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Governo, governance, governamentalità:

per un’analitica del potere nella crisi del moderno.

ABSTRACT

Questo articolo si sofferma sulla categoria politica di governance quale decisivo campo d’indagine per
un’analisi delle contemporanee forme di governamentalità. Il riferimento teorico principale è la storia della
governamentalità tracciata da Michel Foucault nei due corsi tenuti al College de France tra il ‘77 e il ’79:
Sicurezza, territorio, popolazione (1977-1978) e Nascita della biopolitica (1978-1979). Nel presente
contributo la categoria di governance viene considerata come l’esito più recente di quel continuo processo di
trasformazione del governo, che il filosofo francese indaga a partire dalla pastorale cristiana medievale fino a
giungere al liberalismo e neoliberalismo, passando per il progetto della ragion di stato nella prima età
moderna. In questa chiave la storia della razionalità politica occidentale viene letta come un lungo processo
di governamentalizzazione dello stato: da una governamentalità di tipo amministrativo risalente alla
formazione degli stati nazionali, passando per la governamentalità liberale classica e per quella welfarista del
secondo dopoguerra, si giunge al contesto del neoliberalismo, entro cui la governance sembra qualificarsi
come l’attuale sforzo di re-definizione dei rapporti tra stato, mercato e società. L’ipotesi del contributo, che
si distacca da tutta una letteratura che ha configurato come inevitabile la fine dello stato nazionale, è
piuttosto che nelle trasformazioni in corso prenda sempre più chiaramente forma una nuovo dispositivo di
potere-sapere indicizzabile al cosiddetto multilevel governance system. Questo si presenta come una nuova
forma di governamentalità nella quale convivono percorsi di de-statualizzazione della sovranità ed una sua
riconfigurazione; ultimo volto assunto dalla razionalità totalizzante e individualizzante del potere moderno.
In conclusione si cerca di fornire una interpretazione sulle figure della soggettività correlate alle politiche di
governance che hanno caratterizzato, nel governo sociale, le contemporanee democrazie liberali avanzate.

I_INTRODUZIONE: PRECAUZIONI METODOLOGICHE.

In questo lavoro viene proposta una concezione artificialista dello stato alla luce della quale si indaga
l’oggetto governance. Sullo sfondo stanno i processi di mondializzazione del capitalismo nel corso dei quali
il principio moderno della territorialità, intrinseco allo stato-nazione, subisce una torsione decisiva e una
potente riconfigurazione funzionale. Ne segue una riorganizzazione dei poteri politici ed economici su scala
macro-regionale e globale e una trasformazione della prassi governamentale moderna. Il presente contributo,
tuttavia, non intende ricostruire il funzionamento concreto della governance scrutando all’interno degli
organismi deputati al suo esercizio, ma mostrare il modo in cui, tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80,
sia stata prodotta una nuova problematizzazione del tema del governo.
Con Michel Foucault si ipotizza che, a discapito dei molteplici mutamenti formali, ad ogni tappa
storica la ragion politica abbia riprodotto l’antinomia fondamentale consustanziale al potere pastorale
cristiano, conservando così almeno un tratto di continuità. Oltre Foucault - nel mostrare come comunque la
razionalità profonda del potere pastorale di matrice cristiana persista, secolarizzata, nell’oggetto-stato - si
tenta poi di applicare alla governance il modello di indagine relativo alla governamentalità: concepiamo
quindi la prima come il più recente esito di una specifica declinazione neoliberale della seconda.
Assumere un simile rilievo - quello per cui analogamente all’oggetto-stato le pratiche di governance
non sono comprensibili con il richiamo al determinismo storicistico - significa allora mettere sotto scacco la
pretesa di ricondurre questa nuova categoria al solo presupposto della crisi dell’impianto giuridico-politico
dello stato-nazione. Quest’ultimo, infatti, niente affatto visualizzabile come un monolitico Leviatano sempre
uguale a se stesso per l’intera parabola del Moderno, va invece collocato nell’alveo polemologico della
modernità, da cui è emerso “artificialmente” come «il nome della coagulazione di una serie di vettori di
forza»1. Lo stato, quindi, non è un “universale” di cui seguire successivamente le concrete declinazioni nel
tempo e nello spazio ma un avvenimento, arbitrario «sotto il profilo della conoscenza» e violento «in termini
di potere»2. Detto altrimenti, la premessa da cui muove questo contributo è che non esistono oggetti trans-
storici o naturali, la successione delle cui figure sarebbe comprensibile con il richiamo al metodo storicistico
1
P. Amato, «La logica della governamentalità. Stato e desiderio in Foucault», in E. de Conciliis (a cura di), Dopo
Foucault.Genealogie del postmoderno, Mimesis, Milano 2007, cit., p . 94.
2
M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, cit., p. 57.

1
o alla dialettica. Semmai, come afferma Paul Veyne in assonanza con l’ipotesi foucaultiana, esistono solo
“oggettivazioni” che prendono forma di evento «nell’arbitrio dei capricci della storia» 3. Genealogicamente lo
stato non è che il «correlato di un certo modo di governare» 4. Ciò che conta è, foucaultianamente,
l’individuazione della sua costruzione materiale attraverso pratiche di potere e universi di sapere che lo
plasmano e se ne appropriano, in altri termini lo oggettivano.
In questo senso le pratiche di governance sembrano inquietare le forme conosciute della prassi
governamentale segnando, con lo sconfinamento, la scomposizione, la dispersione e la contaminazione,
quella «superficie di iscrizione degli avvenimenti» che è appunto la storia 5. Non si farà dunque riferimento
ad alcun post (post-moderno, post-fordismo, post-capitalismo, etc.), ipotizzando piuttosto che si stia vivendo
un «transito dalla modernità-nazione alla modernità-mondo […] destinato a produrre trasformazioni
profonde nell'economia, nella società, negli stili di vita e nei codici di comportamento», durante il quale il
globale non succede diacronicamente al luogo della modernità, ma semmai lo abita dislocandolo 6.
E’ in questo passaggio che è emerso il concetto di governance, appartenente ad un lessico che si vuole
capace di contenere le metamorfosi in corso di svolgimento e che rimodula le categorie fondamentali della
politica assumendo come dato di partenza la de-sovranizzazione dei dispositivi istituzionali. Governance è
un termine-concetto che interviene a designare un’ellissi, con il riferimento al sistema complesso di relazioni
e responsabilità che definiscono il rapporto tra coloro che sono chiamati ad assumere decisioni vincolanti (gli
attori istituzionali, i governanti) e i destinatari delle decisioni (i governati) 7. E ciò secondo una prospettiva
che assume la produzione di una simile macchina governamentale come non esaurita dai tradizionali
meccanismi di rappresentanza. Tematizzare i dispositivi di governance come oggetto di analisi non significa
tuttavia cedere alla tentazione di assumere come compiuta la transizione che ci investe e nella quale ci
troviamo a ragionare. In queste pagine, cioè, la globalizzazione non sarà ricondotta al semplice effetto
dell’obsolescenza della forma-stato. Si cercherà piuttosto di indagare il modo attraverso il quale l’apparato
statuale, che «allo scopo […] è stato attivamente denazionalizzato», si integra con nuovi dispositivi
rilanciando la posta in gioco di una sua possibile rifunzionalizzazione 8.
Se si ipotizza che con le pratiche di governance non siamo di fronte al mero trasferimento del potere
da un livello nazionale ad uno globale, ma ad una riorganizzazione della razionalità governamentale
dell’intero occidente, si tratta allora di indagare un nuovo posizionamento dell’ordine del potere e del sapere
che, sulla base delle premesse enunciate, segnala l’emergenza di un nuovo regime di verità e cioè di una
nuova forma contingente del rapporto tra la verità, il potere e il soggetto.

II_LA GOVERNANCE COME FIGURA STORICA DELLA GOVERNAMENTALITÀ.

«Governance non è sinonimo di governo. Entrambi [i concetti] rinviano a una condotta


finalizzata, ad attività orientate verso obiettivi, a sistemi di norme; ma il governo implica
azioni che sono sorrette da un’autorità formale, da forze di polizia che assicurino
l’implementazione di politiche correttamente determinate, mentre la governance rinvia ad
attività sorrette da obiettivi condivisi che derivano o meno da responsabilità giuridiche e
formalmente prescritte, senza appoggiarsi necessariamente a forze di polizia per superare
l’infedeltà o per conseguire l’obbedienza. In tal senso, governance è un fenomeno più ampio

3
P. Veyne, La route de Rome. Entretien, in www.liberation.fr/culture/livre/ecrivains/242178.FR.php.
4
M. Foucault, Naissance de la biopolitique, Cours au Collège de France 1978-1979, edizione stabilita da Michel Senellart,
Gallimard-Seuil, Paris 2004, (tr. it. Nascita della biopolitica.. Corso al Collège de France 1978-1979 [d’ora in poi NBP] , a cura di
Mauro Bertani e Valeria Zini, Feltrinelli, Milano, 2005), cit., p. 17. Sulla genealogia foucaultiana cfr. Nietzsche, la genealogia, la
storia, 1971, in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, cit., p. 39 e passim.
5
M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Microfisica del potere, cit., p. 37. «Noi crediamo che il nostro presente
poggi su intenzioni profonde, necessità stabili, e domandiamo agli storici di convincercene. Ma il vero senso storico riconosce che
viviamo senza punti di riferimento né coordinate originarie, in miriadi avvenimenti perduti», (ivi, p. 44.).
6
G. Marramao, La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, cit., p. 28. Su
questo tema cfr. anche Id., Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
7
Cfr. S. Chignola, In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a cura di), Governance. Oltre
lo Stato?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, in www.materialiresistenti.blog.dada.net.
8
S. Chignola, Sull’“epoca” della biopolitica. Un commento, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Quodlibet, Macerata 2008, cit., p. 63.

