Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Di
Quirino
Principe.
Inaugurare
un
ciclo
di
attività
musicali
nel
nome
di
Fryderyk
Franciszek
Chopin
(Żelazowa
Wola
presso
Varsavia,
giovedì
1°
marzo
1810
−
Parigi,
mercoledì
17
ottobre
1849)
assume
quest’anno,
come
chiunque
sa,
una
doppia
funzione.
Onora
la
memoria
di
un
grandissimo
artista,
tanto
originale
e
indipendente
dalla
storia
degli
stili
da
lasciare
incerto
chiunque
voglia
capire
da
dove
sia
nata
la
sua
arte,
e
tanto
generoso
verso
i
posteri
(oggettivamente
generoso,
malgrado
la
sua
celebre
ritrosia
d’indole
personale)
da
rendere
felici
nel
senso
più
nobile
della
parola
ascoltatori
e
interpreti
pianistici
di
molte
generazioni.
In
secondo
luogo,
la
scelta
di
cominciare
con
il
suo
nome
ha
un
significato
di
viva
attualità,
forse
nascosto
ma
non
difficile
a
rivelarsi.
La
musica
“forte”
(come
io
la
chiamo
da
molti
anni,
sostituendo
l’errato
e
dannoso
termine
“musica
classica”)
sta
attraversando
una
fase
storica
ad
essa
ostile,
e
ogni
musicista
ha
il
dovere
di
combattere
con
energia
inflessibile,
sino
all’ultimo
sangue,
per
ritorcere
le
ostilità
contro
i
nemici
dichiarati
e
contro
quelli
ipocritamente
dissimulati,
assumendo
come
obiettivo
minimo,
con
ogni
mezzo
possibile
e
senza
limiti
di
controffensiva,
la
loro
distruzione.
Ma
combattere
il
male
e
l’errore
è
soltanto
una
metà
del
nostro
dovere.
L’altra
parte
del
difficile
compito
è
promuovere,
ovunque
essa
cominci
a
rivelarsi,
la
qualità
creativa,
l’originalità,
l’innovazione
che
però
si
accompagni,
nelle
personalità
di
nuovi
artisti,
a
grandezza
individuale,
a
libertà
di
carattere
a
indipendenza
dalle
cosiddette
“forze
storiche”,
poiché
soltanto
nelle
qualità
dell’
individuo
possono
esistere
forza
e
grandezza,
e
senza
grandezza
e
forza
non
può
esistere
salvezza
per
la
nostra
civiltà
e
per
l’Occidente.
La
figura
di
Chopin
è
il
migliore
simbolo
di
una
travolgente
grandezza
creativa
che
deve
tutto
o
quasi
tutto
a
sé,
alla
propria
personalità,
e
la
sua
musica
è
il
migliore
auspicio
possibile.
Il
concerto
di
Mikhail
Voskresenskij
ce
ne
offre
un
panorama
di
rara
qualità,
che
percorre,
con
un
impegno
di
responsabilità
culturale
e
artistica
rivendicabile
oggi
da
pochi
pianisti,
l’intero
arco
del
lascito
chopiniano
e
tutta
l’articolazione
dei
generi
e
delle
forme
musicali
cui
il
compositore
si
dedicò.
Devo
precisare:
dicendo
“tutta
l’articolazione
dei
generi
e
delle
forme”,
intendo
la
“totalità”
in
un
significato
strategico
e
non
tattico:
parlo
cioè
di
fronti
d’azione
e
non
di
combattimenti
sul
terreno.
Esco
subito
dalla
metafora
militare
(che
tuttavia
a
un
combattente
quantunque
solitario
come
Chopin
non
disdice…),
e
mi
spiego
con
linguaggio
non
traslato.
Il
concerto
di
Mikhail
Voskresenskij
mostra
con
la
massima
evidenza,
e
con
dovizia
di
aspetti
diversi
dell’arte
chopiniana,
il
grado
e
l’intensità
dell’articolazione,
e
la
prevalenza
nell’opera
creativa
di
Chopin
delle
“non‐forme”,
delle
piccole
forme,
delle
forme
nuove
rispetto
alla
tradizione,
delle
forme
di
origine
poetica
e
non
di
quelle
canoniche,
delle
forme
d’ascendenza
culturale
romantica
rispetto
a
quelle
legate
alla
classicità
viennese
(al
pianismo
di
Haydn,
Mozart,
Beethoven,
Schubert)
o
ai
più
antichi
modelli
scarlattiani
o
bachiani.
