Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
facebook.com/Chiarelettere
@chiarelettere
www.illibraio.it
ISBN 978-88-3296-481-3
Copertina
Art director: Giacomo Callo
Graphic designer: Davide Nasta
Foto © Laura Lezza / Getty Images News / Getty Images
L’autore
Pagina di copyright
Frontespizio
Introduzione
Annus horribilis 2001
Fidarsi dello Stato
Questo libro
Io e l’uomo della P2
Un giovane commissario
«Damme retta, lascia perde»
«Non sai chi sono io»
Don Peppino
«L’unico cretino»
«Fumiamoci una canna»
Gli strumenti di un servitore dello Stato
Incubo n. 1
Genova blindata
La partenza
La celebrazione del nulla
La marcia dei migranti
Via la zona gialla
Black Bloc
Incubo n. 2
Incubo n. 3
L’apocalisse in casa
21 luglio 2001
«Quelli lo ammazzano»
Ore maledette
L’inferno
Rastrellamento
E se…?
L’uomo sbagliato nel posto sbagliato
Chi è Stato?
L’odore del sangue
Il parafulmine
«Fate schifo»
Il ritorno
Conclusioni
Una commissione sul G8. Perché no?
Ringraziamenti
Seguici su IlLibraio
G8. GENOVA 2001
A mio padre e a Giuseppe Impallomeni, don Peppino
Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha
partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di
età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova
abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei carruggi,
gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le «graziose» di via del
Campo. I fiori che sbocciano dal letame. I senzadio per i quali chissà
che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso,
sempre pronto ad accoglierli.
Fabrizio De André
Introduzione
Tornare ai fatti di Genova vent’anni dopo, per raccontarli dal punto di vista
umano e professionale di un operatore della Digos che li ha vissuti in prima
persona, come si suol dire sul campo. Ecco il senso di questo libro. Non
avrei mai immaginato di trovarmi in un contesto come quello del G8, in cui
lo Stato, attraverso alcuni suoi rappresentanti, fece l’esatto contrario di
quello che, con gli istruttori, insegnava durante i corsi di aggiornamento o
di formazione professionale.
Forse allora era impossibile accorgersi di vivere in un mondo che stava
letteralmente impazzendo, in cui le strategie politiche che lo avevano
guidato e garantito sarebbero di colpo cessate. Il 2001 fu l’anno dello
«spartiacque». Fu la fine del terrorismo che avevamo conosciuto a partire
dagli anni Settanta, la fine delle strategie militari mirate – a modo loro – a
mantenere la pace nel mondo. Basti pensare ai rapporti tra Russia e
America: tensioni che avevano solo scopi politici, più che militari. Cessò di
colpo la certezza che veniva riposta negli Usa, nella Russia, nei paesi Nato.
Un ordine che venne meno di giorno in giorno negli anni a seguire, con una
velocità pazzesca. Era evidente, però (o comunque facile da percepire) che
ben presto un nuovo ordine internazionale avrebbe preso il sopravvento.
D’altra parte restava ancora alta la fiducia nello Stato, soprattutto sulla sua
capacità di riuscire a mantenere gli equilibri e di garantire gradualità e
legittimità alle transizioni.
Invece il disordine di quei due giorni di Genova presto divenne il caos
generale. Un terremoto sotto le cui macerie vennero travolti lo Stato e le sue
istituzioni. E sotto quelle rovine finì anche l’economia occidentale:
l’America e l’intera Europa, che era ancora nella fase della sua
proclamazione, peraltro mai avvenuta totalmente. La fragilità di
quell’Occidente miope venne alla luce in maniera drammatica. Prima a
Genova, con il più grande attacco alle democrazie occidentali, due mesi
dopo – l’11 settembre – a New York, quando il mondo intero cadde,
insieme alle Torri gemelle, sotto i colpi di un nemico per molti aspetti
invisibile.
Dopo quel 2001 nulla fu come prima. La serenità, anche nel quadro delle
grandi contestazioni, evaporò nella totale incredulità per ciò che stava
accadendo. Il 2001 per certi aspetti assomigliava al 1992, l’anno di Capaci e
di via D’Amelio. Non era questione di questo o di quel singolo evento. La
vera bomba esplosa era invisibile, quasi virtuale, e il suo rumore fu
leggermente avvertibile oltre le devastazioni di Genova e New York.
Ovviamente nessun collegamento, ma in entrambi i casi furono la debolezza
e la fragilità del sistema occidentale a emergere in tutta la loro nudità.
Rimanendo sui fatti di casa nostra, a Genova sarebbe stato sufficiente che il
governo in carica avesse lasciato sfilare il corteo delle Tute bianche fino
alla fine, come preannunciato, e non avesse permesso che i pacifici
contestatori venissero torturati. Nessuno avrebbe perso e nessuno avrebbe
vinto, perché non doveva essere una prova di forza. Ma di questo parleremo
ampiamente nelle pagine che seguono.
Il G8 di Genova fu una guerra civile durata ininterrottamente due giorni.
La sua ricostruzione attraverso i ricordi di chi lo ha vissuto, quell’inferno,
vorrebbe diventare uno strumento necessario soprattutto alle giovani
generazioni, che andrebbero accompagnate per mano a conoscere i loro
diritti e le loro responsabilità, affinché non debbano mai trovarsi in una
situazione simile. Non si può evitare l’argomento solo per togliersi il
fastidio di spiegarlo e raccontarlo.
Il meccanismo che accese le polveri non era diverso da quello degli anni
Settanta. Forse più sofisticato, ma sempre lo stesso: screditare in modo da
avere la necessaria supremazia per imporre la conservazione del potere. A
nessuno diede fastidio il sangue, anche perché nessuno dei commensali
d’eccellenza di quel G8 ebbe modo di vederlo. O meglio, vennero tenuti al
riparo da eventuali schizzi.
Noi eravamo lì a respirare l’odore dei lacrimogeni, l’aria intrisa di
violenza, il rumore assordante delle auto che scoppiavano. Ma eravamo
solo carne da macello dentro un frullatore in cui venne mescolata ogni cosa,
ogni donna e uomo che si trovavano in quelle strade. In ogni angolo della
città c’erano i segni del sangue, della devastazione senza precedenti. Tutto
questo occorreva tenerlo nascosto, perché doveva essere camuffato agli
occhi del mondo. Ma per fortuna fu impossibile nascondere quella verità su
cui lo Stato ancora non si decide a fare piena luce.
Non fu un «summit storico», come lo si voleva definire. Fu il peggiore
incontro tra potenti che si sia svolto dall’inizio della Guerra fredda, sia per
contenuti, sia per la gestione degli apparati di sicurezza. Per non parlare
delle violazioni dei diritti dell’uomo. Mi è impossibile scrivere
diversamente dopo avere visto di persona il lato oscuro di un potere capace
di metterti addosso soggezione e timore, anziché la serenità necessaria per
agire con la massima professionalità. Anche a Genova aveva funzionato,
quel potere: se non fai come ti dico io, la tua carriera finisce ancora prima
di cominciare. Non servì dirlo esplicitamente. Fu sufficiente ingannare.
Alcuni sostenevano che sarebbe stato più sicuro far incontrare gli otto
capi di Stato su una nave ormeggiata al largo del porto di Genova, come se
bastasse nasconderli per mettere al riparo la città, rendendo inutile qualsiasi
forma di protesta. Ma non fu così. Nascosti rimasero ugualmente, anche se
dovettero sorbirsi qualche refolo di fumo dei lacrimogeni. Genova pagò un
prezzo altissimo, ma le sarebbe stato imposto comunque, anche se li
avessero messi su un dirigibile. Occorreva accendere la miccia per far
saltare gli schemi, le novità che si profilavano, per mettere fine alla
minaccia politica costituita dal loro sorgere.
Più volte mi sono trovato a immaginare come sarebbe stato il mondo se
quel summit non fosse mai avvenuto. Quasi sicuramente il movimento
avrebbe continuato a coinvolgere i cittadini globali e, sono sicuro anche di
questo, la crisi del 2008 non si sarebbe mai sviluppata. Resta altrettanto
certo che ai veri padroni della globalizzazione poco interessava se in quelle
circostanze fosse morto qualcuno.
Nelle pagine che seguono, il mio obiettivo è raccontare i fatti proprio per
evitare che venga ancora una volta nascosta quella parte che non riguarda
solo la giustizia formale, ma anche l’aspetto umano. Lo scopo è anche
quello di fornire, a chi è nato dopo, il punto di vista di chi c’era, e aiutarlo
così a comprendere che da quel vertice in poi nulla fu più come prima.
Quante volte, soprattutto in questo periodo di pandemia globale, i giovani
avranno sentito pronunciare slogan tipo: «Tutto andrà bene»; «Nulla sarà
come prima»; «Ne usciremo migliori»; «Ne usciremo peggiori». Incertezze
che per molti aspetti c’erano anche prima, ma che trovarono la loro vera e
nuova determinazione soprattutto dopo il G8 di Genova.
Chi ha vissuto quei momenti in prima persona, con la consapevolezza di
ciò che stava accadendo e con senso critico, porterà sempre con sé la
convinzione che dal giorno dopo nel mondo iniziò il declino intellettuale. Il
berlusconismo era già cominciato da qualche anno, ma venne preso
sottogamba. In altre parole, l’appiattimento del pensiero collettivo e
l’avvento dell’«apparenza» quale modello a cui fare riferimento,
diventarono – purtroppo – le nuove opportunità sociali. Un danno enorme,
incalcolabile. Basti pensare alla mistificazione che avvenne in quei giorni.
Sotto i colpi della violenza, il dissenso venne fatto passare per un atto da
condannare.
Al contrario, il vero obiettivo di quel vertice fu nascondere con finte
teorie ciò che stava accadendo. In nome della libertà del commercio si stava
mettendo fine alle limitazioni nazionali. Gli interessi americani
riguardavano la vendita di armi leggere, la produzione di mine antiuomo e
l’evitare limitazioni sulla produzione di armi batteriologiche. Nei primi
mesi della nuova amministrazione Bush, venne respinto anche il Protocollo
di Kyoto sul riscaldamento globale. E lì, seduto al tavolo di quel vertice,
c’era proprio il presidente americano, il leader più globalizzatore di tutti.
L’uomo che fu capace di assoggettare i capi di Stato che sedevano accanto a
lui. Fu lui che successivamente portò il mondo in guerra. Un copione già
visto da tempo e che a Genova andò in scena senza tanti scrupoli.
Fidarsi dello Stato non è così semplice. La fiducia è una cosa seria,
dicevano i vecchi saggi. Lo Stato è costituito da persone, non da elementi
astratti. Da rappresentanti eletti e nominati che devono assolvere i loro
compiti in maniera irreprensibile. Se davvero facessero tutti così, chi
volesse sottrarsi al proprio dovere potrebbe forse ritenere che la complessità
del sistema gli darebbe qualche possibilità di passare indenne, ma è
probabile che farebbe poca strada. Invece, avviene esattamente il contrario:
il sistema è marcio quasi per intero e chiunque si permetta di «mettere in
luce» il meccanismo di ricatto e corruzione che tiene uniti i suoi membri di
norma viene stritolato dall’isolamento.
Potrebbe essere la sintesi degli ultimi quarant’anni. Addirittura, la si
potrebbe definire un’analisi scontata. Ma allora perché ci siamo dati una
regola per non rispettarla? Perché abbiamo dato allo Stato, e con esso alle
istituzioni democratiche che ne rappresentano le fondamenta, una patina di
etica che poi violiamo sistematicamente? E perché il sistema continua a
mietere vittime nel silenzio generale, prima fra tutte proprio lo Stato, fino al
punto che anche questo silenzio ci sembra una cosa scontata?
Lo Stato tiene i cittadini in questo dubbio permanente, che ormai è
diventato parte della nostra quotidianità e pervade con irruenza la vita
pubblica. Tale incertezza, di fatto, ha annientato la tranquillità che dovrebbe
derivare dalla totale trasparenza delle istituzioni, i cui rappresentanti
dovrebbero essere guidati dalla necessità di «mettere in luce» le manovre
del potere, anziché occultarle o gestirle nell’ombra.
Si potrebbe continuare all’infinito nell’astrattezza generale, ma è proprio
di questa indeterminatezza che si nutre la disonesta stragrande maggioranza
dei rappresentanti dello Stato.
Questo libro
La Digos venne battezzata nel 1978 dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga a
seguito della riforma generale dei servizi segreti avvenuta l’anno precedente. L’acronimo
sta per Divisione investigazioni generali ed operazioni speciali. Nacque insieme all’Ucigos
(Ufficio centrale investigazioni generali operazioni speciali) prendendo il posto dei vecchi
«Uffici politici» dipendenti dall’Ufficio affari riservati. Le funzioni affidate furono e
restano tutt’oggi: la raccolta delle informazioni relative alla situazione generale, anche ai
fini della tutela dell’ordine pubblico; le investigazioni per la prevenzione e la repressione
dei reati contro lo Stato e l’ordine pubblico, dai reati di terrorismo a quelli di natura
politica. La Digos si occupa di terrorismo a livello nazionale e internazionale, anche di tipo
informatico e telematico. Controlla inoltre tutte le attività di gruppi estremistici che
perseguono scopi di sovvertimento sociale con il ricorso alla violenza, e contrasta
l’illegalità nelle manifestazioni sportive a opera di gruppi di tifosi violenti organizzati
(ultras). Le Digos dislocate sul territorio svolgono attività investigativa e informativa
finalizzata a contrastare attività eversive dell’ordine democratico e terroristiche; eseguono
direttamente le eventuali operazioni frutto delle proprie investigazioni.
La struttura di riferimento delle Digos in Italia è la Dcpp (Direzione centrale della polizia
di prevenzione, ex Ucigos). In altre parole, il principio fondante su cui si basò il ministro
fu quello di trovare un organismo che avesse funzioni di collante tra i servizi segreti e gli
apparati istituzionali dello Stato, in particolare le forze dell’ordine. In pratica, con
l’istituzione delle divisioni dislocate nelle province, lo scopo era quello di creare un
passaggio di informazioni a salvaguardia dello Stato contro ogni forma di eversione più o
meno organizzata. Secondo Cossiga, infatti, serviva una sorta di cuscinetto: un agente dei
servizi segreti, a differenza di un operatore della Digos, nel passaggio perde la qualifica di
polizia giudiziaria, pertanto non ha l’obbligo di riferire la notizia di reato al pubblico
ministero. Quindi non incorrerebbe nel reato di omissione in atti d’ufficio.
