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L’Incanto
del
male
di
vivere.


Di
Quirino
Principe.




Inaugurare
un
ciclo
di
attività
musicali
nel
nome
di

Fryderyk
Franciszek
Chopin


(Żelazowa
 Wola
 
 presso
 Varsavia,
 giovedì
 1°
 marzo
 1810
 −
 
 Parigi,
 mercoledì
 17

ottobre
1849)

assume
quest’anno,
come
chiunque
sa,
una
doppia
funzione.
Onora

la
 memoria
 di
 un
 grandissimo
 artista,
 tanto
 originale
 e
 indipendente
 dalla
 storia

degli
stili
da
lasciare
incerto
chiunque
voglia
capire
da
dove
sia
nata
la
sua
arte,
e

tanto
 generoso
 verso
 i
 posteri
 (oggettivamente
 generoso,
 malgrado
 la
 sua
 celebre

ritrosia
 d’indole
 personale)
 da
 rendere
 felici
 nel
 senso
 più
 nobile
 della
 parola

ascoltatori
e
interpreti
pianistici
di
molte
generazioni.
In
secondo
luogo,
la
scelta
di

cominciare
con
il
suo
nome
ha
un
significato
di
viva
attualità,
forse
nascosto
ma
non

difficile
a
rivelarsi.
La
musica
“forte”
(come
io
la
chiamo
da
molti
anni,
sostituendo

l’errato
e
dannoso
termine
“musica
classica”)

sta
attraversando
una
fase
storica
ad

essa
ostile,
e
ogni
musicista
ha
il
dovere
di
combattere
con
energia
inflessibile,
sino

all’ultimo
sangue,
per
ritorcere
le
ostilità
contro
i
nemici
dichiarati
e
contro
quelli

ipocritamente
 dissimulati,
 assumendo
 come
 obiettivo
 minimo,
 con
 ogni
 mezzo

possibile
e
senza
limiti
di
controffensiva,
la
loro
distruzione.

Ma
combattere
il
male

e
l’errore
è
soltanto
una
metà
del
nostro
dovere.
L’altra
parte
del
difficile
compito
è

promuovere,
 ovunque
 essa
 cominci
 a
 rivelarsi,
 la
 qualità
 creativa,
 
 l’originalità,

l’innovazione
che
però
si
accompagni,
nelle
personalità
di
nuovi
artisti,
a
grandezza


individuale,
 a
 libertà
 di
 carattere
 a
 indipendenza
 dalle
 cosiddette
 “forze
 storiche”,

poiché

soltanto
nelle
qualità
dell’
individuo
possono
esistere
forza
e
grandezza,
e

senza
 grandezza
 e
 forza
 non
 può
 esistere
 salvezza
 per
 la
 nostra
 civiltà
 e
 per

l’Occidente.
La
figura
di
Chopin
è
il
migliore
simbolo
di
una
travolgente
grandezza

creativa
che
deve
tutto
o
quasi
tutto
a
sé,
alla
propria
personalità,
e
la
sua
musica
è

il
migliore
auspicio
possibile.




Il
concerto
di
Mikhail
Voskresenskij
ce
ne
offre
un
panorama
di
rara
qualità,
che

percorre,
con
un
impegno
di
responsabilità
culturale

e
artistica
rivendicabile
oggi

da
 pochi
 pianisti,
 
 l’intero
 arco
 del
 lascito
 chopiniano
 e
 tutta
 l’articolazione
 dei

generi
e
delle
forme
musicali
cui
il
compositore
si
dedicò.
Devo
precisare:
dicendo

