori nei parchi africani.
So che da qualche parte si nascondono i coccodrilli.
Poggio la schiena a un muro, mi piego sulle ginocchia e vomito.
A terra c’è di tutto: vestiti stracciati, occhiali da sole, zaini. Sangue.
Tanto sangue.
Il suo odore va a mischiarsi a quello dei gas lacrimogeni e delle auto
incendiate.
Il fumo si dirada per un secondo.
Urla alla mia destra. Una ragazza.
Mi volto, un nugolo di poliziotti intorno a lei. Colleghi.
Vedo i loro manganelli alzarsi e abbassarsi meccanicamente, quasi
fossero impugnati da robot. C’è della metodicità forsennata in quei gesti
secchi, implacabili. Nel frastuono che mi circonda riesco a distinguere i
tonfi sordi sul corpo rannicchiato a terra.
Mi alzo, corro in quella direzione.
Con una mano cerco il mio tesserino appeso al collo sotto al gilet.
«Fermi! Fermi, cazzo!»
Afferro un manganello che si sta abbassando, lo stringo forte nella
mano.
Quattro o cinque caschi si voltano verso di me.
Mostro il tesserino. Il cerchio intorno alla ragazza si allarga, i poliziotti
si disperdono.
«Pezzo di merda» mi urla qualcuno, «sei uno di loro.»
Loro chi?
Mi guardo intorno.
Un padre corre stringendo al petto il figlio di sei, sette anni. Il bambino
ha lo sguardo terrorizzato.
Una coppia di anziani con il simbolo della Cgil sulla maglietta scappa
nella stessa direzione. Lui si preme un fazzoletto sulla testa, ma il sangue
continua a scorrergli sul viso.
La ragazza intanto è a terra, la aiuto ad alzarsi.
Mi guarda. Vede il tesserino. Il suo volto si trasforma in una maschera
di odio. Mi sputa sui piedi e scappa.
Intanto dalla cima dei palazzi sbuca un elicottero.
Il rumore delle pale è assordante, ma ha come il potere di farmi
riprendere contatto con la realtà.
Torno a vedere.
Torno a capire. E non è necessariamente un bene.
Sembra un gioco: guardie e ladri. Poliziotti bardati corrono, persone
scappano. Non dovrebbe accadere questo, in uno Stato democratico.
Eppure, sta accadendo.
Le persone non dovrebbero avere paura delle divise. Eppure, ce l’hanno.
È questo che siamo diventati?
È questo che saremo da oggi in poi?
Non lo so, non riesco a darmi una risposta.
La cerco nei miei ricordi. Cerco di capire com’è stato possibile arrivare
a tutto questo.
E intanto Genova brucia.
Genova blindata

La partenza

Era una mattina di luglio del 2001. Lunedì 16, per la precisione. Partimmo
alle 7.30 in auto da Venezia. Eravamo in tre: io, un mio collega e il
dirigente dell’ufficio. Mentre infilavamo le borse nel bagagliaio dell’Alfa
155, dalle finestre della questura erano tutti affacciati a salutarci come fosse
la partenza dei prescelti verso una meta incerta. Verso qualcosa d’indefinito,
un luogo dove già c’era la percezione di una possibile guerriglia. Un dato
basato solo su delle ipotesi, le tante che si formulavano fin dal dicembre
dell’anno precedente, quando aveva iniziato a prendere forma la possibilità
che la città in cui si sarebbe svolto il G8 sarebbe stata proprio Genova. In
realtà era più una certezza che un’ipotesi. Già nel dicembre del 1999
l’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema aveva reso
noto che il summit si sarebbe tenuto nel capoluogo ligure. Dopo il
Giappone, spettava all’Italia ospitare l’evento.
Mi ero messo alla guida, come sempre quando ci si apprestava a viaggi
lunghi. Gli altri si fidavano e anche quella volta me lo dimostrarono
dormendo fino a destinazione. Tra le raccomandazioni dei colleghi prima
della partenza, quella più ricorrente era: «Cercate di tornare interi, state alla
larga dagli scontri, fate le cose con la testa e siate professionali come
sempre». Diciamo che lo si poteva paragonare a un attestato di stima, ma al
contempo aveva tutte le caratteristiche di una premonizione.
Quella mattina c’era il sole e la luce riflessa sull’asfalto dell’autostrada
creava le classiche «pozzanghere d’acqua», come miraggi nel deserto. Li
rincorri, ma tra te e loro c’è sempre la stessa distanza. Avevo da poco finito
di leggere Anime morte, un romanzo di Ian Rankin che apriva squarci
inediti e illuminanti sulla Scozia contemporanea, in particolare su
Edimburgo, dove la crisi del sistema dei valori e le trasformazioni della
postmodernità stavano distruggendo quel che restava di un ambiente sociale
fortemente tradizionale. John Rebus, il protagonista, era un ispettore di
polizia che aveva sempre a che fare con i casi più turpi. Conscio della
corruzione morale che si trasmetteva di generazione in generazione, non
riusciva a spiegarsi il suicidio del giovane collega Jim Margolies e per
questo, a dispetto degli ordini ricevuti, continuava a indagare sul caso. Le
«anime morte» cui doveva dare la caccia affollavano la scena, richiamate
quasi per incanto da una malata necessità di delinquere.
Passammo davanti allo svincolo per Alessandria, dove sedici anni prima
avevo frequentato la scuola di polizia. Genova era vicina e nei fine
settimana io e i miei colleghi andavamo a trascorrervi qualche ora. La
conoscevo abbastanza bene. Nei mesi precedenti al vertice del G8 avevo
studiato accuratamente la mappa della città e quando ci andavamo per i
sopralluoghi cercavo di orientarmi tra i nomi delle vie. Del resto, farli serve
anche a conoscere il territorio. Il tragitto Venezia-Genova lo avevamo
percorso molte volte prima di quel 16 luglio, ma non era la stessa cosa. Fino
a quel momento nessuno si era accorto delle nostre partenze, né dei ritorni.
Erano viaggi come tanti. In questo caso colleghi, civili e autorità politiche
ancora non avevano chiaro cosa sarebbe potuto accadere, probabilmente
nemmeno noi.

La celebrazione del nulla

Ai primi di giugno eravamo già andati apposta in città per incontrare anche
Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum (Gsf),
l’aggregazione di movimenti, partiti e società civile che contestavano la
globalizzazione. Fu allora che iniziammo a percepire la sensazione che
qualcosa non avrebbe funzionato. I meccanismi di sempre, gli accordi nella
gestione dell’ordine pubblico, normalmente servono per evitare che le
situazioni degenerino in modo incontrollato e, soprattutto, per scongiurare
infiltrazioni eversive nei cortei che ne destabilizzano il regolare
svolgimento. Agnoletto pareva più teso rispetto a quando lo avevamo
incontrato le volte precedenti. Indubbiamente, sentiva la responsabilità
dell’organizzazione. «Non succederà nulla, ne sono sicuro» disse appena
uscimmo dalla scuola Diaz, dove ci eravamo recati per conoscere i
responsabili dell’organizzazione e per farci riconoscere. Sembrava volesse
tranquillizzare più sé stesso che gli altri.
Tutto sommato quando si trattava di gestire una manifestazione di grandi
dimensioni, sotto l’aspetto dell’ordine pubblico, la preoccupazione era
sempre alta. Ma quella che si sarebbe svolta durante i lavori del G8 aveva
già assunto dimensioni insolite, oltre misura. Così, mentre Luca Casarini, il
carismatico leader dei Centri sociali del Nordest, la cui sede naturale era il
Rivolta (ex fabbrica di biscotti occupata dal 1995 fino al 1999, quando la
proprietà venne acquistata dal Comune di Venezia), si scontrava quasi ogni
giorno con le forze politiche che lo accusavano mediaticamente di essere un
guerrafondaio e di cercare a tutti i costi la violenza, noi ci apprestavamo a
fare in modo che venissero rispettati i diritti di tutti, anche i suoi e quelli
delle Tute bianche. Il motivo per cui serviva una nostra pattuglia consisteva
nel fatto che la massima attenzione mediatica e dello Stato era concentrata
proprio sulla leadership del Centro sociale Rivolta e sul suo capo, Casarini.
Era un leader politico – oggi, per certi aspetti, lo è ancora di più –, non c’era
dubbio alcuno, e in quanto tale era cosa ovvia che il mondo politico in
genere avesse lo sguardo puntato su di lui. Chi meglio di noi lo conosceva?
Lo vidi poco a Venezia negli ultimi giorni prima del G8. Una volta,
passando davanti al Rivolta, mi fermai perché era nel piazzale di fronte
all’ingresso. Andammo a prendere un caffè. C’erano anche Davide
Mozzato, detto «Momo», Franco Pagnussatto, soprannominato il «nonno»
per via del fatto che era il più anziano, e qualche altro che non ricordo. A
ogni modo, tutte persone di fiducia di Luca. Fu dopo l’ultimo viaggio di
ricognizione. Si cominciava a sentire la pressione politica che non dava
tregua al movimento, come se ogni pericolo dipendesse dal dissenso,
qualunque esso fosse e in qualsiasi modo fosse stato organizzato.
Il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e si stava apprestando a
organizzare la più grande celebrazione del nulla, il summit dei potenti, utile
solo a offuscare le reali intenzioni del nuovo assetto economico
internazionale. Stava per mostrare al mondo intero che avrebbe dato una
sonora bastonata alla sinistra italiana e a tutti i dissidenti, a ogni forma di
contestazione. Non c’era occasione migliore per accreditarsi al cospetto
delle fortezze economiche e politiche del momento, soprattutto agli occhi
dell’amico George Bush. L’unica a non capire che cosa stesse accadendo fu
forse proprio la maggioranza dei rappresentanti della cosiddetta sinistra.
Io avevo con me una borsa con qualche ricambio, certo che avrei
dormito poco in quei giorni. Avevamo trovato alloggio in un hotel a Nervi.
Appena arrivati depositammo i nostri bagagli e andammo subito in città.
Era completamente diversa dall’ultima volta, come se nel frattempo fosse
successo qualcosa che avesse diffuso improvvisamente il terrore. I negozi,
le vetrate dei concessionari, le sedi delle attività, gli ingressi delle
abitazioni, tutto era stato protetto da pannelli di legno e ferro. La città si era
blindata. Proprio così, i cittadini avevano provveduto a difendersi, quasi che
non avessero avuto sufficiente fiducia nello Stato. Oppure era come se i
rappresentanti delle istituzioni già temessero per i propri eventuali sensi di
colpa.
L’aspetto più inquietante erano i container e le barriere di metallo che
impedivano l’accesso alla cosiddetta «zona rossa», all’interno della quale,
di lì a qualche giorno, si sarebbe svolto il summit. Con il mio compagno di
viaggio iniziammo a perlustrare tutti i percorsi lungo i quali si sarebbero
snodate le manifestazioni. In corso Italia erano già stati predisposti i presidi
per la vigilanza. La zona Fiera era stata occupata dalle forze dell’ordine.
C’erano la mensa, il parcheggio per i mezzi e un’area di sicurezza, dove
erano state dislocate anche le ambulanze.
Mi guardavo intorno, forse la mia paura cominciò a svilupparsi quel
giorno. Certo, era necessario e doveroso proteggere i partecipanti ai lavori.
Chiunque ha il diritto, oltre che il dovere, di svolgere le proprie funzioni.
Ma nelle settimane precedenti i giornali avevano iniziato a sovrapporre il
terrorismo internazionale alle manifestazioni. Sembrava che tutto fosse
stato messo dentro un frullatore: i distruttori delle vetrine a Göteborg, i
terroristi al servizio di Osama bin Laden, pronti a lanciare missili sul porto
di Genova o a sbarcare all’aeroporto a mo’ di commandos, i Black Bloc.
Una confusione insensata, frutto della frenesia di rincorrere la notizia,
qualsiasi essa fosse, anziché affrontare la questione con le dovute
distinzioni. Una cosa era l’imprescindibile dispiegamento delle misure di
sicurezza per scongiurare la minaccia terroristica (quella stessa minaccia
che proprio dal successivo 11 settembre avrebbe dimostrato di avere un
potenziale pronto a ricattare qualsiasi governo), un’altra era contrapporsi
con ogni mezzo alla contestazione politica.
Gli otto capi di Stato si apprestavano a discutere gli stessi temi che negli
ultimi anni venivano ripetuti come mantra nei convegni dedicati: il debito
dei paesi poveri, il digital divide, la lotta all’Aids e (guarda caso, diciamo
oggi con il senno di poi) alle epidemie, la cui letalità era già elevata. La
partita della globalizzazione era troppo importante per lasciarla nelle mani
dei critici e degli intellettuali. Ma c’era ancora il tempo per prendere
un’altra strada: da più parti era stato chiesto che paesi e continenti delle aree
più povere del pianeta, che erano stati esclusi dal vertice, venissero
comunque coinvolti attraverso un programma realizzato dalla rete delle
associazioni. Ma del Social Forum si accorsero tutti troppo tardi. Negli anni
seguenti abbiamo avuto la prova che i violenti facevano parte di una
destabilizzazione programmata, o almeno tollerata. Sta di fatto che la
mistificazione portò a indebolire il movimento e di colpo la violenza venne
equiparata al dissenso.
Qualche anno dopo incontrai Luca Casarini fuori dal tribunale
monocratico di Venezia. Nulla di grave, le solite violazioni previste
dall’articolo 18 del Tulps. «È troppo presto per parlarne, bisogna aspettare
qualche anno.» Francamente ritenevo ci fosse già molto da dire. Per me fu
tutto chiaro appena arrivai a Genova, quel 16 luglio 2001. Raccolsi
comunque il suo invito e continuai a mettere in ordine le idee. Ora di tempo
ne è passato a sufficienza e credo che anche Luca lo pensi. Perciò ritengo
sia giunto il momento di raccontare tutto quello che videro i miei occhi.

La marcia dei migranti

Globalizzazione, neoliberismo sfrenato, riscaldamento globale,


disuguaglianze sociali sempre più nette, politiche migratorie sbagliate: letti
a vent’anni di distanza, i motivi che portarono in piazza il Social Forum
erano gli stessi che ci inquietano oggi. Alle sette del mattino del 19 luglio la
città era già blindata, tutti gli accessi alla zona rossa erano stati chiusi.
Sembrava che chiunque si stesse preparando a qualcosa di anormale. Per
tutta la mattina perlustrammo il centro a piedi. Si trattava di un compito
istituzionale, ma eravamo anche attratti da quella sorta di assurda pace
prima della tempesta.
Il governo di centrodestra, oltre a non tollerare il dissenso, non
sopportava l’esistenza dei Centri sociali. Se avesse avuto la possibilità di
cancellarli con la bacchetta magica, l’avrebbe fatto in un batter d’occhio.
Quindi, era prevedibile uno scontro. Riflettevo sulle notizie che trapelavano
riguardo le cifre faraoniche profuse per ospitare il grande evento, a partire
da quelle per le delegazioni (solo gli americani erano arrivati in seicento).
Già due anni prima, a Seattle, attorno alla riunione dell’Organizzazione
mondiale del commercio (Wto), si poteva ampiamente percepire quali
sarebbero stati gli sviluppi delle contestazioni. Lo capivamo noi, che
eravamo considerati gli esecutori dei governi, eppure non riuscivamo a
capacitarci del perché non iniziasse una vera e propria riflessione
organizzata e strutturata da parte di chi aveva il dovere di difendere lo Stato.
Ma si sa come funziona, era chiarissimo già allora: carriere e promozioni
dipendono in larga parte dall’obbedienza.

Ore 12.30, in zona Fiera. Il personale infermieristico stava allestendo le


ambulanze disposte sul piazzale, i colleghi si preparavano al preavvisato
corteo internazionale che di lì a qualche ora sarebbe partito da piazza
Carignano snodandosi lungo il centro della città fino a raggiungere piazzale
Kennedy. Il sole era cocente e io guardavo il cielo terso nella speranza che
rimanesse tale almeno fino al giorno dopo.
Le transenne erano già state fissate a terra, la disposizione del personale
di guardia era stata pianificata da qualche giorno. Non c’era traccia dei
manifestanti. Evidentemente stavano ancora dormendo. La sera prima
Manu Chao aveva trionfato con il suo concerto davanti a circa ventimila
persone. Proprio lì, tra piazzale Kennedy e piazza Cavalieri di Vittorio
Veneto.
Ero andato nella sala stampa del Press Center della scuola Diaz, dove i
Gruppi di affinità (piccoli nuclei di attivisti fondamentalmente di ideologia
anarchica, organizzati con modalità non gerarchiche, che usano il metodo
del consenso come processo decisionale, nati in tutta Italia per l’azione
diretta nonviolenta) avevano incontrato la stampa per la presentazione del
percorso formativo dei metodi consensuali e delle azioni dirette
programmate per la giornata del 20 luglio. Poco dopo i portavoce del Genoa
Social Forum illustrarono nei particolari la composizione, il percorso e le
modalità del grande corteo internazionale del 21 luglio.
Ci fermammo a pranzo in uno dei locali convenzionati con il ministero
dell’Interno. Erano le 13.30. Più che per calmare l’appetito era
un’occasione per stare insieme a colleghi nuovi, provenienti dalle questure
di tutta Italia.
Chiunque cercava di non entrare troppo nei dettagli. Avevo già
incrociato un gruppo di attivisti delle Tute bianche, un paio facevano parte
del Rivolta. Mi riconobbero subito. «Ehi, che fai da queste parti? Guarda
che siamo innocui, come sempre, non lo dimenticate.» Mi ero voltato per
rassicurarli: «Non succederà nulla, state tranquilli. Salutate Luca».
La giornata dei migranti, per dirla come aveva annunciato Manu Chao la
sera prima, era attesa come una prova per testare la tenuta dell’ordine
pubblico e la reazione dei No Global. La manifestazione internazionale
partì puntuale alle 17.00. Attraversò la città in modo composto. Alla testa
del corteo c’era Fausto Bertinotti. La partecipazione fu straordinaria.
Camminammo tra le strade parallele al corteo. Si cercavano sotto le auto e
dietro ai cassonetti eventuali mazze o arnesi nascosti e pronti da usare nei
giorni successivi. Musica, slogan, balli. Striscioni colorati. Era questo il
clima, eppure si percepiva che il giorno dopo sarebbe successo l’inevitabile.
Sfilarono gruppi di stranieri, cittadini genovesi, rappresentanti della Rete
Lilliput e anche un piccolo gruppo di anarchici; solo qualche Tuta nera,
presente tra questi ultimi, giunta all’altezza della questura (davanti alla
quale erano schierate le forze dell’ordine) lanciò bottiglie di plastica e
qualche sasso, ma in breve l’azione venne interrotta dagli stessi anarchici
che si frapposero tra quel gruppetto e i poliziotti. Io mi trovavo lì davanti.
Per qualche attimo salì la tensione. Poi tutto rientrò, come se non fosse
quello il momento stabilito per innescare la miccia.
Gli striscioni rendevano bene l’idea delle proteste degli ultimi anni:
«Aprire le frontiere», «Clandestino globale», «G8», «Wto», «Fmi»,
«Ocse», «Birs», «Delirio globale», «Disgusto totale», erano alcune delle
scritte utilizzate dal popolo dei No Global. «È un grande successo» disse il
portavoce del Gsf, Vittorio Agnoletto. «I partecipanti sono tre volte la stima
che avevamo fatto nei giorni scorsi.» Intanto continuava l’arrivo di giovani
no global per partecipare ai tre giorni di appuntamenti e manifestazioni
contro il G8. «C’è qualche problema per chi arriva dall’estero» sosteneva
Agnoletto, «perché stanno chiudendo le frontiere.»
C’era ancora tempo per dare un’occhiata e ascoltare le voci dei
manifestanti. Una signora con la bandiera della Cgil mi disse, quasi con il
timore di farsi sentire dagli altri: «La conosco, so chi è, noi siamo arrivati
questa mattina da Venezia. Mi raccomando fate in modo che non succeda
nulla, siamo qui, ma abbiamo paura». La tranquillizzai, le dissi che
manifestare è un diritto. Da mesi si usavano termini quali violenza,
disordini, attacchi alla democrazia, repressione, divieti, zone rosse,
container, che, associati ai ritrovamenti di ordigni in città, avevano generato
un allarme per certi aspetti esasperato. Quella signora era lì, credeva nella
protesta e nella possibilità di un mondo migliore, ma aveva paura. E come
lei molte altre persone. Osservavo ogni movimento, i sorrisi e le
manifestazioni di affetto: donne, uomini, ragazzi e bambini. Sì, avevano
paura, ma lo stesso timore era impresso nei volti dei giovani poliziotti dei
reparti mobili. Il corteo sfilava lasciando dietro di sé il silenzio. In città
circolavano pochissime autovetture e le rare persone in giro camminavano
svelte parlando tra loro sottovoce.
Sarebbe stato questo il carattere delle manifestazioni contro la
globalizzazione che si dovevano svolgere nei giorni successivi, ma fu
chiaro che la scelta di lasciar fluire il corteo fosse solo una convenienza,
perché il lato peggiore sarebbe emerso il giorno dopo. Ovvero, la reale
intenzione di fermare quel movimento. Perciò, più avanti affronteremo
anche un’altra questione: il motivo per cui nessun uomo di Stato – e per
uomini di Stato intendo i presidenti del Consiglio dei ministri che avevano
preceduto l’appena nato governo Berlusconi – si mise davanti al corteo
delle Tute bianche per evitare che venisse fermato. Non immaginava
nessuno che sarebbe andata così? Oppure vi fu una precipua volontà di
abbandonare quel corteo a un destino già scritto?