2
del governo, che abbraccia istituzioni governative, ma che sussume inoltre meccanismi
informali e non governativi»9

Nel suo Governance, Order and Change in World Politics, ad un livello preliminarmente definitorio,
James N. Rosenau offre le coordinate di un significativo spostamento delle dinamiche di legittimazione
politica nel quadro di crisi di un ordine moderno nel quale i classici strumenti del government nazionale - gli
ordinamenti giuridico-politici della sovranità nella loro declinazione democratico-rappresentativa - vengono
ritenuti insufficienti a fronteggiare la prova della mondializzazione 10. Le pratiche di governance intendono
allora configurare un sistema di direzione, di controllo e di regolazione basato sull’interdipendenza e la co-
decisione di una pluralità di attori. Si tratta di agenzie politiche, economiche, tecnico-scientifiche,
governative e non, che vanno dalle organizzazioni economiche mondiali ai comitati di esperti, dalle
istituzioni politiche interstatali alle associazioni di utenti e agli organismi di certificazione alle ONG, dai
governi nazionali alle istituzioni locali ed altro ancora. Un’analoga ridefinizione dell’ordine del discorso
politico nei termini di una nuova semantica che parli il linguaggio flessibile ed adattivo dei networks e del
multilevel system emerge anche dalla CGG (Commission on Global Governance), che - sul piano dei
contributi istituzionali e in concordanza con quelli intellettuali - nel 1995 stilava un rapporto in cui definiva
la governance come «il prodotto dei molteplici modi in cui individui e istituzioni, pubblico e privato,
gestiscono i loro affari comuni [specificando che] essa comprende dispositivi formali, informali e regimi
forti in grado di normare condotte a favore di soluzioni di compliance [in italiano diremmo ‘conformità’’] su
questioni di comune interesse a livello internazionale» 11.
Attraverso i concetti di compliance e di comune interesse, una simile definizione suggerisce le
implicazioni di una ratio discorsiva che trasforma tanto i confini tradizionali della potenza pubblica -
rendendoli permeabili ad attori e processi differenziati - quanto i contenuti di una politica che ormai
abbandona il piano del confronto rappresentativo tra gruppi politici organizzati e si manifesta come
amministrazione e co-gestione, seguendo in ciò le linee di una policing fortemente orientata all’esito e dai
tratti fortemente tecnocratici. L’obiettivo è quello di incidere in un numero crescente di aree del mondo
attraverso dispositivi nuovi, talvolta paralleli quando non addirittura alternativi alle procedure elettive-
rappresentative: con esiti inquietanti sulla tenuta della categoria di “democrazia”. Si tratta di dispositivi di
governo ritenuti in grado di coinvolgere un numero più ampio di attori in processi di mediazione politica che
si indicano, più o meno credibilmente, tra quelli maggiormente capaci di fare fronte ai nuovi rischi globali.
E’ in tal modo che gli strumenti della governance permettono di travalicare le tradizionali strategie
statocentriche mediante la dislocazione di pratiche e funzioni di governo in una dimensione trans-politica
(sottratta al controllo parlamentare e affidata a esperti, funzionari pubblici, euroburocrati e giuristi) in cui
sembrerebbe celebrarsi la spoliticizzazione dei processi decisionali per effetto della loro neutralizzazione
tecnico-amministrativa12. E’ evidente allora come il funzionamento reticolare e fluido della governance,
evochi il tentativo di superare la difficoltà che il concetto di stato - nella sua traduzione democratico-
rappresentativa - incontra oggi nel proporsi come categoria ermeneutica forte ed ambito esclusivo della
condizione governativa della società.
Tuttavia la nostra ipotesi è che l’emergenza di questa nuova categoria politica, piuttosto che decretare
la fine dello stato, gli abbia consentito di sopravvivere all’interno dei contemporanei rapporti di potere. Non
si ha, cioè, un semplice tramonto dello stato e della sovranità, ma una trasformazione del suo ruolo
regolativo nei termini di una complessa rifunzionalizzazione. Intendere la governance in tal modo - cioè
come trasformazione della razionalità di governo e non come mero trasferimento del potere da un livello
nazionale a uno globale - ha significato non indagarla alla stregua degli effetti della mondializzazione e della
presunta obsolescenza della forma-stato, ma piuttosto come l’esito ultimo di quello che Foucault ha definito
un lungo «processo di governamentalizzazione dello stato»13.
9
J. N. Rosenau, Governance, Order and Change in World Politics, in J. N. Rosenau – E. O. Czempiel (Eds.), Governance without
Government, Cambridge UP, Cambridge 1992, cit., p. 4.
10
Cfr. A. Arienzo, La governance e il conflitto politico: quali dispositivi per una democrazia in crisi?, in AA. VV., Conflitti.
Controdiscorsi II, Dante & Descartes, Napoli 2005, cit. p. 460.
11
Si tratta della definizione fornita dalla Commission on Global Governance (CGG) nel documento On our global Neighbordhood,
OUP, Oxford, 1995; cit. in A. Arienzo, Governo, governamentalità, governance. Riflessioni sul neo-liberalismo contemporaneo, in
A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, Mimesis, Milano 2007, cit., p. 268.
12
O. Marzocca, Chi governa chi? Breve storia di una pretesa infinita, “Le passioni di sinistra”, 15, 2007.
13
M. Foucault, Sécurité, Territoire, Population. Cours au Collège de France 1977-1978, edizione stabilita da Michel Senellart,
Gallimard-Seuil, Paris 2004, (tr. it. Sicurezza, Territorio, Popolazione.Corso al Collège de France 1978-1979 [d’ora in poi STP] ], a
cura di Paolo Napoli, Feltrinelli, Milano, 2005), cit., p. 89.

3
Nei suoi corsi degli anni ’70 (quello del 1977-78, Securité, Territoire, Population e quello del 1978-
1979, Naissance de la biopolitique) il filosofo francese intercettava con forte anticipo alcune dinamiche
politiche gravide di futuro, i cui effetti sono solo oggi pienamente visibili, tracciandone una complessa
genealogia. Con il termine governamentalità Foucault intendeva cogliere la dislocazione che sposta la
funzione di governo, sul terreno delle forme di regolazione, attraverso una progressiva desovranizzazione dei
dispositivi istituzionali. La dinamica dell’esercizio del potere non risponde tanto a un modello coercitivo di
limitazione delle libertà dei viventi, ma ad una meccanica fine in cui la libertà non costituisce il limite del
governo ma, al contrario, viene giocata come sua condizione e materia prima. Parafrasando Foucault, la
governamentalità è un insieme di istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche che hanno
storicamente promosso un processo di radicale critica della sovranità a favore di una preminenza del
governo14. Quest’ultimo tuttavia non riguarda le forme di direzione politica o la struttura delle istituzioni
statali. Il “governo” è piuttosto un’arte pratica, secondo l’intuizione per cui «governare significa strutturare il
campo di azione possibile degli altri» o, in altri termini, condurre le condotte15. Non a caso Foucault indaga
il lungo processo di trasformazione del governo a partire dal potere pastorale cristiano, inteso come una
forma pre-moderna ed extra-giuridica di regolamentazione sociale volta a governare tutti e ciascuno ( omnes
et singulatim, come titola un suo importante scritto), garantendo al contempo, cioè, la salvezza dell’intero
gregge e l’obbedienza della singola pecorella 16.
E’ questa la razionalità di potere, che, adeguatamente secolarizzata - tramite l’iscrizione del controllo
del corpo nelle tecniche generali di gestione della popolazione - Foucault ritrova all’opera nel XVI secolo
quando sembra esplodere letteralmente il problema del governo, attraverso il ricorrere diffuso di molteplici
domande: «come governarsi, come essere governati, come governare gli altri, da chi accettare di essere
governati, come essere il miglior governatore possibile?» 17. La contingenza è data dal crocevia di due
processi storici epocali: da un lato l’instaurazione degli Stati territoriali, amministrativi e coloniali sulle
ceneri del sistema feudale e dell’idea di Impero; dall’altro la direzione spirituale delle anime al tempo della
Controriforma che «rimette in questione il modo di essere spiritualmente diretti verso la salvezza mentre si è
su questa terra», e non nell’altro mondo 18. Questo significa che la salute, il benessere, la sicurezza terrena di
ciascuno e di tutti diverranno progressivamente l’obiettivo delle vecchie tecniche individualizzanti e
totalizzanti del potere pastorale che miravano alla salus aeterna: sulla soglia della modernità, questi due
movimenti opposti, di concentrazione statale e di dispersione e dissidenza religiosa, agiranno in modo
complementare dando forma alla ragion politica moderna. E ciò a partire da un progetto razionale di governo
degli stati e delle condotte individuali già in nuce nei discorsi cinque-seicenteschi sulla ragion di stato.
Attraverso l’indagine sul modo in cui le tecniche del potere pastorale vengono recuperate e
riqualificate dallo stato moderno, Foucault rinuncia a una definizione esclusivamente istituzionale delle
pratiche di governo. Lo stato non è un’auto-evidenza fondata ontologicamente, al contrario, esso va inteso
come una «peripezia della governamentalità», ovvero come l’oggettivazione - o se si vuole lo strato di
“positività” - prodotta dall’insieme di pratiche che nella prima età moderna hanno messo in forma una vera e
propria «razionalizzazione della pratica di governo» 19. La ragion di stato segna infatti l’eresia fondamentale
dell’età moderna, nella precisa volontà di organizzare le società politiche intorno ad un agire fondato
esclusivamente sui dettami della conoscenza, al di fuori di ogni ordine cosmo-teologico. Con essa lo stato
entra pertanto nella pratica riflessiva degli uomini all’insegna di una rottura con il trascendente, verso una
logica tutta immanente al suo benessere e alla sua ricchezza, in una sola parola al suo auto-potenziamento.
Tanto il fine dell’arte moderna del governo quanto il nucleo di razionalità dello stato saranno pertanto
riassumibili nel proposito di «sviluppare gli elementi costitutivi della vita degli individui in modo che il loro

14
Ivi, p. 88.
15
M. Foucault, Come si esercita il potere, in H. L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e
storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, cit., p. 249.
16
Cfr. M. Foucault, STP, cit., p. 182 e Id., «Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica» (1981), in O.Marzocca (a
cura di) , Biopolitica e liberalismo (1994), Medusa, Milano 2001.
17
M. Foucault, STP, cit., p. 71.
18
Ibidem.
19
P. Amato, La natura della democrazia Nietzsche, Foucault e la biopolitica in A.Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, cit.,
p. 23; M. Foucault, STP, cit., p. 183; M. Foucault, NBP, cit., p. 14. Sulla genealogia dello Stato moderno in Foucault, cfr. P. Amato,
«La logica della governamentalità. Stato e desiderio in Foucault», in E. de Conciliis (a cura di), Dopo Foucault.Genealogie del
postmoderno, pp. 85-109 e S. Chignola, L’impossibile del sovrano. Liberalismo e governamentalità in Michel Foucault, contenuto in
S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Ombre
Corte, Verona 2006, pp. 37-70.

