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Antonio Bresciani:

il gesuita reazionario

di Jole Silvia Imbornone

La figura del padre gesuita Antonio Bresciani può essere considerata


l’emblema di un pensiero reazionario, antirisorgimentale, chiesastico, av-
verso al liberalismo così come al romanticismo ottocentesco. È stato però
indubbiamente Gramsci, nell’ambito di quella storia degli intellettuali ita-
liani che si proponeva di ricostruire, a renderlo il simbolo di una categoria
di scrittori travalicante i limiti temporali del XIX secolo, utile per inqua-
drare e stigmatizzare le modalità di rappresentazione anche della società a
lui contemporanea, dell’Italia fascista.
Come è stato osservato non poteva esserci formula migliore per in-
dividuare e in qualche modo «etichettare» col «necessario sarcasmo» una
certa narrativa di largo consumo, che aveva come lettori impliciti ed ideali
quanti appartenevano alla piccola e media borghesia e si serviva di «una
rappresentazione deformata e deformante degli avvenimenti del “biennio
rosso”», così come di una raffigurazione poco realistica del mondo conta-
dino per «perpetrare e diffondere pregiudizi antidemocratici, già per altro
ben radicati nelle classi medie» (Paladini Musitelli 2009, p. 80).
Gli scrittori classificati come «brescianeschi» appaiono caratterizza-
ti da alcuni tratti tipici degli intellettuali italiani, come l’aristocraticismo
paternalistico e la tendenza a sentirsi appartenenti ad una casta chiusa e
cosmopolita, distante da una concezione popolare-nazionale della lettera-
tura; in più, però, essi sono connotati da «gesuitismo», da intimi pregiudi-
zi, politici e sociali, così come spesso da consapevoli fini propagandistici,
che spingono a semplificare, manipolare in modo goffo e poco credibile,
togliere peso e senso alla realtà storica secondo la propria ideologia rea-
zionaria. Il brescianesimo può essere considerato così in qualche modo
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un’aggravante rispetto al carattere non popolare-nazionale della letteratura


italiana.
Gramsci rileva che il lavoro in quanto «produzione individuale e di
gruppo» (Q 9, p. 1120) non viene rappresentato dagli scrittori italiani, an-
che se «pure assorbe i 9/10, per quasi tutta la vita, della nazione» (ivi,
1121); al massimo, infatti, suscita l’interesse dei letterati italiani «il mo-
mento della “direzione”, del “dominio”, del “comando”, di un “eroe” sui
produttori», oppure «la generica produzione, il generico lavoro in quanto
elemento di vita e di potenza nazionale, in quanto elemento per tirate re-
toriche», o ancora un universo contadino ridotto a puro folclore pittoresco
(ivi, 1120-21). Pure però quando gli scrittori reputino il lavoro e l’attività
produttiva degni di «“cronaca e di storia”» (ivi, 1121; di «epos» nel testo
«C», Q 23, p. 2196), Gramsci, sempre attento a non fermarsi alla mera am-
bientazione di un’opera o alla classe sociale dei personaggi, ma a guardare
le modalità secondo cui essi sono presentati, osserva che l’atteggiamento
dei letterati italiani è solitamente appunto quello del padre Bresciani. Le
forme letterarie che producono gli scrittori che Gramsci definisce «nipotini
di padre Bresciani» sfoderano una certa presunta eleganza formale (che
cerca vanamente di nascondere la grettezza della visione del mondo bre-
scianesca) e si attengono volutamente di solito ad una tradizione di compo-
stezza, in linea con la retorica moralista che le connota.
Per giungere all’elaborazione di questa categoria di intellettuali, fon-
damentale è stata, per Gramsci, la stroncatura – ad opera di De Sanctis –
del fazioso romanzo storico di Bresciani L’ebreo di Verona, ristampato nel
1851; nel suo saggio del 1855 il critico, come è stato ricordato, «mentre
metteva in evidenza le tesi illiberali del libro, mostrava come la povertà
artistica del Bresciani fosse tutt’uno con le sue carenze di uomo: debolezza
intellettuale, mancanza di fede, “gesuitismo”, fiacchezza morale, i difetti
storici del “vecchio letterato italiano”» (Petronio 1987, p. 72). D’altronde
De Sanctis, pur essendo un «partigiano deciso della rivoluzione naziona-
le» e senza scivolare in una «deplorazione lamentosa», sicuramente per
Gramsci non auspicabile, aveva saputo criticare efficacemente, per motivi
diversi, il romanzo storico sia appunto in Bresciani, sia in uno scrittore a
lui vicino ideologicamente come Guerrazzi (Q 1, p. 93). De Sanctis infatti
aveva combattuto la vecchia retorica in entrambi i casi: secondo il pensa-
tore sardo egli «lottò per la creazione ex novo in Italia di un’alta cultura
nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuiti-
smo (Guerrazzi e il padre Bresciani)» (Q 23, pp. 2188-89).
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Sull’Ebreo di Verona Gramsci rammenta il giudizio di Panzini in