Di
conseguenza,
e
proprio
nella
scelta
delle
piccole
forme
e
delle
“non‐forme”,
i
fratelli
(no,
non
voglio
eccedere:
diciamo
i
“cugini”,
i
“consanguinei”)
in
ispirito
di
Chopin
compositore
sono
Mendelssohn
e
Schumann
soprattutto
il
secondo.
Quindi,
invito
a
una
riflessione.
Sì,
è
vero:
Voskresenskij
ci
offre
esempi‐campioni
a
illustrazione
della
poetica
espressa
da
Chopin
nei
Notturni,
nei
Valzer,
nelle
Mazurke,
nelle
Polacche,
nei
Preludi,
nelle
Ballate,
culminando
con
il
genere
tipicamente
“non‐
formale”
della
Fantasia
del
quale
il
compositore
ci
diede
un
esempio
unico
con
l’op.
49
(l’Improvviso‐Fantasia
op.66
e
la
Polacca‐Fantasia
op.
61
sono
a
loro
volta
esempi
di
altre
varianti
della
“non‐forma”
e
anch’essi
in
quanto
tali
sono
esempi
unici).
Ma
d’altra
parte,
il
pianista
non
include
nell’odierno
concerto
esempi
di
forme
in
varia
misura
consacrate
dalla
tradizione
formale
come
gli
Improvvisi,
gli
Scherzi,
le
Sonate,
gli
Studi.
Ebbene,
da
ciò
che
si
è
detto
poco
fa
è
facile
intendere
come
tale
scelta
sia
perfettamente
in
linea
con
gli
aspetti
dell’arte
di
Chopin
che
Voskresenskij
vuole
illustrarci
e
sottolineare.
Certo,
l’assenza
della
Berceuse
op.
57
e
della
Barcarola
op.
60
sembra
smentire
la
logica
di
queste
mie
considerazioni,
e
tuttavia,
a
parte
l’ovvia
circostanza
di
un’estensione
già
molto
accentuata
del
presente
programma
di
concerto,
quei
due
esempi
di
meditazione
suprema,
nati
dall’arte
di
un
compositore
al
limitare
della
morte,
sono
tanto
sublimi
e
tanto
svincolati
da
qualsiasi
residuo
anche
nobile
di
convenzioni
formali,
da
non
essere
più
“tipici”
neppure
del
più
romantico
aspetto
del
compositore.
Sono
esempi
irripetibili
di
quella
“musica
assoluta”
che
Carl
Dahlhaus,
alla
fine
del
secolo
XX,
ha
tentato
di
teorizzare.
Il
punto
di
partenza
del
percorso
in
cui
ci
guida
Mikhail
Voskresenskij
sono
i
Notturni.
La
parola
stessa
è
la
prima
che
corre
alla
mente
dell’ascoltatore
con
media
preparazione,
non
appena
si
nomini
Chopin;
qualcosa
di
simile
accade
per
la
parola
“sinfonia”
riferita
a
Beethoven.
In
realtà,
i
Notturni
sono
esiti
d’ispirazione
contemplativa,
almeno
in
origine,
e
furono
assai
cari
a
Chopin
sin
dall’adolescenza:
un
Notturno
in
Do
minore
senza
numero
d’opera
sarebbe
databile,
secondo
un
musicologo
autorevole
come
Ludwik
Bronarski
al
1827,
quando
Chopin
aveva
17
anni.
Il
giovanissimo
autore
guardò
all’esempio
dell’irlandese
John
Field
(1782‐
1837),
inventore
forse
non
primissimo
di
questo
genere
suggestivo
e
sentimentale,
ma
trasformò
le
suggestioni
e
i
sentimenti
in
emozioni
e
in
idee
disegnate
secondo
forme
simboliche,
con
un‘alternanza
di
pieni
e
di
vuoti
(la
struttura
tripartita
con
le
due
sezioni
estreme
lente
e
sognanti
nell’abbandono
e
la
sezione
centrale
inquieta
e
passionale)
di
volumi
del
suono
e
di
colori.
Il
Notturno
op.
27
n.
1
(1834
o
1835)
comincia
già
con
un’altissima
invenzione:
l’ascesa
cromatica
di
un
semitono
dal
Mi
naturale
al
Mi
diesis,
che
per
una
frazione
di
secondo
trasforma
la
tonalità
minore
in
tonalità
maggiore.