4
sviluppo rafforzi anche la potenza dello stato» 20. In altri termini, il metodo cristiano di condizionamento
dell’esistenza, nato in ragione di «un progetto di docilità della natura umana», sembra riattivarsi nell’età
moderna in modo secolarizzato offrendo, in questi nuovi termini, «la griglia della declinazione biologica del
potere politico»21.
La ragione governamentale moderna permetterà di ripensare il problema del governo al di fuori del
quadro giuridico della sovranità, grazie alla ridefinizione della sua posta in gioco fondamentale:
«l’introduzione dell’economia all’interno dell’esercizio politico» 22. Tuttavia, puntualizza Foucault, se nel
XVI secolo l’economia designava ancora «una forma di governo» che mirava ad estendere alla gestione dello
stato una prudenziale attenzione quale quella del buon padre di famiglia sui propri beni, nel XVIII secolo
essa verrà concepita piuttosto come un «livello di realtà» relativo alla ricchezza della nazione e alla messa in
sicurezza delle moltitudini. In altri termini, «grazie alla percezione dei problemi specifici della popolazione»,
l’oikonomia acquisirà il suo senso moderno. Il concetto e la prassi del governo supereranno allora il modello
della famiglia assumendo una connotazione biopolitica. Il termine biopolitica interviene qui a fornirci
un’ulteriore arnese teorico. Con esso si allude infatti al modo in cui il potere si rapporta alla vita,
conducendola tramite una regolazione non repressiva della libertà dei viventi. Nonostante nel dibattito
contemporaneo venga spesso fatto un «uso monolitico, per molti versi generalista e indifferenziato» del
termine-concetto biopolitica, l’impiego che qui se ne propone fa riferimento al significato originariamente
attribuitogli da Michel Foucault 23. Per comprendere infatti la cifra “biopolitica” degli odierni dispositivi di
governance conviene soffermarsi su quella soglia di trasformazione che, come ci suggerisce il filosofo
francese, all’antico «diritto di morte» che qualificava il potere sovrano, andrà progressivamente sostituendosi
nel mondo moderno un inedito «potere sulla vita» 24. Ciò accadrà a partire dal XVIII secolo quando
«l’esistenza in questione non sarà [più] quella, giuridica, della sovranità, ma quella, biologica, di una
popolazione»25. La presa del potere sui corpi non si effettuerà più sul solo piano degli individui (quei sudditi
che da lì a poco diverranno cittadini), ma anche su quello degli effetti di massa e dei processi specifici della
vita, come la natalità, la mortalità, la salute, la longevità, il rischio e le condizioni ambientali.
È importante precisare che sebbene il problema della popolazione irrompa nel XVIII secolo, i
presupposti del suo costituirsi come realtà e categoria politica possono essere identificati in un arco di tempo
che va dal XVI alla seconda metà del XVIII secolo. Lo dimostra la ricognizione foucaultiana delle pratiche
economiche protomoderne, quelle commerciali teorizzate dai mercantilisti e dai cameralisti, ad esempio,
finalizzate al potenziamento e all’espansione dello stato ed implementate negli apparati statali francesi e
tedeschi della police e della Polizei a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Sono questi i laboratori di una vera e
propria «scienza di polizia», qui intesa come strumentazione specifica in cui la ragion di stato si organizza
«prendendo corpo in una pratica» 26. La scienza di polizia acquisisce, cioè, una forma precisa di sapere e di
intervento pubblico che - avverte il filosofo - aveva «un senso del tutto diverso da quello che le attribuiamo
oggi»27. Il suo oggetto, infatti, non si limitava soltanto alla tutela dell’ ordine, ma si estendeva all’insieme dei
regolamenti degli affari interni ai singoli paesi. La police e la Polizei avrebbero consolidato ed aumentato la
potenza generale dello stato, impiegando le forze dei singoli sudditi nel modo migliore e soprattutto
promuovendo la felicità della comunità. Loro scopo sarebbe stato, in ultima analisi, quello di realizzare la
«presa in carico dell’attività degli uomini» nel segno di una sostanziale sovrapposizione tra arte di governo
ed esercizio della polizia, qui intesa come un regime di regolamentazione volto ad moltiplicare l’utilità
pubblica mediante la messa a valore delle aspirazioni private 28.
È con «l’affermazione della polizia che si creano effettivamente le condizioni della biopolitica»,
sebbene, la prima non esaurirà il campo di azione della seconda 29. Più precisamente, a partire dal XVIII
secolo, la preminenza dell’economia politica permetterà di realizzare compiutamente il passaggio «da un
20
M. Foucault, STP, cit., p. 203.
21
P. Amato, La natura della democrazia. Nietzsche, Foucault e la biopolitica in A.Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, cit.,
p. 21 e p.16.
22
M. Foucault, STP, cit., p. 76.
23
S. Chignola, Sull’“epoca” della biopolitica. Un commento, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 59.
24
M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1988, cit., p. 119.
25
Ivi, p. 126.
26
Ivi, p. 230. Sul tema cfr. P. Napoli, Naissance de la police moderne. Éditions La Découverte, Paris, 2003 e P. Schiera, Nascita
della modernità e scienza di polizia, in “Filosofia politica”, 2, 1988.
27
M. Foucault, STP, cit., p. 225.
28
Ivi, p. 234.
29
O. Marzocca, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Manifestolibri, Roma 2007, cit., p. 103.

5
regime dominato dalle strutture della sovranità a un regime dominato dalle tecniche di governo» 30. Detto
altrimenti, all’aspirazione poliziesca di determinare minuziosamente e illimitatamente il corso delle cose
subentrerà man mano l’attenzione a lasciar giocare la naturalità dei processi da governare. Con il liberalismo
- ulteriore tappa nella storia della governamentalità - e la sua logica del laisser faire si abbandona l’idea di
migliorare direttamente (secondo una logica di police) l’esistenza collettiva della popolazione. Il
potenziamento delle forze dello stato sarà ormai un obiettivo da affidarsi alla “natura” del mercato e alla
garanzia attiva delle libertà. La critica della razionalità politica cinque-seicentesca consisterà infatti
nell’allestire un nuovo dispositivo di governo della libertà: essa va prodotta e lasciata giocare senza
compressione, diversamente da quanto accadeva secondo le logiche cameraliste e mercantiliste. Per
Foucault, però, il liberalismo condivide con la ragion di stato lo stesso scopo di autopotenziamento
dell’organismo statale. A questo obiettivo - la potenza dello stato - continua ad essere funzionalizzato
l’accrescimento delle forze degli individui e della popolazione. In questo senso Foucault suggerisce che tra le
due forme di governamentalità non c’è cesura poiché il liberalismo non fa che sostituire una «ragione del
governo minimo» ad una «ragione del governo massimo», mettendo in campo, in definitiva, solo una
«riforma interna alla ragion di stato» 31. Il liberalismo entra allora nell’indagine foucaultiana per condurre al
problema della politica della vita. Lungi dall’essere ricondotto a una dottrina politica, a una teoria giuridica o
a una mera forma di pensiero economico, esso viene qui inteso piuttosto come una «funzione interna della
razionalità governamentale moderna» che, a differenza della ragion di stato, non parte da quest’ultimo per
interrogarsi sulle condizioni del suo potenziamento attraverso l’esercizio del governo, ma muove dalla
società chiedendosi perché è necessario un governo e quale tipo di rapporto esso debba avere nei confronti
della società per giustificare la propria esistenza 32.
Quello che infatti si verifica nella seconda metà del XVIII secolo non è altro che la «comparsa del
[problema] della popolazione sotto nuove forme» 33. Se in passato, la logica mercantilista la assumeva come
mero principio di arricchimento in funzione dell’utilità e della forza dello stato, con i fisiocrati - tra i
successivi depositari del sapere economico - la popolazione viene concepita in un diverso rapporto con le
risorse, volto ora a lasciar giocare la concorrenza tra gli interessi privati così da far emergere gli equilibri
ottimali del mercato. E questo significa che «la popolazione come collezione di soggetti è sostituita dalla
popolazione come insieme di fenomeni naturali» che andranno condotti come tali, in modo funzionale,
lasciando agire la natura che incarnano senza regolamentazioni coercitive 34. In tal senso, si realizza anche un
altro significativo mutamento in seno al ruolo dello stato, che «da sintesi trascendente della felicità dei
sudditi […] dovrà convertirsi in regolatore di interessi», poiché è dalla meccanica naturale di tali istanze
incorporee ed immateriali - gli interessi che si frappongono tra la pratica di governo e i suoi oggetti - che può
ora scaturire l’utilità generale 35. Alla luce di queste considerazioni, la grande innovazione storica provocata
dal liberalismo nascente nella seconda metà del XVIII secolo consiste, allora, nell’assegnazione al mercato
di una funzione di autolimitazione dell’esercizio del governo, in ragione dell’innesto dell’economia politica
sulla dottrina della ratio status e del superamento della governamentalità iperamministrativa di stampo
mercantilista nelle logiche liberoscambiste dei fisiocrati o nella teoria della mano invisibile di Adam Smith.
Ormai «è il mercato che detta al governo la regola della verità» e che - commenta Foucault - ne diventa il
«luogo di veridizione»36.
Seguendo Foucault, Sandro Chignola coglie allora un punto importante quando sottolinea che oggi il
terreno della governance può essere indagato proprio a partire dalla premessa che si assuma il mercato come
autentico principio di realtà della stessa azione di governo. La produzione giuridica che implementa la
governance globale in termini lex mercatoria, negoziazione permanente tra soggetti pubblici e privati, law
shopping, outsourcing del legislativo (a comitati di esperti e autorità amministrative indipendenti) sembra
infatti dipendere dal rovesciamento efficientista e prestazionale della legittimità: quello che impone la società
di mercato come criterio di regolazione universale e l’imprenditorialità di massa come istituzione generale 37.

30
M. Foucault, STP, cit., p. 86 .
31
M. Foucault, NBP, pp. 35-36.
32
Ivi, nota del curatore, cit., p. 272 e V. Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi, Roma 2008.
33
M. Foucault, STP, cit., p. 256.
34
Ivi, p. 257.
35
A. Pandolfi, La “natura” della popolazione, in S.Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel
Foucault al Collège de France (1977-1979), cit., p. 98.
36
S. Catucci, Foucault, Laterza, Bari 2005, cit., p. 129.e M. Foucault, NBP, cit., p. 40.
37
Cfr. S. Chignola, In the shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a cura di), Governance. Oltre
lo Stato?, in www.materialiresistenti.blog.dada.net.