un’opera senz’altro «brescianesca» come la Vita di Cavour: se poco credi-
bile può essere l’elogio di Bresciani come «potente narratore», ci sembra
curiosa la consapevolezza delle esagerazioni antistoriche del padre gesuita
persino nel Panzini, allorché affermava che quel romanzo consentiva di
vedere come la «setta carbonara» potesse assumere «l’aspetto di Belzebù»
(Q 3, p. 315). Questa stessa opera di Panzini è indicativa dell’approccio
alla storia dei «nipotini di padre Bresciani»: appare al Nostro come una
creazione e allo stesso tempo una raccolta di luoghi comuni, nuovi e altrui,
italiani e stranieri, l’opera di un filisteo, in cui la storia è ridotta a semplice
«seguito di storielle divertenti senza nesso né di personalità né di altre for-
ze sociali», in una «nuova forma di gesuitismo» (ibid.).
Non convincente, quasi a tratti risibile, sembra anche il tentativo di
riabilitazione di padre Bresciani e delle sue opere messo in atto da Ales-
sandro Luzio, per Gramsci altrettanto «gesuitico». Infatti, in un articolo
(«Corriere della Sera», 25 marzo 1932, commentato in Q 8, p. 1002), Lu-
zio alla fine ammette, pensando possa essere il fulcro di un elogio, proprio
quell’approccio che il Sardo stigmatizza in Bresciani tanto da farlo diven-
tare una vera categoria letteraria, oltre che psicologica ed ideologica:
Non simpatico certo è il tono con cui egli, portavoce della reazione sussegui-
ta ai moti del ’48-49, rappresentava e giudicava gli assertori delle aspirazioni
nazionali: ma in più d’uno dei suoi racconti, sopratutto nel Don Giovanni
ossia il Benefattore occulto (volumi 26-27 della «Civiltà Cattolica»), non
mancano accenti di umana e cristiana pietà per le vittime; parziali episodi
vengono equamente messi in bella luce, per esempio la morte di Ugo Bassi e
la straziante fine di Anita Garibaldi.
Allora Gramsci non può che postillare: «Ma forse che il Bresciani po-
teva far diversamente?». E aggiunge: «Ed è proprio notevole, per giudicare
il Luzio, che egli dia per buono al Bresciani proprio il suo gesuitismo e la
sua demagogia di bassa lega» (ibid.).
Come già emerso, fondamentale e distintivo è l’atteggiamento degli
scrittori italiani esemplarmente rappresentati da padre Bresciani nei con-
fronti della religione cattolica. Per Gramsci infatti dall’epoca della Con-
troriforma in poi essere cattolici è facilissimo per il popolo, «al quale non
si domanda che di credere genericamente e di avere ossequio per la chie-
sa», dato che si tollerano la sopravvivenza della superstizione e forme di
deviazione dall’ortodossia che non siano teorizzate e propagandate, ma
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può essere invece difficilissimo per gli scrittori. Affinché si possa essere
un «intellettuale attivo “cattolico”» e un «artista “cattolico” (romanziere
specialmente e anche poeta)», non solo è necessaria una gran mole di no-
zioni su encicliche, lettere apostoliche, brevi e così via, visto che, scriven-
do di «cose o sentimenti religiosi», troppo facilmente si rischia di cadere
«nell’eresia o nella mezza eresia» o persino – sottolinea Gramsci con una
sottile, sotterranea ironia – in «un quarto di eresia», ma il rigore quasi
tecnico e sicuramente dottrinario richiesto deve in qualche modo avere il
sopravvento sulla religione come intimo sentire, il che nuoce ovviamente
all’arte stessa. Infatti non esistono più «“anime semplici e sincere”» che
siano artisti e la religione è diventata «sterilità per l’arte, almeno nei re-
ligiosi» – afferma il pensatore sardo, in qualche modo concordando sulle
conclusioni di un pur discusso articolo di Edoardo Frenu, che rimprovera-
va agli scrittori cattolici il «tono apologetico» (Domande su un’arte cat-
tolica, Q 1, p. 81). Il sentimento religioso «schietto» ormai sarebbe stato
«diseccato» e la religione, anziché essere sentimento, sarebbe ormai ridotta
a motivo e spunto nell’arte, ragion per cui la letteratura cattolica genera e
può avere solo dei padri Bresciani, e quindi essere «“milizia”, propaganda,
agitazione, non più ingenua effusione di sentimenti» (ibid.); al di là di que-
sto propagandismo militante, il cui carattere sembra alquanto esteriore, la
fede, persino nell’intimo di «quelli che sono sinceramente cattolici», non
può più essere «incontrastata», ma è piuttosto «polemizzata». Perciò, gli
scrittori meno o per niente brescianeschi rischiano di non essere conside-
rati cattolici, come Fogazzaro, oppure di essere analizzati dagli oltranzisti
cattolici molto meno di un Dante, come nel caso di Manzoni, in cui Gram-