Via la zona gialla

Con alcuni dei presenti ci conoscevamo personalmente. Salutammo Fausto


Bertinotti, gli stringemmo la mano: «Come va? Mi raccomando, confidiamo
in voi». Tra noi colleghi la sera del 19 luglio provavamo a sdrammatizzare,
visto anche l’esito pacifico del corteo. Domani sarà lo stesso, pensavamo.
Si sperava davvero che il giorno dopo non accadesse nulla e che la marcia
delle Tute bianche arrivasse a destinazione. Le strade di Genova erano
deserte. Gli unici rumori arrivavano da piazza delle Americhe, dove stavano
finendo di posizionare i container. Durante le manovre, quando le gru li
appoggiavano a terra, risuonavano creando un’eco cupa. Un rumore che
contrastava con la volontà di allontanare le cattive premonizioni.
Passammo davanti al Carlini, dove le Tute bianche stavano già
dormendo. A bordo dell’Alfa 155 tornammo a Nervi. Prima di mettermi a
letto rilessi un articolo del «Corriere della Sera», una sorta di editoriale
firmato da Giancarlo Galan, allora presidente della Regione Veneto.
Lettera alla Tuta bianca

Caro Casarini, vorrei darle qualche consiglio


di Giancarlo Galan

In questi ultimi giorni ho ascoltato e letto molte opinioni illustri sulla dannata questione
organizzativa del prossimo Global Forum di Genova e sono rimasto a dir poco sconcertato:
si è detto tutto e il contrario di tutto. Dichiarazioni di guerra da un lato, posizioni pacifiste
dall’altro, richieste di finanziamenti per protestare, allarmi di ogni genere dagli 007 degli
stati invitati. Fino a qui, però, niente di particolare, perché in questo paese tutto si è sempre
svolto così. Le grandi contestazioni, pur essendo state legittime nei contenuti, sono
purtroppo passate alla storia per aver prodotto quasi esclusivamente immagini violente, che
hanno oscurato i reali motivi politici, sociali e culturali dai quali invece sono state
alimentate.
Non voglio provocare ulteriori polemiche inutili, ma il mio ruolo istituzionale di presidente
di una Regione diventata ormai un importante contenitore economico e politico, mi obbliga
a una riflessione: tutto quello che ruota attorno al G8 è veramente reale o si tratta di
informazione manipolata? Quanto il sommerso supera ciò che di evidente ci viene
illustrato? L’enfatizzazione del cosiddetto popolo di Seattle quanto è positiva, se per molti
aderenti è solo un pretesto per dare sfogo a repressioni che nulla hanno a che vedere con le
reali intenzioni di chi pacificamente intende opporsi al nuovo sistema economico? Tra loro
vi sono persone che per onestà intellettuale dovrebbero rispondere serenamente a tali
quesiti. Persone che si lanciano alla conquista del consenso attraverso plateali dichiarazioni
di guerra, e che in un paese più attento a certi particolari, sarebbero già state perseguite
penalmente (non perseguitate!). Penso a Luca Casarini, padovano come me, leader dei
Centri sociali del Nordest.
Non è affatto vero che la polizia impedisce ai contestatori più radicali, come lui, di
manifestare e che per questo debba essere contrastata come fosse il nemico assoluto. Chi lo
pensa si sbaglia e ne è consapevole.
Chi non ha il legittimo sospetto che i potenti della new economy siano poco partecipi dello
sfruttamento o del fallimento qualitativo industriale, che siano più interessati a creare
apparenti condizioni di falso benessere, a squilibrare i più deboli per renderli innocui,
favorendo così una netta e visibile distinzione sociale? Ecco perché proprio coloro che,
come Casarini, si ritengono a torto unici depositari di tali pensieri, dovrebbero riflettere su
quanto le esternazioni hollywoodiane finiranno con il fare comodo proprio a quelli che
siederanno al tavolo di Genova. Mentre nel vertice si discuterà e si approveranno decisioni
strategiche nella più totale tranquillità, la stampa mondiale commenterà le imprese degli
autorevoli condottieri che guidano le truppe verso l’illusa conquista del Palazzo Ducale. A
causa del clamore, voluto e suscitato, noi forse non sapremo mai cosa realmente succederà
in quella riunione.
Vorrei mandare un messaggio al mio concittadino Luca Casarini e agli altri leader della
protesta. Pensateci bene! Vale più una pacifica protesta che una scarica di randellate. Sarete
in tanti e questa è già una vittoria. Non tutti, in quei momenti di tensione, saranno
lucidamente in grado di fermarsi nei limiti consentiti e purtroppo, a subirne le conseguenze
saranno sempre loro, i più deboli e la gente comune, quelli a cui proprio voi dite di voler
dare il messaggio di garanzia individuale rispetto al «villaggio globale» contro il quale vi
opponete.

Tra Galan e Luca Casarini non vi era certo armonia, ma nelle parole dell’ex
presidente si avvertiva una sorta di preoccupazione, come se avesse già
intuito un possibile scenario. Quelle parole sorpresero tutti, specie a sinistra.
Alcuni passaggi avrebbero avuto bisogno di essere approfonditi. Tutto
sommato, il fatto che il presidente della regione in cui i Centri sociali del
Nordest avevano la loro sede fosse intervenuto diede l’idea che avesse
riconosciuto la legittimità della loro protesta. Giancarlo Galan era un
liberale, avevo avuto modo di conoscerlo personalmente ancora prima che
venisse eletto presidente del Veneto. Del resto, dopo l’era democristiana,
dopo «Tangentopoli», venuta alla luce con le inchieste della magistratura
milanese, l’area borghese aveva la necessità di trovare una nuova
rappresentanza anche nel Veneto, da sempre considerato uno dei principali
motori dell’economia del paese. Ma questa potrebbe essere un’analisi
politica proprio sulla vicenda «Mani pulite». Un’analisi che prescinda
dall’aspetto giudiziario, per comprendere più a fondo cosa accadde al paese
esattamente dopo il 1994, con l’avvento del «berlusconismo», e il motivo
per cui buona parte dei politici di prima si riciclarono all’interno di quel
«magico» contenitore che prese il nome di Forza Italia. Magico perché
permise una promiscuità senza precedenti, che sull’onda di entusiasmi
accesi dalle note di inni accattivanti portò la disgregazione sociale a livelli
mai visti prima. Una formula liberista che aumentò in modo esponenziale le
disuguaglianze. Solo una grande forza di aggregazione avrebbe potuto
fermare la sua espansione anche in ambito globale. E, paradossalmente,
l’impressione fu che proprio il presidente Galan lo avesse capito. Quella
forza trasversale era il movimento nato a Seattle, che stava attraversando il
mondo. Aveva iniziato a mettere insieme i cittadini globali, non c’erano
partiti politici o altri poteri più o meno noti. Erano donne, uomini, ragazzi.
Persone che avevano deciso di cambiare il mondo e renderlo vivibile senza
distruggerlo. Quindi, occorreva fermare questa intenzione, non ci sono più
dubbi, anche perché con il senno di poi, a distanza di vent’anni, le conferme
sono sotto gli occhi di tutti.

Nelle pagine che precedevano l’intervento del presidente della Regione


Veneto, il «Corriere» aveva pubblicato la notizia che era stata tolta la zona
gialla, ovvero il territorio «cuscinetto» tra lo spazio dove la gente avrebbe
potuto manifestare e la zona rossa. Voleva essere un segnale di distensione,
deciso dopo l’incontro tra Agnoletto e Gianni De Gennaro, allora capo della
polizia. Avevo molta stima di lui. La sua carriera aveva preso il volo
quando Giovanni Falcone lo aveva portato con sé in America. Aveva
conosciuto personalmente Tommaso Buscetta, grazie al quale proprio
Falcone riuscì a dare un volto a Cosa nostra. Non ero il solo ad aver subìto
il fascino di quella vicenda.

De Gennaro ebbi modo di incontrarlo nel dicembre del 2002 in occasione


del funerale di Arnaldo La Barbera. Su quest’ultimo dobbiamo soffermarci.
Capo della Squadra mobile di Venezia fino al 1988, era poi stato nominato
dirigente della Squadra mobile di Palermo. Sarebbe venuto fuori che era un
collaboratore del Sisde, con il nome in codice Rutilius. Nel 2001 era stato
nominato prefetto dal Consiglio dei ministri, mentre il capo della polizia era
appunto De Gennaro. Fu proprio La Barbera, che in quegli anni comandava
la Direzione centrale della polizia di prevenzione (Dccp, ex Ucigos), a
guidare l’assalto alla scuola Diaz insieme al questore di Genova Francesco
Colucci, al capo del servizio Centrale Operativo della polizia Francesco
Gratteri e al dirigente Ucigos Giovanni Luperi. Ma su questo punto
torneremo più avanti, anche perché vanno fatte alcune precisazioni. Per
esempio, La Barbera aveva sempre avuto incarichi operativi nell’ambito
dell’attività contro la criminalità organizzata e la lotta alla mafia. Quindi,
essendo da poco approdato a capo della direzione che si occupa
prevalentemente dell’attività di prevenzione, è probabile che ritenesse
opportuno mettere in atto le modalità operative che di solito si applicano
contro i peggiori e più spregiudicati killer criminali e mafiosi. In una
perquisizione in certi ambienti non è che si va tanto per il sottile,
giustamente. Nell’ordine pubblico ci sarebbero invece alcune cose da
sottolineare, ma come sempre a semplificare il concetto ci pensano i vecchi
saggi: «Quando la Digos funziona, non ci sono problemi di ordine
pubblico». Che significa? Facciamo un esempio: qualora un personaggio
politico, un ministro o qualsiasi alta carica istituzionale prendesse una
sberla da un contestatore, di norma questore e prefetto – oltre al dirigente
della Digos – per dirla nel gergo comune «saltano». A meno che non
seguano dichiarazioni ampollose e piene di incoraggiamenti ai responsabili
dell’ordine pubblico. Cosa c’entra con la Diaz? C’entra, perché lì dentro
non c’erano criminali mafiosi o spregiudicati killer che aspettavano
barricati, armati fino ai denti, consapevoli di un’imminente incursione. No,
c’erano studenti, giovani, pensionati, donne, uomini, cittadini inermi. Ospiti
di una struttura che era stata organizzata per accogliere proprio coloro i
quali avrebbero partecipato alle manifestazioni, a una protesta civile.
Quindi, un contesto politico, di discussione, di riflessione, soprattutto di
proposta. Ma si sa, quando si fa di tutta l’erba un fascio, si rischia di
offuscare la grande professionalità di molte persone. Come ripeto, ne
parleremo più avanti.
Un altro motivo di notorietà La Barbera l’aveva conquistato sempre nel
2001, ponendosi in aspro e aperto contrasto con il prefetto Ansoino
Andreassi, vicedirettore generale della pubblica sicurezza. Andreassi
(defunto nel gennaio 2021) sarebbe stata la persona giusta al posto giusto
per guidare la polizia di prevenzione (la mamma delle Digos), soprattutto
durante il G8.

Black Bloc

Si sapeva già molto di loro: un gruppo di militanti impegnati in azioni di


protesta violenta che già dalla fine del 1998 avevano cominciato a farsi
notare per poi diventare protagonisti nelle proteste antiglobal. Si trattava
principalmente di anarchici, le cui azioni variavano a seconda dello scopo,
nonostante l’obiettivo principale fosse quello di fronteggiare le forze
dell’ordine e scontrarsi con esse. Indossavano prevalentemente indumenti
neri, occhiali da sole, maschere da sci, caschi da motociclista con protezioni
o altri accessori che potessero servire a nascondere e proteggere il viso.
Erano noti anche i modi in cui si organizzavano e coordinavano per dare
seguito alle loro azioni. Le informazioni erano molto chiare.
Specialmente in Germania e negli Stati Uniti, l’aggregazione dei
militanti Black Bloc, in italiano detti anche «Blocchi neri», avveniva con
modalità articolate e omogenee; in particolare, l’abbigliamento
riconoscibile facilitava il formarsi di gruppi anche molto nutriti, che
sapevano già di condividere le stesse posizioni politiche. Una delle loro
tattiche era quella di formare diversi nuclei. La prima azione comune era
marciare in gruppo e, successivamente, cercare subito uno scontro con le
forze dell’ordine. Attiravano l’attenzione tramite l’uso sistematico del
vandalismo e la distruzione dei simboli del capitalismo; nei cortei
deviavano dai percorsi imposti dalle autorità e ingannavano circa i propri
movimenti; tentavano di liberare le persone trattenute in stato di fermo.
Occorreva prestare la massima attenzione all’abilità e velocità di questi
gruppi nell’infiltrarsi nelle manifestazioni di movimenti più ampi, per
nascondersi prima e dopo aver eseguito le proprie azioni. Era questo il
principale timore.
C’erano informazioni riservate secondo cui negli ultimi giorni in città
erano già arrivati i Blocchi neri, ma individuarli era difficile. Si travestivano
rapidamente, subito prima di iniziare le azioni distruttive. E altrettanto
velocemente tornavano a cambiarsi gli abiti per rientrare all’interno dei
cortei organizzati e preavvisati. Il più delle volte non se ne accorgeva
nessuno, perché queste operazioni non le facevano in gruppo. I loro
obiettivi includevano palazzi istituzionali, banche, negozi in franchising di
società multinazionali, apparati di videosorveglianza e stazioni di benzina.
La distruzione della proprietà privata aveva per loro una valenza simbolica.
Incubo n. 2

Qualcosa mi colpisce alla spalla.


Una bottiglia vuota. Cade a terra e rimbalza sulla strada.
Alzo lo sguardo, due ragazzi col volto coperto.
Uno dei due sta per lanciare una pietra, ma nell’attimo esatto in cui
realizzo che potrebbe davvero farmi del male, lui e quell’altro girano i
tacchi e scappano.
Devo nascondere il tesserino.
Mi volto.
In un secondo capisco perché quei due sono scappati.
Un reparto della celere corre in formazione compatta; tiro di nuovo
fuori il tesserino, ma non faccio in tempo.
Tre, quattro manganelli si abbattono su di me. Per fortuna ho la
prontezza di proteggermi la testa.
Se ne vanno.
Resto frastornato qualche secondo.
Devo andarmene di qui.
M’incammino guardandomi intorno.
Non sono mai stato in guerra, ma quello che vedo mi ricorda immagini
che non appartengono a questo paese.
La strada è sgombra. Ai lati, sui marciapiedi, persone rannicchiate con
le mani sopra il capo, volti tumefatti, sguardi attoniti.
Sembra sia passato un uragano.
Un cassonetto in fiamme al centro della carreggiata vomita fumo denso.
Alzo lo sguardo. Le finestre dei palazzi sono chiuse, ma dietro le imposte
s’indovinano gli occhi terrorizzati delle persone barricate da chissà quanto
tempo.
L’adrenalina mi scorre in corpo. Sento la schiena pulsare lì dove ho
ricevuto le bastonate, ma non provo dolore. La gola è in fiamme, il naso e
gli occhi pure.
Uno strato di sudore, fumo e sangue mi ricopre la fronte, dove una
ciocca di capelli resta appiccicata.
Adesso riesco a orientarmi.
La guerriglia non è terminata, si è solamente spostata di qualche
isolato. Riesco a distinguerne le voci.
Mentre cammino, una macchina esplode in una traversa alla mia
sinistra. In condizioni normali sarei morto di paura. Ora quasi non ci
faccio caso. Sarà che il fischio nelle orecchie mi impedisce di pensare
lucidamente, sarà che in certe situazioni a guidarci arriva una specie di
pilota automatico.
Devo andare a vedere cosa succede. È questo il mio compito: osservare,
registrare, capire. Già, capire.
In quel momento qualcuno mi afferra da dietro.
Mi volto. È il mio collega.
«Sei qui!» il suo tono di voce tradisce l’emozione nell’aver ritrovato un
volto amico.
«Seguimi.»
«Dove vuoi andare?»
«Dove c’è bisogno di noi.»
Si ferma, mi trattiene per un braccio:
«Io lì non ci torno. Citofoniamo a una di queste case, chiediamo di farci
salire.»
«Guardami. Guardati, credi che qualcuno ci aprirebbe?»
Senza attendere la sua replica, m’incammino.
Non mi volto indietro, ma sento che mi sta seguendo.
Camminiamo per mezzo chilometro in mezzo alla devastazione.
Arrivati in piazza, di fronte ai nostri occhi una scena che non
dimenticherò mai.
Per la seconda volta nel giro di un’ora, mi chiedo come si sia potuti
arrivare a tutto questo. Mi chiedo dove siano le istituzioni, dove sia lo
Stato.
Ciò che vedo travalica il concetto di anarchia.
Ciò che vedo – penso – è ciò che forse ci meritiamo.
L’inizio (e la fine) di tutto

20 luglio 2001

La mattina alle 7.30 eravamo già davanti alla questura. Il sole splendeva e il
cielo era terso. Il vento caldo veniva da sudest. Da dove soffi è un
particolare da tenere sempre presente in questo genere di situazioni:
l’eventuale lancio di lacrimogeni può rivelarsi un boomerang.
I reparti erano già stati schierati, anche in piazza delle Americhe,
completamente blindata dai container. Se la sera prima non avessi visto con
i miei occhi le gru che li posizionavano, avrei potuto pensare che quei
monoliti fossero emersi nottetempo dal sottosuolo. Non c’erano ricordi di
simili scenari, nemmeno negli anni delle contestazioni più aspre si era
arrivati a blindare in quel modo un centro urbano.
In auto percorremmo corso Gastaldi e poi corso Europa. Ci fermammo
all’angolo di via Tagliamento, a pochi metri dall’ingresso dello stadio
Carlini. Casarini ci raggiunse per verificare che fossimo arrivati. Eravamo
in cinque.
Verso le nove i ragazzi cominciarono a uscire dallo stadio
predisponendosi lungo il corso. Poco prima delle dieci iniziammo a vedere
il fumo che saliva nel cielo azzurro di Genova e da quel momento la
preoccupazione maggiore fu salvaguardare i manifestanti. Cioè, il corteo
delle Tute bianche che si stava formando. L’elicottero e le pattuglie in moto
iniziavano a fornire i primi dettagli di una città già preda della devastazione.
L’accordo prevedeva che solo noi potessimo stare all’interno del corteo.
Nessuna divisa. Questo, in realtà, era il principale motivo di tensione, anche
se vi era la consapevolezza che sarebbe stato interesse soprattutto dei
manifestanti mostrare nei fatti la differenza tra dissenso strutturato e
pacifico da un lato, e violenza dall’altro.
Le notizie che giungevano via radio informavano che corso Buenos
Aires era stato chiuso e che erano stati predisposti i servizi di sicurezza agli
incroci con via Giuseppe Casaregis e via Aurelia. Piazzale Tommaseo era
già stato teatro di alcune azioni da parte dei Black Bloc; i lavori del vertice
non erano ancora cominciati.
La situazione stava iniziando a sfuggirci di mano. Eravamo ancora fuori
dal Carlini, in attesa che il corteo si formasse, e dall’alto sembrava che
Genova stesse andando a fuoco. Nella mattinata erano arrivati due falsi
allarmi bomba a Torino, dalla cui stazione di Porta Nuova stavano partendo
circa duecento persone a bordo di alcune carrozze aggiunte al treno diretto a
Novi Ligure. Da lì, in pullman, si sarebbero mosse alla volta di Genova.
In piazza Paolo da Novi, una delle più vicine alla zona rossa, si stavano
concentrando migliaia di persone: lavoratori Cobas, ragazzi dei Centri
sociali e del Network per i diritti globali. Attorno alla piazza, però, erano
stati segnalati gruppi estranei al movimento. I Black Bloc avevano già
assaltato le sedi di alcuni istituti bancari.

Guerriglia

Il momento in cui prendemmo atto di quanto stava accadendo fu quando


decidemmo che avremmo dovuto mettere al riparo le autovetture di
servizio. Ci muovemmo verso corso Italia pensando di arrivare fino in zona
Fiera dove, in qualche modo, avremmo potuto trovare un passaggio che ci
riportasse verso lo stadio Carlini. Corso Italia era deserto, solo un posto di
controllo dei vigili urbani.
Arrivammo a ridosso di piazzale Kennedy, davanti a un concessionario
Mercedes. Inchiodai e subito feci cenno al mio collega di fare inversione;
dovevamo fare presto. Erano lì, davanti a noi, a un centinaio di metri, vestiti
di nero, incappucciati e con le bandiere nere. Si girarono tutti a guardare.
Controllavano il piazzale. Facevano paura, tutti insieme. Non erano in
nessun modo prevedibili e usavano la violenza per distruggere. Non
chiedevano nulla in cambio. Dovevano devastare a prescindere. Tornammo
subito indietro e avvertimmo i vigili urbani presenti in corso Italia. Ci
infilammo nelle vie che portavano verso corso Europa, fino a raggiungere il
commissariato di polizia Sturla, in via dei Mille.
«Siamo colleghi della Digos.»
«Ci dispiace, non possiamo aprire a nessuno.»
Mostrammo le tessere e i distintivi di riconoscimento. Arrivò una
giovane poliziotta e, dopo averci chiesto il motivo per cui ci trovavamo lì,
finalmente ci aprì. Quel che stava accadendo, e la percezione del peggio,
metteva addosso a chiunque una paura pazzesca. Tirammo un sospiro di
sollievo. Rimaneva il fatto che dovevamo tornare verso il corteo delle Tute
bianche. Chiedemmo se ci fosse una volante in uscita, ma ci risposero che,
per disposizioni ricevute, le volanti erano rientrate tutte. Era scattata
l’autotutela.
A piedi sarebbe stata un’impresa, soprattutto dopo l’incontro alle porte
di piazzale Kennedy. Aspettammo un po’, cercando di trovare il coraggio di
uscire da soli dal commissariato per raggiungere il corteo. Un paio di
colleghi ci informarono che erano stati autorizzati per altri motivi a uscire
con un’autovettura d’istituto. Salimmo a bordo distendendoci sul sedile
posteriore. Ci fecero scendere nelle vicinanze di corso Europa, verso sud,
verso il mare.
Avevo uno zaino al cui interno c’era la maschera antigas e una sorta di
fazzoletto intorno al collo. Con il collega iniziammo a dirigerci verso corso
Europa. Incontrammo un gruppo di Black Bloc, saranno stati una decina, ci
salutarono, uno di loro alzò al cielo una mazza. Ricambiammo salutando
con il pugno alzato. L’unica differenza, in quel momento, era lo stato
d’animo. Noi avevamo paura, loro no. Se ci avessero riconosciuti saremmo
stati di certo colpiti. Ci fermammo a osservarli: non stavano compiendo atti
vandalici; davano l’idea di essere interessati al corteo. Erano
completamente bardati.
Parlavano in inglese e in tedesco. Non conosco l’arabo, ma un paio
comunicavano tra loro in una lingua che non era né l’inglese, né il tedesco;
erano sicuramente mediorientali. Passavano da un lato all’altro della strada
con una velocità incredibile. Da come si muovevano non sembrava ci fosse
qualcuno che desse loro degli ordini. Nonostante ognuno agisse per conto
proprio, l’impressione era che fossero perfettamente organizzati. Nel
gruppo c’era anche una donna, l’avevo distinta dalla voce.
Quando arrivammo a ridosso di corso Europa il corteo aveva già iniziato
a sfilare. Dalla città si alzavano colonne di fumo e nell’aria, pur essendo
ancora distanti dal centro, si cominciava a sentire l’odore acre dei
lacrimogeni. Il dubbio aveva lasciato spazio alla certezza: era iniziata una
sorta di guerriglia urbana in cui le regole erano saltate. Di lì a poco sarebbe
sfumata anche l’ultima, quella che aveva permesso di raggiungere una sorta
di accordo.