6
Per Foucault la progressiva dislocazione della funzione di governo sul terreno delle forme di
regolazione entro le quali far agire le ‘imprese’ individuali è il risultato di una «duplice discontinuità [che si
è prodotta] nella storia della governamentalità» 38. La prima è quella tra la governamentalità liberale e la
governamentalità pubblico-giuridica. Quest’ultima infatti, risalente alla formazione degli stati-nazione ed
alla teoria della ragion di stato, presupponeva l’esistenza di una dialettica tra i diritti naturali, o originari, di
ciascun soggetto e il potere del sovrano, il cui intervento incontrava proprio in tali diritti quei limiti che
venivano peraltro formalizzati entro il quadro della costituzione formale. Diversamente, con l’homo
oeconomicus - poi affiancatosi a quello juridicus in posizione prevalente - si dà piuttosto avvio ad un
processo di «costituzione economica», agito non più mediante un trasferimento di diritti ma attraverso una
moltiplicazione spontanea degli interessi, i cui luoghi di armonizzazione eccedono lo spazio giuridico
propriamente detto39. Il liberalismo dunque non è contraddistinto tanto dal riconoscimento giuridico delle
libertà naturali agli individui, quanto dal rispetto della naturalità dei processi economici e sociali. Questo
significa che il criterio di auto-limitazione dell’arte liberale del governo «non è la libertà degli uomini, ma la
dinamica interna, naturale, dell’economia e della società civile» 40.
La preminenza della scienza economica e il declino del diritto nella sua funzione di limite esterno
all’esercizio del potere ha prodotto anche una seconda discontinuità, che in un certo senso recupera e
approfondisce la prima relativamente alle differenti modalità di governo del mercato. Si tratta della
distinzione, per dirla ancora con Foucault, tra la via «rivoluzionaria» francese e quella «radicale» inglese 41.
Se per la prima - in continuità con la teoria del diritto naturale del XVII secolo - si procede infatti stabilendo
tutta una serie di diritti imprescrittibili ed inviolabili della persona che condizionano l’esercizio del potere
statale e l’attività economica, per la seconda - come dimostra la storia del liberalismo europeo e quella della
potenza pubblica in occidente - si parte piuttosto dalle pratiche di governo per definirne l’ambito di
competenza in funzione della loro utilità. Di qui emergono due significati distinti della parola legge - «a
seconda che la si veda dal lato del diritto o dal lato della natura», intesa nell’accezione di naturalità degli
interessi -, così come due significati della parola libertà, «fondata da un lato sui diritti inalienabili, dall’altro
sull’indipendenza dei governati»42. Si tratta di quella stessa libertà che pone al vaglio di un criterio
efficientista l’azione dei governanti. In questo caso, allora, il diritto non sarà più il risultato di una
«statuizione preventiva», bensì l’esito di una «transazione ricorrente» 43. E ciò proprio nel rispetto del gioco
di composizione di una molteplicità di interessi da cui far scaturire l’utilità generale.
A partire da queste diverse vie alla concettualizzazione delle relazioni di potere - stabili e formalizzate
sul piano «giuridico-deduttivo», plurali e mobili su quello «radical-utilitarista» - si evince allora il dato di
una costitutiva eterogeneità della governamentalità neoliberale, che era già in nuce nell’ambivalenza di tali
“soluzioni”44. Infatti, la logica di funzionamento del liberalismo - inteso qui come tecnologia di governo e
non come ideologia - è ben più “strategica” che dialettica, poiché non cerca il superamento in una «totalità
riconciliata di diverse concezioni della legge, della libertà e del diritto» 45. Al contrario, posta di fronte a
molteplici dispositivi giuridici, economici e sociali, l’arte di governo liberale ora li gioca uno contro l’altro,
ora si appoggia su uno, ora sull’altro, in base a delle «connessioni possibili», determinate dalla contingenza e
mai definitivamente date46. In questo senso Foucault afferma che le due “vie” si sono spesso ibridate ed
interconnesse, ma subito dopo rileva che nella teoria e nella prassi della politica moderna la soluzione
radical-utilitarista ha certamente avuto maggior rilievo rispetto a quella assiomatica-rivoluzionaria. Un
rilievo di fondamentale importanza per il filosofo francese, dal momento che - come osserva nella lezione
introduttiva di Nascita della biopolitica - pur essendo intimamente segnata dalla convivenza delle
molteplicità, in ciascuna delle sue diverse fasi la storia registra sempre l’affermarsi della preminenza di una
determinata razionalità dell’esercizio del potere e del sapere.

38
S. Catucci, Foucault, cit.,p. 128.
39
M. Lazzarato, Biopolitique/Bioeconomie, in “Multitudes”, 22, 2005, in http://multitudes.samizdat.net/Lazzarato-Maurizio.
40
A. Simoncini, La critica della ragion politica come contestualizzazione dell’analitica del potere. Ragion di Stato, polizia e
liberalismo nella storia della governamentalità di Michel Foucault, Tesi di dottorato, Scuola Superiore di Studi Storici di San
Marino, 1998, cit., p. 213.
41
M. Foucault, NBP, cit., p. 48.
42
B. Karsenti, La politica del “fuori”, in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al
Collège de France (1977-1979), pp. 73-74.
43
O. Marzocca, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, cit., p. 143.
44
M. Foucault, NBP, pp. 46-50.
45
M. Lazzarato, Biopolitique/Bioeconomie, in “Multitudes”, 22, 2005, in http://multitudes.samizdat.net/Lazzarato-Maurizio.
46
M. Foucault, NBP,cit., p. 49.

7
A tutt’oggi si tratta, allora, di seguire proprio quelle modificazioni storiche della razionalità politica
occidentale: una pista che può permetterci di cogliere le linee di emergenza di un nuovo regime di
governamentalità. Nel tempo presente, infatti, «sotto l’egida di un principio generale e omnicomprensivo,
[quale quello di] interesse», si sta consumando tanto la ridefinizione delle tradizionali agenzie di governo (lo
stato-nazione e i suoi istituti democratico-rappresentativi) quanto la transizione verso una loro progressiva
economicizzazione tesa a sostituire il principio di legittimità politica con un criterio di pertinenza e
verificazione dell’azione di governo in base al mercato 47. Proprio nel momento in cui quest’ultimo è stato
inteso come il più efficiente meccanismo di allocazione delle risorse e come l’ ispiratore ultimo - e spesso
unico - della nuova regolamentazione statale. Così è avvenuto, ad esempio, con le norme e le regole (niente
affatto comprensibili con il logoro ed abusato richiamo ad una presunta “deregolamentazione”) che un po’
ovunque in Europa occidentale hanno causato il drastico ridimensionamento del welfare state e con quelle
che hanno normalizzato la precarietà del lavoro 48.
La breve digressione riguardo alle radici radical-utilitariste della governamentalità neoliberale diviene
allora imprescindibile per tematizzare correttamente la governance contemporanea, proprio come lo è un po’
tutta la critica della ragion politica di Foucault, poiché è lì che vengono analizzati e riattualizzati quei
percorsi di decostituzionalizzazione dei dispositivi di produzione del diritto e quei processi di
governamentalizzazione che, da una parte, desovranizzano il comando e lo adeguano al mercato e, dall’altra,
permettono di considerare il modo in cui i molteplici attori dell’esercizio del potere configurano le nuove
modalità della regolazione governamentale e giuridica.

III_VERSO UN “GOVERNO A DISTANZA”

Quello che è rilevante oggi, allora, «non è cosa la governance nasconda tra le maglie dei suoi
discorsi, ma le direzioni che in essa segue il tema del governo» 49. Una simile analisi diventa importante
proprio quando si va consumando lo spostamento progressivo da un operato legato alla politics - e quindi al
government - ad un primato della policy, ossia dei suoi esiti. Si ha così un profondo mutamento del termine
stesso di politico. Questo, infatti, viene ridisegnato dal ruolo centrale dell’expertising (per nominare con
l’anglicismo odierno il governo dei consulenti e degli esperti), delle gerarchie informali e della base
economica e finanziaria. Sono, questi, tutti agenti che concorrono insieme a determinare una
riconfigurazione della legittimità governamentale in termini efficientisti e prestazionali: gli stessi
genealogicamente emersi lungo la via del radicalismo inglese 50. Foucault ha mostrato come nel moderno, a
partire dalla secolarizzazione della pastorale cristiana fino al neoliberalismo, l’esercizio del potere si è posto
l’obiettivo di modellare la natura umana per renderla disponibile ad un determinato sistema di
accumulazione e produzione della ricchezza. Ancora oggi, quella popolazione - vale a dire un soggetto
(oggettivato dai dispositivi di potere-sapere) - rappresenta un «insieme di processi da gestire»; tuttavia, le sue
numerose variabili la rendono irriducibile tanto alla volontà «omogenea, continua ed esaustiva» del sovrano
quanto a quella disciplinare, che intenderebbe «concentrare fissare e rinchiudere» un territorio ormai non più
perimetrabile51.

47
O. Marzocca, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, cit., p. 143. Il concetto interesse viene qui inteso proprio
nell’accezione foucaultiana del termine. Foucault sintetizza il suo pensiero constatando che, nella nuova configurazione della ‘ragion
politica’, «il governo non si interessa che agli interessi» (M. Foucault, NBP, cit., p. 52). Va ricordato che la “ragion governamentale
critica” è caratterizzata infatti dalla teorizzazione di un ‘governo’ che «può aver presa sugli individui, sugli atti e le parole, sulle
ricchezze, sulle risorse, sulla proprietà, sui diritti» solo perché obbedisce al principio dell’interesse degli uomini. Solo cioè nella
misura in cui risulta utile alla regolazione di un «gioco complesso tra gli interessi individuali e collettivi, tra l’utilità sociale e il
profitto economico, tra l’equilibrio del mercato e il principio della potenza pubblica, tra i diritti fondamentali e l’indipendenza dei
governati» (ivi, p. 51.).
48
Sulla progressiva riduzione dei dispositivi di protezione sociale, sulla precarizzazione del mercato del lavoro in Europa e sul ruolo
che in questi processi ha rivestito lo stato, cfr. in prima battuta G. Procacci, L’ordine e i suoi esclusi, in G. Bonaiuti, A. Simoncini (a
cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, Mimesis, Milano 2004, cit. pp. 261-275; R. Castel,
L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protégé?, Éditions du Seuil, 2003 (tr. it. L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?,
Einaudi, Torino 2004) e L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Roma-Bari, Laterza, 2007.
49
A. Arienzo, Governo, governamentalità, governance. Riflessioni sul neo-liberalismo contemporaneo, in A. Vinale (a cura di),
Biopolitica e democrazia, cit., p. 261.
50
Sulla distinzione e sulla separazione tra le sfere della governance e del government e sulle novità che sarebbero introdotte dalla
crescente importanza della prima, cfr. J. Rosenau e E.O. Czempiel, Governance without Government, OUP, New York, 1992. Gli
autori definiscono la governance come «order plus intentionality» (p. 5). Per gli autori l’“ordine” è garantito dall’insieme delle regole
formali e informali che, in un contesto di intenzionalità condivisa, permettono agli attori di raggiungere determinati obiettivi.
51
M. Foucault, STP, cit. p. 38.