sci riscontra tracce di brescianesimo, ma che pure egli colloca ad un livello
superiore rispetto a scrittori deteriori e subalterni, grettamente rinchiusi in
un «atteggiamento “brescianesco” stupidamente e gesuiticamente sarcasti-
co» (Q 8, p. 943).
La tendenza dell’arte a inaridirsi in vuota e meschina propaganda però
è gesuitica, come si ricordava, in senso genericamente reazionario e non
necessariamente ricondotto al cattolicesimo, tanto che Gramsci distingue
una «letteratura di sagrestia» e un «brescianesimo laico» (Q 1, p. 18), che
evidenzia una palese e becera faziosità nella rappresentazione del sociali-
smo e del comunismo. Se padre Bresciani aveva manipolato la realtà sto-
rica a fini antirisorgimentali, presentando i patrioti carbonari come dei fi-
guri poco raccomandabili, pronti a sporcarsi facilmente le mani di sangue,
socialisti e comunisti, da parte degli scrittori brescianeschi, sono dipinti
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come idealisti che si battono per delle illusioni, o ancora peggio come per-
sone avide e spregiudicate, oltre che irreligiose, che ambiscono solo ad
impadronirsi delle ricchezze di borghesi «manicheisticamente» raffigurati
invece come esempi di morale e virtù. Qualunque forma di lotta viene per-
tanto stigmatizzata come violenta e moralmente ingiustificabile da questi
letterati, probabilmente emblemi anche della paura suscitata nei piccolo-
borghesi arroccati nella difesa dei loro privilegi di classe dalla rivoluzione
russa e dai fermenti del biennio rosso, che li spinse «tra le braccia» dell’ap-
parentemente rassicurante regime fascista.
Gramsci cerca infatti di comprendere quali sono le condizioni storiche
che in Italia favoriscono lo sviluppo di questo tipo specifico di letteratura,
«brescianesca»: com’è comprensibile, è durante le epoche di restaurazio-
ne, universalmente repressive, che nasce la «letteratura alla padre Brescia-
ni» (Q 3, p. 318). Nello specifico, ci sono momenti in cui le intelligenze
sono assorbite dalla necessità di risolvere «quistioni» pratiche; tuttavia,
tra le energie e le forze vitali dell’uomo esaltate da questa attività prati-
ca, non ci sono quelle letterarie e di queste epoche non nasce «un’epica».
Probabilmente – ipotizza allora Gramsci – le energie coinvolte in questo
caso sono solo «burocratiche», non «espansive universalmente», quanto
piuttosto «repressive e brutali» (testo C, Q 23, p. 2232).
Le restaurazioni sembrano scaturire dal perdurante «“panico”» diffuso
dalle innovazioni (come ad esempio – potremmo affermare – il permanen-
te terrore sociale di una jacquerie nutrito dalle classi possidenti e intellet-
tuali), dalla «paura cosmica di forze demoniache che non si comprendono»
e quindi si possono controllare soltanto con «una universale costruzione
repressiva». Il ricordo di questo panico «dirige la volontà e i sentimenti»:
pertanto spariscono la «libertà e la spontaneità creatrice» e restano soltanto
«l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo ammantati dalla mel-
lifluità gesuitica» (ibid.). «Tutto diventa pratico», nel senso «deteriore» del
termine, tutto diventa polemica e «negazione implicita, in forma meschina,
angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell’Ebreo di Verona» (Q 23, p.
2232): proliferano allora nella letteratura i padri Bresciani.
Lunghissima è infatti la lista degli autori annoverati da Gramsci, per
motivi diversi, tra i «nipotini» del padre gesuita: l’architetto Luca Bel-
trami, autore di diverse storie sull’immaginario borgo di Casate Olona,
Antonio Beltramelli, giornalista e biografo di Mussolini, l’Ugo Ojetti di
Mio figlio ferroviere, il già citato Alfredo Panzini, soprattutto per il suo Il
padrone sono me, Curzio Malaparte, Leonida Répaci, in particolare come
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autore di L’ultimo Cireneo, Riccardo Bacchelli, Giovanni Papini, Massimo


Bontempelli, Giuseppe Prezzolini.

Bibliografia

Di Ricco, Alessandra, Padre Bresciani: populismo e reazione, in «Studi storici», 22 (1981),


pp. 833-60.
Mangoni, Luisa, La genesi delle categorie storico-politiche nei «Quaderni del carcere», in
«Studi storici», 28 (1987), pp. 565-79.
Paladini Musitelli, Marina, Brescianesimo, in Frosini – Liguori 2004, pp. 35-54.
Id., Brescianesimo, in Liguori – Voza 2009, pp. 80-3.
Petronio, Giuseppe, Brescianesimo, in C. Ricchini – E. Manca – L. Melograni (a cura di),
Antonio Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice «L’Unità», Roma 1987, pp.
72-73.

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