Nel corteo

Raccontammo agli altri colleghi cosa avevamo visto e ci inserimmo nel


corteo. Tutti sapevano chi fossimo, non c’erano pericoli. Qualcuno ci
chiedeva di vigilare per evitare infiltrazioni di anarchici.
Le Tute bianche stavano manifestando per proporre un’alternativa alla
globalizzazione. Era evidente a tutti che quel G8 sarebbe stato solo una
scatola vuota, che gli intenti erano altri e si sarebbero sviluppati a margine
del summit. Le grandi manovre riguardavano le armi, la loro vendita legale
e illegale; occorreva creare delle zone d’ombra nella produzione
manifatturiera per dare ancora più spazio alle grandi ricchezze. E poi c’era
l’euro, che l’anno successivo sarebbe ufficialmente entrato in vigore anche
in Italia.
Avevo l’impressione che nessuno dei manifestanti considerasse che cosa
stava accadendo in città. Forse, pensai, non lo ritengono importante. La
nostra preoccupazione, invece, riguardava proprio il fatto che qualcuno
potesse infiltrarsi per mutare l’aspetto pacifista della manifestazione. Del
resto, in molti non aspettavano altro.
Un gruppetto di manifestanti mi chiese di aggiornarli sulla situazione:
«Bisogna stare attenti agli infiltrati, gli anarchici si faranno vivi, poi sta a
voi decidere». Avrei voluto dire loro altro, ma non potevo permettermi di
suggerire come avrebbero dovuto comportarsi. Le comunicazioni radio
continuavano a ufficializzare gli scontri in corso. L’unica certezza era che
nessuno dei manifestanti del corteo era responsabile di quegli episodi. Era
un dato di fatto. E questo permetteva di continuare a svolgere il nostro
lavoro serenamente. Certo, la paura era una costante.
Mentre percorrevamo corso Europa, a un certo punto, Luca Casarini,
insieme a qualche Tuta bianca, raggiunse un gruppetto di anarchici appena
risalito alla testa del corteo. Pochi minuti e quelli si allontanarono. Nessuno
di noi volle approfondire, non serviva. Gli slogan non lasciavano dubbi
sulla natura della manifestazione, così come le parole di Casarini scandite al
megafono: «Le auto bruciate non sono disobbedienza civile. Coloro che
hanno fatto tutto questo sono degli infami».
Eravamo in corso Gastaldi e stavamo per arrivare in via Aurelia. La
situazione era ormai chiara: via Casaregis, corso Torino e tutte le traverse
erano diventate teatro di scontri tra forze dell’ordine e Black Bloc. Poi
divenne storia che non andò proprio così. Era già iniziata la confusione:
Cobas scambiati per Black Bloc, manifestanti per anarchici, pacifisti per
violenti. Insomma, il casino totale.
In un paio di rapporti investigativi erano stati segnalati dei possibili
disordini. Un rischio rappresentato dal «Blocco nero», dai devastatori in
arrivo da paesi europei come Germania e Francia, che sarebbero stati
accolti da gruppi dei Centri sociali più radicali. Si trattava di un paio di
informative del Sisde di cui il giorno prima venne messa a conoscenza la
Digos di Genova. Sì, proprio così: il giorno prima. In pratica circa trecento,
quattrocento soggetti si sarebbero concentrati in piazza Da Novi verso
mezzogiorno. Non andò esattamente così. I devastatori erano in quella
piazza già da qualche ora prima, forse dalle dieci del mattino, quando il
corteo delle Tute bianche ancora doveva formarsi. E fu così che i Cobas
vennero scambiati per anarchici e furono bastonati. Quindi, le informazioni
di fantascienza – su cui ci concentreremo più avanti – arrivarono in tempo
utile per spargere allarme e terrore, mentre quelle utili, se così si possono
definire, arrivarono il giorno prima. Neanche il tempo di predisporre i
servizi adeguati.
Le comunicazioni indicavano che le cariche si stavano spostando verso
via Invrea e il sottopasso che portava in viale Sardegna. Le agenzie bancarie
erano ormai state tutte devastate. Anche molti negozi. Le protezioni in
alcuni casi furono divelte. La furia era inaudita, ma la cosa importante era
che il corteo era ancora lì, intero e lontano da quelle zone. Qualcosa non
aveva funzionato, la situazione stava sfuggendo di mano, nessuno poteva
più avere certezza di nulla. Eravamo ancora distanti. L’unica nostra fonte
era il collegamento via radio.
A un certo punto il Blocco nero si dileguò. Dopo gli attacchi alle forze
dell’ordine, che erano stati segnalati in corso Torino e all’angolo con via
Casaregis, scomparvero improvvisamente. Alla testa del corteo, oltre a
Luca Casarini, c’erano anche alcuni parlamentari: Luana Zanella, Loredana
De Petris, Gianfranco Bettin e Paolo Cento. Si decise di rallentare, perché
lo scenario andava peggiorando di minuto in minuto.

«Il vostro compito è terminato»

Alla testa del corteo, il gruppo di contatto era numeroso. Era un fiume
colorato, e dal momento che il giorno prima aveva vinto l’azione di protesta
pacifica, non c’era motivo di trasformare la piazza in un luogo del
disordine. Saccheggi e devastazioni erano stati compiuti dai Blocchi neri. Il
muro di scudi alto circa un paio di metri non era una provocazione,
nonostante l’incertezza lasciasse spazio al timore di scontri pesanti. In realtà
gli scudi servivano per ripararsi quando, in piazza delle Americhe, in zona
Brignole, la testuggine si sarebbe trovata di fronte al reparto schierato.
Era già successo in passato, la situazione sarebbe stata sotto controllo.
Non ci sarebbero state cariche, neanche di alleggerimento. Nessuno si
sarebbe fatto male, e poi finalmente il tanto temuto «un metro dentro la
zona rossa». La conferenza stampa oltre il confine proibito. Un muro che
divideva il potere dal mondo reale.
Fu proprio quella mancata sorta di «patto» che determinò la fine
dell’iniziativa pacifica. La fine di quel percorso di solidarietà naturale che
stava attraversando il mondo intero come un’onda, per capovolgere lo
strapotere di chi non aveva nemmeno idea di cosa significasse essere
«umani».
Poco prima che le cose precipitassero definitivamente, avevo avuto una
breve conversazione con un attivista no global. Non lo conoscevo,
nemmeno lui mi conosceva, ma sapeva per quale motivo ero lì. Sapeva chi
ero. Camminando a passo di corteo scambiammo qualche parola su ciò che
stava accadendo. Quel dialogo lo porto ancora con me, perché fece
traballare le mie – poche – certezze rispetto a quanto stava accadendo e
sarebbe accaduto. Lo ricordo così.
«Avete paura che non stiamo ai patti?»
«Temo per la recrudescenza. Basta un gesto, un’informazione
sbagliata…»
«Sbagli l’approccio. Prova a immaginare: se tutto andasse come ieri, la
protesta passerebbe inosservata, non avrebbe la forza mediatica di portare
alla luce la contraddizione del potere. Questa mattina sui giornali sono
riportate le nostre ragioni? No, la notizia-non notizia è che non è successo
nulla, come se i giornali fossero rimasti a bocca asciutta. Se fosse stata
attirata l’attenzione su qualche carica della polizia, sarebbe finito in prima
pagina anche il motivo per cui siamo qui.»
«Quindi avresti auspicato le cariche?»
«Non capisci. Ovviamente no, ma tieni presente che a un certo punto
nemmeno il numero dei partecipanti, per quanto grande, spingerebbe
l’informazione tradizionale a occuparsi delle nostre ragioni.»
«L’importante è che non si faccia male nessuno, non trovi?»
«Sono d’accordo con te, ma non su tutto. Il movimento vive perché è
orizzontale, non verticistico come un’organizzazione militare o politica.
Nessuno può decidere chi può stare dentro.»
«Potrei anche essere d’accordo sul metodo, ma non pagherebbe in
termini di consenso.»
«A noi non interessa il consenso elettorale, non rappresentiamo nessuna
forza politica. Siamo un movimento e vogliamo dare un messaggio forte e
chiaro sul fatto che la cerchia del potere si sta restringendo sempre di più e
diventa difficile anche contestarla.»
«Ma banche devastate e vetrine in frantumi di certo non aiutano. Anzi.
Portano le persone a scegliere tra una rappresentanza apparentemente
moderata e una violenta.»
«L’esclusione è il primo limite, pur essendo d’accordo con te.»
«Allora, quello che sta succedendo in città vorresti dire che fa parte di
un metodo che approvi?»
«Non ho detto questo, ma come facciamo a stabilire che le vetrine rotte
o le banche, come dici tu, devastate, sono un metodo da non considerare?»
«Immagino che la tua sia solo un provocazione.»
«Esatto, vedi? Adesso comprendi che nulla deve essere escluso. In
questo caso posso concordare con te, ma solo su un punto preciso: le
contestazioni tipo anni Settanta erano limitate, nel senso che erano
confinate ideologicamente e territorialmente, pur essendo anche in contrasto
con lo stesso partito che avrebbe dovuto raccogliere le istanze provenienti
dal mondo del lavoro. Oggi sarebbe sbagliato confinare questo movimento
dentro un limite: stabilito da chi? Peraltro, non esiste più nemmeno quella
sinistra che in qualche modo sapeva tenere insieme lotta di classe e
contestazione in un dibattito alternativo. Oggi il movimento deve
abbracciare la prospettiva di unire il mondo, di portarlo dentro una
discussione ampia, che vada oltre gli aspetti religiosi o tradizionali. Forse
non è ancora chiaro il fatto che già oggi, anzi, da ieri, qui a Genova quei
confini ideologico-territoriali sono stati abbattuti. Gli studenti di tutto il
mondo si stanno mobilitando, così come le università, il mondo del lavoro.
Tutto sta entrando dentro un contenitore globale all’interno del quale non si
può escludere nessuno. I giornali non scrivono questo, non la ritengono una
notizia. Il mondo andrà in questa direzione e loro non saranno stati in grado
di interpretare o riconoscere i passaggi chiave delle trasformazioni. Stamani
abbiamo letto che ieri non ci sono stati scontri violenti e che sicuramente
oggi sarebbe stato un giorno diverso. Cercano questo genere di notizie.»
Ci salutammo: «Quando vieni a Padova fatti vivo, anche tra voi ci sono i
destabilizzatori, dovete combatterli…».
Per qualche minuto rimasi a pensare, poi presi nota di tutto quello che
mi aveva detto. Avevo portato con me un taccuino su cui appuntare orari e
circostanze, nell’eventualità in cui avessi avuto la necessità di riportare per
iscritto esattamente ciò che i miei occhi avrebbero visto.
Quel ragazzo non lo vidi più. La sua analisi fu ineccepibile. È
esattamente il quadro che si venne a creare nei successivi vent’anni.

Le finestre dei piani alti erano aperte e qualcuno si affacciava. Le dirette


Rai avevano già trasmesso gli scontri e mostrato le immagini delle
devastazioni. Non c’erano ancora Facebook, Instagram, Twitter.
Tra auto in fiamme e altre che scoppiavano improvvisamente, sembrava
di essere nella Beirut degli anni Ottanta. Decidemmo di andare in
avanscoperta, mentre il corteo si fermò subito dopo l’incrocio tra via
Aurelia e via Montevideo. Allungammo il passo e ci trovammo nel mezzo
di uno scenario impressionante. Via Tolemaide era stata devastata dal
Blocco nero. Ci fermammo anche noi, non potevamo fare altro che
aspettare il corteo. Dovevamo portarlo fino in piazza delle Americhe, a
Brignole. Era il percorso stabilito. I manifestanti avevano ricominciato a
mettersi in marcia lentamente.
A un certo punto si avvicinarono a noi alcuni individui. Dissero che
dovevamo andarcene. Non capivamo chi fossero e tra il caldo, l’aria ormai
intrisa dell’odore acre dei lacrimogeni e le esplosioni continue dei serbatoi
di auto in sosta, i segnali che gli schemi stavano saltando c’erano tutti. Mi
ricordo ancora il tipo che si avvicinò a me: aveva un paio di Ray-Ban e
assomigliava ad Antonello Venditti. Un altro aveva una telecamera digitale
e stava riprendendo la scena. Cercavo di ignorarli, ma erano pressanti:
«Dovete andarvene, il vostro compito è terminato».
Il corteo continuava la marcia. Quegli uomini non potevano essere delle
Tute bianche e non sembravano nemmeno Black Bloc. «Chi siete?» chiesi
al tipo con la telecamera.
La risposta fu perentoria e ci costrinse a fermarci: «Siamo del servizio
d’ordine dei Centri sociali di Roma». Anche l’ultimo arrivato in ufficio
avrebbe stentato a credere a una buffonata del genere. «Ma di cosa parli,
pensi che siamo scemi?» Ci sbarrarono la strada. Impugnavano mazze.
Capii al volo che la situazione era fuori controllo. Il gruppo di contatto con
il corteo era ancora troppo distante. Le linee telefoniche erano saltate,
cadevano in continuazione.
«Andate via, vi conviene.» Non avevamo scelta. Da una parte loro,
dall’altra i Black Bloc, che proprio a pochi metri da noi stavano dando
spettacolo con una marcetta in girotondo all’incrocio tra corso Torino e il
sottopasso che porta in corso Sardegna. Dovevamo solo decidere da chi
prendere le legnate. Il mio collega, stretto dalla paura, mi chiese di
andarcene. Ci voltammo. Il corteo era ancora distante, dovevamo
proteggerlo, ma non eravamo più nelle condizioni di tornare indietro. Fu un
altro schema, un altro tassello che saltò. Ma ne parleremo dopo.
Decidemmo di attraversare il Blocco nero di fronte a noi.
Fortunatamente non indossavamo nulla che permettesse ai devastatori di
riconoscerci. In fila indiana passammo in fretta l’incrocio e poi, a passo
sempre più veloce, raggiungemmo lo schieramento del reparto, già
predisposto in piazza delle Americhe. Il corteo avrebbe dovuto arrivare lì,
in quel punto preciso. Poi, la negoziazione. Casarini sarebbe dovuto entrare
in sicurezza appena dentro la zona rossa e avrebbe tenuto una breve
conferenza stampa.
Invece, non fu quello l’epilogo. Fu l’inizio del disastro.
Chi erano le persone che ci mandarono via? È questa la domanda che da
quel giorno continuo a pormi senza trovare risposta. Una domanda che in
effetti, a quanto sembra, mi trascino nel tempo solo io. Lì per lì non ebbi il
tempo di pensarci troppo. Quando raggiungemmo il reparto già schierato in
piazza delle Americhe ci sembrava di essere stati graziati: eravamo ancora
tutti interi. L’elaborazione di quel momento preciso, in cui quegli individui
ci avvicinarono e ci costrinsero a non tornare più indietro, verso la testa del
corteo, minacciandoci e non lasciandoci il tempo di capire, fu lunga, anche
perché in quella situazione sarebbe stato impossibile chiedere loro i
documenti per identificarli. Di fatto non restava altro che metterci in
sicurezza. Non avevamo scelta e resto convinto che in quel momento non si
potesse fare diversamente: attraversare il Blocco nero fu l’alternativa
indolore, in senso fisico. Chiunque fossero quei personaggi, non ci
avrebbero risparmiato una scarica di colpi. Tanto, in mezzo a quel casino
nessuno l’avrebbe notato. Il Reparto mobile non c’era. Non c’era nessuno
oltre a noi. Credo di ricordare che l’accordo fosse stato proprio questo:
dovevamo esserci solo noi, nessuno in divisa.
Proprio pochi minuti dopo partì la carica dei carabinieri. Una carica che
non sarebbe stata possibile se fossimo rimasti lì, davanti al corteo. Si sapeva
che noi eravamo lì. Se fossimo rimasti alla testa, ne sono certo, nessuno
avrebbe caricato travolgendoci. Il fatto che ci avessero mandati via non era
una casualità. Un motivo doveva esserci. Lo si può anche intuire
facilmente. E tutt’oggi credo sia stato proprio quello il momento decisivo
del disastro. Ovvero, l’inizio di tutto. Se non ci fossimo mossi dalla testa
del corteo, tante cose non sarebbero accadute, ma nessuno avrebbe mai
potuto ipotizzare che sarebbe partita una carica. Non era prevista. Non era
previsto nulla di tutto quello che accadde. Perciò, decidemmo di
allontanarci per metterci in sicurezza. Diversamente, se avessimo avuto
anche il minimo dubbio che la nostra presenza avrebbe scongiurato il
peggio, saremmo rimasti, anche a costo di mettere a rischio la nostra
incolumità.

La carica

In questi vent’anni, ogni volta che mi sono trovato a ragionare sui fatti di
Genova, ho sempre ribadito ai miei interlocutori – rappresentanti della
politica, delle istituzioni, uomini di Stato, colleghi e parti sociali – la
convinzione che proprio da quell’incrocio ebbe inizio la tragedia. Tutto
dipese da quel momento: cambiò la prospettiva, stravolse gli accordi,
destabilizzò l’ordine pubblico.
Chi aveva interesse che il corteo delle Tute bianche non arrivasse in
piazza delle Americhe? Per qualcuno che avesse cercato un pretesto per
affossare il punto più alto raggiunto dalla sintesi dei movimenti
internazionali, per confondere violenza e dissenso, una mossa del genere
sarebbe stata un gioco da ragazzi. Ma servì una mente fine, uno stratega,
per individuare il momento più opportuno, proprio per non lasciare traccia,
soprattutto per insinuare il dubbio sulla genuinità della contestazione.
Accadde tutto in un attimo. Il funzionario che diede l’ordine di caricare
le Tute bianche disse in seguito che non aveva ricevuto le informazioni
necessarie dalla sala operativa. Ma i fatti andarono diversamente. Noi non
c’eravamo più, la radio non funzionava, il responsabile della sala operativa
imprecava perché non bisognava caricare. Nessuno ha mai voluto
approfondire. Quando facevo notare questo particolare, il mio interlocutore,
chiunque fosse, si dileguava o cambiava discorso. Tuttavia, occorre fare una
precisazione importante: il fatto in sé non è da imputare ai carabinieri
arrivati fino all’incrocio tra via Tolemaide e corso Torino. Loro non
sapevano esattamente quali fossero le strategie. Loro no, ma chi li stava
guidando sì. Appunto. I carabinieri non potevano nemmeno conoscere le
differenze. Videro caschi, scudi, volti coperti ed eseguirono gli ordini.
Questo ha una motivazione, che sta dentro al significato di alcune parole:
«Fai come ti dico, al resto ci penso io». Come se gli unici depositari delle
informazioni dovessero essere i soliti pochi eletti. Se quei poveri carabinieri
fossero stati messi al corrente di chi fossero le Tute bianche e di quale
strategia era stata approntata al fine di non esasperare l’ordine pubblico, di
certo avrebbero quanto meno avuto delle perplessità.
In quel momento sembrava che il mondo stesse crollando: ogni cosa,
ogni certezza. Una catastrofe. Questa era l’unica sensazione che si provava
mentre assistevamo inermi alla carica inaspettata al corteo. Nonostante la
città fosse già sottosopra, quel momento rimarrà impresso nei miei occhi
per sempre. Di colpo, sotto l’effetto anestetico dell’odore acre che invadeva
le vie, svanì la certezza degli insegnamenti che avevo ricevuto. Dovetti
assistere impotente all’espressione violenta di un potere il cui volto non era
identificabile, ma percepibile. Un volto per certi aspetti ancora misterioso.
Sì, ne sono convinto: cambiare l’assetto del dissenso e delle disposizioni
in materia di ordine pubblico non sarebbe stato pensabile se fossimo rimasti
alla testa del corteo. Nessuna carica sarebbe stata possibile. Ma non si
poteva formulare una simile ipotesi in quel preciso momento, tra lo stupore
per minacce giunte all’improvviso e il timore per la nostra incolumità.
L’unica via d’uscita era mettersi al sicuro. Non era previsto che si caricasse
il corteo, non potevamo immaginare una conseguenza del genere. Se
avessimo capito che la nostra assenza avrebbe favorito la carica alle Tute
bianche, saremmo rimasti a presidiarne la prima fila, anche a costo di
scontrarci con quei soggetti sconosciuti, che oggi si possono senza dubbio
alcuno indicare come destabilizzatori.
La follia, quindi, ebbe il sopravvento. Gli scudi di plexiglas iniziarono a
volare in aria sopra le prime file della testuggine, le forze dell’ordine
sembravano aver ricevuto l’ordine di distruggere anziché respingere o
contenere. Non fu la risposta a un attacco, nemmeno a una provocazione. Il
corteo si era fermato. Il contingente dei carabinieri era stato chiamato per
liberare l’incrocio dai Black Bloc e lasciare lo spazio alle Tute bianche, che
dovevano raggiungere la meta stabilita. Erano tutti fermi, era una pausa.
I «neri» erano andati via spontaneamente verso corso Sardegna passando
nel sottopasso, dopo aver ritualizzato la sfida all’imperialismo con la loro
inquietante marcetta, normalmente seguita da episodi di devastazione.
Non c’era più motivo che costringesse il corteo a rimanere fermo.
Avrebbe dovuto ricominciare a procedere. Invece, all’improvviso,
cogliendo impreparato chiunque, partì la carica, senza alcuna logica.
Mi chiedevo: cosa stava succedendo? Per quale motivo si era arrivati a
tanto? Interrogativi a cui a distanza di vent’anni non ci si può sottrarre,
perché fu in quel momento che venne fermata l’evoluzione di un altro
mondo possibile. Che sia stato fatto apposta, per una volontà specifica,
oppure a causa di una cattiva gestione delle informazioni o
dell’impreparazione dei reparti, è ora di appurarlo. Come si dice, i tempi
sono maturi.