Prima parte
Il mio ingresso nella Digos
Io e l’uomo della P2
Un giovane commissario
Ecco, addio Digos, pensai. Quando la sfiga ti perseguita non c’è via di
scampo. Mi sedetti guardando la strada al di là del vetro antiproiettile.
Avevo appena mandato in frantumi la mia aspirazione e cominciavo a
prendere atto che un anno prima avrei davvero dovuto scegliere la via del
giornalismo. Passai la mattinata all’insegna di una silenziosa disperazione.
Ero solo, il collega anziano doveva sbrigare alcune pratiche negli uffici.
Quando tornò, gli raccontai cos’era appena accaduto.
«Figurati, neanche si ricorderà di te, sai quanti cazzo di problemi ha il
dottore? Alla Digos non c’è vita facile, lì non si sa neanche cosa fanno, non
lo sa nessuno. Si chiudono nei loro uffici e studiano, indagano, ascoltano i
telefoni, si infiltrano nella politica. No, lascia perdere, alle volanti hai più
soddisfazione, sei più operativo. Sei dentro la città, impari a conoscere il
territorio, le persone. Non hai nessuno che ti dice cosa devi fare, gli
interventi li gestisce il tuo capopattuglia. Senti a me, fai domanda per le
volanti, impari a stare in strada.»
Lasciai che parlasse, non gli dissi che il territorio lo conoscevo come le
mie tasche. Non sapeva che fino all’anno prima in quelle strade ero con i
miei compagni a manifestare. E nemmeno lo informai che a me non
interessava l’operatività come la intendeva lui.
«Guarda» proseguì, «hai visto quei due che sono appena entrati? Ecco,
quelli sono della Digos.»
Li osservai interessato, aspettandomi di vedere chissà che cosa.
Uno era alto, magro. L’altro più basso. Il primo era biondo con il codino,
il secondo moro, capelli lunghi fino alle spalle. Entrambi indossavano un
giubbino leggero di jeans, sbiadito. Andavano talmente di fretta che
nemmeno si fecero riconoscere. Se non ci fosse stato il collega anziano,
avrei trascorso la mattinata a identificare mezza Digos.
A un certo punto gli chiesi di sostituirmi qualche minuto. Andai a
prendere un caffè allo spaccio e prima di entrare guardai ancora la lapide
del dottor Albanese. Mi fermai qualche instante, sentivo come la necessità
di ottenere la sua benedizione.
Appena tornato al corpo di guardia, cominciò a squillare il telefono.
Rispose il collega e poi mi passò la cornetta: «Vogliono parlare con te».
«Pronto?»
«Chi parla?»
«Prestigiacomo.»
«È la Digos, lei deve venire qui, il dirigente la vuole subito nel suo
ufficio.»
Ecco fatto, pensai. Finite tutte le speranze. Già mi vedevo costretto a
considerare le dimissioni.
«Visto?» dissi dopo aver riattaccato. «Il dirigente della Digos mi ha
appena convocato nel suo ufficio, non si è dimenticato. Questa mattina l’ho
fatto incazzare e ora mi dirà che posso scordarmela, la Digos.»
Il collega rimase in silenzio qualche attimo, pensieroso. Poi, di colpo, mi
disse: «Hai semplicemente fatto il tuo dovere, mandalo a fare in culo e digli
che la caserma è sorvegliata e tutti quelli che lavorano negli uffici possono
stare tranquilli. Al corpo di guardia della questura controlliamo chiunque.
Manco il questore entra senza esibire un documento».
Peggio di così, quella mattina non avrei mai potuto immaginarla. La
speranza di essere parte integrante della Digos della mia città si era appena
spenta.
«Quando devi andare dal capo della Digos?»
«Adesso, ma neanche so dov’è la sede della questura.»
Dopo qualche attimo squillò ancora il telefono. Era la stessa voce di
prima: «Alla sezione mare c’è un motoscafo che la sta aspettando».
Guardai il collega con stupore. In quel momento ebbi la percezione che
la Digos riuscisse a leggere nella mente.
Don Peppino
«L’unico cretino»
Di lì a poche ore diventai uno degli agenti della Digos di Venezia. L’ultimo
arrivato, certo. Ma avevo tutto il tempo per imparare, capire, osservare. Già,
osservare. Era questa la cosa più importante: osservare. Cominciando dai
miei colleghi più anziani ma, soprattutto, dal mio dirigente.
Forse per la giovane età, forse per quella mia appartenenza politica che
sembrava averlo positivamente colpito, fin da subito divenni l’ombra di
Giuseppe Impallomeni. Sembrò la cosa più naturale del mondo e nessuno
degli altri operatori ne fece ragione di risentimento nei miei confronti. Lui
mi prese sotto la sua ala, introducendomi come un padre in un mondo che
non conoscevo.
Riguardo l’appartenenza alla P2, la cosa strana, che mi lasciava molto
scettico di fronte alle voci riportate a denti stretti sulle sue frequentazioni
massoniche, era la fiducia che in lui riponevano proprio due magistrati, che
ben presto sarebbero divenuti noti in ambito internazionale per le loro
inchieste: Felice Casson e Carlo Mastelloni.
«Saprai che sono stato iscritto alla P2, da buon comunista quale sei o eri
non può esserti sfuggito questo particolare sul mio conto» mi disse un
giorno mentre stavamo andando in tribunale.
«Però» proseguì senza darmi modo di replicare «anche tu conosci solo la
verità riportata dai giornali. Il resto, tutto ciò che non scrivono e mai
scriveranno, sono notizie che farebbero poco clamore. Devi sapere che
quando la commissione interministeriale decise di sentire gli affiliati,
ricordo bene cosa dissero gli appartenenti alle forze dell’ordine i cui nomi
erano comparsi negli elenchi. Affermarono che si trovavano lì per indagini.
L’unico cretino fu il sottoscritto. Davanti alla commissione dissi
semplicemente che ero risultato iscritto perché mi ero iscritto. Ricordo
ancora i loro volti: si guardarono quasi increduli a sentire le parole che
avevo appena pronunciato. Mi ero iscritto per una raccomandazione. Il
questore che avrebbe sostituito Vincenzo Immordino sarebbe stato
Giuseppe Nicolicchia, un massone, lo sapevano tutti, pertanto un giornalista
che aveva anticipato la notizia mi propose di aderire alla P2. Avrei voluto
rimanere a Palermo, non volevo che mi trasferissero, perciò fu per me un
modo per ingraziarmi il nuovo questore.»
Ogni volta che mi parlava dei suoi trascorsi ascoltavo in silenzio e poi
andavo a documentarmi. Di tanto in tanto dedicavo un po’ di tempo in
archivio alla ricerca di articoli di giornale che potessero chiarirmi chi fosse
realmente Giuseppe Impallomeni. Trovai un articolo de «la Repubblica» a
firma di Attilio Bolzoni in cui don Peppino veniva descritto come il
peggiore degli arroganti, il normalizzatore della questura di Palermo, giunto
a sostituire Boris Giuliano subito dopo la morte di quest’ultimo. Feci una
fotocopia e la mattina dopo glielo consegnai insieme ai giornali, appena
scese dalla sua abitazione.
«Cos’è?» Guardò la data e lesse le prime righe: «Lo conosco, non è così,
tutte cose non vere, ma non per colpa del giornalista, che considero persona
per bene e in gamba, ma perché le cose non si sanno, certi fatti non possono
essere trattati con superficialità. La prima inesattezza riguarda proprio la
sostituzione della buonanima di Boris Giuliano. Ho sostituito Bruno
Contrada, non Boris Giuliano. Contrada venne nominato ad interim dopo
l’uccisione di Giuliano, non fui io a sostituirlo, le indagini le iniziò una
Squadra mobile scassata e guidata da Contrada».
Quella mattina lo avevo fatto innervosire per bene, ma dovevo capire.
Durante il tragitto non disse nulla. Prendemmo un caffè e arrivammo in
questura a piedi. Ma solo dopo essere passati a salutare un giovane
magistrato che già era considerato un ficcanaso dalle alte sfere del ministero
e da certi ambienti politici.
Quando entrammo nella stanza del giudice Felice Casson, don Peppino
neanche lo salutò. Era come se si conoscessero da molto tempo: «Dottore
Casson, i trafficanti d’armi li dobbiamo arrestare a tutti».
Erano gli anni in cui si cominciava a capire da dove partissero i flussi
dei traffici d’armi, le triangolazioni per violare gli embarghi. Impallomeni si
era messo in testa che gli armamenti all’Iran arrivassero anche dall’Italia,
nonostante l’embargo imposto, soprattutto dagli Stati Uniti. Ma su questo
torneremo.
Da quella mattina, per qualche giorno, ci fu un po’ di distacco tra me e
Impallomeni, fino a quando mi chiese se conoscessi qualcuno di fidato a cui
rivolgersi perché doveva fare delle iniezioni per sfiammare la sciatica. «Mia
mamma» gli dissi. Così, la mattina dopo, quando scese da casa lo
accompagnai da mia madre. Gli fece la prima di una serie di iniezioni e
preparò pure il caffè. Il rapporto si ristabilì, ma nei giorni successivi non
persi tempo e pretesi che mi spiegasse bene la vicenda della P2.
«La P2 esisteva già da tempo, si dice che il primo venerabile maestro
fosse stato Garibaldi. Ma c’è poco da meravigliarsi, viviamo in un sistema
ormai consolidato nel perseguire e proteggere interessi che derivano da
attività più o meno illecite. La massoneria, come tanti altri ambienti occulti,
è un centro di potere. Anche nelle logge minori ci sono interessi, pur non
essendoci evidenti illeciti. Si tratta di favori che ci si fa tra affiliati.
All’interno puoi trovare chiunque, dal giornalista al poliziotto, dal
banchiere al politico, ma non è questo il punto su cui indagare.
Bisognerebbe capire chi c’è dietro a questi sodalizi e perché politicamente
non si interviene. Tina Anselmi aveva ragione, infatti fu molto osteggiata
anche all’interno della commissione che presiedeva.»
Ero molto giovane, eppure mi accorgevo che le sue parole nascondevano
un fondo di amarezza e di cose non dette. Non insistevo, stavo al mio posto,
ascoltavo e incameravo le informazioni. Ero sicuro che sarebbe venuto il
tempo per approfondire certe questioni. E non mi sbagliavo.
«Fumiamoci una canna»
Fu proprio questo inizio che mi diede gli strumenti per riuscire a interagire
con quella sorta di schiacciasassi che si chiama «potere». Schiacciasassi
perché contestarlo significa andare incontro a conseguenze inattese. Non sei
allineato? Non importa, ma ci scorderemo di te. Verrai relegato alla
condizione di negletto e, fino a quando non te ne andrai, sarai costretto a
convivere con questo stato. Una punizione. Per fortuna, però, qualche volta
quel potere viene smascherato e, pur riuscendo a garantire qualcuno dei
suoi «fedeli», viene messo nelle condizioni di non nuocere più. Il
riferimento non è affatto casuale. I fatti del G8 di Genova passarono sotto
processo, i colpevoli sono stati condannati, ma dopo avere «pagato» il conto
con la giustizia, alcuni di loro sono rientrati in servizio. Un «regalo» che
permise – o sta permettendo – proprio a quei fedeli di arrivare alla
pensione. Perché di questo si tratta.
È paradossale che all’interno di un meccanismo, per quanto complesso
sia, possano coesistere persone che darebbero la vita per lo Stato e altre che
lo usano come scudo.
È vero, i «traditori» sono la netta minoranza, ma sarebbe necessario,
data la prospettiva di un futuro sempre più difficile, soprattutto sotto
l’aspetto sociale, che anche quel residuo venisse definitivamente
emarginato. Il perché non è difficile da intuire: coloro i quali crearono prove
false, impedendo anche la libera contestazione, di fatto furono il braccio
armato di un potere molto più ampio, che riuscì a portare il mondo intero
verso la catastrofe sociale. Quelle azioni, considerate reati dal Codice
penale, effettivamente fecero danni incalcolabili. Oltre a consegnare i
cittadini nelle mani di chi aveva un progetto molto più grande, segnarono le
coscienze di tanti, a cominciare proprio dai servitori onesti, quelli che
darebbero la vita per lo Stato, pur di proteggerlo da qualsiasi sorta di
eversione. Certo, furono azioni e condotte nate nell’inconsapevolezza di
tutto ciò. Ma non è una giustificazione. Un uomo di Stato non può servire
qualcuno o mettersi a sua disposizione per un tornaconto personale, senza
minimamente riflettere sulle conseguenze delle sue azioni. Un uomo di
Stato deve vivere nella totale rettitudine. È qualcosa che viene da dentro,
che prescinde dal coraggio e dall’abnegazione. È un modo di essere. A
differenza di altre professioni, chi giura fedeltà alla Costituzione è chiamato
a incarnarne i valori e la struttura democratica che si eleva su quei
sacrosanti diritti umani troppe volte oltraggiati nel loro principio, più che
nella forma. Un uomo di Stato deve essere la più alta espressione della
democrazia.
Ho avuto la fortuna di avere degli esempi importanti, a cominciare dalla
mia famiglia. Ma se nella parte più decisiva della mia vita dentro le
istituzioni democratiche non avessi incontrato persone capaci, competenti,
professionalmente preparate, donne e uomini con la schiena dritta, non
avrei mai potuto fare le mie scelte durante quei due giorni maledetti.
Sì, ho avuto modo di imparare cosa fosse un’analisi, come si procede nel
corso di un’indagine o come ci si procura le informazioni necessarie per
scongiurare un attacco alla democrazia e al cuore dello Stato, come scrivere
un rapporto, come fare un collegamento tra i fatti per individuare i colpevoli
e dare modo alla magistratura di assicurarli alla giustizia. Ma non avrei mai
potuto assimilare la cosa più importante: il rispetto verso gli altri, verso i
più deboli, gli indifesi, tutte quelle persone emarginate e per questo non
degne di accedere ai cosiddetti privilegi. Non avrei mai potuto sfruttare il
mio piccolo potere per mettermi a disposizione degli invisibili o di chi
veniva considerato carne da macello.