8
Nell’arco dell’ultimo trentennio la cura governamentale è stata allora declinata nell’invenzione e
nell’assemblaggio di tutta una serie di tecnologie e saperi esperti che collegano le strategie sviluppate nei
centri di decisione politica alle molteplici postazioni disperse nel territorio e che rafforzano la capacità dello
stato di gestire la vita economica, la salute e le abitudini della popolazione. Si tratta di un modo operativo
che nell’alveo dei Governamentality Studies viene tradotto nella formula di governo a distanza (steering at
the distance)52. Il governo non interviene quasi mai direttamente sugli interessi e sui rapporti di forza, ma
agisce indirettamente mettendo in relazione una molteplicità di organi più o meno indipendenti allo scopo di
indirizzare l’esito delle condotte individuali e collettive. Il governo a distanza istituisce pertanto relazioni
flessibili tra soggetti già esistenti separati nello spazio e nel tempo, oltre che in sfere formalmente distinte ed
autonome. In tal senso la governace può apparire come «dispositivo capace di utilizzare nuove tecniche di
guida e direzione»53.
Particolarmente significativa, al proposito, è la definizione di governance fornita dall’Organization for
Economic Cooperation and Development (OECD) in un rapporto stilato nel 2001. Vi si suggerisce
l’obsolescenza del termine government a fronte di un nuovo modo di organizzare ed amministrare i territori
e le popolazioni: «Government is no longer an appropriate definition of the way in which populations and
territories are organised and administered. In a world where the partecipation of businnes and civil society
is increasingly the norm, the term ‘governance’ better defines the process by which we collectively solve our
problems and meet our society’s needs, while government is rather the instrument we use»54. Lo slittamento
semantico da government a governance produce tuttavia effetti che esulano da una questione meramente
definitoria. Più significativamente sembrerebbe infatti che le tradizionali agenzie di controllo si riconfigurino
in una rete informale e diffusa di autorità diverse da quelle dello stato al fine di “governare a distanza” in
senso tanto costituzionale quanto spaziale.
Per quanto concerne il primo aspetto, i dispositivi di governance sono finalizzati alla traduzione di norme,
giudizi individuali e condotte in prescrizioni normative. La nuova struttura costituzionale globale appare
«come un complesso disordinato di controlli e di organismi rappresentativi», la cui regolamentazione in
termini di processi di steering (orientamento) passa proprio attraverso lo sforzo di tradurre normativamente
gli standards, realizzando in tal senso quello che Bauman definisce «dominio sul territorio esercitato in
absentia»55. Con questa espressione il sociologo polacco intende definire «l’indipendenza che le élites
globali hanno da poco acquisito poteri politici e culturali che sono vincolati e limitati al territorio, e la
conseguente “perdita di potere” di questi ultimi»56.
Se rintracciamo, con Alessandro Arienzo il luogo d’emergenza delle pratiche discorsive di
governance, un simile obiettivo sembra essere stato originariamente applicato al bagaglio concettuale,
gestionale e organizzativo dell’economia delle corporazioni. Qui il lemma in questione designava infatti «un
complesso insieme di meccanismi e procedure finalizzato ad armonizzare ed ottimizzare gli interessi degli
investitori e a garantire al contempo la governabilità dell’impresa» 57. La corporate governance intendeva - e
intende tuttora - connotare quei processi di autoregolazione (e quindi di attribuzione autonoma di norme, così
come di procedure di controllo e verifica) attraverso cui si rende più efficiente, più trasparente e più sicuro
l’operato dell’impresa a beneficio degli attori coinvolti. In altri termini, dal momento che l’impresa è un
soggetto collettivo operante in un ambiente mutevole e conflittuale per raggiungere degli obiettivi, come si
legge nel rapporto stilato dall’OECD nel 1999, la buona governance esprime l’esigenza di affermare un
quadro di responsabilità condivisa (shared responsability) «between a company’s management, its board, its
shareholders and other stakeholders» (vale a dire tra l’organizzazione, la proprietà, gli azionisti e gli
investitori esterni)58.
52
Con Governmentality Studies si indica un percorso di ricerca affermatosi da ormai un ventennio, in particolare nel mondo
anglosassone, a partire dall’applicazione dell’interpretazione foucaultiana a singoli settori in cui si è sviluppata la governamentalità
neo-liberista (in particolare, le nuove scienze del management, le tecniche assicurative, la bio-medicina e le bio-tecnologie).
53
S. Vaccaro, Il dispositivo della governance, in S. Vaccaro, A. Palumbo (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche
nell’era globale, Mimesis, Milano 2007, cit., p. 127.
54
«Governo non è più una definizione appropriata del modo in cui le popolazioni e i territori sono organizzati e amministrati. In un
mondo in cui la partecipazione dei rappresentanti degli interessi economici e della società civile sta diventano la norma, il termine
governance definisce meglio il processo attraverso cui collettivamente risolviamo i nostri problemi e rispondiamo ai bisogni della
società, mentre governo indica piuttosto lo strumento che usiamo», in OECD, Governance in the 21st century, OECD publications,
Paris 2001.
55
Ivi, p. 12 e Z. Bauman., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari 1998, cit., p. 6.
56
Ibidem.
57
A. Arienzo, Dalla corporate governance alla categoria politica di governance, in AA. VV., Governance. Controdiscorsi I, Dante
& Descartes, Napoli 2004, pp. 127-134.
58
Ibidem.

9
In seguito la portata concettuale della governance ha moltiplicato la sua valenza semantica
estendendosi anche su terreni diversi da quello economico, fino ad essere trasposta in ambito politico per
connotare l’impegno dei soggetti coinvolti nelle sue procedure ad «auto-organizzarsi riflessivamente»,
quando si confrontano cioè con la complessità prodotta dalle loro interdipendenze reciproche 59. A partire da
questa ipotesi - largamente diffusa verso la fine degli anni ’80 - viene elaborato in seno alla Banca Mondiale
il concetto di good governance come criterio di accesso ai finanziamenti internazionali. Si tratta della
codificazione di alcuni standards o norme comportamentali - le cosiddette best practices (o buone pratiche) -
da utilizzare come indicatori per l’assegnazione dei prestiti, vale a dire come vere e proprie condizionalità
politiche ed economiche che i paesi usciti dalla lunga fase di dominio coloniale avrebbero dovuto rispettare
per poter sperare di realizzare la promessa di una modernizzazione a venire. Esempi di condizionalità
economiche sono gli indicatori relativi a inflazione, deficit pubblico, incidenza sul prodotto interno lordo
delle spese per l’educazione e la sanità, etc. Per quanto riguarda le condizionalità politiche, gli indicatori
sono invece rappresentati dalla libertà d’espressione, dalla non-discriminazione, dalla partecipazione politica,
dall’effettività del rule of law. Detto altrimenti, nelle best practices - alcune delle quali saliranno poi alla
ribalta con la fin troppo celebre definizione di “politiche di aggiustamento strutturale” - è sempre attivo un
criterio di accountability (garanzia, responsabilità) mutuato dalle modellizzazioni della corporate
governance e riconvertito in dispositivo di selezione dell’agenda setting e degli attori politici sulla base di
principi e standards il cui valore - che si tratti di stakeholders o più generalmente di policy-makers - non è
desumibile sul piano giuridico. Esso, infatti, risiede piuttosto nell’interesse giocato come unica procedura di
autoregolazione, nonché di partecipazione: «although the principles are non- binding, it ultimately is a
matter of self-interest for countries and corporation»60.
Le istanze enunciative di questa nuova ragione governamentale, agite nel quadro di riconfigurazione
dei poteri su scala globale, intendono infatti fornire, sul piano interno, una risposta alla doppia crisi delle
istituzioni di welfare state: crisi di legittimità (per la scarsa partecipazione degli attori coinvolti nelle
politiche) e crisi di efficienza (per i costi eccessivi e la scarsa efficacia delle prestazioni). Al contempo,
questi discorsi miravano - e mirano tuttora - a rendere visibili, sul piano esterno, quelle «linee di tensione»
che - per dirla con Alessandro Arienzo - venivano «prodotte dalle trasformazioni nei rapporti tra l’esercizio
della sovranità politica, l’esercizio di un governo sempre più legato al contributo di attori molteplici non
statali ed un’economia i cui flussi assumono direttrici e traiettorie scarsamente controllabili dai poteri
pubblici»61. In tal modo, le procedure di governance favoriscono da circa un trentennio un «modello di
civilizzazione politica negoziale e concorrenziale» 62
Quest’ultimo rilievo ci permette anche di problematizzare il secondo aspetto relativo al governare
“spazialmente” - oltre che “costituzionalmente” - a distanza, grazie a quella tendenza per cui la sovranità
sembra sempre più configurarsi come «condizione per stabilire i termini più vantaggiosi di una sua parziale
dimissione»63. La rimodulazione delle funzioni dello stato - a partire dalla «datità mobile» della popolazione
e dalla progressiva colonizzazione economica del politico - contribuisce infatti a tramutare il significato di
sovranità da «garanzia di autonomia» a una «titolarità legale alla contrattazione», ovvero a una figura
dell’autorità impegnata nell’arena politica internazionale insieme ad altri, numerosi attori di varia natura 64.
Vale a dire che le forme di regolazione di una spazialità aperta, ibrida e multilivello sembrano preparare gli
stati a rinunciare a parte della loro sovranità in cambio di una maggiore influenza sulle decisioni degli altri
stati, creando poi - assieme a grandi gruppi economici transnazionali - club esclusivi sempre soggetti a crisi
di legittimazione in virtù della scarsa trasparenza dei loro processi di policy making.
Sebbene quindi la governance operi in orizzontale, sotto forma di networks di attori collettivi nei quali
i soggetti possono essere impegnati nei processi negoziali attraverso procedure di mediazione e di consenso,
tali procedure sembrerebbero tese a guadagnare legittimità e compliance più che partecipazione. In una
dimensione complicata e sfuggente come quella transnazionale, assumono infatti un ruolo determinato tutte
59
Con l’espressione «auto-organizzarsi riflessivamente» si vuole evidenziare, con Bob Jessop [ Governance e meta-governance:
riflessività, varietà ed ironia, in S. Vaccaro, A. Palumbo (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale,
cit., p. 84.], come la governance nomini un processo teorico-strategico di “meta organizzazione”, cioè di riordino delle relazioni
interorganizzative tra una pluralità di attori.
60
«Sebbene i principi non sono obbligatori, è in fondo una questione di interesse per gli Stati e le corporazioni».
61
A. Arienzo, Governo, governamentalità, governance. Riflessioni sul neo-liberalismo contemporaneo, in A. Vinale (a cura di),
Biopolitica e democrazia, cit., p. 252.
62
Ibidem.
63
D. D’Andrea, Immagini antropologiche e neutralizzazione del conflitto. La parabola della sovranità, in G .Bonaiuti, A. Simoncini
(a cura di), La catastrofe e il parassita, cit., p. 228.
64
Ibidem.