È tutto fin troppo chiaro

Di certo non si trattò di fermare il corteo, perché il fumo dei lacrimogeni


avrebbe potuto disturbare i capi di Stato con le loro delegazioni al seguito.
Non c’era nulla da temere. In via Fiume gli sbarramenti sarebbero stati
aperti sotto il controllo delle forze dell’ordine, Luca Casarini avrebbe
simbolicamente violato la zona rossa e la giornata si sarebbe conclusa. La
ragione avrebbe vinto sulla violenza, il movimento globale avrebbe sigillato
definitivamente la sua legittimazione anche sotto l’aspetto politico.
Un’aggregazione trasversale, un progetto collettivo per la
riorganizzazione dell’economia e per una più equa distribuzione della
ricchezza, passaggio imprescindibile per l’abbattimento delle
disuguaglianze già allora evidenti a chiunque.
Questo fu il vero motivo per cui all’incrocio tra via Tolemaide e corso
Torino venne caricato il corteo. Non ci sono più dubbi. È fin troppo chiaro,
ma sarebbe urgente una ricostruzione, politica più che giudiziaria, dei fatti.
Si preferì togliere il controllo dell’ordine pubblico a chi lo avrebbe saputo
gestire al meglio, per metterlo nelle mani della catena di comando del
momento. Non ci sono prove per dimostrare che fu realmente così, del resto
non sarebbe nemmeno un reato penale. Ma accertarlo consentirebbe di
criticare una scelta, soprattutto se a dettarla non fu la decisione di singole
persone, ma (ci sono fatti che lo lasciano intendere) la volontà di fermare
quel movimento che da qualche anno stava attraversando il mondo e che
avrebbe potuto evitare due decenni di politiche internazionali scellerate.
Rimasi immobile dietro al reparto schierato in piazza delle Americhe.
Non credevo ai miei occhi. Di colpo era svanito il lavoro di mesi: riunioni,
accordi, preparativi. A nulla erano serviti gli sforzi di mediazione, i viaggi e
i sopralluoghi.
Il cielo azzurro era completamente nascosto dal fumo grigio dei
lacrimogeni. Gli occhi e la pelle del viso bruciavano. Il tir delle Tute
bianche fu costretto a indietreggiare, mentre il gruppo che faceva parte della
testuggine dovette continuare a combattere. Una battaglia inutile, non
prevista. Nulla di tutto ciò avrebbe dovuto succedere.
Oltrepassammo lo schieramento del reparto per raggiungere il luogo
degli scontri. Mi infilai in corso Torino e mi trovai di fronte a un paio di
cassonetti in fiamme. Scoppi assordanti, urla. Da via Invrea un reparto
chiudeva la strada e un gruppo di anarchici cominciò a tirare pietre e
bottiglie incendiarie che divampavano appena impattavano a terra. Avevo
un fazzoletto che copriva naso e bocca, ma non era sufficiente per ripararmi
dal fumo dei lacrimogeni. Mezzi di polizia e dei carabinieri cercavano di
fare manovra per indietreggiare. Il corteo, intanto, era stato spinto fino
all’inizio di corso Gastaldi, ma molti manifestanti, ormai mescolati a gruppi
di anarchici, erano rimasti alle spalle dei piccoli drappelli di forze
dell’ordine. Era evidente che non c’era più controllo e ognuno stava agendo
senza ordini specifici. In pratica, il sistema organizzativo era saltato. Un
mezzo dei carabinieri si era fermato nell’intento di fare retromarcia, ma
venne preso di mira da gruppi di manifestanti riconducibili, a prima vista,
agli anarchici, non ai «neri».
Alcuni del corteo ormai disperso urlavano di smetterla: «Venite via,
dobbiamo raggiungere la zona rossa», gridavano. Il corteo non arretrò oltre
un certo punto. Poi ebbe inizio la controffensiva e, forse per ordini
superiori, i reparti cominciarono a indietreggiare. Via Tolemaide tornò
presto a essere terreno di scontro. Il flusso riempì nuovamente la testa di
corso Torino, rimasta per pochi minuti quasi deserta. Nel frattempo, mi ero
allontanato per verificare la situazione all’incrocio con corso Buenos Aires,
dove nella mattinata c’erano stati scontri con i Black Bloc. Vidi alcuni
cassonetti ancora fumanti. L’odore acre dei lacrimogeni si mescolava alla
diossina proveniente dalla combustione delle materie plastiche date alle
fiamme.
Un drappello di poliziotti, circa una decina bardati e con gli scudi,
arrivava da piazza Da Novi. Avevano i caschi, ma i loro respiri affannosi si
sentivano lo stesso. Impauriti quanto me, mi chiesero chi fossi. Mi
qualificai. «Collega, vai via da qui, i “neri” sono ancora da queste parti.»
Agivano come delle cavallette. Saltavano da un angolo all’altro delle strade.
Vidi il mio collega che veniva verso di me. Lo raggiunsi e lo informai di
quello che mi avevano detto. Tornammo a corso Torino, all’incrocio con il
sottopasso. Il mezzo dei carabinieri che prima era stato preso d’assalto stava
cominciando a prendere fuoco. Andammo a verificare che non vi fosse
nessuno all’interno. Un manifestante, probabilmente una Tuta bianca, mi
disse che un altro mezzo blindato dei carabinieri si era affiancato ed erano
riusciti a uscire tutti prima che divampasse l’incendio. Forse mi aveva
riconosciuto. Aveva il volto completamente coperto e indossava anche un
paio di occhialini da subacqueo.
C’era molta confusione. Gli autisti cercavano di guidare i mezzi verso
posti sicuri o di fare inversione, ma era difficile. Gli altri a piedi
indietreggiavano. A un certo punto vidi con i miei occhi un paio di mezzi
dei carabinieri transitare per via Tolemaide verso corso Aurelia a velocità
sostenuta. La situazione era totalmente fuori controllo. La paura aveva
travolto chiunque. Era appena stata sfiorata una tragedia.
Davanti al blindato dei carabinieri, mentre le fiamme divampavano, fui
preso da un conato di vomito. L’aria era irrespirabile. Rimasi a guardare la
scena a fianco di chi, con il volto coperto, credeva fossi uno di loro. Magari
sono colleghi, pensavo. Non potevo sapere chi fossero. E neanche mi
sfiorava l’idea di chiederlo. Poi passò un gruppo di un altro corpo di polizia.
Mi videro solo e mi tirarono due manganellate sulla schiena. Frettolosi,
colpirono il mio zaino, mentre correvano verso il tunnel che passa sotto la
ferrovia. Come se non bastasse, un paio di ragazzi più giovani iniziarono a
tirarmi addosso i lacrimogeni lanciati verso di loro dalla polizia. Erano già
fumanti quando toccarono l’asfalto davanti ai miei piedi. «Sei un pacifista
di merda, quelli come te non faranno mai cambiare il mondo.» Al mio
fianco c’erano degli uomini in divisa con il casco e il manganello pronto. Si
girarono verso di me e, nonostante avessi cominciato a gridare: «Fermi,
sono un collega», mi tirarono anche loro un paio di colpi. Dovevo
andarmene da lì al più presto.
In via Smirne, all’angolo con via Invrea, un gruppetto di forze
dell’ordine stava manganellando un manifestante. Era a terra, raggomitolato
su sé stesso, e con le braccia si riparava la testa: «Fermati, testa di cazzo!»
urlai a uno di loro, che sembrava posseduto dal demonio. «Non vedi che è
inerme? Cosa stai facendo?»
Mi guardò senza sollevare la visiera del casco. Vide il distintivo e si
fermò con il manganello in aria. Se ne andarono lasciando a terra quel
ragazzo. Gli dissi che avrebbe potuto denunciare il fatto, ma non volle. Mi
ringraziò e scappò via. In mezzo a tutta quella confusione non era più
possibile fare distinzioni. Qualsiasi tentativo di ripristinare l’ordine era
inattuabile. Sarebbe stato come cercare di vuotare l’oceano con un
cucchiaino da caffè. Anche se avessi voluto identificare qualcuno, da solo o
insieme al mio collega, sarebbe stato impossibile.
Una ragazza, forse una studentessa, venne presa qualche minuto più
tardi all’angolo tra via Invrea e corso Torino, insieme a dei manifestanti.
Urlava e imprecava: «Lasciatemi stare, non ho fatto nulla, vi prego, non ho
fatto nulla». I colpi arrivarono sulla sua schiena ripetutamente. Corsi e
afferrai da dietro il casco del collega che stava infierendo. Lo strattonai. Gli
altri si voltarono verso di me, ma videro il distintivo. Andarono via
urlandomi che ero «uno di loro», un «pezzo di merda».
La ragazza piangeva. Arrivò subito un medico, che mi guardò e mi disse
con la voce rotta e tremante: «Che cazzo state facendo? Siete degli stronzi».
Rimasi impietrito. Non ci si riconosceva più. Tutti contro tutti.
Il sudore colava lungo la schiena e sopra la mia testa avevano
ricominciato a volare i lacrimogeni lanciati in corso Torino tra l’incrocio di
corso Buenos Aires e quello di via Invrea. Scappai via da quell’area ormai
diventata rischiosa. Il mio collega era già andato avanti, verso via
Tolemaide. Lo incontrai davanti alla stazione di servizio sulla sinistra,
andando verso piazza delle Americhe. Un gruppo di anarchici stava
tentando di appiccare un incendio. Riuscimmo a mandarli via. Erano una
decina, ma non sarebbero rimasti isolati a lungo.
Di lì a poco, con un altro collega andammo in piazza Alimonda. Aveva
avuto notizia che era morto un ragazzo. Andammo a verificare. Quando
arrivammo, una squadra di poliziotti stava circondando il corpo ancora a
terra. Un collega del Reparto mobile, che non conoscevamo – mentre lui ci
aveva identificato, anche perché avevamo da poco messo in bella mostra il
distintivo di riconoscimento – ci disse che stavano arrivando l’ambulanza e
il magistrato di turno. La sensazione era surreale. Era appena accaduto
quello che nessuno pensava potesse accadere. Ma in mezzo a quella
guerriglia sarebbe stato un miracolo uscirne tutti vivi e integri. Un
funzionario di polizia stava rincorrendo uno dei manifestanti, urlando: «Sei
stato tu, lo hai ammazzato tu!». Non capivamo cosa fosse successo. Un
giovane si avvicinò e senza fermarsi ci disse che non gli importava chi
fossimo: «Dovete sapere che l’hanno ammazzato i carabinieri, ve lo giuro».
E scappò via. Eravamo come anestetizzati. Il corpo era protetto da un muro
di agenti di un reparto mobile. Capimmo che avevano delimitato la zona
dove si trovava il cadavere, in attesa del magistrato. Dalla scalinata
arrivavano imprecazioni contro la polizia: «Assassini, volevate il morto e lo
avete avuto». Avevo i brividi. Non era possibile che un ragazzo fosse
morto. Per cosa, poi?
«Andiamo via» dissi al mio collega, «raggiungiamo gli altri. Adesso sarà
l’inferno.»
«Sì, adesso sono cazzi.»
Le accuse verso Carlo Giuliani e il carabiniere Mario Placanica,
entrambi responsabili di qualcosa che non avrebbero mai voluto accadesse,
divennero terreno di scontro politico. «Aveva tra le mani un estintore,
voleva ammazzare il carabiniere», come se i due si conoscessero e avessero
dei conti in sospeso. «Il carabiniere fece bene, fu legittima difesa, quei
nullafacenti devono andare a lavorare.» E così ancora dopo vent’anni, di
certo non se ne uscirà mai. La tragedia è tutt’ora riconosciuta solo dai
genitori di Carlo. Per il resto si tratta soltanto di una disputa politica, da
strumentalizzare nelle ricorrenze e quando si discute su quei giorni
maledetti. Morì un ragazzo, ammazzato dall’inesperienza di chi non aveva
mai sperimentato una situazione di ordine pubblico. Morì un giovane che
stava protestando contro un mondo che non riconosceva. E non è credibile
che potesse imprimere a quell’estintore una forza tale da ammazzare il
carabiniere. Invece, fu ucciso da un carabiniere inesperto e pieno di paura
nel vedersi chiuso in una situazione senza via d’uscita. Anche lui morì in
quel preciso istante. Anche lui divenne vittima del sistema. Lo stesso contro
cui stava lottando Carlo Giuliani.

Ribelle al sistema

Il vertice finì proprio lì, in quel preciso momento. Non c’era più nulla da
discutere. Un ragazzo moriva mentre dentro la zona rossa, nella tranquillità
generale, tra buffet, pranzi e cene, si era celebrato il nulla. Percepimmo che
era solo l’inizio di una lunga storia. Una vicenda senza precedenti che
avevamo visto svolgersi sotto i nostri occhi e di cui noi – ciascuno a suo
modo – eravamo protagonisti. Avrei dovuto fare qualcosa, ma ero
insignificante di fronte a tanta forza distruttrice. Ero solo un piccolo
ingranaggio. Il ministro dell’Interno era la stessa persona che in seguito
diede del rompicoglioni a Marco Biagi, quando quest’ultimo aveva capito
di essere entrato nel mirino delle Brigate rosse; lo stesso signore che una
mattina si svegliò e si sentì dire che casa sua era stata pagata da qualcun
altro, e lui non ne sapeva niente. Era questo il ministro dell’Interno, l’uomo
che avrebbe dovuto scapicollarsi per arrivare in piazza Alimonda e attivare
tutti i canali per giungere in fretta all’individuazione dei responsabili.
Mentre lasciavamo quella piazza venne d’istinto chiedersi quando mai
sarebbe venuta alla luce la verità. Un ragazzo aveva appena perso la vita. La
democrazia aveva appena ricevuto un colpo molto duro. Mi tornò in mente
il vecchio adagio: «Nei servizi di ordine pubblico, alcune volte
bisognerebbe essere disarmati». Fino ad allora non l’avevo ritenuta una
buona indicazione, ma questa volta coglieva nel segno. Dopo Genova capii
cosa intendesse dire quel maresciallo di polizia che me l’aveva insegnato.
Camminavamo tra le carcasse di auto ancora fumanti. Sull’asfalto
c’erano pezzi di plexiglas, bastoni, caschi, indumenti strappati, fazzoletti
intrisi di sangue. Stavamo tornando verso piazza delle Americhe. Qualche
ridotto contingente tentava di ricomporsi. Manifestanti di ogni genere e
forze dell’ordine stavano raccogliendo ciò che restava di quella
interminabile giornata. Era come se improvvisamente fosse arrivato un
armistizio. Ignorandosi gli uni con gli altri, si incrociavano lungo via
Aurelia. In piazza delle Americhe non c’era più il reparto schierato. Alcuni
manifestanti erano seduti sugli scalini della Cassa di Risparmio.
Passammo loro accanto: una ragazza stava telefonando, un altro aveva la
testa tra le mani, altri due parlavano guardando nel vuoto, verso la ferrovia.
L’odore della morte si percepiva nell’aria, insieme a quello acre dei
lacrimogeni e della diossina. Avrebbero potuto anche spararci, non
avremmo sentito nulla, nessun dolore.
Si racconta ciò che si vede. Si racconta anche quello che viene riferito,
ma non è la stessa cosa, sebbene chi mi forniva le notizie sulle devastazioni
che stavano avvenendo al di là del sottopasso, in viale Sardegna, avesse gli
occhi rossi e la pelle bruciata. La città era sotto assedio, ma, nonostante ciò,
a nessuno di quegli otto grandi venne in mente di fermare il summit.
Avrebbe dovuto alzarsi in piedi il capo del governo italiano e interrompere i
lavori.
Il 20 luglio 2001, quella giornata maledetta, terminò tardi, molto tardi
per noi. La sera circolava la voce di un imminente attacco alla questura.
Rimanemmo insieme ai reparti schierati fino alle due di notte. Poi, quando
stavamo per tornare a Nervi, in albergo, ricordammo che la nostra
autovettura era ancora parcheggiata nel commissariato Sturla. Non era
proprio vicino, ma chiesi un passaggio a chi era ancora più stanco di noi.
Sì, quella giornata si concluse nel modo peggiore che si potesse
immaginare. Dovetti fermare dei colleghi che stavano sferrando colpi di
manganello su persone innocenti. Dovetti assistere a una guerriglia urbana,
vedere il sangue uscire dalla pelle di persone che credevano in un mondo
migliore. Gente che sarebbe stata pronta a schierarsi dalla parte dei
difensori dello Stato senza esitare un attimo. Erano gli stessi che solo pochi
anni prima avevano manifestato contro la mafia, che avevano appeso le
lenzuola nella bella città di Palermo dopo le stragi di Capaci e via
D’Amelio.
Invece, mentre stavano gridando un messaggio di speranza, contestando
un sistema che avrebbe mandato in frantumi il mondo intero, dovettero
subire la più grave delle ingiustizie: l’umiliazione da parte di quello stesso
Stato in cui credevano e pensavano di potersi riconoscere.
Incubo n. 3

La mia mente vola.


Compie voli pindarici e associazioni degne di un trattato di psicoanalisi.
L’immagine davanti ai miei occhi mi riporta alla mente le letture
giovanili.
Nello specifico, la scena de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov
in cui la protagonista partecipa al grande ballo infernale.
Ecco, quel carosello richiama alla mia mente un’immagine demoniaca.
Un vortice nero. Nero come quelle magliette, come quei passamontagna.
I Black Bloc stanno facendo un immenso girotondo. Musica sparata a
tutto volume da vari stereo portatili rende la scena ancor più irreale.
Cantano, ciascuno nella propria lingua, ciascuno assecondando il proprio
umore. Una babele di lingue. C’è tutta Europa, lì in mezzo, e non solo.
Sembrano divertirsi, tutto questo potrebbe somigliare a una festa. Ma
intorno divampa il fuoco, colonne di fumo sbucano da dietro i tetti dei
palazzi.
Butto l’occhio oltre quella massa brulicante. I miei colleghi sono dalla
parte opposta della piazza, è lì che devo andare.
Mentre penso a come fare, un gruppo di ragazzi con il passamontagna si
ferma a guardarmi. Ho un colpo al cuore. Istintivamente guardo in basso.
Per fortuna il tesserino è al sicuro sotto al gilet, se l’avessero visto
probabilmente le spranghe che stringono in mano avrebbero saggiato la
consistenza della mia testa. Indugiano ancora, qualcosa in me e nel mio
compagno sembra non convincerli.
Devo inventarmi qualcosa.
Accanto a me una macchina parcheggiata. Inspiegabilmente intatta.
Mi chino, afferro un bastone e con un colpo secco infrango il finestrino
lato guida.
Guardo il gruppetto, alzo in aria il pugno e grido come non ho mai
gridato in vita mia.
Anche loro alzano il pugno, anche loro gridano.
Per un attimo potremmo essere fratelli.
Solo per un attimo.
L’attimo dopo vengono inghiottiti dalla piazza.
Mi volto verso il mio collega, è terrorizzato.
Capisce che dovremo attraversare la piazza.
Capisce che siamo soli, che gli schemi sono saltati.
Nessuno gli ha insegnato come affrontare una situazione simile.
Nessuno l’ha insegnato neanche a me. Bisogna improvvisare.
L’apocalisse in casa

21 luglio 2001

La sveglia suonò presto anche la mattina successiva. Avevamo dormito


poco. Subito ci recammo in questura. Anche quel giorno il cielo era
limpido. L’unica differenza era che le strade non si presentavano più nelle
stesse condizioni di un paio di giorni prima. I segni degli scontri erano
ancora tutti lì, si sarebbe potuta tracciare una mappa seguendoli. Poche zone
erano state risparmiate: la città si era risvegliata tra le macerie.
Ripercorremmo a piedi via Aurelia verso la Fiera. Arrivammo fino a
piazzale Martin Luther King e più avanti fino al concessionario Mercedes.
Si cominciava a vedere la città nella sua interezza; fuori dal centro, lungo
corso Italia, apparentemente non era successo nulla. Il traffico era stato
deviato, era consentita la circolazione solo agli autorizzati.
Camminavamo quasi al centro della strada. Era ancora presto, se non
ricordo male le otto. L’aria pizzicava, ma non sapevo se dipendesse dal fatto
che le mie narici erano ancora intrise di gas lacrimogeni. Cercavamo di
osservare le zone in cui sarebbe sfilato il corteo conclusivo.
Non ne parlavamo, ma era palese la preoccupazione. Dopo l’uccisione di
Carlo Giuliani i carabinieri erano stati tolti dalla piazza. Sulle prime pagine
dei giornali i titoli strillavano la morte del giovane; «la Repubblica»
riportava la dichiarazione del presidente del Consiglio Berlusconi. Appena
informato della tragedia, aveva preferito non commentare. «Mi unisco ai
sentimenti di dolore del presidente della Repubblica.» E ancora: «Mi spiace
che quanto è accaduto sia stato contestuale agli sforzi che nel G8 si sono
portati avanti proprio per uno sforzo aggiuntivo rispetto a ciò che fino a ora
si è fatto per combattere la povertà e le grandi epidemie nel mondo».
Scuotemmo la testa subito dopo aver letto. Come se l’uccisione di quel
ragazzo avesse macchiato i lavori del vertice. E sembrava si stesse scusando
con gli altri membri del tavolo, non con la famiglia di Giuliani. Nessuna
richiesta di chiarezza immediata, tantomeno di verità.

Quella mattina ci aggregammo a un pattuglione formato da reparti mobili,


salimmo sui mezzi e ci fermammo in un piazzale. Non ne ricordo con
precisione il nome, ma dall’alto si vedeva bene corso Italia e potevamo
distinguere il corteo fitto che si snodava lungo la via. L’incubo Black Bloc
ormai accompagnava ogni minuto delle nostre giornate. Tra i manifestanti
sventolavano bandiere della pace, dei Cobas, che il giorno prima erano stati
scambiati per i «demolitori» – quindi caricati da un reparto –, di
Rifondazione comunista, dei Democratici di sinistra, di Cgil, Cisl, Uil.
C’erano anche altri cartelli scritti in lingua straniera: greco, portoghese,
tedesco, spagnolo. Non era un corteo di sinistra, era trasversale. Era la
sintesi, appunto, di Seattle. C’erano molte fasce tricolori, quindi erano
sicuramente sindaci, presidenti di province.
Mi chiedevo per quale motivo a questo punto non potevamo tornare noi
a gestire l’ordine pubblico. Noi, nel senso di settore, ufficio operativo o
come lo si voglia chiamare. Tutta la catena di comando della polizia di
Stato, in quel luogo e in quel momento, era formata da «mobilieri», ovvero
da uomini dello Stato che fino al giorno prima avevano reso un impeccabile
servizio nell’ambito della lotta alla mafia, al narcotraffico. Un settore
difficile, pericoloso. Occorre dedizione, spirito di abnegazione, perché sono
indagini a volte lunghe, estenuanti. Si ha a che fare con criminali senza
pietà, senza un minimo di umanità. Servono veramente grandi capacità
investigative, ma lì non era la stessa cosa. La piazza va gestita in un altro
modo, non si possono mettere sullo stesso piano contestazioni, anche quelle
più aspre, e criminali mafiosi.
Un signore anziano che stava rincasando assieme a sua moglie, proprio
in quella piazzetta dove eravamo a vigilare dall’alto il corteo, si fermò
davanti al portone: «Maledetto G8, potevano farlo da un’altra parte, vi
hanno mandato qui, lontani dalle vostre famiglie a fare la guerra tra poveri,
che siano maledetti tutti, pensano solo alle loro tasche e voi a servirli,
perché sanno che siete la parte buona del paese».
In quelle parole c’era tutta l’indignazione verso uno Stato incapace di
usare al meglio le forze a disposizione; uno Stato senza una strategia, che
stava dimostrando di non comprendere ciò che accadeva. A Genova era
stata messa in campo una contrapposizione che non era quella ideologica,
legittima tra forze politiche. Lo Stato aveva preferito fare uso della forza
contro il dissenso. Non era quello il modo di gestire una piazza. Tantomeno
di gestire la sintesi di una protesta internazionale, iniziata qualche anno
prima.
Sì, a mio avviso, a un certo punto venne a mancare di colpo la capacità
di analizzare una protesta globale sotto l’aspetto politico. A Genova, il
governo appena insediatosi voleva ricondurre la ribellione a un manipolo di
esaltati, per mettersi in luce mostrando i muscoli. Voleva dare una
dimostrazione di forza. In altre parole, aveva bisogno di sbarazzarsi
definitivamente delle contestazioni; poco importava la globalizzazione.
Dopo vent’anni i problemi da affrontare sono sempre gli stessi. Quel G8 fu
inutile. Strategicamente vano sotto ogni aspetto. Fu solo una dimostrazione
che il governo voleva dare agli altri stati membri. Non credo sarebbe stato
diverso con un governo di centrosinistra. Forse la piazza sarebbe stata
affidata a chi l’aveva sempre gestita. Forse dentro la Diaz non sarebbe
entrato nessuno. Forse. Per il resto, nessuna differenza sostanziale.