Perciò, quando mi si è presentato improvvisamente davanti l’inizio di un
qualcosa che mai avrei immaginato potesse diventare la mia vita sociale e
professionale, proiettandomi in un contesto sconosciuto e mettendo in
secondo piano il mio ancora breve e acerbo passato, ho subìto uno
sconvolgimento, ma nello stesso tempo mi sono reso conto che è meglio un
brusco impatto, anziché una transizione lenta. E fu proprio quell’impatto
che mi portò a essere la persona che sono oggi.
«Quando conosci le regole, il Codice penale, la Costituzione, puoi stare
tranquillo che nessuno potrà mai obbligarti a fare quello che non devi.
Scrivi, non preoccuparti, scrivi, fossero anche apparentemente puttanate,
ma scrivi, non si sa mai» dicevano i vecchi marescialli. Scrivere. E non
avere paura di nessuno. Questo mi hanno insegnato Giuseppe Impallomeni
e i colleghi incontrati appena entrato alla Digos.
Avevo imparato che il timore reverenziale porta solo a effimere
soddisfazioni: la solita pacca sulla spalla o la promessa – molte volte
neanche mantenuta – di accontentarti nell’avvicinarti a casa, oppure di farti
vincere un concorso interno. Quel timore deferente avevo imparato a
riconoscerlo. Avevo imparato a fare i conti con me stesso, a «pararmi il
culo», come si dice in certi ambienti. Quando ero giovane, nemmeno
sapevo cosa significasse essere un «paraculo», non conoscevo questo
termine. Non lo avevo mai sentito, prima del servizio di leva. Ovvero,
prima di iniziare a vivere un mondo che ancora non mi apparteneva, prima
dello svezzamento.
Quel giorno in cui il dirigente ironizzò sul mio passato, che oggi sarebbe
stato compromettente e determinante nel farmi diventare parte di un Ufficio
info-investigativo di altissima importanza per la salvaguardia delle
istituzioni democratiche, ebbi la sensazione che lo Stato non avesse
pregiudizi, anzi, che avesse avuto bisogno di cercare un equilibrio al suo
interno. Ero sorpreso che un comunista venisse accolto dallo Stato al suo
interno con tanta volontà.
Mi sentivo pervaso da un forte senso di responsabilità. Come dire:
«Adesso vediamo cosa sai fare, vediamo come sarai in grado di comportarti
quando ti troverai non più a partecipare alla contestazione ma a gestirla,
affinché venga salvaguardato non solo il diritto sancito costituzionalmente,
ma anche lo Stato, le sue strutture, il suo quotidiano lavoro attraverso le
istituzioni».
Impallomeni, così come molti altri, ripose una grande fiducia in me e
credo di essergli stato riconoscente mettendo in atto i suoi consigli. Nel
luglio del 2001 erano passati quindici anni da quando ero giunto alla Digos.
Impallomeni era morto nel 1999, nel mese di marzo. Una meningite
fulminante.
Seconda parte
Storia di un disastro annunciato
Incubo n. 1
Un boato.
Corro.
Senza sapere dove, corro.
Urto persone, cose. Provo l’impulso di scappare, ma non so da chi o da
cosa.
Le mie orecchie fischiano, qualcosa mi colpisce all’altezza del
sopracciglio. Non ci bado.
Gli occhi bruciano, la gola anche.
Le lacrime si uniscono alle secrezioni del naso che impregnano il
fazzoletto che mi copre il volto, ormai del tutto inservibile.
C’è fumo intorno.
Fumo nero, fumo bianco. E in mezzo urla.
Dove sono? Impossibile capirlo.
Un fiume di gente impazzita di terrore, per un attimo mi torna alla
mente l’immagine della migrazione dei grandi erbivori nei parchi africani.
So che da qualche parte si nascondono i coccodrilli.
Poggio la schiena a un muro, mi piego sulle ginocchia e vomito.
A terra c’è di tutto: vestiti stracciati, occhiali da sole, zaini. Sangue.
Tanto sangue.
Il suo odore va a mischiarsi a quello dei gas lacrimogeni e delle auto
incendiate.
Il fumo si dirada per un secondo.
Urla alla mia destra. Una ragazza.
Mi volto, un nugolo di poliziotti intorno a lei. Colleghi.
Vedo i loro manganelli alzarsi e abbassarsi meccanicamente, quasi
fossero impugnati da robot. C’è della metodicità forsennata in quei gesti
secchi, implacabili. Nel frastuono che mi circonda riesco a distinguere i
tonfi sordi sul corpo rannicchiato a terra.
Mi alzo, corro in quella direzione.
Con una mano cerco il mio tesserino appeso al collo sotto al gilet.
«Fermi! Fermi, cazzo!»
Afferro un manganello che si sta abbassando, lo stringo forte nella
mano.
Quattro o cinque caschi si voltano verso di me.
Mostro il tesserino. Il cerchio intorno alla ragazza si allarga, i poliziotti
si disperdono.
«Pezzo di merda» mi urla qualcuno, «sei uno di loro.»
Loro chi?
Mi guardo intorno.
Un padre corre stringendo al petto il figlio di sei, sette anni. Il bambino
ha lo sguardo terrorizzato.
Una coppia di anziani con il simbolo della Cgil sulla maglietta scappa
nella stessa direzione. Lui si preme un fazzoletto sulla testa, ma il sangue
continua a scorrergli sul viso.
La ragazza intanto è a terra, la aiuto ad alzarsi.
Mi guarda. Vede il tesserino. Il suo volto si trasforma in una maschera
di odio. Mi sputa sui piedi e scappa.
Intanto dalla cima dei palazzi sbuca un elicottero.
Il rumore delle pale è assordante, ma ha come il potere di farmi
riprendere contatto con la realtà.
Torno a vedere.
Torno a capire. E non è necessariamente un bene.
Sembra un gioco: guardie e ladri. Poliziotti bardati corrono, persone
scappano. Non dovrebbe accadere questo, in uno Stato democratico.
Eppure, sta accadendo.
Le persone non dovrebbero avere paura delle divise. Eppure, ce l’hanno.
È questo che siamo diventati?
È questo che saremo da oggi in poi?
Non lo so, non riesco a darmi una risposta.
La cerco nei miei ricordi. Cerco di capire com’è stato possibile arrivare
a tutto questo.
E intanto Genova brucia.
Genova blindata
La partenza
Era una mattina di luglio del 2001. Lunedì 16, per la precisione. Partimmo
alle 7.30 in auto da Venezia. Eravamo in tre: io, un mio collega e il
dirigente dell’ufficio. Mentre infilavamo le borse nel bagagliaio dell’Alfa
155, dalle finestre della questura erano tutti affacciati a salutarci come fosse
la partenza dei prescelti verso una meta incerta. Verso qualcosa d’indefinito,
un luogo dove già c’era la percezione di una possibile guerriglia. Un dato
basato solo su delle ipotesi, le tante che si formulavano fin dal dicembre
dell’anno precedente, quando aveva iniziato a prendere forma la possibilità
che la città in cui si sarebbe svolto il G8 sarebbe stata proprio Genova. In
realtà era più una certezza che un’ipotesi. Già nel dicembre del 1999
l’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema aveva reso
noto che il summit si sarebbe tenuto nel capoluogo ligure. Dopo il
Giappone, spettava all’Italia ospitare l’evento.
Mi ero messo alla guida, come sempre quando ci si apprestava a viaggi
lunghi. Gli altri si fidavano e anche quella volta me lo dimostrarono
dormendo fino a destinazione. Tra le raccomandazioni dei colleghi prima
della partenza, quella più ricorrente era: «Cercate di tornare interi, state alla
larga dagli scontri, fate le cose con la testa e siate professionali come
sempre». Diciamo che lo si poteva paragonare a un attestato di stima, ma al
contempo aveva tutte le caratteristiche di una premonizione.
Quella mattina c’era il sole e la luce riflessa sull’asfalto dell’autostrada
creava le classiche «pozzanghere d’acqua», come miraggi nel deserto. Li
rincorri, ma tra te e loro c’è sempre la stessa distanza. Avevo da poco finito
di leggere Anime morte, un romanzo di Ian Rankin che apriva squarci
inediti e illuminanti sulla Scozia contemporanea, in particolare su
Edimburgo, dove la crisi del sistema dei valori e le trasformazioni della
postmodernità stavano distruggendo quel che restava di un ambiente sociale
fortemente tradizionale. John Rebus, il protagonista, era un ispettore di
polizia che aveva sempre a che fare con i casi più turpi. Conscio della
corruzione morale che si trasmetteva di generazione in generazione, non
riusciva a spiegarsi il suicidio del giovane collega Jim Margolies e per
questo, a dispetto degli ordini ricevuti, continuava a indagare sul caso. Le
«anime morte» cui doveva dare la caccia affollavano la scena, richiamate
quasi per incanto da una malata necessità di delinquere.
Passammo davanti allo svincolo per Alessandria, dove sedici anni prima
avevo frequentato la scuola di polizia. Genova era vicina e nei fine
settimana io e i miei colleghi andavamo a trascorrervi qualche ora. La
conoscevo abbastanza bene. Nei mesi precedenti al vertice del G8 avevo
studiato accuratamente la mappa della città e quando ci andavamo per i
sopralluoghi cercavo di orientarmi tra i nomi delle vie. Del resto, farli serve
anche a conoscere il territorio. Il tragitto Venezia-Genova lo avevamo
percorso molte volte prima di quel 16 luglio, ma non era la stessa cosa. Fino
a quel momento nessuno si era accorto delle nostre partenze, né dei ritorni.
Erano viaggi come tanti. In questo caso colleghi, civili e autorità politiche
ancora non avevano chiaro cosa sarebbe potuto accadere, probabilmente
nemmeno noi.
Ai primi di giugno eravamo già andati apposta in città per incontrare anche
Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum (Gsf),
l’aggregazione di movimenti, partiti e società civile che contestavano la
globalizzazione. Fu allora che iniziammo a percepire la sensazione che
qualcosa non avrebbe funzionato. I meccanismi di sempre, gli accordi nella
gestione dell’ordine pubblico, normalmente servono per evitare che le
situazioni degenerino in modo incontrollato e, soprattutto, per scongiurare
infiltrazioni eversive nei cortei che ne destabilizzano il regolare
svolgimento. Agnoletto pareva più teso rispetto a quando lo avevamo
incontrato le volte precedenti. Indubbiamente, sentiva la responsabilità
dell’organizzazione. «Non succederà nulla, ne sono sicuro» disse appena
uscimmo dalla scuola Diaz, dove ci eravamo recati per conoscere i
responsabili dell’organizzazione e per farci riconoscere. Sembrava volesse
tranquillizzare più sé stesso che gli altri.
Tutto sommato quando si trattava di gestire una manifestazione di grandi
dimensioni, sotto l’aspetto dell’ordine pubblico, la preoccupazione era
sempre alta. Ma quella che si sarebbe svolta durante i lavori del G8 aveva
già assunto dimensioni insolite, oltre misura. Così, mentre Luca Casarini, il
carismatico leader dei Centri sociali del Nordest, la cui sede naturale era il
Rivolta (ex fabbrica di biscotti occupata dal 1995 fino al 1999, quando la
proprietà venne acquistata dal Comune di Venezia), si scontrava quasi ogni
giorno con le forze politiche che lo accusavano mediaticamente di essere un
guerrafondaio e di cercare a tutti i costi la violenza, noi ci apprestavamo a
fare in modo che venissero rispettati i diritti di tutti, anche i suoi e quelli
delle Tute bianche. Il motivo per cui serviva una nostra pattuglia consisteva
nel fatto che la massima attenzione mediatica e dello Stato era concentrata
proprio sulla leadership del Centro sociale Rivolta e sul suo capo, Casarini.
Era un leader politico – oggi, per certi aspetti, lo è ancora di più –, non c’era
dubbio alcuno, e in quanto tale era cosa ovvia che il mondo politico in
genere avesse lo sguardo puntato su di lui. Chi meglio di noi lo conosceva?
Lo vidi poco a Venezia negli ultimi giorni prima del G8. Una volta,
passando davanti al Rivolta, mi fermai perché era nel piazzale di fronte
all’ingresso. Andammo a prendere un caffè. C’erano anche Davide
Mozzato, detto «Momo», Franco Pagnussatto, soprannominato il «nonno»
per via del fatto che era il più anziano, e qualche altro che non ricordo. A
ogni modo, tutte persone di fiducia di Luca. Fu dopo l’ultimo viaggio di
ricognizione. Si cominciava a sentire la pressione politica che non dava
tregua al movimento, come se ogni pericolo dipendesse dal dissenso,
qualunque esso fosse e in qualsiasi modo fosse stato organizzato.
Il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e si stava apprestando a
organizzare la più grande celebrazione del nulla, il summit dei potenti, utile
solo a offuscare le reali intenzioni del nuovo assetto economico
internazionale. Stava per mostrare al mondo intero che avrebbe dato una
sonora bastonata alla sinistra italiana e a tutti i dissidenti, a ogni forma di
contestazione. Non c’era occasione migliore per accreditarsi al cospetto
delle fortezze economiche e politiche del momento, soprattutto agli occhi
dell’amico George Bush. L’unica a non capire che cosa stesse accadendo fu
forse proprio la maggioranza dei rappresentanti della cosiddetta sinistra.
Io avevo con me una borsa con qualche ricambio, certo che avrei
dormito poco in quei giorni. Avevamo trovato alloggio in un hotel a Nervi.
Appena arrivati depositammo i nostri bagagli e andammo subito in città.
Era completamente diversa dall’ultima volta, come se nel frattempo fosse
successo qualcosa che avesse diffuso improvvisamente il terrore. I negozi,
le vetrate dei concessionari, le sedi delle attività, gli ingressi delle
abitazioni, tutto era stato protetto da pannelli di legno e ferro. La città si era
blindata. Proprio così, i cittadini avevano provveduto a difendersi, quasi che
non avessero avuto sufficiente fiducia nello Stato. Oppure era come se i
rappresentanti delle istituzioni già temessero per i propri eventuali sensi di
colpa.
L’aspetto più inquietante erano i container e le barriere di metallo che
impedivano l’accesso alla cosiddetta «zona rossa», all’interno della quale,
di lì a qualche giorno, si sarebbe svolto il summit. Con il mio compagno di
viaggio iniziammo a perlustrare tutti i percorsi lungo i quali si sarebbero
snodate le manifestazioni. In corso Italia erano già stati predisposti i presidi
per la vigilanza. La zona Fiera era stata occupata dalle forze dell’ordine.