“tutta
l’articolazione
dei
generi
e
delle
forme”,
intendo
la
“totalità”
in
un
significato

strategico
 e
 non
 tattico:
 parlo
 cioè
 di
 fronti
 d’azione
 e
 non
 di
 combattimenti
 sul

terreno.
 Esco
 subito
 dalla
 metafora
 militare
 (che
 tuttavia
 a
 un
 combattente

quantunque
 solitario
 come
 Chopin
 non
 disdice…),
 e
 mi
 spiego
 con
 linguaggio
 non

traslato.
Il
concerto
di
Mikhail
Voskresenskij
mostra
con
la
massima
evidenza,
e
con

dovizia
 di
 aspetti
 diversi
 dell’arte
 chopiniana,
 
 il
 grado
 e
 l’intensità

dell’articolazione,
 e
 la
 prevalenza
 nell’opera
 creativa
 di
 Chopin
 delle
 “non‐forme”,

delle
 piccole
 forme,
 delle
 forme
 nuove
 rispetto
 alla
 tradizione,
 delle
 forme
 di

origine
 poetica
 e
 non
 di
 quelle
 canoniche,
 delle
 forme
 d’ascendenza
 culturale

romantica
 rispetto
 a
 quelle
 legate
 alla
 classicità
 viennese
 (al
 pianismo
 di
 Haydn,

Mozart,
 Beethoven,
 Schubert)
 
 o
 ai
 più
 antichi
 modelli
 scarlattiani
 o
 bachiani.
 Di

conseguenza,
e
proprio
nella
scelta
delle
piccole
forme
e
delle
“non‐forme”,
i
fratelli

(no,
non
voglio
eccedere:
diciamo
i
“cugini”,
i
“consanguinei”)
in
ispirito
di
Chopin

compositore
sono
Mendelssohn
e
Schumann
soprattutto
il
secondo.
Quindi,
invito
a

una
 riflessione.
 Sì,
 è
 vero:
 Voskresenskij
 
 ci
 offre
 esempi‐campioni
 a
 illustrazione

della
 poetica
 espressa
 da
 Chopin
 nei
 Notturni,
 nei
 Valzer,
 nelle
 Mazurke,
 nelle

Polacche,
 nei
 Preludi,
 nelle
 Ballate,
 culminando
 con
 il
 genere
 tipicamente
 “non‐
formale”
della
Fantasia
del
quale
il
compositore
ci
diede
un
esempio

unico
con
l’op.

49
 (l’Improvviso‐Fantasia
 op.66
 e
 la
 Polacca‐Fantasia
 op.
 61
 sono
 a
 loro
 volta

esempi
 di
 altre
 varianti
 della
 “non‐forma”
 e
 anch’essi
 in
 quanto
 tali
 sono
 esempi

unici).
 Ma
 d’altra
 parte,
 il
 pianista
 non
 include
 nell’odierno
 concerto
 esempi
 di

forme
 in
 varia
 misura
 consacrate
 dalla
 tradizione
 formale
 come
 gli
 Improvvisi,
 gli

Scherzi,
le
Sonate,
gli
Studi.
Ebbene,
da
ciò
che
si
è
detto
poco
fa
è
facile
intendere

come
tale
scelta
sia

perfettamente
in
linea
con

gli
aspetti
dell’arte
di
Chopin
che

Voskresenskij
vuole
illustrarci
e
sottolineare.
Certo,
l’assenza
della
Berceuse
op.
57

e
della
Barcarola
op.
60
sembra
smentire

la
logica
di
queste
mie
considerazioni,

e

tuttavia,
 a
 parte
 l’ovvia
 circostanza
 di
 un’estensione
 già
 molto
 accentuata
 del

presente
 programma
 di
 concerto,
 quei
 due
 esempi
 di
 meditazione
 suprema,
 nati

dall’arte
 di
 
 un
 compositore
 al
 limitare
 della
 morte,
 sono
 tanto
 sublimi
 
 e
 tanto

svincolati
 da
 qualsiasi
 residuo
 anche
 nobile
 di
 convenzioni
 formali,
 da
 non
 essere


più
 “tipici”
 neppure
 
 del
 più
 romantico
 aspetto
 del
 compositore.
 Sono
 esempi

irripetibili
di
quella

“musica
assoluta”
che
Carl
Dahlhaus,
alla
fine
del
secolo
XX,

ha

tentato
di
teorizzare.