«Quelli lo ammazzano»

Continuavo a guardare lo scorrere lento e pacifico del corteo, un fiume di


persone. Nonostante l’omicidio del giovane Carlo Giuliani, quella sorta
d’improvvisa deriva sociale del giorno prima sembrava essersi calmata.
Anche le forze dell’ordine si erano ricompattate.
Le previsioni fino al giorno precedente non davano più di centomila
partecipanti, ma fin dalle prime ore del mattino del 21 luglio già si
cominciava a parlare di trecentomila presenze. Non c’erano disordini o
devastazioni. Era come se tutti fossero stanchi. Le radio di servizio
continuavano a dare informazioni sul flusso del corteo e sul numero di
partecipanti. Dagli elicotteri che sorvolavano la zona non arrivavano i
segnali della mattina precedente. Al contrario, quello che si sentiva
sembrava incoraggiante. C’erano avvistamenti, ma dopo le vicende del
giorno prima buona parte delle segnalazioni scaturivano dalla paura:
chiunque portasse vestiti scuri o caschi assumeva le sembianze di un Black
Bloc.
A un certo punto, notammo che il caposquadra di un gruppo di poliziotti
in divisa antisommossa stava correndo verso di noi. A voce alta ci invitava
a salire in fretta sui mezzi. «Un migliaio di Black Bloc sta arrivando proprio
qui» urlava. Dovevamo andarcene. Gli autisti misero subito in moto i mezzi
e tutti montarono a bordo senza rispettare un ordine preciso. Iniziarono a
partire, alcuni poliziotti saltarono su al volo. Il fumo nero dei motori diesel,
che fuoriusciva dai tubi di scappamento, in pochi secondi riempì l’aria.
Tentai di trovare un posto, ma era tutto pieno. Non riuscivo a salire. Ero
rimasto l’ultimo. La paura di restare in quel buco s’impadronì di me.
Ognuno si dava da fare per riuscire a portarsi in salvo.
Già mi stavo organizzando mentalmente. La mattina, appena arrivati in
questura, ci eravamo fatti assegnare un casco. Il giorno prima avevamo
rischiato di beccarci in testa uno dei tanti oggetti che volavano per aria.
Avevamo potuto attraversare il Blocco nero che marciava all’incrocio tra
via Tolemaide e corso Torino proprio per via del fatto che non eravamo
riconoscibili; stavolta non sarebbe stato possibile passare inosservati. Il
rischio concreto era che presto mi sarei trovato solo in mezzo alla piazzetta,
con il casco della polizia di Stato in mano. Avrei dovuto nasconderlo, ma
non dentro un cassonetto, in un posto dove avrei potuto recuperarlo più
tardi o a fine giornata, e poi scappare. Ma avrei rischiato di incontrare i
devastatori lungo la strada. Non mi restava altro che aggrapparmi a uno dei
mezzi. A quel punto un collega mi allungò la mano attraverso la portiera
ancora aperta. La afferrai. Il Ducato era già in movimento. Mi tirò su a
forza, tenendomi stretto mentre barcollavo sulla pedana. Mi diede uno
strattone, quello decisivo, e saltai a bordo.
Quando arrivammo sul piazzale antistante la Fiera mi resi conto che
qualcuno, nel frattempo, era rimasto con il fiato sospeso. Il mio dirigente
stava chiedendo a tutti dove fossi finito. Si guardava intorno dicendo:
«Quella testa di cazzo è rimasto lì, porca troia, dobbiamo tornare a
prenderlo. Quelli lo ammazzano». Appena mi vide si accese il sigaro,
sollevato: «Prima o poi l’infarto mi fai venire».

Ore maledette

Dal piazzale davanti alla Fiera si vedeva il corteo che scendeva da corso
Italia e girava verso via Rimassa. Una parte del serpentone aveva già
superato quel punto. Ciò che non avessi visto con i miei occhi lo avrei
appreso dai giornali e dai servizi in tv il giorno dopo, ma avevo la necessità
di sapere chi ci fosse alla testa del corteo. Sarebbe stato tecnicamente
rilevante per comprendere il danno che i Black Bloc stavano arrecando, non
solo alla città, ma anche alla tenuta democratica.
Occorreva essere presenti dove era in atto una devastazione, osservare e
nel caso intervenire. Tuttavia, anche gli interventi avevano bisogno di
essere calibrati, non è che ci fossero le condizioni per presentarsi in due
davanti a un centinaio di «demolitori» indemoniati e identificarli. Qualora
fosse stato possibile, questi criminali sarebbero stati consegnati alla
giustizia senza alcuna esitazione. La prima cosa è mettersi in sicurezza. Poi
è essenziale contribuire a segnalare ai reparti le situazioni di ordine
pubblico compromesse dalle azioni violente. Servivano informazioni,
bisognava avere la vista lunga, cercare di capire l’evoluzione dei fatti al fine
di contenerli.
I reparti erano già stati schierati in piazzale Kennedy, lo stesso in cui nel
1973 parlò Enrico Berlinguer. Era l’area dove si faceva la Festa nazionale
de «l’Unità». Sul lato del mare, osservavo fino a dove la vista me lo
permetteva. Avevo studiato bene il territorio e avevo raccolto anche alcune
informazioni di carattere storico. Era necessario tanto quanto conoscerne la
geografia, per riuscire a svolgere nel migliore dei modi un lavoro di
osservazione. La comparazione dei fatti nella loro narrazione storica di
norma restituisce la possibilità di analizzare gli stessi a distanza di anni.
Un’operazione di importanza assoluta, anche per evitare errori sul piano
dell’ordine pubblico.
Si sperava che almeno la metà del corteo fosse riuscita a superare
piazzale Kennedy e a svoltare lungo via Rimassa per raggiungere la
destinazione attraversando il sottopasso che incrocia via Tolemaide, ovvero
il punto in cui il giorno prima era stato di fatto fermato il movimento.
Tra i rumori che accompagnavano quelle ore maledette, quelli più
macabri erano le esplosioni dei serbatoi delle autovetture. Gli scoppi dei
copertoni erano secchi, tipo quelli dei petardi, ma quando scoppiava un
serbatoio il boato echeggiava tra i palazzi e non si fermava più. Arrivava
dritto al cervello lasciandoti per qualche secondo stordito.
Non tutto il corteo, però, continuava a scorrere verso via Rimassa.
Alcuni procedevano dritti verso lo schieramento di polizia. Si stava
formando una sacca, con molti curiosi fermi a guardare perché proprio in
quel punto i Black Bloc avevano spezzato il corteo e stavano mettendo
sottosopra qualsiasi cosa.
Temevo, non solo io, per tutte quelle persone che ancora non erano
riuscite a svoltare verso via Rimassa, ma nello stesso tempo ero furibondo
con quelle che si erano fermate a curiosare. Sarebbe stato importante che se
ne fossero andate subito. A quel punto i reparti mobili avrebbero potuto
caricare il Blocco nero e arrestare tutti coloro i quali vi avessero preso parte
attiva.
Cercavo di spingermi più avanti che potevo facendo attenzione a evitare
le zone occupate dai devastatori. Camminando lungo il lato del mare arrivai
al confine tra piazzale Cavalieri di Vittorio Veneto e piazzale Martin Luther
King. Ero quasi riuscito a superare la zona devastata senza farmi notare dai
Black Bloc. Mi trovavo ormai nel luogo in cui si era formato un gruppo di
circa un migliaio di curiosi. Cercai di convincere alcuni a liberare la zona.
Rientrai all’altezza del reparto schierato all’inizio di piazzale Kennedy e
dissi al responsabile dell’ordine pubblico che ero andato a verificare la
situazione. Subito si preoccupò: «Sei andato laggiù da solo? Ma sei
matto?». Poi mi disse che avrebbe provveduto a far spostare la gente, che in
quel punto preciso aveva formato un tappo causando la fermata di buona
parte del corteo.
I reparti mobili aspettavano il momento più opportuno per evitare che
altre persone venissero coinvolte nella carica. Tra sudore, caldo,
lacrimogeni, scoppi, fiamme, carcasse di auto rovesciate, era facile perdere
l’orientamento. Nemmeno il limone riusciva a lenire il bruciore agli occhi e
sulla pelle del viso. I reparti non avanzavano e questo rasserenava. Si
limitavano a lanciare lacrimogeni verso i devastatori, nonostante il vento
continuasse a essere contrario. I facinorosi tiravano qualsiasi cosa verso i
poliziotti. A volte riuscivano a raccogliere il lacrimogeno a terra e a
rilanciarlo contro la prima fila del reparto, che ogni dieci minuti si
avvicendava con quella dietro. Era diventato un inferno per tutti. Tranne che
per i devastatori. Pareva fossero a loro agio in quei frangenti. Sembravano
dei guerriglieri. Tipo narcos nelle lande colombiane, intenti a creare
diversivi per lasciare ampio spazio ai trafficanti.
Andai a mettermi a fianco della prima linea di poliziotti. Volevo capire
da vicino cosa stesse succedendo. Vedevo ragazzi giovani, con il volto
completamente coperto. Il loro era un tumulto disorganizzato, non si
udivano grida o slogan. Era impossibile definirne la nazionalità. Si
infilavano nel fumo lattiginoso e poi ricomparivano con qualcosa tra le
mani e subito lo scagliavano contro la prima fila di poliziotti. Dietro di loro,
i manifestanti e i curiosi che si erano fermati a guardare cosa stesse
succedendo. Quando, poco prima, ero riuscito a raggiungere quella marea di
teste, circa un migliaio, forse nel frattempo aumentato, avevo sentito dialetti
diversi, veneti, lombardi, emiliani. Tutta gente inesperta, che non aveva mai
partecipato a manifestazioni di un certo tipo, per qualcuno era sicuramente
la prima volta. Nessuno di loro aveva armi improprie, e nessuno era
incappucciato o con il volto coperto da un fazzoletto. Erano lì, guardavano
come bambini quando vedono una cosa per la prima volta. Non si mossero
neanche quando il reparto alzò leggermente la traiettoria dei lacrimogeni.
Non che prima i lanci fossero ad altezza d’uomo, ma per evitare anche la
minima possibilità che finissero addosso ai devastatori, aggiustarono un po’
il tiro. Secondo me pure per dare uno scossone ai curiosi, così almeno si
sarebbero tolti da lì. Invece, niente. Indietreggiarono un attimo e poi
tornarono a vedere cosa fosse successo, chiedendosi perché non si poteva
transitare verso corso Torino. Erano attratti da quella situazione e,
involontariamente, rappresentavano un collante tra la parte di corteo rimasta
bloccata in corso Italia e i devastatori. Qualcuno, però, si avventurava verso
la zona degli scontri. Si faceva trascinare e finiva per entrare nella mischia.
Era come se venisse contagiato.
Intanto, i tonfi si ripetevano senza sosta, arrivavano dai portici dove
erano ubicati agenzie di viaggio, banche, esercizi commerciali, ingressi
privati. Tutti rigorosamente protetti da pannelli di legno o di ferro. Io mi ero
spostato sull’altro lato di corso Marconi. Nelle vie interne c’erano altre
vetrine di negozi. E altri gruppi di «demolitori». Erano più organizzati.
Nonostante si muovessero autonomamente, davano l’idea di essere
sincronizzati. La loro furia faceva paura. Sembravano posseduti. Alcuni
giovani, ragazze e ragazzi, iniziarono a reagire gridando loro di smetterla.
«Fatela finita!» urlavano alcuni. Una giovane donna disse addirittura:
«Avete rovinato tutto, è da ieri che impedite le nostre manifestazioni, andate
via». Mi rimasero impresse, quelle parole. A distanza di tempo, anche dopo
vent’anni, è impossibile dimenticarle.

L’inferno
Tutto cominciava a tornare.
Sembrava che, nonostante la confusione generale, la polizia avesse
ancora un alto gradimento popolare. Non essendosi resa responsabile di
avere fermato il corteo delle Tute bianche impedendogli di raggiungere
piazza delle Americhe, e poiché il dito che aveva premuto il grilletto di una
pistola calibro nove parabellum uccidendo Carlo Giuliani non era quello di
un poliziotto, godeva ancora di una certa stima tra i manifestanti no global.
Diciamo che la presenza della polizia era ancora una sorta di garanzia.
Fortunatamente.
A dimostrazione di quanto sto raccontando ci fu il gesto di un piccolo
drappello di poliziotti: si misero davanti a quei giovani che urlavano ai
«demolitori» di andarsene per ripararli da eventuali aggressioni. I poliziotti,
che si erano appena preparati a fronteggiare gli avversari, non riuscirono
però nelle loro buone intenzioni, perché quelli scapparono. Erano veloci
come dei fulmini. Nel terribile contesto, questa scena mi riempì di orgoglio.
Noi e la gente per bene. Noi a garanzia di chi manifestava. Noi, difensori
della Costituzione. Non ero il solo che aveva capito. Eravamo in tanti.
Tornai di nuovo nei pressi delle prime file dei reparti schierati e trovai il
disastro. Non ricordo con precisione l’ora, ma di sicuro non era più tardi
delle quindici. Appena oltrepassato piazzale Kennedy mi trovai di fronte a
uno scenario di guerra: una Fiat Brava bianca era stata rovesciata e un tipo
magro vestito di nero, con il volto completamente coperto, ci era salito
sopra e con il pugno alzato si mostrava al mondo. Saltò giù e dopo qualche
secondo l’auto iniziò a bruciare, mentre altre, in fiamme, erano state prese
di mira da quei teppisti.
Era un saccheggio in pieno stile e non sopportavo di dovere assistere a
quello scempio. D’istinto iniziai a dirigermi verso il centro del piazzale
Cavalieri di Vittorio Veneto, dove infuriava la devastazione.
Fortunatamente un collega mi vide e mi venne a prendere spingendomi
indietro.
In quel momento iniziò a partire un’altra sequenza di lacrimogeni.
Incontrai il mio dirigente, anche lui senza maschera antigas. C’era una
siepe che delimitava il parcheggio di piazzale Kennedy e, oltre, il mare. Ci
appoggiammo lì e vomitammo. Alle nostre spalle Giovanna Botteri era in
diretta su Rai 3. Non è da tutti finire in tv mentre vomiti. Accadde anche
questo.
Le forze dell’ordine stavano aspettando che si liberasse la piazza per
caricare il Blocco nero. Quella situazione non poteva continuare all’infinito.
Sentivo addosso la stanchezza, era diventato quasi impossibile ragionare
con lucidità, ma sarebbe bastato usare il buon senso.
Dopo due cariche, quando i Black Bloc si allontanarono disperdendosi,
ci voleva poco per rendersi conto che in corso Italia erano rimaste le
organizzazioni pacifiste. E prima di tirare una manganellata sarebbe bastato
solo guardare a chi fosse diretta. Guardare, appunto. Osservare e rendersi
conto della situazione.
Verso le sedici i reparti della polizia cominciarono a guadagnare terreno.
Avanzarono di un centinaio di metri abbondanti. Tornai sul lato opposto di
corso Marconi, lato mare. Sarei servito più lì che dove mi trovavo. Feci una
corsa verso l’ingresso di via Rimassa, contravvenendo alle disposizioni
relative all’autotutela.
Si era appena formato un cordone di persone, perlopiù giovani, che
cercavano di incanalare il flusso verso via Casaregis, anziché su via
Rimassa. «Che succede?» chiesi a uno di loro. «Stiamo tentando di far
capire che bisogna andare via da qui, prima o poi una carica dovrà partire.
Questa situazione non può rimanere così in eterno.»
Aveva ragione, qualora fosse partita la carica sarebbe stato come
lanciare un rullo compressore. Quei ragazzi dei reparti erano sfiniti dopo
ore di lacrimogeni, molti dei quali, dopo essere stati rilanciati dagli
sfasciatori, se li ritrovavano tra i piedi, ormai del tutto attivati. Erano esausti
e incazzati. Avrei sfidato chiunque in quella situazione a comportarsi con
una simile professionalità. Ma qualcosa stava andando per il verso
sbagliato. Fino a quel punto pensavo che la resistenza fosse una strategia e
che aspettare il deflusso del corteo per poi attaccare il Blocco nero fosse il
modo migliore per mettere al riparo tutta quella gente che, pur inesperta e
curiosa, stava lì, dove non avrebbe dovuto essere.
Mi spostai subito. Tornai indietro, sempre lungo il lato del mare. Il
reparto avanzava abbastanza velocemente. Un gruppo si era già diretto
verso via Casaregis. Un altro stava entrando verso punta Vagno, a ridosso
della spiaggia.
Cominciarono i primi lanci di lacrimogeni. Le traiettorie erano varie e
segnavano il cielo. Ai lati di corso Italia i reparti sembravano due ali aperte.
Sulla scalinata che portava in via Nizza molta gente si era ammassata per
evitare di cadere in quella morsa. In cima agli scalini si vedevano alcuni
caschi verdi. Erano quelli della finanza. Ma le persone non sembravano
impaurite. Dopo venni a sapere che erano lì per delimitare una zona, ma
non erano operativi.
Intanto mi passavano accanto a passo svelto altri gruppi di poliziotti. Mi
presi una spintonata. Mi spostai in direzione contraria per tornare verso la
Fiera. Misi in mostra il distintivo. Mi salvai al volo da una raffica di
manganellate. Piazzale Cavalieri di Vittorio Veneto era ormai stato quasi
liberato e da piazzale Martin Luther King giungevano le urla di donne e
bambini. Vidi un uomo e una donna svincolarsi. Corsi da loro e li feci
transitare nella zona liberata. «Andate sempre dritti e poi svoltate a destra
nel piazzale della Fiera.» Scapparono via. A un certo punto ricevetti una
telefonata. Non conoscevo il numero. Risposi dopo qualche squillo.
Cercavo riparo dal frastuono generale, a cui si era aggiunto anche il rumore
delle pale di un elicottero, un Agusta 212, che volava basso; neanche una
trentina di metri sopra le cariche e sopra la mia testa.
Era un signore del circolo di Rifondazione comunista di Marghera. Mi
chiese come stavo, ma non riuscivo a sentire bene quello che mi diceva.
Dovetti riagganciare. Mi sembrava di essere in una zona di guerra. Di colpo
era scoppiato l’inferno. Non poteva essere stato un caso. Dimostranti,
pacifisti, sindacalisti, associazioni varie, donne, uomini, anziani, bambini,
alcuni sulle spalle del proprio papà, cercavano di uscire dalla portata dei
manganelli. Rimasi fermo davanti alla spiaggia, impotente, fino a quando
mi raggiunse il mio compagno di viaggio. Il reparto che aveva caricato era
arrivato fino a ridosso di punta Vagno. Si era spinto su per almeno duecento
metri. In quel tratto di corso Italia erano rimasti i segni di una catastrofe.
Zaini distrutti, scarpe, fazzoletti, maglie stracciate, ma soprattutto sangue.
Era rimasto il sangue a terra. Era tanto, mai vista una cosa del genere.
Quel signore che mi aveva telefonato lo richiamai appena ebbi un
momento di calma. Voleva sapere come stavo perché mi aveva visto nelle
dirette televisive in mezzo agli scontri.
Poi, a un tratto, i caschi azzurri tornarono indietro e al centro del corso le
persone rimanevano con le mani alzate. Cercavano di spostarsi al passaggio
dei poliziotti, di lasciare lo spazio sufficiente affinché non vi fosse il
minimo contatto. Era la paura. La paura di essere lì, in quell’inferno. La
stessa che avevamo noi. Alcune donne avevano la testa e il naso
sanguinanti. Un ragazzo con un occhio gonfio, tumefatto, piangeva
disperato. Altri, pur con le mani alzate in segno di resa, cercavano di
reagire: «Siete impazziti, guardate cosa avete fatto!». Non sapevo come fare
per dire a queste persone di stare zitte. Perché sarebbe stato meglio così. Un
padre con il bambino sulle spalle e le mani in alto si prese una manganellata
sulla schiena. Il mio collega mi tirò per un braccio e mi disse: «Dai, fatti
forza, andiamo avanti». Ero sconvolto. Neanche un paio d’ore prima mi ero
quasi commosso nel vedere polizia e giovani dalla stessa parte della
barricata.
Risalimmo corso Italia insieme. Sentivo lo sgomento crescere sempre di
più dentro di me. Una sensazione di impotenza. Ma ancora non era finita.
Più in là si alzava del fumo biancastro. Avevano sparato altri lacrimogeni.
Non era possibile un atto del genere. Vidi tornare indietro i poliziotti. Le
persone inermi avevano le mani dietro la testa. Alcune erano sedute sul
bordo del corso, altre in piedi, tremanti. Una ragazza era a terra, fortuna che
in quel momento giunsero di corsa due medici. Poi mi accorsi che altri
stavano andando a soccorrere i feriti. Un incubo. Giovani che piangevano,
donne in preda al panico. Uomini con il naso sanguinante e con le mani
alzate. Gli elicotteri diventarono due e volteggiavano lentamente sopra le
nostre teste. Da lassù avevano un quadro più ampio e sembrava strano che
non avessero comunicato le diverse componenti, da un lato i manifestanti e
dall’altro coloro i quali non avevano nulla da spartire con la partecipazione
democratica al dissenso verso una globalizzazione disastrosa.
A un certo punto, di colpo, i devastatori sparirono dalla mia vista. Da
dove mi trovavo non potevo avere una visione d’insieme, ma avevo ormai
accumulato elementi sufficienti per pentirmi della commozione provata
prima. Mi sembrava un sogno. Troppo vero per essere reale. O forse lo
pensai solo perché alla vista di tanta inutile violenza mi sentivo
profondamente deluso. Ero fermo e prendevo atto di tutto ciò che mi
circondava. Alzai gli occhi e davanti a me partì quella che poi venne
considerata l’ultima carica. Non ricordo bene da dove, ma fu la più
disastrosa.
Passai in mezzo a tutta quella gente insanguinata, distesa a terra, persone
che ancora tremavano camminando con le mani alzate. Alla vista della
polizia non bisognerebbe spaventarsi, invece a Genova faceva paura: non ai
demolitori, a coloro che sfasciarono la città, incontrollati e indisturbati, ma
alle persone per bene.
Il fumo era più denso del giorno prima. Il timore era che tornasse a
ripetersi il dramma della morte. E continuavo a chiedermi se il capo della
polizia, quel giovane funzionario che ammiravo, che ritenevo fosse la
persona più idonea a guidare la polizia di Stato e il Dipartimento di
pubblica sicurezza, fosse al corrente di quanto stava accadendo. Speravo
che mettesse fine a quel massacro da un momento all’altro. Ero sicuro che,
se fosse stato lì e avesse visto come si stava comportando una parte dei suoi
uomini, sarebbe intervenuto e li avrebbe fermati. Personalmente.
Il pomeriggio del 21 luglio sembrò più lungo dell’intera giornata
precedente. Tornando indietro da corso Italia verso piazzale Kennedy
incontrai il mio collega, allarmato perché non sapeva dove fossi finito.
Un uomo di mezza età insieme a una donna, sicuramente la moglie, si
avvicinò e ci domandò se fossimo dei giornalisti. Entrambi indossavamo un
leggero giubbino beige, senza maniche e con molte tasche, proprio come
quelli dei giornalisti. «Non siamo giornalisti, siamo poliziotti.» L’uomo si
mise a piangere come un bambino, sostenuto da sua moglie. «Stia
tranquillo» gli disse il mio collega. «È tutto finito, non si preoccupi.»
Estrassi dallo zaino una bottiglietta d’acqua ancora sigillata. L’accettò di
buon grado. Dopo essersi dissetato, si calmò. «Perché avete fatto tutto
questo?» ci chiese. «Guardatevi intorno, ci sono anche anziani, doloranti
per i colpi di manganello, come si può fare questo a persone inermi che
manifestano pacificamente?»
Pensavo a mio padre, ai miei genitori, che prima di partire per Genova
mi avevano raccomandato più volte di fare attenzione e di non mettermi nei
guai. Anche loro, pur non abitando qui, avevano compreso il pericolo, forse
più di noi che avremmo dovuto percepirlo meglio di chiunque altro. Quei
due signori ci spiegarono che erano a Genova perché ritenevano giusto darsi
da fare per lasciare ai propri figli e nipoti un mondo migliore, in cui la
povertà e lo sfruttamento non avrebbero più dovuto trovare spazio.
Facevano parte di un gruppo organizzato dalla Cgil.
«Nemmeno noi siamo stati risparmiati, mia moglie è stata colpita, per
fortuna di striscio, alla schiena.» Si voltò e le spostò la maglietta con
delicatezza. Aveva un segno viola sul fianco. Il cuore mi batteva forte, non
riuscivo a trattenere le lacrime. Per fortuna avevo la scusa dei gas
lacrimogeni, ma l’uomo anziano si accorse della mia reazione. Volle
abbracciarci. «Siete dei bravi ragazzi, fate qualcosa, non abbiate paura della
verità. Credo nella polizia, ce ne sono tanti di bravi e sensibili, siete la
maggioranza.»
Si incamminarono verso una via che portava al centro della città. Li
seguimmo con lo sguardo fino a quando si mescolarono tra la folla.
Tornammo verso la zona Fiera, avevamo avvertito il nostro superiore che
stavamo facendo un giro di perlustrazione.