C’erano la mensa, il parcheggio per i mezzi e un’area di sicurezza, dove
erano state dislocate anche le ambulanze.
Mi guardavo intorno, forse la mia paura cominciò a svilupparsi quel
giorno. Certo, era necessario e doveroso proteggere i partecipanti ai lavori.
Chiunque ha il diritto, oltre che il dovere, di svolgere le proprie funzioni.
Ma nelle settimane precedenti i giornali avevano iniziato a sovrapporre il
terrorismo internazionale alle manifestazioni. Sembrava che tutto fosse
stato messo dentro un frullatore: i distruttori delle vetrine a Göteborg, i
terroristi al servizio di Osama bin Laden, pronti a lanciare missili sul porto
di Genova o a sbarcare all’aeroporto a mo’ di commandos, i Black Bloc.
Una confusione insensata, frutto della frenesia di rincorrere la notizia,
qualsiasi essa fosse, anziché affrontare la questione con le dovute
distinzioni. Una cosa era l’imprescindibile dispiegamento delle misure di
sicurezza per scongiurare la minaccia terroristica (quella stessa minaccia
che proprio dal successivo 11 settembre avrebbe dimostrato di avere un
potenziale pronto a ricattare qualsiasi governo), un’altra era contrapporsi
con ogni mezzo alla contestazione politica.
Gli otto capi di Stato si apprestavano a discutere gli stessi temi che negli
ultimi anni venivano ripetuti come mantra nei convegni dedicati: il debito
dei paesi poveri, il digital divide, la lotta all’Aids e (guarda caso, diciamo
oggi con il senno di poi) alle epidemie, la cui letalità era già elevata. La
partita della globalizzazione era troppo importante per lasciarla nelle mani
dei critici e degli intellettuali. Ma c’era ancora il tempo per prendere
un’altra strada: da più parti era stato chiesto che paesi e continenti delle aree
più povere del pianeta, che erano stati esclusi dal vertice, venissero
comunque coinvolti attraverso un programma realizzato dalla rete delle
associazioni. Ma del Social Forum si accorsero tutti troppo tardi. Negli anni
seguenti abbiamo avuto la prova che i violenti facevano parte di una
destabilizzazione programmata, o almeno tollerata. Sta di fatto che la
mistificazione portò a indebolire il movimento e di colpo la violenza venne
equiparata al dissenso.
Qualche anno dopo incontrai Luca Casarini fuori dal tribunale
monocratico di Venezia. Nulla di grave, le solite violazioni previste
dall’articolo 18 del Tulps. «È troppo presto per parlarne, bisogna aspettare
qualche anno.» Francamente ritenevo ci fosse già molto da dire. Per me fu
tutto chiaro appena arrivai a Genova, quel 16 luglio 2001. Raccolsi
comunque il suo invito e continuai a mettere in ordine le idee. Ora di tempo
ne è passato a sufficienza e credo che anche Luca lo pensi. Perciò ritengo
sia giunto il momento di raccontare tutto quello che videro i miei occhi.
In questi ultimi giorni ho ascoltato e letto molte opinioni illustri sulla dannata questione
organizzativa del prossimo Global Forum di Genova e sono rimasto a dir poco sconcertato:
si è detto tutto e il contrario di tutto. Dichiarazioni di guerra da un lato, posizioni pacifiste
dall’altro, richieste di finanziamenti per protestare, allarmi di ogni genere dagli 007 degli
stati invitati. Fino a qui, però, niente di particolare, perché in questo paese tutto si è sempre
svolto così. Le grandi contestazioni, pur essendo state legittime nei contenuti, sono
purtroppo passate alla storia per aver prodotto quasi esclusivamente immagini violente, che
hanno oscurato i reali motivi politici, sociali e culturali dai quali invece sono state
alimentate.
Non voglio provocare ulteriori polemiche inutili, ma il mio ruolo istituzionale di presidente
di una Regione diventata ormai un importante contenitore economico e politico, mi obbliga
a una riflessione: tutto quello che ruota attorno al G8 è veramente reale o si tratta di
informazione manipolata? Quanto il sommerso supera ciò che di evidente ci viene
illustrato? L’enfatizzazione del cosiddetto popolo di Seattle quanto è positiva, se per molti
aderenti è solo un pretesto per dare sfogo a repressioni che nulla hanno a che vedere con le
reali intenzioni di chi pacificamente intende opporsi al nuovo sistema economico? Tra loro
vi sono persone che per onestà intellettuale dovrebbero rispondere serenamente a tali
quesiti. Persone che si lanciano alla conquista del consenso attraverso plateali dichiarazioni
di guerra, e che in un paese più attento a certi particolari, sarebbero già state perseguite
penalmente (non perseguitate!). Penso a Luca Casarini, padovano come me, leader dei
Centri sociali del Nordest.
Non è affatto vero che la polizia impedisce ai contestatori più radicali, come lui, di
manifestare e che per questo debba essere contrastata come fosse il nemico assoluto. Chi lo
pensa si sbaglia e ne è consapevole.
Chi non ha il legittimo sospetto che i potenti della new economy siano poco partecipi dello
sfruttamento o del fallimento qualitativo industriale, che siano più interessati a creare
apparenti condizioni di falso benessere, a squilibrare i più deboli per renderli innocui,
favorendo così una netta e visibile distinzione sociale? Ecco perché proprio coloro che,
come Casarini, si ritengono a torto unici depositari di tali pensieri, dovrebbero riflettere su
quanto le esternazioni hollywoodiane finiranno con il fare comodo proprio a quelli che
siederanno al tavolo di Genova. Mentre nel vertice si discuterà e si approveranno decisioni
strategiche nella più totale tranquillità, la stampa mondiale commenterà le imprese degli
autorevoli condottieri che guidano le truppe verso l’illusa conquista del Palazzo Ducale. A
causa del clamore, voluto e suscitato, noi forse non sapremo mai cosa realmente succederà
in quella riunione.
Vorrei mandare un messaggio al mio concittadino Luca Casarini e agli altri leader della
protesta. Pensateci bene! Vale più una pacifica protesta che una scarica di randellate. Sarete
in tanti e questa è già una vittoria. Non tutti, in quei momenti di tensione, saranno
lucidamente in grado di fermarsi nei limiti consentiti e purtroppo, a subirne le conseguenze
saranno sempre loro, i più deboli e la gente comune, quelli a cui proprio voi dite di voler
dare il messaggio di garanzia individuale rispetto al «villaggio globale» contro il quale vi
opponete.
Tra Galan e Luca Casarini non vi era certo armonia, ma nelle parole dell’ex
presidente si avvertiva una sorta di preoccupazione, come se avesse già
intuito un possibile scenario. Quelle parole sorpresero tutti, specie a sinistra.
Alcuni passaggi avrebbero avuto bisogno di essere approfonditi. Tutto
sommato, il fatto che il presidente della regione in cui i Centri sociali del
Nordest avevano la loro sede fosse intervenuto diede l’idea che avesse
riconosciuto la legittimità della loro protesta. Giancarlo Galan era un
liberale, avevo avuto modo di conoscerlo personalmente ancora prima che
venisse eletto presidente del Veneto. Del resto, dopo l’era democristiana,
dopo «Tangentopoli», venuta alla luce con le inchieste della magistratura
milanese, l’area borghese aveva la necessità di trovare una nuova
rappresentanza anche nel Veneto, da sempre considerato uno dei principali
motori dell’economia del paese. Ma questa potrebbe essere un’analisi
politica proprio sulla vicenda «Mani pulite». Un’analisi che prescinda
dall’aspetto giudiziario, per comprendere più a fondo cosa accadde al paese
esattamente dopo il 1994, con l’avvento del «berlusconismo», e il motivo
per cui buona parte dei politici di prima si riciclarono all’interno di quel
«magico» contenitore che prese il nome di Forza Italia. Magico perché
permise una promiscuità senza precedenti, che sull’onda di entusiasmi
accesi dalle note di inni accattivanti portò la disgregazione sociale a livelli
mai visti prima. Una formula liberista che aumentò in modo esponenziale le
disuguaglianze. Solo una grande forza di aggregazione avrebbe potuto
fermare la sua espansione anche in ambito globale. E, paradossalmente,
l’impressione fu che proprio il presidente Galan lo avesse capito. Quella
forza trasversale era il movimento nato a Seattle, che stava attraversando il
mondo. Aveva iniziato a mettere insieme i cittadini globali, non c’erano
partiti politici o altri poteri più o meno noti. Erano donne, uomini, ragazzi.
Persone che avevano deciso di cambiare il mondo e renderlo vivibile senza
distruggerlo. Quindi, occorreva fermare questa intenzione, non ci sono più
dubbi, anche perché con il senno di poi, a distanza di vent’anni, le conferme
sono sotto gli occhi di tutti.
Black Bloc
20 luglio 2001
La mattina alle 7.30 eravamo già davanti alla questura. Il sole splendeva e il
cielo era terso. Il vento caldo veniva da sudest. Da dove soffi è un
particolare da tenere sempre presente in questo genere di situazioni:
l’eventuale lancio di lacrimogeni può rivelarsi un boomerang.
I reparti erano già stati schierati, anche in piazza delle Americhe,
completamente blindata dai container. Se la sera prima non avessi visto con
i miei occhi le gru che li posizionavano, avrei potuto pensare che quei
monoliti fossero emersi nottetempo dal sottosuolo. Non c’erano ricordi di
simili scenari, nemmeno negli anni delle contestazioni più aspre si era
arrivati a blindare in quel modo un centro urbano.
In auto percorremmo corso Gastaldi e poi corso Europa. Ci fermammo
all’angolo di via Tagliamento, a pochi metri dall’ingresso dello stadio
Carlini. Casarini ci raggiunse per verificare che fossimo arrivati. Eravamo
in cinque.
Verso le nove i ragazzi cominciarono a uscire dallo stadio
predisponendosi lungo il corso. Poco prima delle dieci iniziammo a vedere
il fumo che saliva nel cielo azzurro di Genova e da quel momento la
preoccupazione maggiore fu salvaguardare i manifestanti. Cioè, il corteo
delle Tute bianche che si stava formando. L’elicottero e le pattuglie in moto
iniziavano a fornire i primi dettagli di una città già preda della devastazione.
L’accordo prevedeva che solo noi potessimo stare all’interno del corteo.
Nessuna divisa. Questo, in realtà, era il principale motivo di tensione, anche
se vi era la consapevolezza che sarebbe stato interesse soprattutto dei
manifestanti mostrare nei fatti la differenza tra dissenso strutturato e
pacifico da un lato, e violenza dall’altro.
Le notizie che giungevano via radio informavano che corso Buenos
Aires era stato chiuso e che erano stati predisposti i servizi di sicurezza agli
incroci con via Giuseppe Casaregis e via Aurelia. Piazzale Tommaseo era
già stato teatro di alcune azioni da parte dei Black Bloc; i lavori del vertice
non erano ancora cominciati.
La situazione stava iniziando a sfuggirci di mano. Eravamo ancora fuori
dal Carlini, in attesa che il corteo si formasse, e dall’alto sembrava che
Genova stesse andando a fuoco. Nella mattinata erano arrivati due falsi
allarmi bomba a Torino, dalla cui stazione di Porta Nuova stavano partendo
circa duecento persone a bordo di alcune carrozze aggiunte al treno diretto a
Novi Ligure. Da lì, in pullman, si sarebbero mosse alla volta di Genova.
In piazza Paolo da Novi, una delle più vicine alla zona rossa, si stavano
concentrando migliaia di persone: lavoratori Cobas, ragazzi dei Centri
sociali e del Network per i diritti globali. Attorno alla piazza, però, erano
stati segnalati gruppi estranei al movimento. I Black Bloc avevano già
assaltato le sedi di alcuni istituti bancari.
Guerriglia
Nel corteo
Alla testa del corteo, il gruppo di contatto era numeroso. Era un fiume
colorato, e dal momento che il giorno prima aveva vinto l’azione di protesta
pacifica, non c’era motivo di trasformare la piazza in un luogo del
disordine. Saccheggi e devastazioni erano stati compiuti dai Blocchi neri. Il
muro di scudi alto circa un paio di metri non era una provocazione,
nonostante l’incertezza lasciasse spazio al timore di scontri pesanti. In realtà
gli scudi servivano per ripararsi quando, in piazza delle Americhe, in zona
Brignole, la testuggine si sarebbe trovata di fronte al reparto schierato.
Era già successo in passato, la situazione sarebbe stata sotto controllo.
Non ci sarebbero state cariche, neanche di alleggerimento. Nessuno si
sarebbe fatto male, e poi finalmente il tanto temuto «un metro dentro la
zona rossa». La conferenza stampa oltre il confine proibito. Un muro che
divideva il potere dal mondo reale.
Fu proprio quella mancata sorta di «patto» che determinò la fine
dell’iniziativa pacifica. La fine di quel percorso di solidarietà naturale che
stava attraversando il mondo intero come un’onda, per capovolgere lo
strapotere di chi non aveva nemmeno idea di cosa significasse essere
«umani».
Poco prima che le cose precipitassero definitivamente, avevo avuto una
breve conversazione con un attivista no global. Non lo conoscevo,
nemmeno lui mi conosceva, ma sapeva per quale motivo ero lì. Sapeva chi
ero. Camminando a passo di corteo scambiammo qualche parola su ciò che
stava accadendo. Quel dialogo lo porto ancora con me, perché fece
traballare le mie – poche – certezze rispetto a quanto stava accadendo e
sarebbe accaduto. Lo ricordo così.
«Avete paura che non stiamo ai patti?»
«Temo per la recrudescenza. Basta un gesto, un’informazione
sbagliata…»
«Sbagli l’approccio. Prova a immaginare: se tutto andasse come ieri, la
protesta passerebbe inosservata, non avrebbe la forza mediatica di portare
alla luce la contraddizione del potere. Questa mattina sui giornali sono
riportate le nostre ragioni? No, la notizia-non notizia è che non è successo
nulla, come se i giornali fossero rimasti a bocca asciutta. Se fosse stata
attirata l’attenzione su qualche carica della polizia, sarebbe finito in prima
pagina anche il motivo per cui siamo qui.»
«Quindi avresti auspicato le cariche?»