La
melodia
è
onirica,
fantasmatica:
ma
nella
sezione
centrale
il
crescere
della
tensione
espressiva
evoca
un
nuovo
tema
in
ottave
sul
flusso
ostinato
in
terzine
del
basso,
giungendo
al
vertice
dell’intensità
con
un
blocco
di
accordi,
prima
della
umbratile
ripresa.
Un
dettaglio
che
riguarda
il
kitsch
ottocentesco:
Alfred
Cortot,
nel
suo
libro
Aspects
de
Chopin
(1949),
narra
che
una
volta
a
Parigi
qualcuno
tentò
di
usare
questo
Notturno
in
funzione
“liturgica”,
cantando
la
melodia
iniziale
sulle
parole
«O
salutaris
hostia»
(non
c’è
commento!).
Il
Notturno
op.
48
n.
1
(1841)
nacque
all’inizio
della
terza
e
ultima
fase
dell’attività
creativa
di
Chopin,
ed
è
una
drammatica
e
chiaroscurale
marcia
funebre,
dagli
accenti
ora
dolenti
ora
sinistri.
I
Valzer
di
Chopin
hanno
una
vicenda
simile
a
quelle
dei
Notturni:
la
danza
di
origine
popolare,
poi
divenuta
mondana
e
assunta
alla
Corte
di
Vienna
e
in
altre
corti
e
dimore
nobiliari,
ma
sempre
intesa
come
allegra
oppure
frivola
e
sentimentale
occasione
di
svago
e
di
corteggiamento,
diventa
nella
mani
di
Chopin
un’aristocratico
sogno,
un
soffio
di
nostalgia,
e
talvolta
un’ombra
spettrale
e
ancora
aristocratica
ma
sotto
luce
funerea
o
quanto
meno
malinconica.
Eppure,
proprio
nei
valzer
s’insinua
un
virtuosismo
brillante
che
altrove
è
escluso
dalla
scrittura
pianistica
del
compositore
(le
spaventose
difficoltà
che
a
volte
s’incontrano
negli
Studi
o
negli
Scherzi
non
sono
virtuosismo:
sono
sfida
al
destino
e
all’impossibile).
Questa
è
l’ambivalenza
dei
Valzer
chopiniani.
Con
felice
decisione,
Voskresenskij
ha
scelto
la
memorabile
terna
dell’ultimo
periodo
chopiniano,
l’op.
64.
Il
n.
1
in
Re
bemolle
maggiore
è
celebre
per
il
suo
motivo
ascendente‐discendente
che
si
ripete
dando
l’impressione
di
un
moto
circolare
e
rotante,
ma
con
l’incipit
sfalsato
di
battuta
in
battuta
sì
da
produrre
un
senso
di
vertigine.
Il
n.
2
in
Do
diesis
minore
ha
un
carattere
cupo
e
spettrale
reso
più
inquietante
dai
bicordi
di
seconda
maggiore
(Fa
diesis
+
Sol
diesis)
da
cui
balza
fuori
la
seconda
semifrase
del
tema
iniziale:
è
il
“malinconico
sinistro
valzer”
cui
allude
Albert
Guiraud
nella
poesia
Valse
de
Chopin
che
fa
parte
del
ciclo
Pierrot
lunaire,,
messo
in
musica
da
Arnold
Schönberg.
Il
n.
3
in
La
bemolle
maggiore
parte
da
una
figurazione
melodico‐
ritmica
elegantissima,
apparentemente
“naïve”,
e
poi
si
riveste
di
sfumature
in
rapide
sequenze
cromatiche
di
semitoni,
quasi
polvere
d’ali
di
farfalla.
Nella
sezione
centrale,
il
n.
3
perde
quasi
del
tutto
i
connotati
di
un
valzer
vero
e
proprio,
e
si
trasforma
in
un
ampio
e
grave
tema
dal
carattere
solenne
e
mesto.
I
tre
valzer,
composti
nel
biennio
1846‐1847,
sono
dedicati
a
tre
belle
e
nobili
dame:
il
n.
1
«à
Madame
la
comtesse
Delphine
Potocka»,
l’amica
polacca
di
Chopin
cui
egli
aveva
dedicato
anche
il
Concerto
n.
2
per
pianoforte
e
ochestra
op.
21;
il
n.
2
«à
Madame
la
baronne
Nathaniel
de
Rothschild»
ossia
a
Charlotte
de
Rotschild
cui
egli
dedicò
anche
uno
dei
suoi
massimi
capolavori,
la
Ballata
n.
4
op.
