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il gesuita reazionario
può essere invece difficilissimo per gli scrittori. Affinché si possa essere
un «intellettuale attivo “cattolico”» e un «artista “cattolico” (romanziere
specialmente e anche poeta)», non solo è necessaria una gran mole di no-
zioni su encicliche, lettere apostoliche, brevi e così via, visto che, scriven-
do di «cose o sentimenti religiosi», troppo facilmente si rischia di cadere
«nell’eresia o nella mezza eresia» o persino – sottolinea Gramsci con una
sottile, sotterranea ironia – in «un quarto di eresia», ma il rigore quasi
tecnico e sicuramente dottrinario richiesto deve in qualche modo avere il
sopravvento sulla religione come intimo sentire, il che nuoce ovviamente
all’arte stessa. Infatti non esistono più «“anime semplici e sincere”» che
siano artisti e la religione è diventata «sterilità per l’arte, almeno nei re-
ligiosi» – afferma il pensatore sardo, in qualche modo concordando sulle
conclusioni di un pur discusso articolo di Edoardo Frenu, che rimprovera-
va agli scrittori cattolici il «tono apologetico» (Domande su un’arte cat-
tolica, Q 1, p. 81). Il sentimento religioso «schietto» ormai sarebbe stato
«diseccato» e la religione, anziché essere sentimento, sarebbe ormai ridotta
a motivo e spunto nell’arte, ragion per cui la letteratura cattolica genera e
può avere solo dei padri Bresciani, e quindi essere «“milizia”, propaganda,
agitazione, non più ingenua effusione di sentimenti» (ibid.); al di là di que-
sto propagandismo militante, il cui carattere sembra alquanto esteriore, la
fede, persino nell’intimo di «quelli che sono sinceramente cattolici», non
può più essere «incontrastata», ma è piuttosto «polemizzata». Perciò, gli
scrittori meno o per niente brescianeschi rischiano di non essere conside-
rati cattolici, come Fogazzaro, oppure di essere analizzati dagli oltranzisti
cattolici molto meno di un Dante, come nel caso di Manzoni, in cui Gram-
sci riscontra tracce di brescianesimo, ma che pure egli colloca ad un livello
superiore rispetto a scrittori deteriori e subalterni, grettamente rinchiusi in
un «atteggiamento “brescianesco” stupidamente e gesuiticamente sarcasti-
co» (Q 8, p. 943).
La tendenza dell’arte a inaridirsi in vuota e meschina propaganda però
è gesuitica, come si ricordava, in senso genericamente reazionario e non
necessariamente ricondotto al cattolicesimo, tanto che Gramsci distingue
una «letteratura di sagrestia» e un «brescianesimo laico» (Q 1, p. 18), che
evidenzia una palese e becera faziosità nella rappresentazione del sociali-
smo e del comunismo. Se padre Bresciani aveva manipolato la realtà sto-
rica a fini antirisorgimentali, presentando i patrioti carbonari come dei fi-
guri poco raccomandabili, pronti a sporcarsi facilmente le mani di sangue,
socialisti e comunisti, da parte degli scrittori brescianeschi, sono dipinti
Antonio Bresciani: il gesuita reazionario 87
come idealisti che si battono per delle illusioni, o ancora peggio come per-
sone avide e spregiudicate, oltre che irreligiose, che ambiscono solo ad
impadronirsi delle ricchezze di borghesi «manicheisticamente» raffigurati
invece come esempi di morale e virtù. Qualunque forma di lotta viene per-
tanto stigmatizzata come violenta e moralmente ingiustificabile da questi
letterati, probabilmente emblemi anche della paura suscitata nei piccolo-
borghesi arroccati nella difesa dei loro privilegi di classe dalla rivoluzione
russa e dai fermenti del biennio rosso, che li spinse «tra le braccia» dell’ap-
parentemente rassicurante regime fascista.
Gramsci cerca infatti di comprendere quali sono le condizioni storiche
che in Italia favoriscono lo sviluppo di questo tipo specifico di letteratura,
«brescianesca»: com’è comprensibile, è durante le epoche di restaurazio-
ne, universalmente repressive, che nasce la «letteratura alla padre Brescia-
ni» (Q 3, p. 318). Nello specifico, ci sono momenti in cui le intelligenze
sono assorbite dalla necessità di risolvere «quistioni» pratiche; tuttavia,
tra le energie e le forze vitali dell’uomo esaltate da questa attività prati-
ca, non ci sono quelle letterarie e di queste epoche non nasce «un’epica».
Probabilmente – ipotizza allora Gramsci – le energie coinvolte in questo
caso sono solo «burocratiche», non «espansive universalmente», quanto
piuttosto «repressive e brutali» (testo C, Q 23, p. 2232).
Le restaurazioni sembrano scaturire dal perdurante «“panico”» diffuso
dalle innovazioni (come ad esempio – potremmo affermare – il permanen-
te terrore sociale di una jacquerie nutrito dalle classi possidenti e intellet-
tuali), dalla «paura cosmica di forze demoniache che non si comprendono»
e quindi si possono controllare soltanto con «una universale costruzione
repressiva». Il ricordo di questo panico «dirige la volontà e i sentimenti»:
pertanto spariscono la «libertà e la spontaneità creatrice» e restano soltanto
«l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo ammantati dalla mel-
lifluità gesuitica» (ibid.). «Tutto diventa pratico», nel senso «deteriore» del
termine, tutto diventa polemica e «negazione implicita, in forma meschina,
angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell’Ebreo di Verona» (Q 23, p.
2232): proliferano allora nella letteratura i padri Bresciani.
Lunghissima è infatti la lista degli autori annoverati da Gramsci, per
motivi diversi, tra i «nipotini» del padre gesuita: l’architetto Luca Bel-
trami, autore di diverse storie sull’immaginario borgo di Casate Olona,
Antonio Beltramelli, giornalista e biografo di Mussolini, l’Ugo Ojetti di
Mio figlio ferroviere, il già citato Alfredo Panzini, soprattutto per il suo Il
padrone sono me, Curzio Malaparte, Leonida Répaci, in particolare come
88 Jole Silvia Imbornone
Bibliografia