Il
 
 punto
 di
 partenza
 del
 percorso
 
 in
 cui
 ci
 guida
 Mikhail
 Voskresenskij
 sono
 
 i

Notturni.
La
parola
stessa
è
la
prima
che
corre
alla
mente
dell’ascoltatore
con
media

preparazione,
non
appena
si
nomini
Chopin;
qualcosa
di
simile
accade
per
la
parola

“sinfonia”
 riferita
 a
 Beethoven.
 In
 realtà,
 i
 Notturni
 sono
 esiti
 d’ispirazione

contemplativa,
almeno
in
origine,
e
furono

assai
cari
a
Chopin
sin
dall’adolescenza:

un
 
 Notturno
 in
 Do
 minore
 senza
 numero
 d’opera
 sarebbe
 databile,
 secondo
 un

musicologo
 autorevole
 come
 Ludwik
 Bronarski
 al
 1827,
 quando
 Chopin
 aveva
 17

anni.
 Il
 giovanissimo
 autore
 
 guardò
 all’esempio
 dell’irlandese
 John
 Field
 (1782‐
1837),

inventore
forse
non
primissimo
di
questo
genere
suggestivo
e
sentimentale,

ma

trasformò
le
suggestioni
e
i
sentimenti
in
emozioni
e
in
idee
disegnate
secondo

forme
simboliche,
con
un‘alternanza
di
pieni
e
di
vuoti
(la
struttura
tripartita
con
le

due
sezioni
estreme
lente
e
sognanti
nell’abbandono
e
la
sezione
centrale
inquieta
e

passionale)
 di
 volumi
 del
 suono
 e
 di
 colori.
 Il
Notturno
 op.
 27
 n.
 1
 (1834
 o
 1835)

comincia
già
con
un’altissima
invenzione:
l’ascesa
cromatica
di
un
semitono
dal
Mi

naturale
al
Mi
diesis,
che
per
una
frazione
di
secondo
trasforma
la
tonalità
minore

in
tonalità
maggiore.
La
melodia
è
onirica,
fantasmatica:
ma
nella
sezione
centrale
il

crescere
della
tensione
espressiva
evoca
un
nuovo
tema
in
ottave
sul
flusso
ostinato

in
 terzine
 del
 basso,
 giungendo
 
 al
 vertice
 dell’intensità
 con
 un
 blocco
 di
 accordi,

prima
 della
 umbratile
 ripresa.
 Un
 dettaglio
 che
 riguarda
 il
 kitsch
 ottocentesco:

Alfred
Cortot,
nel
suo
libro

Aspects
de
Chopin
(1949),
narra
che
una
volta
a
Parigi

qualcuno
 tentò
 di
 usare
 questo
 Notturno
 
 in
 funzione
 “liturgica”,
 cantando
 la

melodia
iniziale
sulle
parole
«O
salutaris
hostia»

(non
c’è
commento!).
Il
Notturno

op.
48
n.
1
(1841)
nacque
all’inizio
della
terza
e
ultima
fase
dell’attività
creativa
di

Chopin,
 ed
 è
 
 una
 drammatica
 e
 chiaroscurale
 marcia
 funebre,
 dagli
 accenti
 ora


dolenti
ora
sinistri.




I
 Valzer
 di
 Chopin
 hanno
 
 una
 vicenda
 
 simile
 a
 quelle
 dei
 Notturni:
 
 la
 danza
 di

origine
 popolare,
 poi
 divenuta
 mondana
 e
 assunta
 alla
 Corte
 di
 Vienna
 e
 in
 altre

corti
 e
 dimore
 nobiliari,
 ma
 sempre
 intesa
 come
 allegra
 oppure
 frivola
 e

sentimentale
occasione
di
svago
e
di
corteggiamento,
diventa
nella
mani
di
Chopin

un’aristocratico
sogno,
un
soffio
di
nostalgia,
e
talvolta
un’ombra
spettrale
e
ancora

aristocratica
ma
sotto
luce
funerea
o
quanto
meno
malinconica.
Eppure,
proprio
nei

valzer
 s’insinua
 un
 virtuosismo
 brillante
 che
 altrove
 è
 escluso
 dalla
 scrittura

pianistica
 del
 compositore
 (le
 spaventose
 difficoltà
 che
 a
 volte
 s’incontrano
 negli

Studi
o
negli
Scherzi
non
sono
virtuosismo:
sono
sfida
al
destino
e
all’impossibile).