52;
il
n.
3
«à
Mademoiselle
la
comtesse
Catherine
Branicka».
Le
Mazurke
di
Chopin,
che
Robert
Schumann
in
una
sua
recensione
sulla
«Neue
Zeitschrift
für
Musik»
definì
“cannoni
sepolti
sotto
i
fiori”
per
indicarne
lo
spirito
d’indipendenza
nazionale
che
si
cela
sotto
la
grazia
danzante,
sono
nel
loro
insieme
le
composizioni
in
cui
l’autore
è
più
vicino
alle
fonti
e
alle
radici
del
folclore
musicale
slavo.
Queste
invenzioni
melodiche
in
ritmo
ternario,
plastiche
e
incisive,
memorabili
e
infatti
rapidamente
scolpite
nella
nostra
memoria,
s’ispirano
in
particolare
a
un
tipo
di
danza
nato
nella
Mazovia
(Mazowsze),
la
regione
di
Varsavia,
la
cui
denominazione
in
forma
originaria
è
“mazur”.
Esistono
varianti
locali
che
si
distinguono
dalla
mazur
propriamente
detta.
L’oberek
è
più
rapido
e
formalmente
semplice:
nelle
misure
pari
fra
quelle
occupate
dal
tema
(la
seconda
misura,
la
quarta,
ecc.),
il
terzo
e
ultimo
tempo
di
cascuna
battuta
è
molto
accentuato
ritmicamente.
Invece
il
kujawiak,
originario
della
Cuiavia
(Kujawy),
comincia
di
norma
con
una
sezione
in
tempo
lento,
cui
segue
una
parte
centrale
in
tempo
veloce
e
una
ripresa
della
prima
sezione,
con
un
accelerando
nel
finale.
Anche
qui,
Voskresenskij
ha
scelto
un
intero
blocco:
tutte
le
4
Mazurke
del’op.
24
(1834‐1835).
La
n.
1
in
Sol
minore
ha
una
melodia
iniziale
costruita
sulla
scala
tzigana.
La
n.
2
in
Do
maggiore
è
un
oberek
con
il
basso
dal
ritmo
uniforme,
sempre
legato.
La
n.
3
in
La
bemolle
maggiore
ha
un
tema
unico:
tra
la
prima
e
la
seconda
esposizione
di
questo
tema,
si
inserisce
un
breve
episodio
costituito
da
una
frammentazione
di
incisi
e
di
brevissimi
motivi,
mentre
un
polverìo
di
sedcesimi
funge
da
coda
conclusiva.
La
n.
4
in
Si
bemolle
minore
è
molto
più
complessa
delle
altre
come
struttura.
Nella
sezione
centrale
ci
sono
passi
in
cui
la
scrittura
realizza
l’unisono,
destinatoi
a
dare
l’illusione
di
un
“coro
misto”
come
diceva
Chopin
a
suoi
allievi.
Come
narra
uno
fra
essi,
Wilhelm
von
Lenz,
«nessuno
riusciva
ad
accontentarlo
in
questi
unisoni
che
devono
essere
eseguiti
con
un
tocco
il
più
lieve
possibile.
[…]
Non
si
riusciva
a
suonarglieli
mai
con
sufficiente
delicatezza.
[…]
Si
aveva
a
malapena
il
diritto
di
sfiorare
la
tastiera.
Guai
se
qualcuno
si
azzardava
a
toccarla
!».
Nella
seconda
parte
del
programma,
le
Mazurke
ricompaiono
con
due
esemplari
molto
più
tardi,
tratti
dall’op.
63
(1846):
la
n.
2
in
Fa
minore
e
la
n.
3
in
Do
diesis
minore.
La
n.
2
è
lenta,
brevissima,
intimistica.
La
n.
3
fu
molto
amata
da
pianisti
come
Ignacy
Paderewski
e
Alfred
Cortot,
e
in
alcuni
suoi
passi
ha
carattere
di
Notturno
più
che
di
Mazurka.
La
polacca
è
una
danza
nazionale
come
la
mazur,
ma
sotto
l’aspetto
strutturale
è
all’estremo
opposto.