«Non capisci. Ovviamente no, ma tieni presente che a un certo punto
nemmeno il numero dei partecipanti, per quanto grande, spingerebbe
l’informazione tradizionale a occuparsi delle nostre ragioni.»
«L’importante è che non si faccia male nessuno, non trovi?»
«Sono d’accordo con te, ma non su tutto. Il movimento vive perché è
orizzontale, non verticistico come un’organizzazione militare o politica.
Nessuno può decidere chi può stare dentro.»
«Potrei anche essere d’accordo sul metodo, ma non pagherebbe in
termini di consenso.»
«A noi non interessa il consenso elettorale, non rappresentiamo nessuna
forza politica. Siamo un movimento e vogliamo dare un messaggio forte e
chiaro sul fatto che la cerchia del potere si sta restringendo sempre di più e
diventa difficile anche contestarla.»
«Ma banche devastate e vetrine in frantumi di certo non aiutano. Anzi.
Portano le persone a scegliere tra una rappresentanza apparentemente
moderata e una violenta.»
«L’esclusione è il primo limite, pur essendo d’accordo con te.»
«Allora, quello che sta succedendo in città vorresti dire che fa parte di
un metodo che approvi?»
«Non ho detto questo, ma come facciamo a stabilire che le vetrine rotte
o le banche, come dici tu, devastate, sono un metodo da non considerare?»
«Immagino che la tua sia solo un provocazione.»
«Esatto, vedi? Adesso comprendi che nulla deve essere escluso. In
questo caso posso concordare con te, ma solo su un punto preciso: le
contestazioni tipo anni Settanta erano limitate, nel senso che erano
confinate ideologicamente e territorialmente, pur essendo anche in contrasto
con lo stesso partito che avrebbe dovuto raccogliere le istanze provenienti
dal mondo del lavoro. Oggi sarebbe sbagliato confinare questo movimento
dentro un limite: stabilito da chi? Peraltro, non esiste più nemmeno quella
sinistra che in qualche modo sapeva tenere insieme lotta di classe e
contestazione in un dibattito alternativo. Oggi il movimento deve
abbracciare la prospettiva di unire il mondo, di portarlo dentro una
discussione ampia, che vada oltre gli aspetti religiosi o tradizionali. Forse
non è ancora chiaro il fatto che già oggi, anzi, da ieri, qui a Genova quei
confini ideologico-territoriali sono stati abbattuti. Gli studenti di tutto il
mondo si stanno mobilitando, così come le università, il mondo del lavoro.
Tutto sta entrando dentro un contenitore globale all’interno del quale non si
può escludere nessuno. I giornali non scrivono questo, non la ritengono una
notizia. Il mondo andrà in questa direzione e loro non saranno stati in grado
di interpretare o riconoscere i passaggi chiave delle trasformazioni. Stamani
abbiamo letto che ieri non ci sono stati scontri violenti e che sicuramente
oggi sarebbe stato un giorno diverso. Cercano questo genere di notizie.»
Ci salutammo: «Quando vieni a Padova fatti vivo, anche tra voi ci sono i
destabilizzatori, dovete combatterli…».
Per qualche minuto rimasi a pensare, poi presi nota di tutto quello che
mi aveva detto. Avevo portato con me un taccuino su cui appuntare orari e
circostanze, nell’eventualità in cui avessi avuto la necessità di riportare per
iscritto esattamente ciò che i miei occhi avrebbero visto.
Quel ragazzo non lo vidi più. La sua analisi fu ineccepibile. È
esattamente il quadro che si venne a creare nei successivi vent’anni.
La carica
In questi vent’anni, ogni volta che mi sono trovato a ragionare sui fatti di
Genova, ho sempre ribadito ai miei interlocutori – rappresentanti della
politica, delle istituzioni, uomini di Stato, colleghi e parti sociali – la
convinzione che proprio da quell’incrocio ebbe inizio la tragedia. Tutto
dipese da quel momento: cambiò la prospettiva, stravolse gli accordi,
destabilizzò l’ordine pubblico.
Chi aveva interesse che il corteo delle Tute bianche non arrivasse in
piazza delle Americhe? Per qualcuno che avesse cercato un pretesto per
affossare il punto più alto raggiunto dalla sintesi dei movimenti
internazionali, per confondere violenza e dissenso, una mossa del genere
sarebbe stata un gioco da ragazzi. Ma servì una mente fine, uno stratega,
per individuare il momento più opportuno, proprio per non lasciare traccia,
soprattutto per insinuare il dubbio sulla genuinità della contestazione.
Accadde tutto in un attimo. Il funzionario che diede l’ordine di caricare
le Tute bianche disse in seguito che non aveva ricevuto le informazioni
necessarie dalla sala operativa. Ma i fatti andarono diversamente. Noi non
c’eravamo più, la radio non funzionava, il responsabile della sala operativa
imprecava perché non bisognava caricare. Nessuno ha mai voluto
approfondire. Quando facevo notare questo particolare, il mio interlocutore,
chiunque fosse, si dileguava o cambiava discorso. Tuttavia, occorre fare una
precisazione importante: il fatto in sé non è da imputare ai carabinieri
arrivati fino all’incrocio tra via Tolemaide e corso Torino. Loro non
sapevano esattamente quali fossero le strategie. Loro no, ma chi li stava
guidando sì. Appunto. I carabinieri non potevano nemmeno conoscere le
differenze. Videro caschi, scudi, volti coperti ed eseguirono gli ordini.
Questo ha una motivazione, che sta dentro al significato di alcune parole:
«Fai come ti dico, al resto ci penso io». Come se gli unici depositari delle
informazioni dovessero essere i soliti pochi eletti. Se quei poveri carabinieri
fossero stati messi al corrente di chi fossero le Tute bianche e di quale
strategia era stata approntata al fine di non esasperare l’ordine pubblico, di
certo avrebbero quanto meno avuto delle perplessità.
In quel momento sembrava che il mondo stesse crollando: ogni cosa,
ogni certezza. Una catastrofe. Questa era l’unica sensazione che si provava
mentre assistevamo inermi alla carica inaspettata al corteo. Nonostante la
città fosse già sottosopra, quel momento rimarrà impresso nei miei occhi
per sempre. Di colpo, sotto l’effetto anestetico dell’odore acre che invadeva
le vie, svanì la certezza degli insegnamenti che avevo ricevuto. Dovetti
assistere impotente all’espressione violenta di un potere il cui volto non era
identificabile, ma percepibile. Un volto per certi aspetti ancora misterioso.
Sì, ne sono convinto: cambiare l’assetto del dissenso e delle disposizioni
in materia di ordine pubblico non sarebbe stato pensabile se fossimo rimasti
alla testa del corteo. Nessuna carica sarebbe stata possibile. Ma non si
poteva formulare una simile ipotesi in quel preciso momento, tra lo stupore
per minacce giunte all’improvviso e il timore per la nostra incolumità.
L’unica via d’uscita era mettersi al sicuro. Non era previsto che si caricasse
il corteo, non potevamo immaginare una conseguenza del genere. Se
avessimo capito che la nostra assenza avrebbe favorito la carica alle Tute
bianche, saremmo rimasti a presidiarne la prima fila, anche a costo di
scontrarci con quei soggetti sconosciuti, che oggi si possono senza dubbio
alcuno indicare come destabilizzatori.
La follia, quindi, ebbe il sopravvento. Gli scudi di plexiglas iniziarono a
volare in aria sopra le prime file della testuggine, le forze dell’ordine
sembravano aver ricevuto l’ordine di distruggere anziché respingere o
contenere. Non fu la risposta a un attacco, nemmeno a una provocazione. Il
corteo si era fermato. Il contingente dei carabinieri era stato chiamato per
liberare l’incrocio dai Black Bloc e lasciare lo spazio alle Tute bianche, che
dovevano raggiungere la meta stabilita. Erano tutti fermi, era una pausa.
I «neri» erano andati via spontaneamente verso corso Sardegna passando
nel sottopasso, dopo aver ritualizzato la sfida all’imperialismo con la loro
inquietante marcetta, normalmente seguita da episodi di devastazione.
Non c’era più motivo che costringesse il corteo a rimanere fermo.
Avrebbe dovuto ricominciare a procedere. Invece, all’improvviso,
cogliendo impreparato chiunque, partì la carica, senza alcuna logica.
Mi chiedevo: cosa stava succedendo? Per quale motivo si era arrivati a
tanto? Interrogativi a cui a distanza di vent’anni non ci si può sottrarre,
perché fu in quel momento che venne fermata l’evoluzione di un altro
mondo possibile. Che sia stato fatto apposta, per una volontà specifica,
oppure a causa di una cattiva gestione delle informazioni o
dell’impreparazione dei reparti, è ora di appurarlo. Come si dice, i tempi
sono maturi.
Ribelle al sistema
Il vertice finì proprio lì, in quel preciso momento. Non c’era più nulla da
discutere. Un ragazzo moriva mentre dentro la zona rossa, nella tranquillità
generale, tra buffet, pranzi e cene, si era celebrato il nulla. Percepimmo che
era solo l’inizio di una lunga storia. Una vicenda senza precedenti che
avevamo visto svolgersi sotto i nostri occhi e di cui noi – ciascuno a suo
modo – eravamo protagonisti. Avrei dovuto fare qualcosa, ma ero
insignificante di fronte a tanta forza distruttrice. Ero solo un piccolo
ingranaggio. Il ministro dell’Interno era la stessa persona che in seguito
diede del rompicoglioni a Marco Biagi, quando quest’ultimo aveva capito
di essere entrato nel mirino delle Brigate rosse; lo stesso signore che una
mattina si svegliò e si sentì dire che casa sua era stata pagata da qualcun
altro, e lui non ne sapeva niente. Era questo il ministro dell’Interno, l’uomo
che avrebbe dovuto scapicollarsi per arrivare in piazza Alimonda e attivare
tutti i canali per giungere in fretta all’individuazione dei responsabili.
Mentre lasciavamo quella piazza venne d’istinto chiedersi quando mai
sarebbe venuta alla luce la verità. Un ragazzo aveva appena perso la vita. La
democrazia aveva appena ricevuto un colpo molto duro. Mi tornò in mente
il vecchio adagio: «Nei servizi di ordine pubblico, alcune volte
bisognerebbe essere disarmati». Fino ad allora non l’avevo ritenuta una
buona indicazione, ma questa volta coglieva nel segno. Dopo Genova capii
cosa intendesse dire quel maresciallo di polizia che me l’aveva insegnato.
Camminavamo tra le carcasse di auto ancora fumanti. Sull’asfalto
c’erano pezzi di plexiglas, bastoni, caschi, indumenti strappati, fazzoletti
intrisi di sangue. Stavamo tornando verso piazza delle Americhe. Qualche
ridotto contingente tentava di ricomporsi. Manifestanti di ogni genere e
forze dell’ordine stavano raccogliendo ciò che restava di quella
interminabile giornata. Era come se improvvisamente fosse arrivato un
armistizio. Ignorandosi gli uni con gli altri, si incrociavano lungo via
Aurelia. In piazza delle Americhe non c’era più il reparto schierato. Alcuni
manifestanti erano seduti sugli scalini della Cassa di Risparmio.
Passammo loro accanto: una ragazza stava telefonando, un altro aveva la
testa tra le mani, altri due parlavano guardando nel vuoto, verso la ferrovia.
L’odore della morte si percepiva nell’aria, insieme a quello acre dei
lacrimogeni e della diossina. Avrebbero potuto anche spararci, non
avremmo sentito nulla, nessun dolore.
Si racconta ciò che si vede. Si racconta anche quello che viene riferito,
ma non è la stessa cosa, sebbene chi mi forniva le notizie sulle devastazioni
che stavano avvenendo al di là del sottopasso, in viale Sardegna, avesse gli
occhi rossi e la pelle bruciata. La città era sotto assedio, ma, nonostante ciò,
a nessuno di quegli otto grandi venne in mente di fermare il summit.
Avrebbe dovuto alzarsi in piedi il capo del governo italiano e interrompere i
lavori.
Il 20 luglio 2001, quella giornata maledetta, terminò tardi, molto tardi
per noi. La sera circolava la voce di un imminente attacco alla questura.
Rimanemmo insieme ai reparti schierati fino alle due di notte. Poi, quando
stavamo per tornare a Nervi, in albergo, ricordammo che la nostra
autovettura era ancora parcheggiata nel commissariato Sturla. Non era
proprio vicino, ma chiesi un passaggio a chi era ancora più stanco di noi.
Sì, quella giornata si concluse nel modo peggiore che si potesse
immaginare. Dovetti fermare dei colleghi che stavano sferrando colpi di
manganello su persone innocenti. Dovetti assistere a una guerriglia urbana,
vedere il sangue uscire dalla pelle di persone che credevano in un mondo
migliore. Gente che sarebbe stata pronta a schierarsi dalla parte dei
difensori dello Stato senza esitare un attimo. Erano gli stessi che solo pochi
anni prima avevano manifestato contro la mafia, che avevano appeso le
lenzuola nella bella città di Palermo dopo le stragi di Capaci e via
D’Amelio.
Invece, mentre stavano gridando un messaggio di speranza, contestando
un sistema che avrebbe mandato in frantumi il mondo intero, dovettero
subire la più grave delle ingiustizie: l’umiliazione da parte di quello stesso
Stato in cui credevano e pensavano di potersi riconoscere.
Incubo n. 3
21 luglio 2001
«Quelli lo ammazzano»
Ore maledette
Dal piazzale davanti alla Fiera si vedeva il corteo che scendeva da corso
Italia e girava verso via Rimassa. Una parte del serpentone aveva già
superato quel punto. Ciò che non avessi visto con i miei occhi lo avrei
appreso dai giornali e dai servizi in tv il giorno dopo, ma avevo la necessità
di sapere chi ci fosse alla testa del corteo. Sarebbe stato tecnicamente
rilevante per comprendere il danno che i Black Bloc stavano arrecando, non
solo alla città, ma anche alla tenuta democratica.
Occorreva essere presenti dove era in atto una devastazione, osservare e
nel caso intervenire. Tuttavia, anche gli interventi avevano bisogno di
essere calibrati, non è che ci fossero le condizioni per presentarsi in due
davanti a un centinaio di «demolitori» indemoniati e identificarli. Qualora
fosse stato possibile, questi criminali sarebbero stati consegnati alla
giustizia senza alcuna esitazione. La prima cosa è mettersi in sicurezza. Poi
è essenziale contribuire a segnalare ai reparti le situazioni di ordine
pubblico compromesse dalle azioni violente. Servivano informazioni,
bisognava avere la vista lunga, cercare di capire l’evoluzione dei fatti al fine
di contenerli.