Questa
 è
 l’ambivalenza
 dei
 Valzer
 chopiniani.
 Con
 felice
 decisione,
 
 Voskresenskij


ha
scelto

la
memorabile
terna
dell’ultimo
periodo
chopiniano,
l’op.
64.
Il
n.
1
in
Re

bemolle
maggiore
è
celebre
per
il
suo
motivo

ascendente‐discendente
che
si
ripete

dando
 l’impressione
 di
 un
 moto
 circolare
 e
 rotante,
 ma
 con
 l’incipit
 sfalsato
 di

battuta
in

battuta
sì

da
produrre
un
senso
di
vertigine.

Il
n.
2
in
Do
diesis
minore

ha
 un
 carattere
 cupo
 e
 spettrale
 reso
 più
 inquietante
 dai
 bicordi
 di
 seconda

maggiore
 (Fa
 diesis
 +
 Sol
 diesis)
 da
 cui
 balza
 fuori
 la
 seconda
 semifrase
 del
 tema

iniziale:
 è
 il
 “malinconico
 sinistro
 valzer”
 cui
 allude
 Albert
 Guiraud
 nella
 poesia


Valse
 de
 Chopin
 che
 fa
 parte
 del
 ciclo
 Pierrot
 lunaire,,
 messo
 in
 musica
 da
 Arnold

Schönberg.
 
 Il
 n.
 3
 in
 La
 bemolle
 maggiore
 parte
 da
 una
 figurazione
 melodico‐
ritmica
 elegantissima,
 apparentemente
 “naïve”,
 e
 poi
 si
 riveste
 di
 sfumature
 
 in

rapide
sequenze
cromatiche
di
semitoni,
quasi
polvere
d’ali
di
farfalla.
Nella
sezione

centrale,
 il
 n.
 3
 
 perde
 quasi
 del
 tutto
 i
 connotati
 di
 un
 valzer
 vero
 e
 proprio,
 e
 si

trasforma
 in
 un
 
 ampio
 e
 grave
 tema
 dal
 carattere
 solenne
 e
 mesto.
 I
 tre
 valzer,

composti
nel
biennio
1846‐1847,
sono
dedicati
a
tre
belle
e
nobili
dame:
il
n.
1
«à

Madame
 la
 comtesse
 Delphine
 Potocka»,
 
 l’amica
 polacca
 di
 Chopin
 cui
 egli
 aveva

dedicato
anche
il
Concerto
n.
2
per
pianoforte
e
ochestra
op.
21;


il
n.
2

«à
Madame

la
baronne
Nathaniel
de
Rothschild»
ossia
a
Charlotte
de
Rotschild
cui
egli

dedicò

anche
uno
dei
suoi
massimi
capolavori,
la
Ballata
n.
4
op.
52;
il
n.
3
«à
Mademoiselle

la
comtesse

Catherine
Branicka».




Le
 Mazurke
 di
 Chopin,
 che
 Robert
 Schumann
 in
 una
 sua
 recensione
 sulla
 «Neue

Zeitschrift
für
Musik»

definì
“cannoni
sepolti
sotto
i
fiori”
per
indicarne
lo
spirito

d’indipendenza
nazionale
che
si
cela
sotto
la
grazia
danzante,
sono
nel
loro
insieme


le
 composizioni
 in
 cui
 l’autore
 è
 più
 vicino
 alle
 fonti
 e
 alle
 radici
 del
 folclore

musicale
slavo.
Queste
invenzioni
melodiche
in
ritmo
ternario,
plastiche
e
incisive,

memorabili
 e
 infatti
 rapidamente
 scolpite
 nella
 nostra
 memoria,
 
 s’ispirano
 in

particolare
 a
 un
 tipo
 di
 danza
 nato
 nella
 Mazovia
 (Mazowsze),
 la
 regione
 di

Varsavia,
 la
 cui
 denominazione
 in
 forma
 originaria
 è
 “mazur”.
 