Se
le
Mazurke
chopiniane
tendenzialmente
richiamano
un
ideale
di
semplicità
e
di
emozione
fresca
e
immediata,
le
Polacche
nate
dalla
creatività
elaboratrice
di
Chopin
tendono
alla
ricca
complessità
sin
dal
connotato
che
in
gran
parte
le
accomuna
proprio
nelle
battute
di
avvio:
un
motivo
squillante,
“pesante”,
in
ritmo
puntato
(ossia
in
notazione
con
il
punto
che
accresce
il
valore
della
nota
precedente
diminuendo
della
stessa
porzione
il
valore
della
nota
successiva,
ciò
che
rende
un’idea
di
scattante
energia),
con
il
suono
più
acuto
che
viene
ribattuto,
magaroi
con
un
gioco
sottostante
di
alternanza
armonica,
e,
subito
dopo,
un
ritmo
sempre
puntato
ma
“volante”,
di
solito
lungo
una
scala
ascendente.
La
Polacca
in
Fa
diesis
minore
op.
44
(1840‐1841),
che
ascoltiamo
nella
prima
parte
del
concerto,
è
un’opera
“scura”,
e
la
tenebrosa
tonalità
(quella
del
patto
con
il
Diavolo
nel
finale
del
II
atto
del
Freischütz
di
Carl
Maria
von
Weber)
favorisce
questa
sensazione
in
chi
ascolta.
La
cupa
introduzione
scrisse
Franz
Liszt,
«ha
un’aria
sinistra
come
l’ora
che
precede
l’uragano».
Questa
Polacca
si
articola
in
quattro
sezioni
e
non
in
tre
come
di
consueto.
Ed
ecco,
nella
terza
sezione
(Trio)
e
proprio
al
centro
di
un
passo
di
particolare
irruenza,
l’autore
inserisce
un
imprevisto
ritmo
di
mazurka.
Ha
scritto
Piero
Rattalino:
«L’idea
di
fondere
polacca
e
mazurka,
come
idea
astratta,
richiedeva
solo
immaginazione;
la
fusione
effettiva
richiedeva
facoltà
creatrici
al
loro
massimo
grado
di
maturità:
è
un
po’
lo
stesso
problema,
affrontato
da
Beethoven
nella
Sonata
op,
110,
della
fusione
di
Arioso
e
Fuga».
Questa
Polacca
è
dedicata
«à
Madame
la
princesse
Charles
de
Beauvau,
née
de
Komar»,
ossia
ala
sorella
di
Delfina
Potocka.
Nella
seconda
parte
del
concerto
ascoltiamo
la
Polacca
in
Do
minore
op.
40
n.
2
(1838‐1839).
Non
ho
mai
preso
sul
serio
il
rapporto
“di
carattere”
tra
le
vicende
liete
o
dolorose
della
vita
cosiddetta
reale
e
le
opere
d’arte.
Tuttavia,
la
tristezza
e
il
turbamento
dell’animo
che
investono
questa
musica
dalla
prima
all’ultima
battuta
dovrebbero
valere
come
indizi
di
una
circostanza
ambientale:
la
Polacca
in
Do
minore
sarebbe
stata
ideata
durante
lo
sciagurato
soggiorno
di
Chopin,
di
Georges
Sand
(al
cui
spietato
corteggiamento
il
musicista
aveva
ceduto
di
mala
voglia)
e
dei
due
figli
della
scrittrice,
Solange
e
Maurice,
nella
Certosa
di
Valldemosa
nell’isola
di
Maiorca,
durato
dall’8
novembre
1838
al
febbraio
1839.
I
24
Preludi
op
28,
fra
le
composizioni
più
famose
ed
eseguite
di
Chopin,
furono
dedicati
a
Camille
Pleyel
che
ne
fu
anche
il
fortunato
editore.
Lunedì
26
aprile
1841,
Chopin
presentò
in
concerto
i
Preludi
al
pubblico
parigino
(non
sappiamo
se
abbia
eseguito
l’intera
raccolta).
Da
allora,
il
successo
commerciale
dei
Preludi
fu
travolgente.
Di
conseguenza,
due
editori,
il
franco‐tedesco
Moritz
Schlesinger
e
l’italo‐
viennese
Pietro
Mechetti,
chiesero
a
Chopin
un
altro
Preludio
da
inserire,
rispettivamente,
in
un
album
intitolato
Keepsake
des
pianistes
(Schlesinger)
e
in
un
quaderno
di
pezzi
vari
in
onore
di
Beethoven
(Beethoven‐Album,
Mechetti)
il
cui
ricavato
sarebbe
stato
devoluto
a
un
comitato
intenzionato
ad
erigere
un
monumento
a
Beethoven
nella
città
di
Bonn.
Chopin
accettò,
e
nacque
così
il
Preludio
in
Do
diesis
minore
op.