I reparti erano già stati schierati in piazzale Kennedy, lo stesso in cui nel
1973 parlò Enrico Berlinguer. Era l’area dove si faceva la Festa nazionale
de «l’Unità». Sul lato del mare, osservavo fino a dove la vista me lo
permetteva. Avevo studiato bene il territorio e avevo raccolto anche alcune
informazioni di carattere storico. Era necessario tanto quanto conoscerne la
geografia, per riuscire a svolgere nel migliore dei modi un lavoro di
osservazione. La comparazione dei fatti nella loro narrazione storica di
norma restituisce la possibilità di analizzare gli stessi a distanza di anni.
Un’operazione di importanza assoluta, anche per evitare errori sul piano
dell’ordine pubblico.
Si sperava che almeno la metà del corteo fosse riuscita a superare
piazzale Kennedy e a svoltare lungo via Rimassa per raggiungere la
destinazione attraversando il sottopasso che incrocia via Tolemaide, ovvero
il punto in cui il giorno prima era stato di fatto fermato il movimento.
Tra i rumori che accompagnavano quelle ore maledette, quelli più
macabri erano le esplosioni dei serbatoi delle autovetture. Gli scoppi dei
copertoni erano secchi, tipo quelli dei petardi, ma quando scoppiava un
serbatoio il boato echeggiava tra i palazzi e non si fermava più. Arrivava
dritto al cervello lasciandoti per qualche secondo stordito.
Non tutto il corteo, però, continuava a scorrere verso via Rimassa.
Alcuni procedevano dritti verso lo schieramento di polizia. Si stava
formando una sacca, con molti curiosi fermi a guardare perché proprio in
quel punto i Black Bloc avevano spezzato il corteo e stavano mettendo
sottosopra qualsiasi cosa.
Temevo, non solo io, per tutte quelle persone che ancora non erano
riuscite a svoltare verso via Rimassa, ma nello stesso tempo ero furibondo
con quelle che si erano fermate a curiosare. Sarebbe stato importante che se
ne fossero andate subito. A quel punto i reparti mobili avrebbero potuto
caricare il Blocco nero e arrestare tutti coloro i quali vi avessero preso parte
attiva.
Cercavo di spingermi più avanti che potevo facendo attenzione a evitare
le zone occupate dai devastatori. Camminando lungo il lato del mare arrivai
al confine tra piazzale Cavalieri di Vittorio Veneto e piazzale Martin Luther
King. Ero quasi riuscito a superare la zona devastata senza farmi notare dai
Black Bloc. Mi trovavo ormai nel luogo in cui si era formato un gruppo di
circa un migliaio di curiosi. Cercai di convincere alcuni a liberare la zona.
Rientrai all’altezza del reparto schierato all’inizio di piazzale Kennedy e
dissi al responsabile dell’ordine pubblico che ero andato a verificare la
situazione. Subito si preoccupò: «Sei andato laggiù da solo? Ma sei
matto?». Poi mi disse che avrebbe provveduto a far spostare la gente, che in
quel punto preciso aveva formato un tappo causando la fermata di buona
parte del corteo.
I reparti mobili aspettavano il momento più opportuno per evitare che
altre persone venissero coinvolte nella carica. Tra sudore, caldo,
lacrimogeni, scoppi, fiamme, carcasse di auto rovesciate, era facile perdere
l’orientamento. Nemmeno il limone riusciva a lenire il bruciore agli occhi e
sulla pelle del viso. I reparti non avanzavano e questo rasserenava. Si
limitavano a lanciare lacrimogeni verso i devastatori, nonostante il vento
continuasse a essere contrario. I facinorosi tiravano qualsiasi cosa verso i
poliziotti. A volte riuscivano a raccogliere il lacrimogeno a terra e a
rilanciarlo contro la prima fila del reparto, che ogni dieci minuti si
avvicendava con quella dietro. Era diventato un inferno per tutti. Tranne che
per i devastatori. Pareva fossero a loro agio in quei frangenti. Sembravano
dei guerriglieri. Tipo narcos nelle lande colombiane, intenti a creare
diversivi per lasciare ampio spazio ai trafficanti.
Andai a mettermi a fianco della prima linea di poliziotti. Volevo capire
da vicino cosa stesse succedendo. Vedevo ragazzi giovani, con il volto
completamente coperto. Il loro era un tumulto disorganizzato, non si
udivano grida o slogan. Era impossibile definirne la nazionalità. Si
infilavano nel fumo lattiginoso e poi ricomparivano con qualcosa tra le
mani e subito lo scagliavano contro la prima fila di poliziotti. Dietro di loro,
i manifestanti e i curiosi che si erano fermati a guardare cosa stesse
succedendo. Quando, poco prima, ero riuscito a raggiungere quella marea di
teste, circa un migliaio, forse nel frattempo aumentato, avevo sentito dialetti
diversi, veneti, lombardi, emiliani. Tutta gente inesperta, che non aveva mai
partecipato a manifestazioni di un certo tipo, per qualcuno era sicuramente
la prima volta. Nessuno di loro aveva armi improprie, e nessuno era
incappucciato o con il volto coperto da un fazzoletto. Erano lì, guardavano
come bambini quando vedono una cosa per la prima volta. Non si mossero
neanche quando il reparto alzò leggermente la traiettoria dei lacrimogeni.
Non che prima i lanci fossero ad altezza d’uomo, ma per evitare anche la
minima possibilità che finissero addosso ai devastatori, aggiustarono un po’
il tiro. Secondo me pure per dare uno scossone ai curiosi, così almeno si
sarebbero tolti da lì. Invece, niente. Indietreggiarono un attimo e poi
tornarono a vedere cosa fosse successo, chiedendosi perché non si poteva
transitare verso corso Torino. Erano attratti da quella situazione e,
involontariamente, rappresentavano un collante tra la parte di corteo rimasta
bloccata in corso Italia e i devastatori. Qualcuno, però, si avventurava verso
la zona degli scontri. Si faceva trascinare e finiva per entrare nella mischia.
Era come se venisse contagiato.
Intanto, i tonfi si ripetevano senza sosta, arrivavano dai portici dove
erano ubicati agenzie di viaggio, banche, esercizi commerciali, ingressi
privati. Tutti rigorosamente protetti da pannelli di legno o di ferro. Io mi ero
spostato sull’altro lato di corso Marconi. Nelle vie interne c’erano altre
vetrine di negozi. E altri gruppi di «demolitori». Erano più organizzati.
Nonostante si muovessero autonomamente, davano l’idea di essere
sincronizzati. La loro furia faceva paura. Sembravano posseduti. Alcuni
giovani, ragazze e ragazzi, iniziarono a reagire gridando loro di smetterla.
«Fatela finita!» urlavano alcuni. Una giovane donna disse addirittura:
«Avete rovinato tutto, è da ieri che impedite le nostre manifestazioni, andate
via». Mi rimasero impresse, quelle parole. A distanza di tempo, anche dopo
vent’anni, è impossibile dimenticarle.
L’inferno
Tutto cominciava a tornare.
Sembrava che, nonostante la confusione generale, la polizia avesse
ancora un alto gradimento popolare. Non essendosi resa responsabile di
avere fermato il corteo delle Tute bianche impedendogli di raggiungere
piazza delle Americhe, e poiché il dito che aveva premuto il grilletto di una
pistola calibro nove parabellum uccidendo Carlo Giuliani non era quello di
un poliziotto, godeva ancora di una certa stima tra i manifestanti no global.
Diciamo che la presenza della polizia era ancora una sorta di garanzia.
Fortunatamente.
A dimostrazione di quanto sto raccontando ci fu il gesto di un piccolo
drappello di poliziotti: si misero davanti a quei giovani che urlavano ai
«demolitori» di andarsene per ripararli da eventuali aggressioni. I poliziotti,
che si erano appena preparati a fronteggiare gli avversari, non riuscirono
però nelle loro buone intenzioni, perché quelli scapparono. Erano veloci
come dei fulmini. Nel terribile contesto, questa scena mi riempì di orgoglio.
Noi e la gente per bene. Noi a garanzia di chi manifestava. Noi, difensori
della Costituzione. Non ero il solo che aveva capito. Eravamo in tanti.
Tornai di nuovo nei pressi delle prime file dei reparti schierati e trovai il
disastro. Non ricordo con precisione l’ora, ma di sicuro non era più tardi
delle quindici. Appena oltrepassato piazzale Kennedy mi trovai di fronte a
uno scenario di guerra: una Fiat Brava bianca era stata rovesciata e un tipo
magro vestito di nero, con il volto completamente coperto, ci era salito
sopra e con il pugno alzato si mostrava al mondo. Saltò giù e dopo qualche
secondo l’auto iniziò a bruciare, mentre altre, in fiamme, erano state prese
di mira da quei teppisti.
Era un saccheggio in pieno stile e non sopportavo di dovere assistere a
quello scempio. D’istinto iniziai a dirigermi verso il centro del piazzale
Cavalieri di Vittorio Veneto, dove infuriava la devastazione.
Fortunatamente un collega mi vide e mi venne a prendere spingendomi
indietro.
In quel momento iniziò a partire un’altra sequenza di lacrimogeni.
Incontrai il mio dirigente, anche lui senza maschera antigas. C’era una
siepe che delimitava il parcheggio di piazzale Kennedy e, oltre, il mare. Ci
appoggiammo lì e vomitammo. Alle nostre spalle Giovanna Botteri era in
diretta su Rai 3. Non è da tutti finire in tv mentre vomiti. Accadde anche
questo.
Le forze dell’ordine stavano aspettando che si liberasse la piazza per
caricare il Blocco nero. Quella situazione non poteva continuare all’infinito.
Sentivo addosso la stanchezza, era diventato quasi impossibile ragionare
con lucidità, ma sarebbe bastato usare il buon senso.
Dopo due cariche, quando i Black Bloc si allontanarono disperdendosi,
ci voleva poco per rendersi conto che in corso Italia erano rimaste le
organizzazioni pacifiste. E prima di tirare una manganellata sarebbe bastato
solo guardare a chi fosse diretta. Guardare, appunto. Osservare e rendersi
conto della situazione.
Verso le sedici i reparti della polizia cominciarono a guadagnare terreno.
Avanzarono di un centinaio di metri abbondanti. Tornai sul lato opposto di
corso Marconi, lato mare. Sarei servito più lì che dove mi trovavo. Feci una
corsa verso l’ingresso di via Rimassa, contravvenendo alle disposizioni
relative all’autotutela.
Si era appena formato un cordone di persone, perlopiù giovani, che
cercavano di incanalare il flusso verso via Casaregis, anziché su via
Rimassa. «Che succede?» chiesi a uno di loro. «Stiamo tentando di far
capire che bisogna andare via da qui, prima o poi una carica dovrà partire.
Questa situazione non può rimanere così in eterno.»
Aveva ragione, qualora fosse partita la carica sarebbe stato come
lanciare un rullo compressore. Quei ragazzi dei reparti erano sfiniti dopo
ore di lacrimogeni, molti dei quali, dopo essere stati rilanciati dagli
sfasciatori, se li ritrovavano tra i piedi, ormai del tutto attivati. Erano esausti
e incazzati. Avrei sfidato chiunque in quella situazione a comportarsi con
una simile professionalità. Ma qualcosa stava andando per il verso
sbagliato. Fino a quel punto pensavo che la resistenza fosse una strategia e
che aspettare il deflusso del corteo per poi attaccare il Blocco nero fosse il
modo migliore per mettere al riparo tutta quella gente che, pur inesperta e
curiosa, stava lì, dove non avrebbe dovuto essere.
Mi spostai subito. Tornai indietro, sempre lungo il lato del mare. Il
reparto avanzava abbastanza velocemente. Un gruppo si era già diretto
verso via Casaregis. Un altro stava entrando verso punta Vagno, a ridosso
della spiaggia.
Cominciarono i primi lanci di lacrimogeni. Le traiettorie erano varie e
segnavano il cielo. Ai lati di corso Italia i reparti sembravano due ali aperte.
Sulla scalinata che portava in via Nizza molta gente si era ammassata per
evitare di cadere in quella morsa. In cima agli scalini si vedevano alcuni
caschi verdi. Erano quelli della finanza. Ma le persone non sembravano
impaurite. Dopo venni a sapere che erano lì per delimitare una zona, ma
non erano operativi.
Intanto mi passavano accanto a passo svelto altri gruppi di poliziotti. Mi
presi una spintonata. Mi spostai in direzione contraria per tornare verso la
Fiera. Misi in mostra il distintivo. Mi salvai al volo da una raffica di
manganellate. Piazzale Cavalieri di Vittorio Veneto era ormai stato quasi
liberato e da piazzale Martin Luther King giungevano le urla di donne e
bambini. Vidi un uomo e una donna svincolarsi. Corsi da loro e li feci
transitare nella zona liberata. «Andate sempre dritti e poi svoltate a destra
nel piazzale della Fiera.» Scapparono via. A un certo punto ricevetti una
telefonata. Non conoscevo il numero. Risposi dopo qualche squillo.
Cercavo riparo dal frastuono generale, a cui si era aggiunto anche il rumore
delle pale di un elicottero, un Agusta 212, che volava basso; neanche una
trentina di metri sopra le cariche e sopra la mia testa.
Era un signore del circolo di Rifondazione comunista di Marghera. Mi
chiese come stavo, ma non riuscivo a sentire bene quello che mi diceva.
Dovetti riagganciare. Mi sembrava di essere in una zona di guerra. Di colpo
era scoppiato l’inferno. Non poteva essere stato un caso. Dimostranti,
pacifisti, sindacalisti, associazioni varie, donne, uomini, anziani, bambini,
alcuni sulle spalle del proprio papà, cercavano di uscire dalla portata dei
manganelli. Rimasi fermo davanti alla spiaggia, impotente, fino a quando
mi raggiunse il mio compagno di viaggio. Il reparto che aveva caricato era
arrivato fino a ridosso di punta Vagno. Si era spinto su per almeno duecento
metri. In quel tratto di corso Italia erano rimasti i segni di una catastrofe.