Rastrellamento

Piazzale Kennedy era stato completamente devastato. Da un appartamento


usciva del fumo e c’erano ancora i vigili del fuoco che stavano spegnendo
le fiamme. Della Fiat Brava rimaneva solo la carcassa carbonizzata. Il
giorno dopo, sulle prime pagine dei giornali quell’auto rovesciata con il
devastatore sopra, in piedi, che la sovrastava come un torero che avesse
appena ucciso il toro, divenne il simbolo della seconda giornata. L’emblema
di una città devastata. L’inizio della fine di qualsiasi speranza in una
dimensione nuova, in nuovi modelli sociali, che non avessero mai più
compreso le disuguaglianze.
Corso Marconi era irriconoscibile. A terra c’era di tutto: bossoli di
lacrimogeni, pezzi di plastica carbonizzati, acqua, chiazze di olio. I
sottoportici erano diventati neri dal fumo degli incendi. A differenza della
sera prima, nell’aria, oltre all’odore acre dei lacrimogeni, c’era anche la
puzza di copertoni bruciati, e non solo.
Arrivammo davanti all’ingresso della Fiera e trovammo il nostro
dirigente. Raccontammo un po’ la situazione. Non parlava mai, ma gli
occhi dicevano tutto quello che teneva dentro. Ci disse che per noi la
giornata, anche quella giornata, era finita. Andammo in questura per le
ultime incombenze.
Invece non era ancora finita.
All’ingresso ci venne incontro un collega della Digos di Genova.
Abbassai il finestrino e ci disse che era stato diramato l’ordine che Squadra
mobile e Digos avrebbero dovuto arrestare chiunque portasse addosso segni
riconducibili alle manifestazioni di quei due giorni. Ci guardammo
scuotendo la testa. Come dire, ci mancava pure questa.
Davanti a noi si era presentata una pattuglia con un’auto di servizio. Era
una Subaru, colori d’istituto. I tre poliziotti indossavano la divisa atlantica,
quella estiva. La camicia blu con le maniche corte. La stessa che avevo
indossato la prima volta che entrai nella caserma intitolata al giovane
commissario Alfredo Albanese. La seguimmo con la nostra 155.
Cominciammo a percorrere alcune strade del centro, fino a quando la
Subaru si fermò. Scesero i tre poliziotti e il capopattuglia ci ordinò di
arrestare due giovani seduti al tavolo di un pub. Erano un ragazzo e una
ragazza; non facevano nulla di male, stavano solo sorseggiando una birra e
non avevano più di vent’anni.
Osservammo meglio la situazione e, quando fummo realmente certi che
non avessero fatto nulla, dissi al capopattuglia che per noi era tutto regolare
e nel caso lui avesse avuto informazioni differenti sarebbe potuto
intervenire. Non potevamo arrestare due persone solo perché ce lo aveva
detto un collega. Non funziona esattamente così. Inveì immediatamente:
«Lei non sa chi sono io, le ripeto che le sto ordinando di arrestare quei
due». Guardai quell’uomo. Osservai che sulle spalline non aveva i gradi.
Eppure, non sembrava un ventenne fresco di nomina. Non mi soffermai
molto su quel particolare. Guardai il mio collega. Stava sorridendo.
Il tipo in divisa – sì, lo chiamo così perché non lo ritengo un collega – a
un certo punto con la mano girò sottosopra la spallina dove si infilano i
gradi. L’aveva girata per nasconderli. «Sono un vicequestore, vi ordino di
arrestarli.» Di male in peggio, pensai. Ovviamente venne normale rifiutare
un simile ordine, anche perché poi vallo a spiegare al magistrato che hai
arrestato un paio di ragazzi innocenti soltanto perché te lo ha ordinato un
superiore. La responsabilità penale è individuale, avrebbe risposto.
Insistette un paio di volte. Alla terza gli dissi: «Senti, se ritieni che questi
due ragazzi abbiano commesso un reato, arrestali tu, sei anche in divisa.
Intanto dimmi come ti chiami». Non l’avessi mai fatto. «Io non devo dire a
nessuno come mi chiamo, sei tu che devi dirmi come ti chiami.» A quel
punto non ebbi più nessun riguardo. Chiesi al collega di trascrivere il
numero di targa dell’auto e dissi a quel tipo come mi chiamavo, il mio ruolo
e dove prestavo servizio. Salimmo in macchina e andammo via. Tornammo
in questura. Salutammo il collega che era venuto con noi e telefonammo al
dirigente. Ci disse che potevamo andare a cena, lui si sarebbe fatto
accompagnare in albergo da qualcun altro e ci saremmo incontrati
direttamente a Nervi. Speravo che quella giornata si fosse finalmente
conclusa. Invece no. Subito tornò il collega della Digos di Genova. Ci
fermò al volo e ci disse che dovevamo salire in questura perché era in corso
una riunione. Una fonte aveva rivelato che dentro la scuola Diaz c’erano
armi.
Roba da matti.

E se…?

Quel 21 luglio stava diventando un incubo. «Armi alla Diaz?» chiesi al


collega. «Neanche se le vedessi con i miei occhi ci crederei.»
«Dobbiamo salire, dovete venire con me.»
«Non ci pensiamo neanche, se aveste bisogno di noi ci potreste
telefonare.»
Dissi che non mi sentivo molto bene e che se avesse continuato a
insistere, mi sarei steso a terra e lo avrei costretto a chiamare l’ambulanza.
Se ne andò. Aveva capito che non c’era nulla da fare per convincerci.
Decidemmo di allontanarci per non rischiare di farci coinvolgere in
qualche altra strana storia. Ci rifugiammo in zona Fiera, allestita per
ospitare le forze dell’ordine. La mensa era deserta, solo qualche anima
vagabonda se ne stava seduta a guardare la televisione muta. Nel bancone
del self-service non c’era quasi più niente, soltanto qualche piatto ricoperto
dal cellofan, cibi freddi tipo pomodori e cetrioli con mozzarella ingiallita.
Oppure, insalata ispida mista a carote grattugiate. No, ai potenti non
facevano trovare nel piatto questo genere di cibo. Ai presidenti, alle loro
delegazioni, avevano riservato qualcosa di meglio. A un certo punto,
apparvero due panini confezionati, sottovuoto da chissà quanto tempo, con
una fetta di prosciutto che sembrava una bistecca cruda, e una di formaggio
abbastanza rinsecchito. La confezione era unta all’interno e appena aperta
un miscuglio chimico, gelatinoso, che odorava di sottiletta, impregnò l’aria.
Con il passare degli anni ogni ricordo di Genova finisce sempre su quel
panino, che nei racconti diventa il più atteso e saporito che avessi mai
mangiato. Anche al mio compagno di viaggio piaceva, sia allora, sia nei
ricordi. Erano uguali. Ci eravamo seduti anche noi e, guardando le
immagini che scorrevano sullo schermo della tv, scambiammo qualche
parola.
«Siamo sopravvissuti.»
«Sì, ma non è ancora finita.»
«Per noi sì, lì non andiamo, stai tranquillo» mi disse rassicurandomi.
Quando tornammo sotto la questura era ormai notte. Prima andammo a fare
un giro di perlustrazione. Ci fermavamo di tanto in tanto. Cercammo di
sistemare qualche cassonetto ancora integro rimettendolo al suo posto. Era
come se, in qualche modo, avessimo bisogno di rimettere tutto in ordine.
Anche alcuni volontari di un’associazione di cui non ricordo il nome
avevano cominciato a restituire un volto decente alla città. Era un dovere
morale. Un dovere di Stato. Quasi come se ci sentissimo in colpa e
volessimo scusarci sommessamente. Non potevamo sapere che il peggio
doveva ancora arrivare.
I quartieri più danneggiati erano Foce e San Fruttuoso. Via Tolemaide
era vuota. All’incrocio con corso Torino il mezzo blindato dei carabinieri
era già stato portato via, ma sull’asfalto c’erano ancora le tracce del fuoco e
dei copertoni bruciati.
Quando tornammo sotto la questura notammo una normalità insolita.
Aspettammo un po’, forse attendevamo la telefonata del nostro dirigente.
Intanto arrivarono dei colleghi di Venezia. Anche loro avevano appena
finito il loro G8. Quello dentro la zona rossa. Erano stati ingaggiati per la
sicurezza dei capi di Stato e delle delegazioni al seguito. Rimasero stupiti di
vederci ancora lì. Spiegammo il motivo, ma in effetti avevano ragione, ce
ne saremmo già dovuti andare. Poco prima, però, avevamo visto partire
alcuni mezzi dei reparti. Non ricordo l’ora, ma di sicuro era intorno alle
ventitré.

La notizia apparve subito su televideo: assalto della polizia alla Diaz.


Andammo sul posto a vedere cosa fosse successo. Un disastro.
Via Cesare Battisti era irriconoscibile. L’ingresso della scuola sembrava
quello di una camera ardente: piantonato ai lati da due ali di caschi azzurri.
Ogni singola persona che si trovava dentro a quell’istituto, anche solo nel
giardino, probabilmente non si rendeva conto che stava violentando il luogo
più alto di una società. Il luogo della libertà di pensiero,
dell’approfondimento, della progettazione culturale.
Avevano chiesto anche a noi di entrare. Non era mai successo che le
forze dell’ordine penetrassero in una scuola, tantomeno che lo facessero in
quel modo. Guardavo con il fiato sospeso. Era appena accaduto
l’inimmaginabile. Non sapevo da che parte girarmi. Il mio compagno di
viaggio non parlava. Eravamo arrivati quando tutto era finito. Sentivo
medici e infermieri che si domandavano come fosse possibile una cosa del
genere.
Un poliziotto si era alzato la visiera. Mi guardava con gli occhi rossi. Mi
stava dicendo qualcosa, ma in mezzo al frastuono non sentivo nulla. Mi
avvicinai. «Sono sconvolto quanto te» mi disse. E tirò giù di nuovo la
visiera.
Non potevo credere a quello che vedevo. Dalle finestre delle scuole di
fronte a quella in cui era avvenuta l’irruzione, studenti e insegnanti
urlavano contro la polizia. Uscivano ragazzi stesi sulle barelle. Uno
addirittura tremava e aveva il volto tumefatto, un altro la pancia piena di
sangue.
Guardavo l’asfalto: c’erano garze, bende, fazzoletti insanguinati. Ero
dietro gli scudi dei carabinieri. Videro il distintivo e mi lasciarono un po’ di
spazio. «Non siamo entrati noi» mi disse uno di loro, «solo i vostri.» Non
gli avevo chiesto nulla, ma il fatto che avesse comunque voluto
puntualizzare significava che non approvava. Anche altri dello
schieramento avevano sentito il suo commento. Il loro silenzio fu un
assenso. Le voci sul fatto che all’interno della Diaz ci fossero state armi e
oggetti da distruzione, tipo mazze o spranghe, non le ritenevo attendibili,
per la semplice ragione che sapevo chi c’era lì dentro e, soprattutto, a quale
scopo era stato destinato quell’edificio.
Mentre il macabro spettacolo sfilava sotto i miei occhi, provavo a
immaginare cosa fosse appena accaduto dentro quelle mura. Mi aggredì un
senso di colpa. Dentro di me si stavano facendo strada il rimorso e il
rimpianto per avere infranto una norma etica. Continuavo a ripetermi che
avevo agito in modo sbagliato, per nulla altruistico e socialmente
inaccettabile. Non avevo infranto una regola scritta, avevo fatto una scelta
sbagliata, che in quel momento ritenevo giusta, perché dettata dalla paura.
Sapevo che entrare in quella scuola sarebbe stato l’errore più grande che lo
Stato, rappresentato da quella catena di comando, avrebbe fatto dal secondo
dopoguerra. Avrei dovuto riflettere, prima di pensare solo a mettermi in
salvo sotto l’aspetto giudiziario. Ero un servitore dello Stato. Un difensore
della democrazia e della Costituzione. Quindi, dei cittadini. Sì, in
quell’attimo eterno pensai di non avere agito nel modo corretto. Mi stavo
condannando. La correlazione tra il mio agire e la visione di tanta violenza
mi restituiva la sensazione di essere semplicemente sopravvissuto.
E se, invece, avessi partecipato a quella rappresaglia, come mi sarei
comportato? Avrei potuto fermare in tempo il massacro? Oppure avrebbero
bastonato anche me? Credo che la mattina successiva, qualora fossi entrato
o fossi stato costretto a partecipare a quell’operazione, mi sarei recato negli
uffici della Procura della Repubblica. Avrei atteso la disponibilità del
procuratore e avrei raccontato ogni cosa nei minimi dettagli. Forse avrei
fatto la cosa giusta, se avessi partecipato a quell’operazione. Con tutta
probabilità gli accertamenti sarebbero stati più veloci. Di sicuro c’è che
avrei dovuto trovarmi un altro lavoro, dopo essere stato bollato come un
infame.
Sta di fatto che ero lì, davanti a quella scuola i cui cancelli avevo varcato
più di una volta nei mesi precedenti. Mai avrei potuto immaginare di
trovarmi dinnanzi a tanta violenza. Guardavo il portone aperto e tutta quella
gente che entrava e usciva tranquillamente, come se nulla fosse accaduto,
tranne medici e infermieri che erano visibilmente scossi, qualcuno anche
impaurito. Un sanitario giovane, con addosso il camice sporco di sangue,
stava tornando dentro la scuola facendosi largo tra gli scudi: «Fatemi
passare, cazzo, non vi basta quello che avete combinato? Avete bisogno di
bastonare ancora, me compreso?».

L’uomo sbagliato nel posto sbagliato

Nel corso degli anni qualche volta mi fermo a fare delle riflessioni. Per
esempio, se avessi partecipato alla riunione a cui eravamo stati invitati con
insistenza, avrei avuto la forza, di fronte ai vertici della polizia e della
direzione a cui appartenevo, di prendere una posizione, sostenendo che
prima di decidere una manovra operativa del genere sarebbe stata quanto
meno necessaria una ricognizione da parte nostra, ammesso che fosse stato
necessario entrare alla Diaz? No, nessuno avrebbe avuto la forza di opporsi.
Almeno non noi. Di sicuro ci avrebbero detto: «State zitti, nessuno vi ha
interpellato, non siete voi a decidere, alla fine siamo noi i responsabili, mica
voi». Con la nostra assenza non avevamo dato loro modo di dirlo, ma
sarebbero state più o meno queste le parole che ci saremmo sentiti
rivolgere.
Be’, sembra tutto chiaro.
Conoscevo Arnaldo La Barbera, la persona che guidò l’assalto alla Diaz.
Proprio per questo mi sono arrovellato il cervello molte volte nell’arco di
questi vent’anni. Certo, era un uomo che non le mandava a dire, ma era
specializzato in un settore altrettanto delicato, il cui approccio doveva
avvenire su un piano culturale totalmente differente. Mafiosi, camorristi,
assassini, erano e sono soggetti che si pongono al di fuori della legge e della
società, ma culturalmente inferiori. Non sono studenti, intellettuali, ragazze
e ragazzi preparati con cui si deve discutere, ragionare. E da cui si può
imparare. Darsi una risposta sulle ragioni che portarono La Barbera ad
autorizzare quell’azione – di cui forse, e dico forse, aveva sottovalutato la
portata – è impossibile. Quello che credo è che, a suo modo, anche lui sia
stato una vittima. Vittima dell’incompetenza, ma non si possono giustificare
certe decisioni. Soprattutto da parte di chi aveva la responsabilità di gestire
l’ordine pubblico.
Il ruolo che occupava all’epoca non gli era stato certo imposto. L’aveva
accettato. Se si fosse reso conto in tempo che non era fatto per lui, forse le
cose sarebbero andare diversamente. Forse.
In quella totale desolazione mi sentivo inutile. Qualche ora prima
bisognava arrestare chiunque portasse i segni del G8 o indossasse abiti
riconducibili alle manifestazioni. Poi, le armi dentro la Diaz. C’era qualcosa
di anomalo.

Arnaldo La Barbera, dopo essere stato sollevato dall’incarico di direttore


dell’Ucigos a seguito dell’inchiesta amministrativa disposta dal Viminale
sui fatti di Genova, durante l’audizione del comitato parlamentare
d’indagine, e dopo quella di Francesco Colucci (assolto per intervenuta
prescrizione nel 2016), lanciò pesanti accuse ai servizi segreti. In effetti,
non aveva tutti i torti. Le segnalazioni che giungevano avevano tutte le
caratteristiche di piccole trame di fiction, pure scritte male: palloncini con
sangue umano infetto da buttare sui manifestanti; copertoni di auto in
fiamme da lanciare sulle colline di Genova (come se da un punto qualsiasi
della città uno possa tirare un copertone in fiamme con una forza tale da
fargli sorvolare l’abitato fino a raggiungere le colline; neanche Hulk ci
sarebbe riuscito); l’affitto di un canale satellitare per divulgare la protesta a
livello mondiale; buste di plastica con sangue di maiale da scagliare sulle
forze dell’ordine per disorientarle e la predisposizione di due testuggini
umane, formate da ottanta manifestanti ciascuna. Insomma, neanche ai
registi più fantasiosi del pianeta sarebbero venute idee del genere. Infatti,
non accadde nulla di tutto ciò.
Dunque, dopo il G8 di Genova, Arnaldo La Barbera sostenne che le
informazioni dei servizi segreti non portarono contributi alla prevenzione;
peraltro era proprio lui il capo della polizia di prevenzione, in quei giorni.
Sarebbe interessante, però, scoprire quali fonti avevano interpellato i
servizi segreti. Se si trattasse di informatori trovati per strada o pagati con i
soldi dei contribuenti. Ma anche qualora fossero giunte segnalazioni del
genere, gli strumenti per verificarle, senza oberare di lavoro gli apparati
della polizia di Stato, c’erano. Non sarebbe stato un compito immane,
soprattutto per gli analisti. Perciò, va da sé che in qualche modo vi era una
volontà di fermare il movimento e la contestazione. A prescindere che
fossero manifestazioni di agnellini o di pazzi scatenati. Sarebbe andata
comunque nello stesso modo. Furono proprio quelle notizie a gettare il
necessario discredito affinché si creasse una vera e propria psicosi del
terrore.
Ma una cosa ancora non è chiara sul conto di La Barbera: «La
perquisizione doveva essere fatta per dare un senso alla polizia» disse, «ma
nello stesso tempo, arrivato sul posto rimasi molto perplesso
sull’operazione, perché percepii un generale e complessivo stato di
tensione». Una giustificazione poco credibile, soprattutto dal punto di vista
professionale. E allora, da chi stava prendendo ordini? Quello che è certo è
che non basta armarsi di manganello e prepararsi tecnicamente e
strategicamente per affrontare una discussione – anche aspra – di
dimensioni simili a quella del G8 di Genova. Anche nelle forze dell’ordine
occorre una preparazione politica, una conoscenza specifica sui temi sociali.
Non si può agire manganellando o sfondando porte e teste a casaccio, giusto
per fare arresti con il fine di bilanciare i danni. E chi più di un settore come
la polizia di prevenzione (ex Ucigos), quindi la Digos, può essere preparato
per affrontare certe situazioni? Ecco perché l’errore fu quello di affidare
l’ordine pubblico nelle mani di chi non aveva chiaro cosa sarebbe accaduto
qualora avesse prevalso la forza anziché l’intelletto, né possedeva la
conoscenza dei temi che stavano per essere affrontati.

Chi è Stato?
Quando la gente ti incontra non vede te, ma la polizia, ciò che rappresenti.
E già stavo provando un senso di vergogna, a prescindere dal fatto che ci
fossero state o meno armi dentro quella scuola. Si sapeva cosa sarebbe
successo, di certo mediaticamente non ne saremmo usciti bene. Anch’io ero
coinvolto, perché c’ero e il senso di colpa indiretto me lo portai dentro per
molti anni.
Fu un epilogo assurdo. In quei giorni maledetti si sarebbe potuto
immaginare di tutto, ma un’irruzione dentro la Diaz no. Era troppo.
Avevo difficoltà a staccarmi da quel posto. Dovevo riuscire a capire.
Ancora oggi non mi sono dato delle risposte. A distanza di tanti anni
quando vedo una carica faccio molta fatica a tenermi lontano da quei giorni
e dalle immagini di quella notte alla Diaz.
Le ambulanze andavano e venivano in continuazione, il viavai di gente
era inarrestabile, sembrava non finire mai. Poco più in là dei ragazzi erano
seduti su un muretto di recinzione. Di sicuro non erano scampati alla furia,
probabile fossero arrivati subito dopo. Uno di loro volle osservare bene il
distintivo che tenevo appeso al collo. Poi, alzò gli occhi e mi guardò. Avrei
voluto dirgli che disapprovavo, ma avrei peggiorato la situazione,
confermando la parte di chi si stava defilando. Insomma, non avevo
scampo. Anch’io rappresentavo la polizia di Stato e avevo l’obbligo morale
di tenere alti i valori su cui si fondava.
Vidi Roberto Sgalla uscire dalla scuola, lo salutai. Mi riconobbe. Negli
anni Ottanta era stato il segretario nazionale del Siulp [Sindacato italiano
unitario lavoratori polizia, ndr]. Lo stimavo perché era brillante, colto,
preparato. E non aveva paura di difendere la categoria. Mi sentivo
rappresentato da lui. Lo vidi cupo in volto. «Che ci fai qui?» Gli dissi che
ero corso dopo avere appreso la notizia dal televideo. «Vattene» rispose con
aria preoccupata. Ero convinto non avesse approvato nulla di quello che i
miei occhi stavano vedendo. A tutt’oggi voglio credere al fatto che anche
lui possa essere stato ingannato. Ma se così fosse, avrebbe dovuto dire la
verità. Gridarla subito, senza la minima esitazione. Di fronte a dei giovani,
ragazze e ragazzi, bastonati a sangue, avrebbe dovuto fare quello che avrei
fatto io se fossi entrato in quella scuola qualche ora prima e se non fossi
stato in grado di fermare la mattanza: sedersi sugli scalini della Procura
della Repubblica e aspettare il procuratore. Solo così avrebbe potuto essere
a posto con la coscienza. Non lo sono mai stato neanche io, seppure quella
notte non entrai in quelle aule.
Tra la folla inquieta e nervosa cercavo qualcuno che avesse un
cedimento di coscienza. Guardavo i volti di quei poliziotti con la visiera
sollevata. Vi fosse stato almeno un pentito, lo avrei notato. Forse c’era, ne
sono sicuro, ma fu difficile individuarlo. Gli avrei chiesto di raccontarmi,
perché avevo bisogno di conferme. Rimanere nel dubbio sarebbe stata una
sofferenza, come del resto lo fu. Rimasi a guardare ancora un po’, ma non
c’era più nulla da fare. Ero arrivato tardi. O, forse, non avrei mai dovuto
vedere.