45
(1841),
che
è
una
beve
invenzione
melodica
di
natura
accordale:
una
melodia
di
accordi.
Le
quattro
Ballate
di
Chopin
nascono
con
quasi
assoluta
certezza
da
un’ispirazione
poetica
e
precisamente
da
altrettante
Ballate
di
Adam
Mickiewicz
(1798‐1855),
poeta
nazionale
della
Polonia
romantica.
Secondo
un’interpretazione
corrente
la
Ballata
n.
1
in
Sol
minore
op.23
(1835?)
si
ispira
alla
leggenda
di
Conrad
Wallenrod,
il
quale
a
sua
volta
narra
la
vicenda
del
re
moro
Almansor
che
contagia
con
i
germi
della
peste
i
cristiani
riconquistatori
della
Spagna.
La
Ballata
n.
2
in
Fa
maggiore
/
La
minore
p.
38
(1836‐1839)
alluderebbe
a
una
leggenda
storica:
il
lago
di
Switec
che
spezza
la
propria
superficie
ghiacciata
e
inghiotte
le
orde
degli
invasori
russi.
La
Ballata
n.
3
in
La
bemolle
maggiore
op.
47
(1840‐
1841)
è
di
solito
riferita
al
mito
di
Undine,
che
Mickiewicz
rielaborò
rispetto
alla
celebre
fiaba
“d’autore”
scritta
nel
1811
dal
barone
Friedrich
de
la
Motte‐Fouqué,
ed
è
ancora
ambientata
sulle
sponde
del
lago
di
Switec.
Infine,
la
Ballata
n.
4
in
Fa
minore
op.
52
(1842)
si
riferisce,
pare
alla
leggenda
polacca
dei
tre
Budrys.
Un
padre
in
Lituania
invia
i
suoi
tre
figli
alla
guerra
e
alla
conquista,
ma
in
luoghi
diversi.
Al
primo
figlio
indica
come
meta
la
Russia,
terra
ricca
d’oro.
Al
secondo,
la
Germania,
terra
ricca
d’ambra.
Al
terzo
la
Polonia
terra
di
donne
famose
per
la
loro
bellezza.
Dopo
una
lunga
assenza
i
tre
figli
ritornano
a
casa
contemporaneamente
e
ciascuno
di
essi
ha
con
sé
la
migliore
delle
spose:
una
sposa
polacca.
L’op.
52
è
uno
dei
sommi
capolavori
di
Chopin:
dalla
lunga
e
soavissima
catena
di
Sol
ribattuti,
alla
malinconica
cantilena
in
cui
essi
si
“sciolgono”,
fino
al
passionale,
inebriato
ed
estatico
finale
in
cui
sembra
che
non
abbia
mai
fine
il
moto
ascendente
dell’eros,
questa
composizione
è
un
o
dei
vertici
della
letteratura
pianistica
di
tutti
i
tempi.
La
Fantasia
in
Fa
minore
op.
49
(1840‐1841)
è
un’opera
affine
alle
quattro
Ballate
per
complessità
di
struttura
e
passionalità
di
linguaggio.
Meno
percorsa
da
deliri
e
da
inebriamenti
è
più
variata
dalla
presenza
di
innumerevoli
temi
e
motivi
secondari
che
talvolta
balenano
fuggevolmente
e
scompaiono.
È
difficile
dimenticare
il
misterioso
e
nobile
ritmo
di
marcia
che
la
apre
e
che
mai
più
riappare,
il
primo
inquieto
e
drammaticissimo
tema,
il
secondo
tema
sfolgorante
di
luce,
il
breve
e
magico
corale
che
precede
la
ripresa.
La
poetica
di
Chopin
è
una
poetica
meravigliosamente
negativa,
poiché
nera
e
tenebrosa
è
la
sua
concezione
del
mondo.
Ma
se,
come
nessuno
può
negare,
il
messaggio
immutabile
di
questo
compositore
è
il
male
di
vivere,
un
messaggio
leopardiano
e
lucreziano,
schopenhaueriano
e
nietzschiano,
non
è
meno
indubbio
che,
potendo
scegliere
al
principio
della
propria
vita
gli
spiriti
forti
e
superiori
sceglierebbero
quella
condizione
amara
e
spinosa,
considerando
gli
incantamenti
e
le
meraviglie
in
cui
il
male
di
vivere
può
trasformarsi
grazie
alla
musica,
grazie
ad
artefici
come
Chopin.