Zaini distrutti, scarpe, fazzoletti, maglie stracciate, ma soprattutto sangue.
Era rimasto il sangue a terra. Era tanto, mai vista una cosa del genere.
Quel signore che mi aveva telefonato lo richiamai appena ebbi un
momento di calma. Voleva sapere come stavo perché mi aveva visto nelle
dirette televisive in mezzo agli scontri.
Poi, a un tratto, i caschi azzurri tornarono indietro e al centro del corso le
persone rimanevano con le mani alzate. Cercavano di spostarsi al passaggio
dei poliziotti, di lasciare lo spazio sufficiente affinché non vi fosse il
minimo contatto. Era la paura. La paura di essere lì, in quell’inferno. La
stessa che avevamo noi. Alcune donne avevano la testa e il naso
sanguinanti. Un ragazzo con un occhio gonfio, tumefatto, piangeva
disperato. Altri, pur con le mani alzate in segno di resa, cercavano di
reagire: «Siete impazziti, guardate cosa avete fatto!». Non sapevo come fare
per dire a queste persone di stare zitte. Perché sarebbe stato meglio così. Un
padre con il bambino sulle spalle e le mani in alto si prese una manganellata
sulla schiena. Il mio collega mi tirò per un braccio e mi disse: «Dai, fatti
forza, andiamo avanti». Ero sconvolto. Neanche un paio d’ore prima mi ero
quasi commosso nel vedere polizia e giovani dalla stessa parte della
barricata.
Risalimmo corso Italia insieme. Sentivo lo sgomento crescere sempre di
più dentro di me. Una sensazione di impotenza. Ma ancora non era finita.
Più in là si alzava del fumo biancastro. Avevano sparato altri lacrimogeni.
Non era possibile un atto del genere. Vidi tornare indietro i poliziotti. Le
persone inermi avevano le mani dietro la testa. Alcune erano sedute sul
bordo del corso, altre in piedi, tremanti. Una ragazza era a terra, fortuna che
in quel momento giunsero di corsa due medici. Poi mi accorsi che altri
stavano andando a soccorrere i feriti. Un incubo. Giovani che piangevano,
donne in preda al panico. Uomini con il naso sanguinante e con le mani
alzate. Gli elicotteri diventarono due e volteggiavano lentamente sopra le
nostre teste. Da lassù avevano un quadro più ampio e sembrava strano che
non avessero comunicato le diverse componenti, da un lato i manifestanti e
dall’altro coloro i quali non avevano nulla da spartire con la partecipazione
democratica al dissenso verso una globalizzazione disastrosa.
A un certo punto, di colpo, i devastatori sparirono dalla mia vista. Da
dove mi trovavo non potevo avere una visione d’insieme, ma avevo ormai
accumulato elementi sufficienti per pentirmi della commozione provata
prima. Mi sembrava un sogno. Troppo vero per essere reale. O forse lo
pensai solo perché alla vista di tanta inutile violenza mi sentivo
profondamente deluso. Ero fermo e prendevo atto di tutto ciò che mi
circondava. Alzai gli occhi e davanti a me partì quella che poi venne
considerata l’ultima carica. Non ricordo bene da dove, ma fu la più
disastrosa.
Passai in mezzo a tutta quella gente insanguinata, distesa a terra, persone
che ancora tremavano camminando con le mani alzate. Alla vista della
polizia non bisognerebbe spaventarsi, invece a Genova faceva paura: non ai
demolitori, a coloro che sfasciarono la città, incontrollati e indisturbati, ma
alle persone per bene.
Il fumo era più denso del giorno prima. Il timore era che tornasse a
ripetersi il dramma della morte. E continuavo a chiedermi se il capo della
polizia, quel giovane funzionario che ammiravo, che ritenevo fosse la
persona più idonea a guidare la polizia di Stato e il Dipartimento di
pubblica sicurezza, fosse al corrente di quanto stava accadendo. Speravo
che mettesse fine a quel massacro da un momento all’altro. Ero sicuro che,
se fosse stato lì e avesse visto come si stava comportando una parte dei suoi
uomini, sarebbe intervenuto e li avrebbe fermati. Personalmente.
Il pomeriggio del 21 luglio sembrò più lungo dell’intera giornata
precedente. Tornando indietro da corso Italia verso piazzale Kennedy
incontrai il mio collega, allarmato perché non sapeva dove fossi finito.
Un uomo di mezza età insieme a una donna, sicuramente la moglie, si
avvicinò e ci domandò se fossimo dei giornalisti. Entrambi indossavamo un
leggero giubbino beige, senza maniche e con molte tasche, proprio come
quelli dei giornalisti. «Non siamo giornalisti, siamo poliziotti.» L’uomo si
mise a piangere come un bambino, sostenuto da sua moglie. «Stia
tranquillo» gli disse il mio collega. «È tutto finito, non si preoccupi.»
Estrassi dallo zaino una bottiglietta d’acqua ancora sigillata. L’accettò di
buon grado. Dopo essersi dissetato, si calmò. «Perché avete fatto tutto
questo?» ci chiese. «Guardatevi intorno, ci sono anche anziani, doloranti
per i colpi di manganello, come si può fare questo a persone inermi che
manifestano pacificamente?»
Pensavo a mio padre, ai miei genitori, che prima di partire per Genova
mi avevano raccomandato più volte di fare attenzione e di non mettermi nei
guai. Anche loro, pur non abitando qui, avevano compreso il pericolo, forse
più di noi che avremmo dovuto percepirlo meglio di chiunque altro. Quei
due signori ci spiegarono che erano a Genova perché ritenevano giusto darsi
da fare per lasciare ai propri figli e nipoti un mondo migliore, in cui la
povertà e lo sfruttamento non avrebbero più dovuto trovare spazio.
Facevano parte di un gruppo organizzato dalla Cgil.
«Nemmeno noi siamo stati risparmiati, mia moglie è stata colpita, per
fortuna di striscio, alla schiena.» Si voltò e le spostò la maglietta con
delicatezza. Aveva un segno viola sul fianco. Il cuore mi batteva forte, non
riuscivo a trattenere le lacrime. Per fortuna avevo la scusa dei gas
lacrimogeni, ma l’uomo anziano si accorse della mia reazione. Volle
abbracciarci. «Siete dei bravi ragazzi, fate qualcosa, non abbiate paura della
verità. Credo nella polizia, ce ne sono tanti di bravi e sensibili, siete la
maggioranza.»
Si incamminarono verso una via che portava al centro della città. Li
seguimmo con lo sguardo fino a quando si mescolarono tra la folla.
Tornammo verso la zona Fiera, avevamo avvertito il nostro superiore che
stavamo facendo un giro di perlustrazione.
Rastrellamento
E se…?
Nel corso degli anni qualche volta mi fermo a fare delle riflessioni. Per
esempio, se avessi partecipato alla riunione a cui eravamo stati invitati con
insistenza, avrei avuto la forza, di fronte ai vertici della polizia e della
direzione a cui appartenevo, di prendere una posizione, sostenendo che
prima di decidere una manovra operativa del genere sarebbe stata quanto
meno necessaria una ricognizione da parte nostra, ammesso che fosse stato
necessario entrare alla Diaz? No, nessuno avrebbe avuto la forza di opporsi.
Almeno non noi. Di sicuro ci avrebbero detto: «State zitti, nessuno vi ha
interpellato, non siete voi a decidere, alla fine siamo noi i responsabili, mica
voi». Con la nostra assenza non avevamo dato loro modo di dirlo, ma
sarebbero state più o meno queste le parole che ci saremmo sentiti
rivolgere.
Be’, sembra tutto chiaro.
Conoscevo Arnaldo La Barbera, la persona che guidò l’assalto alla Diaz.
Proprio per questo mi sono arrovellato il cervello molte volte nell’arco di
questi vent’anni. Certo, era un uomo che non le mandava a dire, ma era
specializzato in un settore altrettanto delicato, il cui approccio doveva
avvenire su un piano culturale totalmente differente. Mafiosi, camorristi,
assassini, erano e sono soggetti che si pongono al di fuori della legge e della
società, ma culturalmente inferiori. Non sono studenti, intellettuali, ragazze
e ragazzi preparati con cui si deve discutere, ragionare. E da cui si può
imparare. Darsi una risposta sulle ragioni che portarono La Barbera ad
autorizzare quell’azione – di cui forse, e dico forse, aveva sottovalutato la
portata – è impossibile. Quello che credo è che, a suo modo, anche lui sia
stato una vittima. Vittima dell’incompetenza, ma non si possono giustificare
certe decisioni. Soprattutto da parte di chi aveva la responsabilità di gestire
l’ordine pubblico.
Il ruolo che occupava all’epoca non gli era stato certo imposto. L’aveva
accettato. Se si fosse reso conto in tempo che non era fatto per lui, forse le
cose sarebbero andare diversamente. Forse.
In quella totale desolazione mi sentivo inutile. Qualche ora prima
bisognava arrestare chiunque portasse i segni del G8 o indossasse abiti
riconducibili alle manifestazioni. Poi, le armi dentro la Diaz. C’era qualcosa
di anomalo.
Chi è Stato?
Quando la gente ti incontra non vede te, ma la polizia, ciò che rappresenti.
E già stavo provando un senso di vergogna, a prescindere dal fatto che ci
fossero state o meno armi dentro quella scuola. Si sapeva cosa sarebbe
successo, di certo mediaticamente non ne saremmo usciti bene. Anch’io ero
coinvolto, perché c’ero e il senso di colpa indiretto me lo portai dentro per
molti anni.
Fu un epilogo assurdo. In quei giorni maledetti si sarebbe potuto
immaginare di tutto, ma un’irruzione dentro la Diaz no. Era troppo.
Avevo difficoltà a staccarmi da quel posto. Dovevo riuscire a capire.
Ancora oggi non mi sono dato delle risposte. A distanza di tanti anni
quando vedo una carica faccio molta fatica a tenermi lontano da quei giorni
e dalle immagini di quella notte alla Diaz.
Le ambulanze andavano e venivano in continuazione, il viavai di gente
era inarrestabile, sembrava non finire mai. Poco più in là dei ragazzi erano
seduti su un muretto di recinzione. Di sicuro non erano scampati alla furia,
probabile fossero arrivati subito dopo. Uno di loro volle osservare bene il
distintivo che tenevo appeso al collo. Poi, alzò gli occhi e mi guardò. Avrei
voluto dirgli che disapprovavo, ma avrei peggiorato la situazione,
confermando la parte di chi si stava defilando. Insomma, non avevo
scampo. Anch’io rappresentavo la polizia di Stato e avevo l’obbligo morale
di tenere alti i valori su cui si fondava.
Vidi Roberto Sgalla uscire dalla scuola, lo salutai. Mi riconobbe. Negli
anni Ottanta era stato il segretario nazionale del Siulp [Sindacato italiano
unitario lavoratori polizia, ndr]. Lo stimavo perché era brillante, colto,
preparato. E non aveva paura di difendere la categoria. Mi sentivo
rappresentato da lui. Lo vidi cupo in volto. «Che ci fai qui?» Gli dissi che
ero corso dopo avere appreso la notizia dal televideo. «Vattene» rispose con
aria preoccupata. Ero convinto non avesse approvato nulla di quello che i
miei occhi stavano vedendo. A tutt’oggi voglio credere al fatto che anche
lui possa essere stato ingannato. Ma se così fosse, avrebbe dovuto dire la
verità. Gridarla subito, senza la minima esitazione. Di fronte a dei giovani,
ragazze e ragazzi, bastonati a sangue, avrebbe dovuto fare quello che avrei
fatto io se fossi entrato in quella scuola qualche ora prima e se non fossi
stato in grado di fermare la mattanza: sedersi sugli scalini della Procura
della Repubblica e aspettare il procuratore. Solo così avrebbe potuto essere
a posto con la coscienza. Non lo sono mai stato neanche io, seppure quella
notte non entrai in quelle aule.
Tra la folla inquieta e nervosa cercavo qualcuno che avesse un
cedimento di coscienza. Guardavo i volti di quei poliziotti con la visiera
sollevata. Vi fosse stato almeno un pentito, lo avrei notato. Forse c’era, ne
sono sicuro, ma fu difficile individuarlo. Gli avrei chiesto di raccontarmi,
perché avevo bisogno di conferme. Rimanere nel dubbio sarebbe stata una
sofferenza, come del resto lo fu. Rimasi a guardare ancora un po’, ma non
c’era più nulla da fare. Ero arrivato tardi. O, forse, non avrei mai dovuto
vedere.
Il parafulmine
Erano circa le tre di notte. Non riuscivo a dormire. Mi alzai. Feci piano per
non svegliare il mio collega. Dal terrazzino si vedeva il mare, ma l’aria
pizzicava anche a Nervi. Il fumo dei lacrimogeni era arrivato pure in quella
località bellissima.
Sembrava distante il centro di Genova, invece era più vicino di quanto si
potesse immaginare. Pensavo a tutto quello che sarebbe successo. Ero
amareggiato: molti miei colleghi avevano disonorato la divisa che
indossavano, l’avevano scambiata per una sorta di scudo per la loro
immunità. Da giovane, nel periodo in cui rimasi nella scuola di Alessandria
– un anno esatto – ogni giorno ci ricordavano che «Un poliziotto deve
essere sempre irreprensibile. Indossare una divisa significa rappresentare lo
Stato e noi rappresentiamo uno Stato democratico». A insegnarcelo era un
ispettore attento e rigoroso. Ricordo il suo cognome, si chiamava Maione.
Sapeva bene com’era il mondo fuori da quella scuola e faceva di tutto per
rendercelo meno ostile. «Il rispetto lo dobbiamo dare prima noi.»
Pretendeva che la divisa fosse sempre in ordine, pulita. Anche la mimetica
doveva essere indossata per bene. La mattina bisognava radersi la barba e
presentarsi in aula in orario. Non avevo difficoltà a farlo, il servizio militare
mi aveva già dato una buona preparazione in tal senso. Tuttavia,
l’impostazione acquisita durante il corso di formazione servì molto a
comprendere che dentro a una divisa sei lo Stato. Anche quando non la
indossi, come nel mio caso. In buona sostanza, lo rappresenti sempre,
perché alla fine si sa che lavoro fai, per quanto tu possa tenere riservati
alcuni particolari. E con chiunque ti relazioni non sei mai tu che interagisci,
ma è lo Stato.