L’odore del sangue

Tornammo in albergo. Nessuno aveva voglia di commentare. L’unica


spiegazione restò appesa, non servivano risposte: «Hanno fatto una
cazzata». Il senso poteva anche essere riduttivo, ma nonostante non vi fosse
ancora nessuna prova che l’irruzione era stata decisa sulla base di prove
falsificate, rendeva l’idea del fatto che, comunque, una violenza di tali
dimensioni non avrebbe dovuto ottenere il benestare di nessuno.
In quella riunione non c’erano solo due persone a decidere l’intervento.
Erano una decina, forse di più. E tra tutti nessuno ebbe un sussulto di
coscienza. Tutti obbedirono agli ordini di chi? Di quello che un tempo era
un giovane funzionario dai buoni propositi, intelligente, sveglio e affidabile
tanto da ottenere la fiducia dell’uomo che più di ogni altro, in quegli anni,
insieme a Paolo Borsellino, si era distinto per la compostezza professionale
e per l’immensa umanità? Sì, probabilmente obbedirono a lui, Gianni De
Gennaro. O forse no, perché pure lui obbedì a qualcuno. Ma quella sera non
potevo saperlo, come del resto ancora non potevamo sapere che a girarsi le
spalline per nascondere i gradi era stato lo stesso funzionario che piazzò le
molotov dentro la Diaz per provare la legittimità dell’intervento: Pietro
Troiani.
Conoscevo quei corridoi e quelle stanze, la palestra, le scale, i
pianerottoli. Era primavera quando entrammo alla Diaz la prima volta.
Chiunque incontrassimo aveva il volto felice. E accettavo l’ironia: «Che ci
fa la Digos qui dentro?». Quando ci vedevano ci sbeffeggiavano, ma
sapevano che non avremmo mai toccato nessuno. Ricordo che entrammo in
una stanza allestita a segreteria, c’erano dei computer accesi, dei ragazzi e
alcuni insegnanti. Sapevano chi fossimo. Si fermarono e noi alzammo le
mani: «Tutto a posto» dissi istintivamente. Ci offrirono del caffè fatto con la
moka; si stava bene in quell’atmosfera creativa, con quella voglia di
cambiare il mondo e di dare un volto a chi non aveva la possibilità di far
sentire la propria voce. Insomma, si percepiva profumo di fresco e di pulito.
Tutto il contrario di ciò che dovetti respirare qualche mese dopo. L’odore
del sangue. Il tanfo della violenza.

Il parafulmine

Erano circa le tre di notte. Non riuscivo a dormire. Mi alzai. Feci piano per
non svegliare il mio collega. Dal terrazzino si vedeva il mare, ma l’aria
pizzicava anche a Nervi. Il fumo dei lacrimogeni era arrivato pure in quella
località bellissima.
Sembrava distante il centro di Genova, invece era più vicino di quanto si
potesse immaginare. Pensavo a tutto quello che sarebbe successo. Ero
amareggiato: molti miei colleghi avevano disonorato la divisa che
indossavano, l’avevano scambiata per una sorta di scudo per la loro
immunità. Da giovane, nel periodo in cui rimasi nella scuola di Alessandria
– un anno esatto – ogni giorno ci ricordavano che «Un poliziotto deve
essere sempre irreprensibile. Indossare una divisa significa rappresentare lo
Stato e noi rappresentiamo uno Stato democratico». A insegnarcelo era un
ispettore attento e rigoroso. Ricordo il suo cognome, si chiamava Maione.
Sapeva bene com’era il mondo fuori da quella scuola e faceva di tutto per
rendercelo meno ostile. «Il rispetto lo dobbiamo dare prima noi.»
Pretendeva che la divisa fosse sempre in ordine, pulita. Anche la mimetica
doveva essere indossata per bene. La mattina bisognava radersi la barba e
presentarsi in aula in orario. Non avevo difficoltà a farlo, il servizio militare
mi aveva già dato una buona preparazione in tal senso. Tuttavia,
l’impostazione acquisita durante il corso di formazione servì molto a
comprendere che dentro a una divisa sei lo Stato. Anche quando non la
indossi, come nel mio caso. In buona sostanza, lo rappresenti sempre,
perché alla fine si sa che lavoro fai, per quanto tu possa tenere riservati
alcuni particolari. E con chiunque ti relazioni non sei mai tu che interagisci,
ma è lo Stato.
Sotto quel cielo stellato, che si univa al blu intenso del mare, iniziai
seriamente a mettermi nell’ordine di idee che avrei ricevuto le più aspre
disapprovazioni. Anch’io, pur non avendo condiviso le scelte fatte dai
vertici della polizia di Stato e dal governo, oltre che biasimare il
comportamento violento di alcuni colleghi, stavo per diventare un
parafulmine. «Ricordatevi sempre che sarete un bersaglio, gli insulti non
saranno mai diretti alla vostra persona, ma ai politici, anche se non li
rappresentate, perché vi diranno che voi li difendete.» Furono queste le
ultime parole dell’ispettore il giorno in cui lasciammo la scuola di
Alessandria per raggiungere le sedi assegnateci.
Mi rimisi a letto, cercai invano di dormire, ma le immagini ebbero il
sopravvento. Quando chiudevo gli occhi nel tentativo di addormentarmi
quei ragazzi insanguinati e distesi sulle barelle continuavano a passarmi
davanti.
Decisi di farmi una doccia e scendere nella hall. Caricai la mia borsa
nell’auto e mi preparai al viaggio di ritorno. L’aria era fresca e sembrava
che il fumo acre fosse stato spazzato via dalla brezza notturna. Ma non
potevo averne certezza, quel fastidioso odore me lo portai nel naso per
qualche mese. E anche oggi, a ripensarci, qualche traccia ancora c’è.

«Fate schifo»

Lasciammo Nervi e ci recammo in questura. Passammo davanti al Carlini e


all’interno c’era ancora chi si stava organizzando per tornare a casa. Era
tutto finito. Quando ti volti e guardi indietro sembra che il tempo sia
passato in fretta, veloce come un fulmine, ma quando ci sei dentro e lo stai
percorrendo non vedi l’ora che arrivi la fine di tutto. Si erano conclusi quei
tre giorni, ma era iniziato il lungo cammino verso la verità.
«Di Ustica ancora non si sa nulla, immagino che per i prossimi vent’anni
il G8 sarà un incubo per tutti, specie per gli innocenti» disse il mio collega.
Ripercorremmo in auto la strada che un paio di giorni prima avevamo fatto
a piedi. I segni c’erano ancora tutti e gli operatori ecologici avevano
cominciato a toglierli, nonostante fosse domenica. Anche molte altre
persone cercavano di dare il proprio contributo affinché la città potesse
tornare alla normalità.
Il silenzio di quella mattina era quello di chi sopporta ma non approva. E
ne fu dimostrazione un episodio, apparentemente insignificante, ma che a
chi di mestiere faceva l’osservatore non sarebbe potuto sfuggire. Appena
scesi dall’auto, davanti alla questura, mi passarono a fianco due signori di
mezza età. Stavano parlando tra loro e a un certo punto si girarono verso di
me: «Ottimo lavoro» disse uno dei due, mentre l’altro approvava con cenni
della testa. «State andando a ritirare le medaglie? Bravi, proprio bravi.» Di
solito erano sfottò di ragazzi, di giovani, come dire, ribelli al sistema, ma lì,
in quel momento, mentre stavo scendendo dall’auto, quelle parole vennero
dette da due persone distinte, che in un’altra circostanza mai avrei
immaginato potessero essere così dirette e senza il riguardo normalmente
riservato alle istituzioni.
Entrai in questura per sbrigare i soliti iter burocratici: timbri, fogli di
viaggio eccetera. Mentre aspettavamo il nostro capoufficio, ci sedemmo
nell’androne. Di certo non avevamo l’aria serena di chi ha appena finito una
breve gita fuori porta, ma ci aspettava ben di peggio, a partire dal giorno
dopo: la sede principale dei Centri sociali era Marghera, il Rivolta.
Avremmo dovuto fare i conti con le quotidiane accuse, soprattutto nelle
manifestazioni di protesta in ambito locale.
A Genova non c’era più niente, era rimasta soltanto l’impronta di una
guerriglia innescata dall’incoscienza di uomini che tra loro non si
conoscono ma che, per molti aspetti, sono uguali l’uno all’altro. Eravamo
come dei soldati di vetro sul punto di frantumarci di fronte al mondo intero,
impressionati, uno contro l’altro, paradossalmente somiglianti.

Seduto nell’androne, quella mattina di domenica 22 luglio vidi in faccia la


verità molto prima che s’iniziasse a ripetere di volerla cercare. Gridavano:
«J’avemo menato a sti rotti in culo, froci de merda». Certo, loro avevano
assestato randellate in ogni parte del corpo, dentro alla Diaz. «Quelli nun
fanno più un cazzo, mo’ non rompono più i cojoni per un pezzo, sti
comunisti de merda.» Un altro, il più alto, continuava a ripetere: «Semo
stati li mejo, j’avemo fatto vede’ noi come se fa a quelli daa Digos».
Mi alzai di scatto, ma venni trattenuto dalla mano ferma del mio collega.
Mi bloccò, ma non riuscì a fermare le mie parole: «Siete criminali, fate
schifo».
Mi resi conto di avere appena avuto davanti agli occhi la prova di quanto
era accaduto poche ore prima. Lo Stato si era affidato a degli incompetenti,
persone che non avrebbero mai dovuto svolgere quel ruolo tanto importante
quanto delicato. In quel momento le mie certezze verso i vertici della
polizia di Stato cominciarono a scricchiolare. In mezzo a tante lauree e
altrettanta riconosciuta competenza, nessuno si era accorto che sarebbe
stato meglio chiudere quelle due giornate maledette alle diciotto di sabato
21 luglio 2001? Ne avremmo parlato ugualmente per vent’anni. Il sangue di
corso Italia e l’uccisione di Carlo Giuliani sarebbero stati argomenti
sufficienti, purtroppo. Evidentemente prevalse la spudoratezza di mostrare a
tutti i costi i muscoli, anziché agire con intelligenza e preparazione.
Alla base di tutto c’era forse l’impunità che la classe politica garantiva,
proprio come avveniva ai tempi di Mario Scelba, il creatore della
repressione in persona, la quintessenza della politica antipopolare della
Democrazia cristiana, il mandante delle manganellate e delle uccisioni di
operai e manifestanti. In quel frangente era l’impunità del governo
Berlusconi, il cui ministro dell’Interno Claudio Scajola nulla fece per
fermare quell’inutile massacro. Anzi, nella sua candida reverenza si
mostrava soddisfatto di come si erano comportati quei servitori dello Stato,
che avevano appena sfilato dentro l’ingresso della questura di Genova
mostrando tutta la loro gioia per avere fracassato le ossa a quei giovani,
ragazze e ragazzi, anziani, giornalisti, persone per bene.
Uscimmo dalla questura e mi accesi un sigaro. Rimasi solo, quasi a
ridosso di via Armando Diaz. Dall’edificio uscì un gruppo di persone, una
di loro si diresse verso di me: «Non te la prendere, saranno anni difficili.
Forse non lo sai, ma a Bolzaneto è successa più o meno la stessa cosa.
Continua a fare il bravo, a distinguerti. Buon rientro a Venezia». Lo avevo
visto nei giorni prima, ma non sapevo come si chiamasse. Era un agente dei
servizi, probabilmente un ex funzionario di polizia, non avevo dubbi. Non
lo rividi più. Ma il fatto che un appartenente ai servizi mi avesse detto
quella cosa mi fece capire che non ero stato il solo a formulare certe ipotesi.
E che anche all’interno dello Stato e degli apparati di sicurezza c’era la
consapevolezza che di errori ne erano stati fatti fin troppi.
Mi diede addirittura l’idea che mi stesse mettendo in guardia dai miei
colleghi. Come dire, stai attento, hanno dimostrato di essere capaci di tutto.
I vertici sapevano cosa realmente fosse successo? Approvavano, oppure in
qualche modo non avevano scelta e dovevano tentare di salvare le gesta di
chi aveva appena massacrato tutte quelle persone? Il fatto che in Italia la
polizia non torturasse era ormai diventata una bugia storica. Ma veniva fatto
passare per un comportamento lecito, perché «erano anni di piombo, erano
tempi difficili». Poche parole che, però, ammettevano le violenze, i soprusi,
le uccisioni.
Poi, ci sono quelli che sostengono sia giusto e che chi rivolge queste
accuse è complice, o era complice, dei brigatisti e degli assassini. Oggi, a
distanza di anni, nessuno però, pur non essendoci ancora condanne passate
in giudicato, ovvero non essendoci colpevoli, si esprime sostenendo che i
responsabili morali delle stragi di Stato fecero gli stessi danni dei brigatisti i
quali, vigliaccamente, colpirono persone inermi, giornalisti, uomini dello
Stato. Ma su questo punto ci sarebbe da scrivere un altro libro.
È vero che l’istinto, qualora incontrollato, potrebbe far prendere strade
differenti dalla legalità. Ma non è questo che un uomo di Stato deve fare.
Invece, lì, a Genova, accadde. La stessa cosa era successa circa quattro mesi
prima a Napoli, dove il 17 marzo 2001 si era svolto il Global Forum. Il
presidente del Consiglio dei ministri in carica era Giuliano Amato e il
ministro dell’Interno Enzo Bianco. Il governo dell’Ulivo, ancora per pochi
giorni. Probabilmente fu una sorta di prova per testare la tenuta della piazza
a Genova. O forse per mandare un segnale chiaro di cosa sarebbe accaduto?
Ciò che interessa è quel che stabilirono i giudici, dopo i violenti scontri
avvenuti in piazza Municipio: «Un vero e proprio rastrellamento, volto a
prelevare indiscriminatamente dagli ospedali tutti coloro i quali avevano
fatto ricorso alle cure delle strutture di pronto soccorso, per tradurli
coattivamente presso la caserma Raniero». Un banco di prova? Del resto,
anche in questura a Napoli vi erano i fedelissimi del grande capo. Il
questore era Nicola Izzo, la stessa persona che divenne poi vicecapo della
polizia e ci rimase nonostante il suo coinvolgimento nell’inchiesta
napoletana su Finmeccanica, indagine archiviata nel 2014.
Alessandro Marangoni era il suo capo di gabinetto, che per un soffio
dovette rinunciare al posto di capo della polizia dopo essere stato il vice al
posto di Izzo. Tanto per dare l’idea di come era iniziato quel 2001. Fatti su
cui Marco Preve, nel suo bellissimo libro Il partito della polizia
(Chiarelettere, Milano 2014), ha ben ricostruito quale fosse la catena di
comando della polizia di Stato in quegli anni.

Il ritorno

Il 22 luglio si era appena mostrato l’altro volto del G8, quello da


smascherare, da indagare. Quel volto che aveva bisogno di essere rivelato,
nonostante fosse già abbondantemente conosciuto. Si percepiva nitidamente
cosa fosse davvero accaduto, non c’erano dubbi. Servivano solo le prove.
Avevo tentato di fare colazione prima di preparare l’auto. In albergo
sono sempre abbondanti, ma non avevo fame. A stento ero riuscito a bere
un caffè. Lo stomaco era completamente chiuso.
L’universo aveva voluto mostrarmi la sofferenza. Negli attimi successivi
al mio arrivo fuori dai cancelli della Diaz avevo provato a immaginare cosa
avrei fatto se, finito il servizio militare, avessi intrapreso la carriera del
giornalista. Mi immaginavo dentro quelle mura. Oppure, nelle piazze di
Genova durante gli scontri, mentre contribuivo a una diretta della Rai.
Conoscendomi, sicuramente avrei chiesto la possibilità di dormire dentro la
Diaz, non tanto per risparmiare in termini di denaro, ma per raccontare
quella spinta emotiva, il bisogno di costruire un mondo migliore. Avrei
riferito che si era aperto uno spiraglio di luce dopo tante lacerazioni sociali.
Un movimento immenso che non chiedeva nulla per sé, che aveva iniziato a
mettere insieme donne e uomini di qualsiasi età. Avrei descritto i volti di
quei ragazzi, di quei giovani pieni di vita e di voglia di vivere. Avrei,
appunto. Ma se avessi alloggiato dentro la scuola, non avrei potuto
raccontare tutto questo. Mi sarei trovato improvvisamente di fronte a uno
spartiacque. Tutta l’energia di colpo si sarebbe spenta. Quel mondo tanto
sognato avrei potuto osservarlo mentre qualcuno lo stava distruggendo sul
nascere. E avrei odiato la polizia.

Il ritorno fu silenzioso. Ci fermammo soltanto per un caffè nei pressi di


Piacenza. In auto non dormiva nessuno. Guardavo la strada dritto davanti a
noi. Sembrava infinita.
Arrivati finalmente nel piazzale della questura, molti scesero dagli uffici
e vennero a salutarci. Ci guardavano come fossimo stati miracolati, ma
nessuno applaudiva. Qualcuno, sommessamente, ci ringraziò. Altri ci
strinsero la mano: «Come sempre Venezia si distingue per l’alta
professionalità» ci disse il questore.
Sulla scrivania ogni cosa era disposta esattamente come il giorno in cui
eravamo partiti per Genova. Lasciai tutto com’era e andai a casa.
Nei giorni successivi iniziai a seguire le cronache facendo una sorta di
rassegna stampa specifica. Nei ritagli di tempo fissavo gli appunti su un
quaderno. Nei mesi successivi Giulietto Chiesa pubblicò per Einaudi
G8/Genova, il racconto in presa diretta di quei giorni. Criticò la polizia
sostenendo che era stato «un errore tattico». A distanza di vent’anni, dopo
avere elaborato a sufficienza quei giorni e avere chiare le responsabilità
penali e civili, si può liberamente sostenere che sì, è vero, le azioni di
violenza accertate di ogni singolo operatore di polizia sono da ritenersi casi
isolati, ma esisteva anche una regia, che nei giorni successivi poteva solo
essere supposta. E che oggi, invece, è confermata.

Continuai a svolgere il mio lavoro. Venezia era un’isola felice. Nel mio
ufficio nessuno aveva mai alzato un dito verso qualunque persona arrestata
o fermata. Al contrario, i diritti erano rispettati. Era così nel passato, quando
arrivai ancora acerbo, mingherlino e dentro una divisa troppo larga. Fu così
anche dopo. Non ho dubbi sulle nuove generazioni. L’importante è che
qualcuno dica loro cosa accadde realmente, senza nascondere nulla. Perché
si è visto cosa succede quando la verità viene nascosta per «sistemare» le
situazioni. Meglio dirla subito e assumersi le proprie responsabilità.
La polizia è un organismo di garanzia. Conosco direttamente gli attuali
vertici e posso affermare che il loro spirito democratico è saldamente
ancorato al dettato costituzionale, non solo per il dovere conferito, ma per
convinzione personale.
A pagina 78 del suo racconto, Giulietto Chiesa scriveva: «Tutta questa
storia ci ha messo di fronte a nuovi interrogativi: uno dei quali, non
l’ultimo, ci impone di sapere come è costituita la polizia italiana, chi la
comanda, chi forma i quadri, chi impartisce lezioni di vita oltre che lezioni
di tecnica. Sapere qual è il tasso di democrazia di carabinieri e polizia, è di
nuovo, come ai tempi di De Lorenzo, una questione vitale per il futuro
dell’Italia».
Credo che, oggi, la risposta a quella sua complessa domanda troverebbe
buoni riscontri. I fatti gravi negli anni dopo il G8 hanno dimostrato che le
complicità e le coperture all’interno di certi apparati non sono mai cessate. I
casi di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per esempio, hanno dato
conferma di come nulla fosse cambiato rispetto a prima.
Fortunatamente i nodi vengono sempre al pettine, grazie anche a una
magistratura indipendente, coraggiosa. Ma anche per merito di molti
poliziotti e altrettanti carabinieri, integerrimi, che indossano la divisa con
onore e svolgono il loro mestiere senza mai dimenticare di avere giurato
fedeltà alla Costituzione.
Conclusioni

La sera del 22 luglio iniziai a leggere le dichiarazioni fatte a caldo dai


politici e dagli organi istituzionali. A me interessava sapere che cosa
avrebbe detto, ma soprattutto cosa pensasse realmente il capo della polizia.
Mi aspettavo un chiaro segnale, non politico o di convenienza. Una sua
risposta in quanto responsabile dell’ordine pubblico, garante della
democrazia e del diritto costituzionale di manifestare il proprio dissenso.
Era difficile associare quello che avevo visto, e che in queste pagine per
la prima volta dopo vent’anni dai fatti sto provando a mettere per iscritto, a
una qualsiasi giustificazione. Avrebbero dovuto esserci motivazioni molto
forti, supportate da prove consistenti. Nemmeno le due molotov, qualora ne
fosse stata acclarata la presenza, avrebbero potuto giustificare un intervento
tanto crudele. Le immagini di quella notte erano ancora terribilmente
impresse nella mia testa. Non risultava che i reparti si fossero trovati di
fronte a uno schieramento di terroristi o criminali pronti a sparare. Al
contrario, data l’ora, alla Diaz stavano già dormendo, ma ancora nulla era
certo.
Lessi la dichiarazione del presidente del Consiglio: «Abbiamo lavorato
bene, con umiltà e spirito di servizio nell’interesse di tutto il mondo.
Peccato che il messaggio che è arrivato all’opinione pubblica sia stato
quello della violenza». L’istinto fu di non continuare la lettura, ma cercai
ancora una volta di mettere da parte la rabbia. Fu impossibile appena
proseguii. A proposito dell’intervento alla Diaz, sosteneva che non era stato
avvisato, ma avvertito dal ministro dell’Interno solo successivamente e in
merito al ritrovamento di armi improprie nella sede del Genoa Social
Forum. Nessun riferimento a coloro che avevano messo in atto una violenza
inaudita. Non mi interessavano i commenti sulla conclusione dei lavori del
summit, avevo bisogno di capire cosa ci fosse realmente dietro a quel
massacro e chi fosse il mandante. Non potevo credere che a ordinare
l’azione fosse stato il capo della polizia. Mi ero imposto di trovare chi più
in alto di lui aveva usato il proprio potere per imporgli eventualmente una
tale decisione.