10
quelle pratiche che tendono a trasformare questioni politiche sempre più complesse (come gli effetti sempre
meno governabili derivanti dallo sviluppo di nuove tecnologie, dalla natura intercontinentale dei flussi
migratori, dal carattere globale della guerra postmoderna, etc.) in meri problemi tecnico-amministrativi,
banalmente procedurali65. In questo dato si può cogliere allora il prolungamento di quel processo di
governamentalizzazione dello stato (o se si vuole di amministrativizzazione del comando) che rinuncia, o
comunque marginalizza, l’antico “diritto di spada” della sovranità, e punta a farsi piuttosto programmazione
strategica delle coordinate complessive in funzione della libera competizione degli interessi .
Pur assumendo la difficoltà che le istituzioni statali incontrano a proporsi come ambiti esclusivi del
governo della società, sembrerebbe allora che ci si trovi oggi di fronte ad una tecnologia di potere soltanto
parzialmente nuova che - come osserva criticamente Vaccaro - «prolunga una strategia di spoliticizzazione
moderna» nel perseguire l’amministrazione della vita per mezzo di aggiornati dispositivi biopolitici,
restituendo il calco di una medesima ratio gestionale-regolativa66. Si tratta di una strategia paradossale - una
«strategia senza stratega» avrebbe forse detto Foucault - nella quale le forme di implementazione della
regolazione governamentale puntano a estromettere programmaticamente il conflitto dall’agire politico e a
ritrascriverlo in termini di concorrenza di interessi, ossia di «negoziazione permanente amministrativa di
corpi governamentali»67.
In definitiva il campo di razionalità della governance recupera con volti inediti - ma al contempo
protrae in un discorso già avviato da tempo - le tattiche di governamentalità proprie alla forma neoliberale
del governo in un continuo processo di rimodulazione e rifunzionalizzazione. Così, come a cavallo tra XVIII
e XIX secolo l’economia politica teorizzava un’«arte di governare il meno possibile» caratterizzata dal fatto
di essere «un raffinamento interno della ragion di stato» (ovvero un principio che la mantiene, la sviluppa e
la perfeziona, pur opponendosi radicalmente alla sua prassi governamentale), la governance - pur agendo
nello scenario di crisi degli stati-nazione (e del government) - non sembra affatto decretare quella «fine dello
Stato» tanto invocata o paventata nel dibattito sull’argomento 68. Piuttosto, si può sostenere, con Maurizio
Zanardi, che la governamentalità - e quindi la governance quale sua più recente declinazione - «è l’anima
deterritorializzante dello Stato moderno», quella che si spinge nella direzione di un governo della
popolazione globale e locale che si esercita (e si eserciterà) attraverso una molteplicità di poteri sovrani
trans-nazionali69. In tal senso, allora, nell’emergenza delle pratiche discorsive di governance «può darsi -
come afferma Deleuze parlando della transizione dalla società disciplinare alla società del controllo - che
vecchi mezzi, ispirati alle antiche società di sovranità, ritornino sulla scena, ma con gli adattamenti del
caso»70. In altri termini oggi vi è sì una cessione di quote dell’unitarietà sovrana, ma non una sua semplice
recessione. Ciò che si registra è piuttosto una riconfigurazione del potere sovrano, quella che esprime
l’odierno paradosso di una «concentrazione del potere senza una sua centralizzazione» 71.

IV_ SULLE FORME DI SOGGETTIVAZIONE: UN CAMPO DI APPLICAZIONE DEI


CONTEMPORANEI DISPOSITIVI DI GOVERNANCE.

Assumere - come si è fin qui proposto - che i dispositivi di governance vadano ricompresi nel lungo
processo di governamentalizzazione dello stato senza essere derubricati a «una semplice trasformazione della
sovranità moderna», significa anche declinarli in seno al potenziale polemogeno del continuo rapporto tra
governanti e governati piuttosto che metterli al vaglio dei criteri formalistico-giuridici della legittimità
politica72. Più precisamente, significa porre la centralità della questione della libertà non come prerogativa
universale di un soggetto che nelle società liberal-democratiche si troverebbe «al di fuori della zona di

65
O. Marzocca, Chi governa chi? Breve storia di una pretesa infinita, “Le passioni di sinistra”, 15, 2007.
66
S. Vaccaro, Il dispositivo della governance, in S. Vaccaro, A. Palumbo (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche
nell’era globale, cit., p. 142.
67
Ibidem. M. Foucault ha parlato di una “strategia senza stratega” in Il gioco, in AA. VV., Eteroropie. Luoghi e non-luoghi
metropolitani, “Millepiani”, 2, 1994, p. 31 e passim.
68
M. Foucault, NBP, cit., p. 40.
69
M. Zanardi, Per una politica del Reale, in AA.VV., Conflitti. Controdiscorsi II, cit., p. 143. Analogamente Giacomo Marramao
parla di «pluralità di potestà sovrane» (in G. Marramao, La passione del presente, cit., p. 39.).
70
G. Deleuze, Poscritto sulla società di controllo, in Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, cit., p. 240.
71
R. Sennett, The Corrosion of Character. The personal consequences of Work in the New Capitalism, New York, Norton, 1998 (tr.
it. L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano, Feltrinelli, 1999), pp. 46-54.
72
S. Chignola, Sull’“epoca” della biopolitica. Un commento, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 71.

11
ingerenza di un potere arbitrario e pervasivo» 73, ma come frutto del gioco strategico che sottende a un tale
rapporto «in cui la misura del ‘troppo poco’ di libertà che c’è, è data dall’‘ancor di più’ di libertà che viene
richiesta»74. Se infatti la maggiore o minore libertà esistente in qualunque situazione non può essere stabilita
in base a un massimo ideale e universale di cui si possa, di volta in volta, misurare il grado più o meno alto di
realizzazione, il tema della produzione della soggettività può essere problematizzato senza accettare il
riferimento ad una sua presunta esteriorità o irriducibilità al potere.
D’altronde l’arte di governo liberale ha in occidente una sua precisa specificità: a partire dal XVIII
secolo, attraverso la penetrazione pervasiva dell’economia nell’esercizio del potere, essa oppone l’idea di
«interessi incoercibili» a quella di «libertà inalienabili», determinando in tal modo la preminenza
dell’indirizzo pragmatico-utilitario scaturito dal radicalismo inglese su quello assiomatico-giuridico
inaugurato dalla Rivoluzione francese 75. E’ in tal senso che nel liberalismo la razionalità statuale viene
ritenuta passibile di una regolazione de facto (e non solo de iure), centrata quindi non tanto sul
riconoscimento giuridico delle libertà naturali agli individui, quanto semmai sul rispetto della naturalità di
processi economici e sociali all’interno dei quali bisogna, in qualche misura, “lasciar fare” i soggetti.
Si trattava - e si tratta (ancora, infatti, con la governance intesa come risposta alla crisi del governo
«viviamo nell’era della governamentalità scoperta nel XVIII secolo» 76) - di un’arte di governo che non
doveva esercitarsi limitatamente ad un territorio e su soggetti di diritto da sottoporre ad una volontà
coercitiva (quella del sovrano), ma su un «ambiente» abitato da soggetti economici «che non hanno dei diritti
ma degli interessi»77. Interessi da armonizzare in una società di mercato nella quale quest’ultimo figura come
principio di regolazione universale. Questa è la soglia del superamento dell’antico «diritto di morte» sui
governati: nella modernità il potere si fa carico della vita, la protegge, la sollecita e la regola attraverso
l’azione su una libertà che non va più semplicemente repressa ma semmai prodotta e, al contempo, resa
«oggetto di una cura governamentale»78.
In questi termini - e cioè a partire dalla connotazione eminentemente biopolitica dell’arte di governo
liberale - l’analisi può allora avanzare sul terreno della produzione di soggettività quale campo di
applicazione specifico dei dispositivi contemporanei di governance. L’avvertenza metodologica da tener
presente resta quella ben sintetizzata da Foucault: la vicenda storica del potere nel moderno sconta il fatto
che il rapporto tra governanti e governati è ambivalente e che «non si poteva certo ‘liberare’ gli individui
senza educarli in un certo modo» 79. Il problema del governo in altre parole atteneva, e attiene, alla possibilità
di modulare il processo di costruzione del soggetto, nel suo prender forma, «attraverso la sedimentazione di
regimi di discorso - in questo caso quello di governance - che lo fanno», vale a dire che lo producono come
oggetto di determinate pratiche di governo, come «correlato di un certo modo di condurre le condotte». 80
La decisiva acquisizione di Foucault sul necessario mantenimento di una complicazione fra
attenzione all’individuo e potenziamento della totalità quale tratto distintivo della razionalità politica
moderna rivolta al particolare e all’universale, al locale e al globale (omnes et singulatim si diceva) sembra
allora venire oggi recuperata ed attualizzata dalle pratiche discorsive di governance. E ciò attraverso percorsi
di assoggettamento degli individui che, per altro verso, costruiscono le loro libertà e le loro soggettività in
modo tale che possano «divenire alleate, e non sfide, di un buon ordine che governa tanto la politica che la
società»81. Una connessione tra il governo di sé e quello degli altri - questa duplice cura di tutti e ciascuno
che il filosofo francese ritiene caratterizzare ogni epoca storica - può essere allora rinvenuta in quel
paradosso apparente del neoliberalismo che lungi dall’eliminare il (supposto) inerte corpo dello stato ne

73
A. Simoncini, La critica della ragion politica come contestualizzazione dell’analitica del potere, cit., p. 190.
74
M. Foucault, NBP, cit., p. 65.
75
O. Marzocca (a cura di), Biopolitica e liberalismo, cit., p.27.
76
M. Foucault, STP, cit., p. 89.
77
M. Lazzarato, Biopolitique/Bioeconomie, in “Multitudes”, 22, 2005, in http://multitudes.samizdat.net/Lazzarato-Maurizio.
78
M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p.119; S. Chignola, L’impossibile del sovrano. Liberalismo e governamentalità in Michel
Foucault, contenuto in S. Chignola (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France
(1977-1979), cit., p. 61.
79
D. Trombadori, Colloqui con Foucault. Pensieri, opere, omissioni dell'ultimo maître-à-penser, Castelvecchi, Roma 1999, cit., p.
119
80
S. Luce, Processi di soggettivazione: tra perdita e cura di sé, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 312 ; M. Stangherlin, Economia di potere e potere dell’economia, in
A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, cit. p. 161.
81
S. Vaccaro, Governance e governo della vita, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica,
bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 115.