 Esistono
 varianti

locali
che
si
distinguono
dalla
mazur
propriamente
detta.

L’oberek

è
più
rapido
e

formalmente
semplice:
nelle
misure
pari
fra
quelle
occupate
dal
tema

(la
seconda

misura,
 la
 quarta,
 ecc.),
 
 il
 terzo
 e
 ultimo
 tempo
 di
 cascuna
 battuta
 è
 molto

accentuato
 ritmicamente.
 Invece
 il
 kujawiak,
 
 originario
 della
 Cuiavia
 
 (Kujawy),

comincia
di
norma
con
una
sezione
in
tempo

lento,
cui
segue
una
parte
centrale
in

tempo
veloce
e
una
ripresa
della
prima
sezione,
con
un
accelerando
nel
finale.





Anche
qui,
Voskresenskij
ha
scelto
un
intero
blocco:
tutte
le
4
Mazurke
del’op.
24

(1834‐1835).
 
 La
 n.
 1
 in
 Sol
 minore
 ha
 una
 melodia
 iniziale
 costruita
 sulla
 scala

tzigana.
La
n.
2
in
Do
maggiore
è
un
oberek
con
il
basso
dal
ritmo
uniforme,
sempre

legato.
La
n.
3
in
La
bemolle
maggiore

ha
un
tema
unico:
tra
la
prima
e
la
seconda

esposizione
 di
 questo
 tema,
 
 si
 inserisce
 un
 breve
 episodio
 
 costituito
 da
 una

frammentazione
 di
 incisi
 e
 di
 brevissimi
 motivi,
 mentre
 un
 polverìo
 di
 
 sedcesimi

funge
da
coda
conclusiva.
La
n.
4
in
Si
bemolle
minore
è
molto
più
complessa
delle

altre
come
struttura.
Nella
sezione
centrale
ci
sono
passi
in
cui
la
scrittura
realizza

l’unisono,
destinatoi
a
dare
l’illusione
di
un
“coro
misto”
come
diceva
Chopin
a
suoi

allievi.
 Come
 narra
 uno
 fra
 essi,
 Wilhelm
 von
 Lenz,
 «nessuno
 riusciva
 ad

accontentarlo
in
questi
unisoni
che
devono
essere
eseguiti
con
un
tocco
il
più
lieve

possibile.
[…]
Non
si
riusciva
a
suonarglieli
mai

con
sufficiente
delicatezza.
[…]
Si

aveva
 a
 malapena
 il
 diritto
 di
 sfiorare
 la
 tastiera.
 Guai
 se
 qualcuno
 si
 azzardava
 a

toccarla
!».




Nella
seconda
parte
del
programma,

le
Mazurke
ricompaiono
con
due
esemplari


molto
più
tardi,
tratti
dall’op.
63
(1846):

la
n.
2
in
Fa
minore
e
la
n.
3
in
Do
diesis

minore.
La
n.
2
è
lenta,
brevissima,
intimistica.

La
n.
3
fu
molto
amata
da
pianisti

come
 Ignacy
 Paderewski
 e
 Alfred
 Cortot,
 e
 in
 alcuni
 suoi
 passi
 ha
 carattere
 di

Notturno
più
che
di
Mazurka.




La
polacca
è
una
danza

nazionale
come
la

mazur,
ma
sotto
l’aspetto
strutturale
è

all’estremo
 opposto.
 Se
 le
 Mazurke
 
 chopiniane
 tendenzialmente
 richiamano
 un

ideale
 di
 semplicità
 e
 di
 emozione
 fresca
 e
 immediata,
 le
 
 Polacche
 
 nate
 dalla

creatività
elaboratrice
di
Chopin

tendono
alla
ricca

complessità
sin
dal
connotato

che
in
gran
parte
le
accomuna
proprio
nelle
battute
di
avvio:
un
motivo
squillante,

“pesante”,
in
ritmo
puntato

(ossia
in
notazione
con
il
punto

che
accresce
il
valore

della
 nota
 precedente
 diminuendo
 della
 stessa
 porzione
 il
 valore
 della
 nota

successiva,
 ciò
 che
 rende
 un’idea
 di
 scattante
 energia),
 con
 il
 suono
 più
 acuto
 che

viene
ribattuto,
magaroi
con
un
gioco
sottostante
di
alternanza
armonica,

e,
subito

dopo,
un
ritmo
sempre
puntato
ma
“volante”,
di
solito
lungo
una
scala
ascendente.