Per molto tempo ho continuato a riflettere sulla mia personale scelta,


peraltro istintiva, di non partecipare alla perquisizione dentro la Diaz.
Anche oggi, a distanza di vent’anni, a volte mi chiedo cosa avrei potuto fare
se fossi stato lì. Probabilmente nulla, se non denunciare l’accaduto. In quel
caso, la mia vita avrebbe di certo preso una strada diversa. Sarei stato
marchiato come un infame, forse per sempre. Sarei stato ricordato come
quel poliziotto che aveva accusato i colleghi. A volte mi chiedevo come
avrebbero reagito alla mia denuncia il presidente del Consiglio dei ministri
e lo stesso ministro dell’Interno: avrebbero trovato il modo di screditarmi.
Tuttavia, se ci fossi davvero entrato, in quella scuola, non avrei esitato un
solo istante, qualora non avessi potuto fermare ciò che stava succedendo.
Non avrei avvertito nessuno. E neanche avrei chiesto di essere assistito da
un legale.
Sulla prima pagina del «Corriere della Sera» Berlusconi sosteneva: «La
città non meritava di essere straziata in questo modo». La cosa più
sconvolgente fu leggere che il capo del governo affermava che l’ordine
pubblico non dipendeva da lui. Già si stava lavando le mani. Aveva
scaricato il capo della polizia. Fu questa la mia prima ipotesi. Ancora non
era stato provato che le due molotov e altri oggetti erano stati collocati nella
scuola solo dopo la barbarie, per tentare di giustificarla.
Tra le tante dichiarazioni affrettate, quella del suo portavoce Paolo
Bonaiuti: «Non c’è stata alcuna valutazione politica su quanto accaduto,
non se n’è parlato minimamente, poiché sul tappeto ci sono temi epocali».
In realtà i temi su cui verteva il summit erano i soliti. Il fatto che gli scontri
e l’incursione alla Diaz avessero offuscato i lavori si presentava già dalle
prime dichiarazioni come una balla cosmica.
Dovevano esserci gli scontri per due ragioni semplicissime: fermare il
movimento e far passare in secondo piano i lavori del vertice. Sul primo
punto occorreva trovare un modo per attaccare chi protestava: bastava
infiltrare qualcuno e spostare l’attenzione sulle violenze, che non erano
nell’intenzione di nessuno dei manifestanti. Il secondo obiettivo dipendeva
dalla buona riuscita del primo: un summit inutile nei contenuti ufficiali, ma
importante perché gli otto leader si sarebbero visti personalmente. E, si sa,
di certi argomenti meglio non lasciare traccia. Soprattutto per quanto
riguarda la faccenda delle armi. La loro vendita legale e perché no, illegale.
Il «popolo di Seattle» aveva già vinto prima ancora di cominciare. Il
fatto che si fosse imposto quale protagonista assoluto senza incendi, vetrine
rotte e morti, stava suscitando molte perplessità. La sintesi del «movimento
dei movimenti» prevista in quelle giornate di Genova avrebbe scosso le
coscienze. Era questo il principale motivo per cui bisognava fermarli.
Ma perché, qualora ci fosse stata un’imposizione politica, i vertici
istituzionali aderirono sapendo che avrebbero sbagliato, non solo sotto
l’aspetto tattico, ma soprattutto sotto quello giuridico? Tatticamente, nel
caso della Diaz, se proprio vi fosse stata un’informativa riservata che avesse
dimostrato la presenza di armi all’interno della scuola, sarebbe stato
sufficiente mandare noi, non in divisa, ma con la scientifica al seguito. Non
sarebbe successo nulla. Se ci fosse stato qualcosa da sequestrare o qualcuno
da arrestare o mettere in stato di fermo, gli strumenti li avevamo, eravamo
preparati meglio di chiunque altro. Strumenti stabiliti dal Codice penale.
Ma dal momento che era risaputo che nella sede del Social Forum quella
roba lì non c’era, occorreva creare una motivazione. Perché quella barbarie,
secondo qualcuno, sarebbe stata utile per bilanciare quelle maledette
giornate.

La mattina successiva andai in ufficio. Portai con me i quotidiani del giorno


prima per iniziare la rassegna stampa. Mi era sfuggita la dichiarazione di
Giuliano Amato. Sosteneva che le richieste del movimento bisognava
ascoltarle, ma non si doveva partecipare ai cortei. Era questo il punto su cui
i vertici della polizia di Stato caddero nel tranello, quello solito per cui
quando un problema politico non trova soluzione lo fanno diventare un
problema di ordine pubblico? Si fanno intervenire soggetti dal manganello
facile e il gioco è fatto. Insomma, anche il giorno dopo cercavo di trovare
una giustificazione, e non solo a quello che avvenne alla Diaz.
I miei dubbi iniziavano a spostarsi anche sui due giorni precedenti. Era
evidente che non si trattava di arresti per bilanciare i danneggiamenti, si
voleva fermare il movimento. Occorreva dare un segnale chiaro: da oggi in
poi i cortei e le manifestazioni di dissenso potrebbero avere lo stesso
epilogo. Del resto, con il passare del tempo, un fondamento c’era e
nemmeno tanto teorico: l’inasprimento sull’applicazione dell’articolo 18 del
Tulps fu un segnale che passò inosservato. Il preavviso di fatto è essenziale,
ma sostenere che una manifestazione debba essere autorizzata è un errore.
So che si dice così per convenienza e per non dilungarsi tanto in sofismi
tecnici, ma tra l’essere preavvisata o autorizzata la differenza è sostanziale.
All’epoca dei fatti di Genova il mio primo capo, Giuseppe Impallomeni,
era già scomparso. In quei giorni era sempre davanti ai miei occhi e
immaginavo cosa mi avrebbe suggerito. Mi restavano solo le sue parole di
un tempo relativamente lontano. In occasione di alcune manifestazioni
importanti cercava sempre la via d’uscita, era contro qualsiasi forma di
carica. «Sono l’extrema ratio, quando si ordina una carica bisogna sempre
tenere presenti le conseguenze, non solo fisiche, soprattutto mediatiche. Le
cariche servono solo per contenere una spinta fisica contraria, ma non
vanno intese quale strumento di risoluzione di una controversia,
specialmente politica.»
Questi vent’anni in fondo sono passati in fretta. Qualche manifestazione
locale, Luca Casarini che si trasferisce a Palermo. I Centri sociali che
tentano una via alternativa dedicandosi principalmente alle questioni legate
al territorio. Si comincia a percepire una sorta di resa. Sui fatti di Genova
sono arrivate le prime sentenze, i colpevoli. Iniziava a farsi largo la realtà
dei fatti, ma non era sufficiente. C’era altro che avrebbe dovuto venire alla
luce. A pagare sono sempre gli altri. De Gennaro fu assolto dopo essere
stato indagato. Ma dovrebbe mettersi davanti a un microfono anche lui e
dire tutto quello che c’è da sapere su quella vicenda. Solo così potrei
tornare a stimare un uomo che mi aveva, anche indirettamente, attraverso la
sua esperienza al fianco di Giovanni Falcone, trasmesso il coraggio di
guardare in faccia la realtà e di diventare una persona ineccepibile non solo
professionalmente, ma anche sul piano personale. Aspetterò, sono certo che
quel giorno non è lontano.

A luglio del 2012 arriva la sentenza definitiva: la Corte di cassazione,


quinta sezione penale, conferma le condanne per falso aggravato a carico di
diversi dirigenti di polizia coinvolti il 21 luglio 2001, durante il G8, nelle
brutali violenze alla scuola Diaz di Genova. Il ministro dell’Interno Anna
Maria Cancellieri commenta senza mezzi termini: «La sentenza della Corte
di cassazione va rispettata come tutte le decisioni della magistratura. Il
ministero dell’Interno ottempererà a quanto disposto dalla Suprema Corte».
Il ministro aggiunge che «la sentenza mette la parola fine a una vicenda
dolorosa che ha segnato tante vite umane in questi undici anni. Questo non
significa che ora si debba dimenticare. Anzi, il caso della Diaz deve restare
nella memoria».
Quattro anni per Francesco Gratteri. All’epoca era al vertice della
carriera e il fatto che avrebbe potuto diventare proprio lui il diretto
successore di De Gennaro non era solo una voce. Durante il processo,
Gratteri non si sottopose alle domande di pm e parti civili. Dodici anni dopo
i fatti, però, affermò di essere stato ingannato. Non disse mai da chi, ma
ritengo sia giunto il momento di liberarsi da un macigno. Quale occasione
migliore dopo vent’anni?
Che fosse stata una cordata, quella dei «De Gennaro Boys», non c’era
dubbio. Lo si sosteneva anche nei corridoi dei piani alti delle questure. Ha
ragione Marco Preve nel libro già citato: se non sei nelle grazie di qualcuno
che fa parte di una cordata, farai poca strada. E per farne parte devi giurare
fedeltà assoluta. Non ti devono interessare gli interventi della magistratura,
una condanna non significa nulla. E poi, il sistema per coprire il reato lo si
trova sempre. Anzi, proprio quando vieni coperto e protetto non hai via di
scampo. Ma questo avviene in quasi tutti gli ambiti istituzionali. In quel
preciso istante diventi parte integrante: loro si sono resi complici del tuo
salvataggio, quindi dovrai fare la stessa cosa qualora succedesse agli altri
della stessa catena.
A quel punto non avresti molte alternative: o racconti la verità
accusandoti, oppure stai zitto. Lo scopo? Nessuno, solo il potere di gestire
le carriere e di mettere persone fidate nei posti giusti. Poi li prendi
individualmente e sono uomini che sanno fare il loro mestiere con la più
alta professionalità.

Avrebbe fatto la cosa giusta, De Gennaro, dimettendosi il giorno dopo i fatti


della Diaz. Avrebbe preso le distanze da un governo che, pur
nascondendolo (male, peraltro) auspicava un simile epilogo. Lo disse un
successivo capo della polizia, Franco Gabrielli, il quale sostenne –
giustamente – che al posto suo si sarebbe dimesso. Non solo. «È falso che
nell’accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito
una magistratura ideologizzata. La polizia italiana non è stata perseguitata
dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è
vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e
in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati
decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto
pensare un pubblico ministero che, di fronte a un verbale firmato da
quattordici poliziotti, scopriva che a essere identificabili erano solo in
tredici? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello
Stato, ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la
prova generale di una nuova gestione politica dell’ordine pubblico,
orientata all’Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che
Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito.
Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il
centrosinistra. Quindi, il problema non era politico. Ma di una cultura
dell’ordine pubblico che scommetteva sul “pattuglione”. Una modalità di
polizia transitata dalla stagione del centrosinistra a quella del centrodestra.»

Una commissione sul G8. Perché no?

Dopo vent’anni dai fatti avvenuti a Genova, e dopo quaranta dalla scoperta
ufficiale degli elenchi della P2, che stava per condizionare la democrazia
italiana, poco è cambiato. Il presidente del Consiglio all’epoca dei giorni
maledetti era il piduista Silvio Berlusconi. È vero, come sostiene Franco
Gabrielli, che non c’era un intento politico preciso, ma è altrettanto vero
che mettere il silenziatore al dissenso avrebbe evitato una presa di coscienza
in ambito internazionale. Cosa che avrebbe scompigliato i piani a quella
parte trasversale della politica italiana che va dal centrodestra al
centrosinistra.
Di sicuro le responsabilità oggettive ci sono tutte, oltre a quelle dirette
da parte di chi materialmente rese possibile il massacro collettivo, fisico e
psicologico. Una lacerazione generale delle coscienze. I mandanti c’erano,
come in ogni circostanza. Dal traffico d’armi a quello della droga, dalle
destabilizzanti stragi di Stato alla crudeltà delle Brigate rosse.
Ci sono sempre stati dei mandanti. Molte prove sono tuttora
inconsistenti, molte non sono servite a sostenere le condanne. Ma ci sono
prove che non hanno bisogno di un’aula di giustizia per essere considerate.
E non servono nemmeno sentenze di condanna per analizzare i fatti e dare
loro una connotazione reale e temporale. Le stragi di Stato non sono più
un’intuizione o il frutto di una fantasia di qualche magistrato o di qualche
bravo investigatore. Piazza Fontana non ha colpevoli, non ci sono
condanne, ma sappiamo bene le motivazioni della strage, conosciamo con
precisione il motivo per cui ci furono i depistaggi. E sono stati pure
condannati quelli che misero in piedi il piano per depistare la verità
addossando la colpa a degli innocenti.
Ci sono eventi che hanno coinvolto le nostre istituzioni – penso appunto
alla scoperta degli elenchi della P2, ma anche ad altri casi, come la strage di
Peteano – e su cui c’è stata almeno la volontà politica di indagare, la
necessità insita nelle persone che rappresentavano lo Stato di rendersi
disponibili ai fini di un accertamento etico e morale. Fu così per la P2, la
cosiddetta «commissione Anselmi», la cui relazione conclusiva emise una
sentenza memorabile. Tracciò una linea di demarcazione tra Stato e
Antistato. Portò alla luce le differenze tra chi stava da una parte e chi
dall’altra. Chi tramava e chi era un fedele servitore delle istituzioni. Uomini
di Stato, quindi, infedeli. Esattamente come a Genova. E allora, perché non
accogliere il ventennale dai fatti del G8 regalando agli italiani la tanto
richiesta commissione parlamentare per fare piena luce, non solo sulle
responsabilità, ma sui mandanti?
Perché i mandanti ci sono eccome. E lo sostengo poiché in quella catena
di comando – per quanto sbagliata fosse una simile cultura dell’ordine
pubblico, come ha sostenuto Franco Gabrielli – non credo che i vertici della
polizia di Stato fossero arrivati al punto di decretare un massacro. Credo nel
fatto che, pur di fare carriera, si possa accontentare una volontà politica del
paese. Un gioco delle parti molto forte, alla fine del quale a perdere la
partita in quel caso fu proprio Gianni De Gennaro e, a strascico, tutta la
cordata di potere che egli stesso aveva messo in piedi.
Pertanto, è ormai giunto il momento di mettere la parola fine a questa
storia. La ferita è ancora aperta, non bastano le sentenze di condanna di
fronte a tutto quello che avvenne. Occorre un’analisi inserita in una
relazione ufficiale, una relazione di Stato redatta a conclusione di
un’indagine profonda. Un atto formale che rimanga negli archivi e nella
storia di questo paese. Un pronunciamento in cui ci siano tutte le
testimonianze rese da chi c’era e da chi gestiva, da chi venne condannato e
da chi tentò di evitare tutto quello che accadde. Un atto formale che
restituisca anche in ambito internazionale la profonda propensione dello
Stato italiano a ricercare e a individuare coloro i quali tentarono e ancora
tentano di affossare le istituzioni democratiche che lo rappresentano.
Sarebbe una grande vittoria che proprio nei giorni del ventennale
Camera e Senato dessero vita alla commissione. Non si pretende che sia
d’inchiesta. I fatti sono già stati accertati dalla magistratura e puniti.
Sarebbe però interessante sapere molte cose. Una su tutte, quella che più mi
sta a cuore: per quale motivo davanti ai cortei non c’erano le figure
politiche di riferimento? Segretari di partito, ministri e sottosegretari,
perché la globalizzazione avrebbe dovuto essere un tema che riguardava
tutti indistintamente. C’erano solo alcuni parlamentari, ma erano parte
integrante del movimento. Sarebbe stato diverso se all’angolo tra via
Tolemaide e corso Torino ci fossero stati Walter Veltroni oppure Giuliano
Amato? O, meglio ancora, Massimo D’Alema? L’assalto al corteo delle
Tute bianche sarebbe stato comunque ordinato?

Non si bastona una persona. Non la si può bastonare mai, anche qualora vi
fosse un motivo, sbattendo il manganello sulle costole, sulla pancia, sulle
gambe sulla testa, sul viso o su qualsiasi altra parte del corpo, a casaccio e
con la massima violenza, soprattutto quando è a terra e ti invoca di
smetterla, inondata dal suo stesso sangue, che tu le hai fatto versare
sull’asfalto. È un atto crudele, di una violenza inaudita, che va perseguito
senza esitazione. A Genova, in quei due giorni maledetti, oltre a essere stata
interrotta la democrazia, fu compiuto un atto di umiliazione che lese in
modo permanente la personalità e la dignità di ogni donna e ogni uomo, non
solo sul piano giuridico, anche sotto l’aspetto morale. Persone innocenti,
colpevoli solo di avere tentato di reclamare un mondo migliore. Un
poliziotto non può esimersi dal tenere conto dei princìpi sanciti dalla
Costituzione per assecondare una qualsiasi volontà politica; un poliziotto è
al servizio di essa, quindi chi protesta va difeso, non bastonato.
È questa la principale ragione per cui quando si torna su quegli orribili
fatti si sostiene che la Costituzione venne sospesa. Sì, a interromperla
furono proprio coloro che avrebbero dovuto farla rispettare, quali che
fossero gli ordini impartiti da ambienti governativi o politici. Un poliziotto
deve avere sempre la massima certezza delle proprie azioni, che non
devono mai essere separate dall’etica e dalla deontologia, ma soprattutto
deve essere consapevole del proprio ruolo giuridico, istituzionale e sociale.
Deve essere professionale e irreprensibile, solo così può restituire serenità e
ricevere il sacrosanto rispetto dovuto alla sua persona e allo Stato che
rappresenta. Diversamente non è un poliziotto. È qualcos’altro.
Nessuno, in tutto questo, si è mai posto la domanda sulla possibilità che
anche molti poliziotti per bene potrebbero avere subito un danno
permanente, causato da chi agì fuori da qualsiasi circuito normativo.
Assistere impotenti a quelle azioni violente, disumane, contro persone
innocenti, può determinare un trauma. Il fatto di non essere riusciti a
fermare quella barbarie potrebbe aver generato la sensazione di un
fallimento la cui elaborazione non potrà mai avvenire in assenza di una
giustificazione concreta. Perciò, anche in molti operatori di polizia, la ferita
potrebbe rimanere aperta per sempre: «Non sono riuscito a salvare nessuno
da quel massacro».

Negli anni successivi lessi molte storie che presero forma da quei due
giorni. Mi informai attraverso i canali che avevo a disposizione, anche
tramite colleghi d’oltralpe. Scoprii che molti ragazzi espulsi dopo l’assalto
alla Diaz, o dopo essere stati liberati dalla macabra sala di tortura
organizzata all’interno della caserma Bolzaneto, quando rientrarono nei loro
rispettivi paesi vennero trattati come persone che avevano infangato l’onore
e il prestigio dello Stato a cui appartenevano. Qualcuno non riuscì
nemmeno più a trovare lavoro e qualche ragazza dovette prostituirsi per
guadagnarsi da vivere. Ecco, quindi, non si può sostenere che una condanna
risolva la questione o rimargini le ferite rendendole invisibili. Gli strascichi
ci furono, e anche pesanti.
Una ragazza che stava scappando lungo corso Torino subito dopo i primi
scontri, conseguenza dell’attacco al corteo delle Tute bianche, venne colta
di sorpresa da un gruppetto di forze dell’ordine (rimango generico per via
del fatto che ritengo oltraggioso distinguere il colore di una divisa per
indicare le mele marce). Dopo i primi colpi sulla schiena si accasciò, ma per
fortuna eravamo a pochi passi. Mi gettai addosso, a proteggerla fisicamente,
per farli desistere e per sottrarla al peggio. Come al solito, se ne andarono
appena si accorsero del distintivo, ma l’atteggiamento non fu dei migliori,
nemmeno nei miei confronti. Lei disse di chiamarsi Kate, mi parlava in
inglese. Aveva i capelli rossi, non tinti. «Thank you, thank you so much, I
am Irish» ripeteva con voce tremante.
Si aggrappò al mio braccio e la aiutai a rialzarsi. Era dolorante alla
schiena e piangeva. Mi passò una mano sul viso e scappò via. Negli anni
provai a fare qualche tentativo per ritracciarla, ma fu inutile, ovviamente.
Non sapevo nulla di lei oltre al suo nome. E magari in quella circostanza
nemmeno si fidò a fornirmi quello reale.
A distanza di vent’anni mi farebbe piacere sapere dove andò a rifugiarsi
dopo essere stata graziata. Sarebbe una bella cosa poterci incontrare. Ma da
quando venni a sapere cosa accadde agli espulsi, il dubbio che anche lei
fosse finita dentro a quel vortice non ebbi modo di dissiparlo. Tuttavia,
sarebbe un sollievo sapere che non le accadde più nulla dopo quell’episodio
e che ora è una donna felice, magari mamma, al sicuro nell’immenso calore
di una famiglia e di un uomo in gamba che si prende cura di lei. E che le
randellate che arrivarono sulla sua schiena sono diventate solo un brutto
ricordo, elaborato e archiviato. Per quanto mi riguarda, invece, quei giorni
rimarranno indelebili nella mia mente. Esattamente come lo sono per molte
altre persone, alcune delle quali non ebbero più il coraggio di partecipare a
una manifestazione di protesta. Qualcuno provò a vincere la paura, ma alla
vista di una divisa scappò tremando. Questa cosa non è accettabile, perché
al contrario, in uno Stato democratico, libero e pluralista, la polizia deve
essere una garanzia.
Dopo vent’anni, dunque, sono ancora molte le circostanze da chiarire.
Troppe, dato il tempo trascorso.
Ringraziamenti

Voglio ringraziare, innanzitutto, tre persone: Monica Zornetta, Gianluca


Zanella e Maurizio Donati. Se Monica non mi avesse fatto conoscere
Gianluca (il mio manager), questo libro non sarebbe mai esistito e,
sicuramente, non sarebbe mai approdato a Chiarelettere, dove ho potuto
conoscere Maurizio, che mi ha fornito un enorme supporto tecnico
guidandomi magistralmente. Gianluca, inoltre, lo ringrazio per avermi
anche sostenuto, soprattutto moralmente, durante la stesura del testo.
Ringrazio lo staff di Chiarelettere, tutta la redazione, la mia amica Maria
Iadarola per le sue preziosissime indicazioni giuridiche e Michela Cosili per
avermi guidato in tutta la fase redazionale.
Voglio ringraziare anche le forze dell’ordine: donne e uomini che
svolgono egregiamente il proprio lavoro rispettando i diritti umani e
applicando le norme con imparzialità. Persone per bene, che sono la
stragrande maggioranza all’interno delle istituzioni democratiche.
Un ringraziamento particolare e affettuoso lo voglio rivolgere al
professor Massimo Cacciari per i suoi preziosi e indispensabili consigli in
ambito letterario e per la sua non comune amicizia; a Nicola Pellicani e alla
Fondazione Gianni Pellicani per l’apprezzato sostegno.
Ringrazio Elio Mascolo, l’allora capitano della 1ª Compagnia della
Caserma Verdirosi di Rieti (1° Battaglione Nbc). Fu proprio con lui che
avvenne il mio primo approccio alla gerarchia militare. Anch’egli contribuì
in modo determinante a farmi diventare la persona che sono oggi. E
Nicoletta Omicioli per i preziosi consigli, la compagnia e la passione
letteraria.
Inoltre, ringrazio Caterina Fabbrizzi, la mia collega con cui ci
incontrammo proprio alla fine degli anni Ottanta alla Digos e ringrazio di
cuore le donne e gli uomini della Digos di Venezia, Ufficio che mi accolse e
che riuscì a valorizzarmi per trentacinque anni. Colgo l’occasione per
ricordare le persone che, nonostante non ci siano più, per me continuano a
essere importanti riferimenti: Alfredo Albanese, Giuseppe Impallomeni,
Luigi D’Aquino, Roberto Emireni e Giovanni De Leo. Uomini di Stato che
hanno saputo insegnare la differenza tra il bene e il male mettendo le
proprie vite a disposizione delle istituzioni democratiche e della società.
Alfredo Albanese, vicedirigente della Digos di Venezia, venne assassinato
dalle Brigate rosse il 12 maggio 1980. Purtroppo, non ho fatto in tempo a
conoscerlo, ma attraverso i racconti e le testimonianze di persone che gli
erano accanto, ho potuto percepire la sua immensa umanità, il suo profondo
senso di giustizia e la sua professionale dedizione.
Infine, ma non ultimo, voglio ringraziare il mio collega, che nel libro
viene menzionato quale «compagno di viaggio». Si chiama Mirco. Nella
vita i momenti in cui sembra crollare tutto, e proprio per la loro
recrudescenza, possono solo unire le persone che li hanno affrontati. Grazie,
Mirco.
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