12
prevede la persistenza: quest’ultimo infatti «interviene ritraendosi» 82. Lascia cioè emergere un effetto di
deregolamentazione per consentire che gli individui siano governati e si governino attraverso la loro stessa
libertà, ottenendo in tal modo un’autopromozione sociale e economica. Ancora una volta dovrebbe essere il
modello della governamentalità a guidare un’analisi capace di leggere la società sia come principio in nome
del quale il governo tende ad autolimitarsi, sia come bersaglio della sua attività: il governo, infatti, è anche
l’arte di orientare «i processi di riconoscimento e di (auto)rappresentazione dei soggetti» 83. In altri termini,
nelle sue dimensioni moderne il liberalismo costruisce una relazione tra governo e governati «che dipende
sempre di più dai modi in cui si chiede agli individui di assumere lo status di soggetti della propria vita, dai
modi in cui essi forgiano se stessi come un certo tipo di soggetti, dai modi in cui essi praticano la propria
libertà»84.
Questo significa (già da alcuni secoli) approntare una prassi governamentale che, proprio mentre
persegue la costruzione di una società per il mercato - o se si vuole di una società in cui l’economia venga
governata il meno possibile - al contempo prevede il prezzo di un intervento regolatore sempre più diffuso,
costante e specifico sull’insieme dell’esistenza sociale: in una parola, una preoccupazione del tutto peculiare
per la gestione della vita. Ieri come oggi - come appare chiaramente nelle pratiche discorsive della
governance, dove riemerge l’ossessione statofobica emersa nel XVIII secolo - il problema delle politiche
liberali è esattamente quello di poter dar forma allo spazio reale e concreto nel quale la struttura formale
della competizione possa funzionare efficacemente. E ciò richiede anche l’intervento attivo delle agenzie
pubbliche85.
Con il liberalismo, e in seguito con il neoliberalismo, si afferma l’idea per cui governare significa
individuare lo spazio economico in ogni soggetto e gestire i rischi che la libertà comporta. E ciò non certo
con il riferimento a schemi universali, ma attraverso l’individualizzazione assai materiale della responsabilità
dei singoli. Anche nel dispositivo neoliberale di governance possiamo scorgere la presenza attiva e costante
di un’azione di governo che, pur in forme complesse e rinnovate, tende comunque a riconfigurare il tessuto
stesso della società in modo che al suo interno siano sempre più i meccanismi della concorrenza a svolgere
una funzione regolatrice di primo piano. Nei dispositivi di governance la società - ovvero gli attori che
agiscono in essa e le relazioni che li legano gli uni agli altri - assume sempre più la forma dell’impresa. O,
detto altrimenti, nella ratio programmatica delle pratiche di governo neoliberali è racchiuso l’intento di
«esternalizzare alla società […] il rischio d’impresa» 86. In sintesi, le nuove forme di regolazione (o se si
vuole di governo dei viventi) sembrano prolungare nella mobilitazione totale e nell’autoattivazione di una
moltitudine di singolarità flessibili quel vivere pericolosamente che rappresentava secondo Foucault «il
marchio esistenziale interiorizzato dalla soggettività costruita dalla governamentalità liberale» 87.
All’altezza di una strategia di potere che, come osserva Sandro Chignola, «non neutralizza ma evoca
una controparte», sembrano allora operare peculiari forme di soggettivazione - oggi spesso interpretate con il
ricorso ai concetti di “flessibilità” e “individualizzazione competitiva” - che assumono la libertà come
condizione politica fondamentale, «delegando il governo delle vite a forme di auto responsabilizzazione» 88.
82
In generale, sul tema cfr. M. Turchetto, Stato e mercato: un’alleanza dinamica e R. Bellofiore, Lo stato e le metamorfosi della
globalizzazione: dalla crisi del fordismo alla nuova economia, in Stato, globalizzazione, guerra, “Giano”, 37, 2001. Rapidi accenni
su questo punto si trovano in A. Simoncini, Al setaccio di Schengen. Migranti laboriosi e migranti pericolosi nello spazio politico
europeo, G. Bonaiuti, A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita, cit., p. 282.
83
M. Stangherlin, Economia di potere e potere dell’economia, in A.Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, cit., p.166.
84
G. Burchell, Liberal Government and Techniques of the Self, pp. 19-36, contenuto in AA. VV., Foucault and Political Reason.
Liberalism, neo-liberalism and rationalities of government, UCL Press, London 1996, cit. in M. Stangherlin, Economia di potere e
potere dell’economia, contenuto in A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, cit., p.165.
85
Lo sostiene da anni Riccardo Bellofiore, che ha mostrato nitidamente come fin dall’avvio del ciclo neoliberale dei primi anni ’80
del secolo scorso, un mitico neoliberismo privo di intervento statale non sia mai esistito. “Lo Stato, la politica, non si sono mai
ritirati, in realtà, se non nella caricatura che ne ha fatto la sinistra”. Se è infatti vero che “il neoliberismo è stato certo liberista contro
il lavoro, contro il Welfare, a favore della finanza”, lo è altrettanto che “non è stato affatto liberista su altri terreni”: quelli dei
monopoli, del disavanzo pubblico, della ridefinizione dei diritti di proprietà intellettuale, delle privatizzazioni, per non citare che
alcuni casi eclatanti. R. Bellofiore, Due o tre cose che so di lei. La crisi di sistema: origini, effetti, esiti , in “Alternative per il
socialismo”, 8, 2009, p. 115.
86
A. Simoncini, Al setaccio di Schengen. Migranti laboriosi e migranti pericolosi nello spazio politico europeo, G. Bonaiuti, A.
Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita, cit., p.283.
87
Ibidem.
88
S. Chignola, Sull’“epoca” della biopolitica. Un commento, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 68; L. Bazzicalupo, Soggettivazioni assoggettate: dall’eteronomia al
disaccordo (dribblando il naturalismo), in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e
processi di soggettivazione, cit., p. 230. Della stessa autrice cfr. Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Roma-Bari, Laterza,
2006.

13
L’adozione di una governance reticolare implica infatti la revisione degli obiettivi tradizionalmente associati
all’azione dello stato specialmente nella versione keynesiana e welfarista dominante nel secondo dopoguerra.
Revisione che, configgendo con il discorso universalistico di protezione sociale, configura la razionalità
governamentale contemporanea come «una diversa articolazione del potere esercitato sui viventi»: non più
soltanto «governo della popolazione» ma anche promozione di «soggettività nuove» sulla base di processi di
individualismo concorrenziale e di conseguente rideclinazione singolarizzata dei rischi prima socializzati e
ripartiti a livello collettivo.
E’ con questo portato problematico - tutto interno alla cultura politica liberale - che dobbiamo quindi
confrontarci se vogliamo cogliere la governance al di fuori delle retoriche dominanti, che vorrebbero
derubricarla all’adozione di «tattiche flessibili e plastiche per ovviare a rigidità tipiche della operatività di
governo lungo l’asse del comando sovrano»89. Nel segno peculiare delle reti di governance e della connessa
orizzontalità, la flessibilità sembrerebbe piuttosto essere giocata come modo per designare l’organizzazione
sociale e come strumento per favorire il processo della sua auto-costituzione . Come suggerisce Nancy Fraser
si tratterebbe di «un processo di auto-costituzione che si lega, nasce e somiglia ad un modello di
organizzazione sociale»90. E’ evidente allora che il nodo cruciale permane nell’intima contraddizione di un
neoliberalismo che non comporterà affatto un’astensione dal governo, quanto piuttosto la formalizzazione
della sua costitutiva valenza giuridica nel dettare le regole del gioco economico. Si tratterà cioè di assumere
come finalità primaria la promozione e la salvaguardia dei meccanismi della concorrenza piuttosto che la
riparazione dei suoi presunti danni sociali, governando la libertà degli individui al di fuori della prospettiva
propria allo stato sociale, inteso «come tessuto d’istituzioni consolidate e, cosa forse ancor più significativa,
come ideale e progetto»91.
Zygmunt Bauman non poteva coniare metafora migliore della liquidità per rendere palpabile il
paradosso della società contemporanea, in cui la rigidità dell'ordine è il prodotto e il sedimento della libertà
degli agenti umani, ben altro che il frutto di una «convenzione collettiva» 92. Definendo liquida l'attuale
modernità Bauman intende evidenziare la pressione dell'individualizzazione che va usurando gli argini
costituiti da strutture alle quali in passato era delegato il compito di fondare stabilità tanto in termini di
protezione sociale quanto in quelli di riconoscimento reciproco. La decisiva svolta impressa al discorso
etico-politico è infatti quella che, più precisamente, ha declinato altrimenti le «speranze di miglioramento»
della società, liberando la modernità originaria dai propri «doveri emancipatori» per rimetterli «al coraggio e
alla determinazione dei singoli» chiamati a diventare “imprenditori di se stessi” 93.
E’ a questo livello - quello della messa in opera di processi di soggettivazione che assumono l’impresa
come canone di decifrazione della condotta umana - che si rifunzionalizzano oggi i dispositivi del
government, tipici della modernità pesante. Nei mille piani di realtà in cui operano i nuovi dispositivi di
potere-sapere che danno corpo alla governance gli individui vengono prodotti come agenti attivi di
regolazione e di autoregolazione. Se è vero infatti che il problema del governo rimanda a una decisiva
economicizzazione del potere - se è cioè vero, per dirla con Sandro Chignola, che «esso allude a una modalità
di produzione della decisione che assume come costitutivo il confronto con la realtà irriducibile degli
uomini, delle donne»94 -, i progetti di riassetto della razionalità politica occidentale egemoni nel
neoliberalismo sembrano aver ereditato il vecchio auspicio di Friedrich August Von Hayek: il bisogno di un
liberalismo da intendere come «un pensiero vivente» 95. D’altronde la tenuta del nodo
soggettivazione/assoggettamento si misura sull’odierna organizzazione del corpo sociale secondo le regole
dell’economia di mercato, e cioè sulla «programmazione strategica dell’attività degli individui» 96. Cosa sono
gli incentivi reputazionali, il capitale umano imprenditoriale, i principi performativi, etc. - tutti termini
ricorrenti nella letteratura sulla governance- se non l’espressione di quello che potremmo chiamare un
«potere formativo sulla società», e cioè gli effetti di una ratio governamentale che evoca soggetti capaci di

89
S. Vaccaro, Governance e governo della vita, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica,
bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 109.
90
Fraser N., From Discipline to Flexibilization? Rereading Foucault in the Shadow of Globalization, “Constellations”, X, 2003, cit.,
in ivi, p. 113.
91
R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004, cit., p. 102.
92
Ibidem.
93
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2002, cit., p. 20.
94
S. Chignola, Sull’“epoca” della biopolitica. Un commento, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 70.
95
F. A. Hayek, The Constitution of Liberty, cit.: “Why I am not a Conservative”, pp. 398-399, cit., in M. Foucault, NBP, p. 179.
96
Ivi, p. 183.