La
 Polacca
 in
 Fa
 diesis
 minore
 op.
 44
 (1840‐1841),
 che
 ascoltiamo
 nella
 prima

parte
del
concerto,
è
un’opera
“scura”,
e
la
tenebrosa
tonalità
(quella
del
patto
con
il

Diavolo
 nel
 finale
 del
 II
 atto
 del
 Freischütz
 di
 Carl
 Maria
 von
 Weber)
 favorisce

questa
 sensazione
 in
 chi
 ascolta.
 La
 cupa
 introduzione
 scrisse
 Franz
 Liszt,
 «ha

un’aria
 sinistra
 come
 l’ora
 che
 precede
 l’uragano».
 Questa
 Polacca
 
 si
 articola
 in

quattro
sezioni
e
non
in
tre
come
di
consueto.
Ed
ecco,
nella
terza
sezione
(Trio)

e

proprio
 al
 centro
 di
 un
 passo
 di
 particolare
 irruenza,
 
 l’autore
 inserisce
 un

imprevisto
ritmo
di
mazurka.
Ha
scritto
Piero
Rattalino:
«L’idea
di
fondere
polacca

e
mazurka,
come
idea
astratta,
richiedeva
solo
immaginazione;
la
fusione
effettiva

richiedeva
 facoltà
 creatrici
 al
 loro
 massimo
 grado
 di
 maturità:
 è
 un
 po’
 lo
 stesso

problema,
affrontato
da
Beethoven
nella
Sonata
op,
110,

della
fusione
di
Arioso
e

Fuga».
Questa
Polacca
è
dedicata
«à
Madame
la
princesse
Charles
de
Beauvau,
née

de
Komar»,
ossia
ala
sorella
di
Delfina
Potocka.




Nella
seconda
parte
del
concerto
ascoltiamo
la
Polacca

in
Do
minore
op.
40
n.
2

(1838‐1839).
 
 Non
 ho
 mai
 preso
 sul
 serio
 il
 rapporto
 “di
 carattere”
 tra
 le
 vicende

liete
o
dolorose
della
vita
cosiddetta
reale

e
le
opere
d’arte.

Tuttavia,
la
tristezza
e

il
 
 turbamento
 dell’animo
 che
 investono
 questa
 musica
 dalla
 prima
 all’ultima

battuta
dovrebbero
valere
come
indizi
di
una
circostanza
ambientale:

la
Polacca

in

Do
 minore
 sarebbe
 stata
 ideata
 
 durante
 lo
 sciagurato
 soggiorno
 di
 Chopin,
 di

Georges
 Sand
 
 (al
 cui
 spietato
 corteggiamento
 il
 musicista
 aveva
 ceduto
 di
 mala

voglia)
 e
 dei
 due
 figli
 della
 scrittrice,
 Solange
 e
 Maurice,
 
 nella
 Certosa
 di

Valldemosa
nell’isola
di
Maiorca,
durato
dall’8
novembre

1838

al

febbraio
1839.




I
24
Preludi
op
28,

fra
le
composizioni
più
famose
ed
eseguite
di
Chopin,
furono

dedicati
a
Camille
Pleyel
che
ne
fu
anche
il
fortunato
editore.
Lunedì
26
aprile
1841,

Chopin
presentò
in
concerto
i
Preludi

al
pubblico
parigino
(non
sappiamo
se
abbia

eseguito
 l’intera
 raccolta).
 Da
 allora,
 il
 successo
 commerciale
 dei
 Preludi
 fu

travolgente.
 Di
 conseguenza,
 due
 editori,
 il
 franco‐tedesco
 Moritz
 Schlesinger
 e


l’italo‐
 viennese
 Pietro
 Mechetti,
 chiesero
 a
 Chopin
 un
 altro
 Preludio
 da
 inserire,

rispettivamente,
in
un
album
intitolato
Keepsake
des
pianistes
(Schlesinger)

e
in

un

quaderno
 di
 pezzi
 
 vari
 in
 onore
 di
 Beethoven
 (Beethoven‐Album,
 Mechetti)
 il
 cui

ricavato
 
 sarebbe
 stato
 devoluto
 a
 un
 comitato
 intenzionato
 ad
 erigere
 un

monumento
a
Beethoven
nella
città
di
Bonn.