Sotto quel cielo stellato, che si univa al blu intenso del mare, iniziai
seriamente a mettermi nell’ordine di idee che avrei ricevuto le più aspre
disapprovazioni. Anch’io, pur non avendo condiviso le scelte fatte dai
vertici della polizia di Stato e dal governo, oltre che biasimare il
comportamento violento di alcuni colleghi, stavo per diventare un
parafulmine. «Ricordatevi sempre che sarete un bersaglio, gli insulti non
saranno mai diretti alla vostra persona, ma ai politici, anche se non li
rappresentate, perché vi diranno che voi li difendete.» Furono queste le
ultime parole dell’ispettore il giorno in cui lasciammo la scuola di
Alessandria per raggiungere le sedi assegnateci.
Mi rimisi a letto, cercai invano di dormire, ma le immagini ebbero il
sopravvento. Quando chiudevo gli occhi nel tentativo di addormentarmi
quei ragazzi insanguinati e distesi sulle barelle continuavano a passarmi
davanti.
Decisi di farmi una doccia e scendere nella hall. Caricai la mia borsa
nell’auto e mi preparai al viaggio di ritorno. L’aria era fresca e sembrava
che il fumo acre fosse stato spazzato via dalla brezza notturna. Ma non
potevo averne certezza, quel fastidioso odore me lo portai nel naso per
qualche mese. E anche oggi, a ripensarci, qualche traccia ancora c’è.
«Fate schifo»
Il ritorno
Continuai a svolgere il mio lavoro. Venezia era un’isola felice. Nel mio
ufficio nessuno aveva mai alzato un dito verso qualunque persona arrestata
o fermata. Al contrario, i diritti erano rispettati. Era così nel passato, quando
arrivai ancora acerbo, mingherlino e dentro una divisa troppo larga. Fu così
anche dopo. Non ho dubbi sulle nuove generazioni. L’importante è che
qualcuno dica loro cosa accadde realmente, senza nascondere nulla. Perché
si è visto cosa succede quando la verità viene nascosta per «sistemare» le
situazioni. Meglio dirla subito e assumersi le proprie responsabilità.
La polizia è un organismo di garanzia. Conosco direttamente gli attuali
vertici e posso affermare che il loro spirito democratico è saldamente
ancorato al dettato costituzionale, non solo per il dovere conferito, ma per
convinzione personale.
A pagina 78 del suo racconto, Giulietto Chiesa scriveva: «Tutta questa
storia ci ha messo di fronte a nuovi interrogativi: uno dei quali, non
l’ultimo, ci impone di sapere come è costituita la polizia italiana, chi la
comanda, chi forma i quadri, chi impartisce lezioni di vita oltre che lezioni
di tecnica. Sapere qual è il tasso di democrazia di carabinieri e polizia, è di
nuovo, come ai tempi di De Lorenzo, una questione vitale per il futuro
dell’Italia».
Credo che, oggi, la risposta a quella sua complessa domanda troverebbe
buoni riscontri. I fatti gravi negli anni dopo il G8 hanno dimostrato che le
complicità e le coperture all’interno di certi apparati non sono mai cessate. I
casi di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per esempio, hanno dato
conferma di come nulla fosse cambiato rispetto a prima.
Fortunatamente i nodi vengono sempre al pettine, grazie anche a una
magistratura indipendente, coraggiosa. Ma anche per merito di molti
poliziotti e altrettanti carabinieri, integerrimi, che indossano la divisa con
onore e svolgono il loro mestiere senza mai dimenticare di avere giurato
fedeltà alla Costituzione.
Conclusioni
Dopo vent’anni dai fatti avvenuti a Genova, e dopo quaranta dalla scoperta
ufficiale degli elenchi della P2, che stava per condizionare la democrazia
italiana, poco è cambiato. Il presidente del Consiglio all’epoca dei giorni
maledetti era il piduista Silvio Berlusconi. È vero, come sostiene Franco
Gabrielli, che non c’era un intento politico preciso, ma è altrettanto vero
che mettere il silenziatore al dissenso avrebbe evitato una presa di coscienza
in ambito internazionale. Cosa che avrebbe scompigliato i piani a quella
parte trasversale della politica italiana che va dal centrodestra al
centrosinistra.
Di sicuro le responsabilità oggettive ci sono tutte, oltre a quelle dirette
da parte di chi materialmente rese possibile il massacro collettivo, fisico e
psicologico. Una lacerazione generale delle coscienze. I mandanti c’erano,
come in ogni circostanza. Dal traffico d’armi a quello della droga, dalle
destabilizzanti stragi di Stato alla crudeltà delle Brigate rosse.
Ci sono sempre stati dei mandanti. Molte prove sono tuttora
inconsistenti, molte non sono servite a sostenere le condanne. Ma ci sono
prove che non hanno bisogno di un’aula di giustizia per essere considerate.
E non servono nemmeno sentenze di condanna per analizzare i fatti e dare
loro una connotazione reale e temporale. Le stragi di Stato non sono più
un’intuizione o il frutto di una fantasia di qualche magistrato o di qualche
bravo investigatore. Piazza Fontana non ha colpevoli, non ci sono
condanne, ma sappiamo bene le motivazioni della strage, conosciamo con
precisione il motivo per cui ci furono i depistaggi. E sono stati pure
condannati quelli che misero in piedi il piano per depistare la verità
addossando la colpa a degli innocenti.
Ci sono eventi che hanno coinvolto le nostre istituzioni – penso appunto
alla scoperta degli elenchi della P2, ma anche ad altri casi, come la strage di
Peteano – e su cui c’è stata almeno la volontà politica di indagare, la
necessità insita nelle persone che rappresentavano lo Stato di rendersi
disponibili ai fini di un accertamento etico e morale. Fu così per la P2, la
cosiddetta «commissione Anselmi», la cui relazione conclusiva emise una
sentenza memorabile. Tracciò una linea di demarcazione tra Stato e
Antistato. Portò alla luce le differenze tra chi stava da una parte e chi
dall’altra. Chi tramava e chi era un fedele servitore delle istituzioni. Uomini
di Stato, quindi, infedeli. Esattamente come a Genova. E allora, perché non
accogliere il ventennale dai fatti del G8 regalando agli italiani la tanto
richiesta commissione parlamentare per fare piena luce, non solo sulle
responsabilità, ma sui mandanti?
Perché i mandanti ci sono eccome. E lo sostengo poiché in quella catena
di comando – per quanto sbagliata fosse una simile cultura dell’ordine
pubblico, come ha sostenuto Franco Gabrielli – non credo che i vertici della
polizia di Stato fossero arrivati al punto di decretare un massacro. Credo nel
fatto che, pur di fare carriera, si possa accontentare una volontà politica del
paese. Un gioco delle parti molto forte, alla fine del quale a perdere la
partita in quel caso fu proprio Gianni De Gennaro e, a strascico, tutta la
cordata di potere che egli stesso aveva messo in piedi.
Pertanto, è ormai giunto il momento di mettere la parola fine a questa
storia. La ferita è ancora aperta, non bastano le sentenze di condanna di
fronte a tutto quello che avvenne. Occorre un’analisi inserita in una
relazione ufficiale, una relazione di Stato redatta a conclusione di
un’indagine profonda. Un atto formale che rimanga negli archivi e nella
storia di questo paese. Un pronunciamento in cui ci siano tutte le
testimonianze rese da chi c’era e da chi gestiva, da chi venne condannato e
da chi tentò di evitare tutto quello che accadde. Un atto formale che
restituisca anche in ambito internazionale la profonda propensione dello
Stato italiano a ricercare e a individuare coloro i quali tentarono e ancora
tentano di affossare le istituzioni democratiche che lo rappresentano.
Sarebbe una grande vittoria che proprio nei giorni del ventennale
Camera e Senato dessero vita alla commissione. Non si pretende che sia
d’inchiesta. I fatti sono già stati accertati dalla magistratura e puniti.
Sarebbe però interessante sapere molte cose. Una su tutte, quella che più mi
sta a cuore: per quale motivo davanti ai cortei non c’erano le figure
politiche di riferimento? Segretari di partito, ministri e sottosegretari,
perché la globalizzazione avrebbe dovuto essere un tema che riguardava
tutti indistintamente. C’erano solo alcuni parlamentari, ma erano parte
integrante del movimento. Sarebbe stato diverso se all’angolo tra via
Tolemaide e corso Torino ci fossero stati Walter Veltroni oppure Giuliano
Amato? O, meglio ancora, Massimo D’Alema? L’assalto al corteo delle
Tute bianche sarebbe stato comunque ordinato?
Non si bastona una persona. Non la si può bastonare mai, anche qualora vi
fosse un motivo, sbattendo il manganello sulle costole, sulla pancia, sulle
gambe sulla testa, sul viso o su qualsiasi altra parte del corpo, a casaccio e
con la massima violenza, soprattutto quando è a terra e ti invoca di
smetterla, inondata dal suo stesso sangue, che tu le hai fatto versare
sull’asfalto. È un atto crudele, di una violenza inaudita, che va perseguito
senza esitazione. A Genova, in quei due giorni maledetti, oltre a essere stata
interrotta la democrazia, fu compiuto un atto di umiliazione che lese in
modo permanente la personalità e la dignità di ogni donna e ogni uomo, non
solo sul piano giuridico, anche sotto l’aspetto morale. Persone innocenti,
colpevoli solo di avere tentato di reclamare un mondo migliore. Un
poliziotto non può esimersi dal tenere conto dei princìpi sanciti dalla
Costituzione per assecondare una qualsiasi volontà politica; un poliziotto è
al servizio di essa, quindi chi protesta va difeso, non bastonato.
È questa la principale ragione per cui quando si torna su quegli orribili
fatti si sostiene che la Costituzione venne sospesa. Sì, a interromperla
furono proprio coloro che avrebbero dovuto farla rispettare, quali che
fossero gli ordini impartiti da ambienti governativi o politici. Un poliziotto
deve avere sempre la massima certezza delle proprie azioni, che non
devono mai essere separate dall’etica e dalla deontologia, ma soprattutto
deve essere consapevole del proprio ruolo giuridico, istituzionale e sociale.
Deve essere professionale e irreprensibile, solo così può restituire serenità e
ricevere il sacrosanto rispetto dovuto alla sua persona e allo Stato che
rappresenta. Diversamente non è un poliziotto. È qualcos’altro.
Nessuno, in tutto questo, si è mai posto la domanda sulla possibilità che
anche molti poliziotti per bene potrebbero avere subito un danno
permanente, causato da chi agì fuori da qualsiasi circuito normativo.
Assistere impotenti a quelle azioni violente, disumane, contro persone
innocenti, può determinare un trauma. Il fatto di non essere riusciti a
fermare quella barbarie potrebbe aver generato la sensazione di un
fallimento la cui elaborazione non potrà mai avvenire in assenza di una
giustificazione concreta. Perciò, anche in molti operatori di polizia, la ferita
potrebbe rimanere aperta per sempre: «Non sono riuscito a salvare nessuno
da quel massacro».
Negli anni successivi lessi molte storie che presero forma da quei due
giorni. Mi informai attraverso i canali che avevo a disposizione, anche
tramite colleghi d’oltralpe. Scoprii che molti ragazzi espulsi dopo l’assalto
alla Diaz, o dopo essere stati liberati dalla macabra sala di tortura
organizzata all’interno della caserma Bolzaneto, quando rientrarono nei loro
rispettivi paesi vennero trattati come persone che avevano infangato l’onore
e il prestigio dello Stato a cui appartenevano. Qualcuno non riuscì
nemmeno più a trovare lavoro e qualche ragazza dovette prostituirsi per
guadagnarsi da vivere. Ecco, quindi, non si può sostenere che una condanna
risolva la questione o rimargini le ferite rendendole invisibili. Gli strascichi
ci furono, e anche pesanti.
Una ragazza che stava scappando lungo corso Torino subito dopo i primi
scontri, conseguenza dell’attacco al corteo delle Tute bianche, venne colta
di sorpresa da un gruppetto di forze dell’ordine (rimango generico per via
del fatto che ritengo oltraggioso distinguere il colore di una divisa per
indicare le mele marce). Dopo i primi colpi sulla schiena si accasciò, ma per
fortuna eravamo a pochi passi. Mi gettai addosso, a proteggerla fisicamente,
per farli desistere e per sottrarla al peggio. Come al solito, se ne andarono
appena si accorsero del distintivo, ma l’atteggiamento non fu dei migliori,
nemmeno nei miei confronti. Lei disse di chiamarsi Kate, mi parlava in
inglese. Aveva i capelli rossi, non tinti. «Thank you, thank you so much, I
am Irish» ripeteva con voce tremante.
Si aggrappò al mio braccio e la aiutai a rialzarsi. Era dolorante alla
schiena e piangeva. Mi passò una mano sul viso e scappò via. Negli anni
provai a fare qualche tentativo per ritracciarla, ma fu inutile, ovviamente.
Non sapevo nulla di lei oltre al suo nome. E magari in quella circostanza
nemmeno si fidò a fornirmi quello reale.
A distanza di vent’anni mi farebbe piacere sapere dove andò a rifugiarsi
dopo essere stata graziata. Sarebbe una bella cosa poterci incontrare. Ma da
quando venni a sapere cosa accadde agli espulsi, il dubbio che anche lei
fosse finita dentro a quel vortice non ebbi modo di dissiparlo. Tuttavia,
sarebbe un sollievo sapere che non le accadde più nulla dopo quell’episodio
e che ora è una donna felice, magari mamma, al sicuro nell’immenso calore
di una famiglia e di un uomo in gamba che si prende cura di lei. E che le
randellate che arrivarono sulla sua schiena sono diventate solo un brutto
ricordo, elaborato e archiviato. Per quanto mi riguarda, invece, quei giorni
rimarranno indelebili nella mia mente. Esattamente come lo sono per molte
altre persone, alcune delle quali non ebbero più il coraggio di partecipare a
una manifestazione di protesta. Qualcuno provò a vincere la paura, ma alla
vista di una divisa scappò tremando. Questa cosa non è accettabile, perché
al contrario, in uno Stato democratico, libero e pluralista, la polizia deve
essere una garanzia.
Dopo vent’anni, dunque, sono ancora molte le circostanze da chiarire.
Troppe, dato il tempo trascorso.
Ringraziamenti