14
attivarsi in modo autonomo e pertanto capaci di autogovernarsi 97? In un simile quadro, i dispositivi di
governance costituirebbero allora «uno sforzo di fuoriuscita dalla politica propria degli ordinamenti
giuridico-politici di sovranità nella loro declinazione democratico-rappresentativa» 98. Ed è proprio questo che
conduce l’arte di governo verso una modulazione “efficientista” del rapporto tra governanti e governati.
Ne consegue che l’idea dello stato sociale sia stata decostruita proprio a partire dall’ipotesi di un
rischio che è socializzabile solo nella forma del costo. In forza di interventi di governo molto più sottili, ma
altrettanto pervasivi di quelli tradizionali, quel rischio viene allora assegnato al singolo soggetto che di esso
dovrà ormai farsi carico. Più in generale, si potrebbe sostenere che l’analisi del potere presente nel modello
neoliberale sembra voler prescindere da una caratterizzazione normativa che induce per forza di cose a
presupporre l’esistenza di una verticalità tra soggetto ed oggetto. Così si è affermato il riferimento ad una
dimensione orizzontale che risponde al declino della costitutiva caratterizzazione trascendentale del sovrano.
Sul piano di immanenza dell’esercizio del potere, la ratio neoliberale punta a responsabilizzare ogni singolo
componente della popolazione.
Non è un caso allora che alcuni studiosi parlino dell’emergenza di «una nuova forma di responsabilità
verso il rischio»99. Ciò a cui si sarebbe assistito con l’affermazione del neoliberalismo sarebbe insomma la
vera e propria produzione di una nuova attitudine etica - assimilabile a una sorta di etica d’impresa -
perfettamente in sintonia con tutte quelle strategie di governo dei viventi che tendono alla riduzione delle
garanzie di assistenza sociale a favore di una loro rimodulazione individuale. Robert Castel ha ricordato
come recentemente due influenti autori francesi come Francois Ewald e Denis Kessler siano addirittura
giunti ad operare un sorprendente rovesciamento di fronte dei termini in questione, facendo del rischio «il
principio di riconoscimento del valore dell’individuo» 100. La capacità di assicurarsi da soli sembra così
costituire la possibilità stessa di intervenire su fenomeni generalmente ritenuti imprevedibili, che vengono in
qualche modo naturalizzati come fattori antropologici. L’etica generale in cui si iscriverebbe questa nuova
attitudine viene sinteticamente descritta da Nikolas Rose - uno dei principali animatori dei Governamentality
Studies - come «un’etica nella quale la massimizzazione degli stili di vita, delle risorse potenziali, della
salute, della qualità della vita è divenuta quasi obbligatoria, e nella quale i giudizi negativi riguardano coloro
che, per qualunque ragione, non vogliono adottare una relazione attiva, informata, positiva e prudente con il
futuro»101. Giudicato padrone del proprio destino e quindi colpevole in caso di insuccesso, il singolo è «in
qualche modo obbligato ad essere libero»102. Per effetto di un simile governo della sua libertà egli verrà
«spinto ad essere performativo», a maggiorare cioè la libera cura del proprio aggiornamento individuale (ed
individualistico) e a massimizzare le proprie opportunità sviluppando potenzialità e capitale umano 103.
Il nesso tra un «nuovo prudenzialismo», in cui i dispositivi di assicurazione sociale che incarnavano un
principio di solidarietà fanno spazio alla privatizzazione della gestione del rischio, e gli odierni dispositivi di
governance, potrebbe allora essere rilevato proprio a quest’altezza: quella di «una tecnica di governo del
vivente capace di penetrare i corpi, renderli produttivi, valorizzando in forma estrema il capitale umano»104.
In sintesi, tra la fine degli anni ’70 ed oggi, con la governamentalità neoliberale sembra essersi avviata la
sperimentazione di un nuovo dispositivo di cittadinanza.
Secondo la nuova attitudine etica - quella per cui «singoli devono, al tempo stesso, segnalarsi per
un’esplicita disponibilità al rischio e praticare una gestione previdente di questo» 105- non si chiederà più al
soggetto di diritto di delegare la propria sovranità in cambio della stabilità di un patto sociale, ma di farsi
esso stesso soggetto di sicurezza attraverso una nuova forma di cittadinanza fondata sulle tecniche dell’auto-
97
M. Foucault, NBP, cit., p. 235.
98
A. Arienzo, La governance e il conflitto politico: quali dispositivi per una democrazia in crisi?, in AA. VV.,
Conflitti.Controdiscorsi II, cit. p. 460.
99
O. Marzocca, Etica del rischio e governo delle vite, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica,
bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 328.
100
R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, cit. p. 66.
101
N. Rose, The Politics of Life Itself. Biomedicine, Power, and Subjectivity in the Twenty-First Century, Princeton University Press,
Princeton and Oxford 2007, p. 25, cit. in O. Marzocca, Etica del rischio e governo delle vite, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F.
Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 329.
102
R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, cit. p. 46.
103
Ibidem.
104
G. Borrelli, Tra governance e guerre: i dispositivi della modernizzazione politica alla prova della mondializzazione, in AA. VV.,
Governance. Controdiscorsi I, cit., p. 26. La definizione di “nuovo prudenzialismo” si trova in N. Rose, Governing “advanced”
liberal democracies”, in AA. VV., Foucault and Political Reason. Liberalism, neo-liberalism and rationalities of government, UCL
Press, London 1996, pp. 54-56.
105
T. Lemke, Biopolitica e neoliberalismo. Rischio, salute e malattia nell’epoca post-genomica, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F.
Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 303.

15
stima, dell’empowerment, dell’auto-imprenditorialità e del benessere individuale. Un simile appello alla
responsabilità si fa più forte proprio quando le funzioni di redistribuzione e di compensazione dello stato
sociale vengono considerate tendenzialmente inutili o addirittura nocive per la crescita economica e per la
volontà di prestazione dell’individuo106. In altri termini, la ritirata dello stato coniuga la nuova semantica
della flessibilità e del rischio con l’’idea di una «formazione attiva degli individui» 107: questi dovranno
divenire capaci di forgiare e di controllare autonomamente la loro vita (empowered), senza ricorrere alle
risorse degli apparati assistenziali pubblici.
Paradigmatica a questo riguardo è la gestione biopolitica della malattia nella variante preventiva tipica
delle “democrazie liberali avanzate”, quelle in cui agiscono le politiche di governance. Al fenomeno per cui
alla ritirata dello stato vengono progressivamente sostituiti gli appelli all’auto-responsabilità, corrisponde il
fatto che da circa trenta anni, nel settore delle cure sanitarie, si sia andata affermando l’opinione secondo la
quale il maggior nemico per la salute dell’individuo è il suo «comportamento verso se stesso» 108. Per Thomas
Lemke - che da anni indaga il nodo della questione sanitaria al tempo del neoliberalismo - l’emergenza di
questo nuovo ordine del discorso ha determinato due importanti conseguenze, entrambe indicative
dell’odierna riconfigurazione del rapporto tra poteri, etica e soggetto.
In primo luogo, si può rilevare l’effetto di «riduzione tendenziale del diritto alla salute a vantaggio di
un dovere - soggettivo - di gestione della salute» 109. Lo dimostra l’affermarsi dell’idea di una responsabilità
individuale nel nucleo principale dei programmi di politica sanitaria elaborati dai paesi industriali
dell’occidente fin dalla metà degli anni Settanta. In questi piani programmatici compaiono ipotesi e strategie
discorsive che pongono al centro la capacità e l’opportunità dell’individuo di assicurarsi da solo, come se
«la malattia invece di fondare diritti individuali, [potesse] rinviare in misura crescente a dei doveri morali,
giuridici e sociali»110. Nella ratio di quei documenti simili obblighi non sono meramente formali, ma
figurano come la sostanza che deriva dalla prescrizione di una condotta prudente. Ad essere coinvolto è lo
stile di vita. Attraverso il suo stesso comportamento il soggetto viene spinto a proteggersi dalle malattie più
diffuse, ma per farlo dovrà acquisire nuove competenze di autoregolazione. Nel nuovo dispositivo di
governo della salute, il soggetto viene inteso come l’attore fondamentale della propria sicurezza e di quella
altrui.
La seconda conseguenza del funzionamento del nuovo ordine del discorso sulla salute è invece
riconducibile ad un’ipotesi di «trasformazione progressiva dei pazienti in persone a rischio, da un lato, e in
clienti, dall’altro»111. In questo duplice spostamento tendenziale prende forma qualcosa di simile ad un
«collegamento fra una concezione morale e una concezione consumistica della salute» 112. Incardinandosi al
presupposto che «la salute è il risultato di una volontà» - quasi fosse qualcosa che può essere raggiunta da
individui sufficientemente motivati ed impegnati - la nuova etica sanitaria arriva a concepire «la malattia
[come] l’effetto collaterale di una volontà insufficiente e inadeguata» 113. Così le persone a rischio
coinciderebbero potenzialmente con tutti i soggetti che non lavorano alacremente ad una propria lifestyle
correctness (la correttezza dello stile di vita), risultando incapaci di un opportuno investimento su se stessi. E
questo investimento, per venire al tema del rapporto tra consumismo e sanità, non va inteso in termini
soltanto simbolici poiché la salute è da tempo un nodo nevralgico dell’economia contemporanea. «Negli
Stati Uniti, durante gli ultimi cinquant’anni - specifica Lemke - la quota delle spese sanitarie rispetto al
prodotto nazionale lordo si è triplicata, crescendo dal 4 al 13%. Le spese per medicinali nell’anno 2000
ammontavano a più di 100 miliardi di dollari, il doppio del 1990» 114. Nei discorsi studiati da Lemke i
pazienti tendono sempre più a divenire clienti. Più che come persone malate sono infatti concepiti come
consumatori di beni, di salute, di cultura, cioè di una condotta di vita sana, prudente e responsabile.
In sintesi, attraverso la messa a punto del nuovo dispositivo di cittadinanza delle democrazie liberali
avanzate sembra proprio che i processi di soggettivazione/assoggettamento si configurino come il campo di
106
Ivi, pp. 301-303. A parlare di «privatizzazione della gestione del rischio» è N. Rose in Governing “advanced” liberal
democracies”, cit., in A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, cit., p.165.
107
S. Luce, Processi di soggettivazione: tra perdita e cura di sé, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicci, A. Tucci (a cura di),
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 319.
108
T. Lemke, Biopolitica e neoliberalismo. Rischio, salute e malattia nell’epoca post-genomica, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F.
Chicci, A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 302.
109
Ibidem.
110
Ivi, p. 301.
111
Ibidem.
112
Ivi, p. 302.
113
Ivi, pp. 304-306.
114
Ibidem.

16
applicazione specifico di una governance che, con i suoi dispositivi di potere-sapere, riposiziona e sfuma «la
separazione tra Stato e società civile» 115. Trova così una nuova conferma la tesi foucaultiana secondo cui la
“società civile” non sarebbe affatto il soggetto di una libertà disincarnata capace di dribblare l’esercizio dei
poteri (statali e non), ma coinciderebbe sempre più con l’oggetto delle tecnologie di governo che orientano
incessantemente la libertà degli stessi governati: quelli che quotidianamente abitano come homini
oeconomici la società civile stessa 116. Una volta riconosciuto che la posta in gioco della governance è
costituita dalla riorganizzazione della razionalità politica contemporanea, quanto si è fin qui sostenuto
esclude che una cooperazione trasversale e reticolare possa soppiantare l’ambivalenza del rapporto tra
governanti e governati. Contrariamente ad ogni illusione naturalistica, inoltre, il fatto che la libertà sia
qualcosa da produrre, regolare, gestire e consumare, dà conto della presenza attiva dello stato nella
governamentalità neoliberale e del suo potenziale di assoggettamento attraverso la promozione di molteplici
forme di soggettivazione.
Eludere questa vera e propria antinomia costitutiva del liberalismo - che lo attraversa dalle origini fino
alla sua più recente riconfigurazione nei moduli organizzativi e decisionali della governance -
significherebbe allora allontanarsi dalla presa ermeneutica che questa nuova categoria politica può avere
sulla realtà. In fondo significherebbe anche misconoscere il portato contraddittorio e composito del governo,
che nelle sue tante e variabili configurazioni non sembra essere mai stato altro che l’arte di dirigere la
condotta degli individui regolando i fenomeni d’insieme della popolazione. Ancora una volta, dunque,
omnes et singulatim.

Anna Luzzi

BIBLIOGRAFIA

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AA. VV., Foucault and Political Reason. Liberalism, neo-liberalism and rationalities of government, UCL Press,
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