Chopin
accettò,
e
nacque
così
il

Preludio
in
Do
diesis
minore
op.
45
(1841),
che
è

una
beve
invenzione
melodica
di
natura
accordale:
una
melodia
di
accordi.





Le
 quattro
 
 Ballate
 
 di
 Chopin
 nascono
 con
 quasi
 assoluta
 certezza
 da

un’ispirazione
 
 poetica
 e
 precisamente
 da
 altrettante
 Ballate
 
 di
 Adam
 Mickiewicz

(1798‐1855),
poeta
nazionale
della
Polonia
romantica.

Secondo
un’interpretazione

corrente
 la
 Ballata
 n.
 1
 in
 Sol
 minore
 
 op.23
 (1835?)
 si
 ispira
 alla
 leggenda
 di

Conrad
Wallenrod,
il
quale
a
sua
volta
narra
la
vicenda
del
re
moro
Almansor
che

contagia
con
i
germi
della
peste
i
cristiani
riconquistatori
della
Spagna.
La
Ballata


n.
 2
 in
 Fa
 maggiore
 /
 La
 minore
 p.
 38
 (1836‐1839)
 
 alluderebbe
 a
 una
 leggenda

storica:
il
lago
di
Switec
che
spezza
la
propria
superficie
ghiacciata


e
inghiotte
le

orde
 degli
 invasori
 russi.
 La
 Ballata
 n.
 3
 
 in
 
 La
 bemolle
 maggiore
 op.
 47
 (1840‐
1841)
 è
 di
 solito
 riferita
 al
 mito
 di
 Undine,
 che
 Mickiewicz
 rielaborò
 rispetto
 alla

celebre
fiaba
“d’autore”
scritta
nel
1811
dal
barone

Friedrich
de
la
Motte‐Fouqué,

ed
è
ancora
ambientata
sulle
sponde
del
lago
di
Switec.
Infine,
la
Ballata
n.
4
in
Fa

minore
 op.
 52
 (1842)
 
 si
 riferisce,
 pare
 alla
 leggenda
 polacca
 dei
 tre
 Budrys.
 Un

padre
 in
 
 Lituania
 invia
 i
 suoi
 tre
 figli
 alla
 guerra
 e
 alla
 conquista,
 ma
 in
 luoghi

diversi.
Al
primo
figlio
indica
come
meta
la
Russia,
terra
ricca
d’oro.
Al
secondo,
la

Germania,
terra
ricca
d’ambra.

Al
terzo
la
Polonia
terra
di
donne
famose
per
la
loro

bellezza.

Dopo
una
lunga
assenza
i
tre
figli
ritornano
a
casa
contemporaneamente
e

ciascuno
di
essi
ha
con
sé
la
migliore
delle
spose:
una
sposa
polacca.
L’op.
52
è
uno

dei
sommi
capolavori
di
Chopin:
dalla
lunga
e
soavissima
catena
di
Sol
ribattuti,
alla

malinconica
 cantilena
 in
 cui
 essi
 si
 “sciolgono”,
 fino
 al
 passionale,
 inebriato
 
 ed

estatico
finale
in
cui

sembra
che
non
abbia
mai
fine
il
moto
ascendente

dell’eros,

questa
composizione
è
un
o
dei
vertici
della
letteratura
pianistica
di
tutti
i
tempi.






La
 Fantasia
 in
 Fa
 minore
 op.
 49
 (1840‐1841)
 è
 un’opera
 affine
 alle
 quattro

Ballate
per
complessità
di
struttura
e
passionalità
di
linguaggio.
Meno
percorsa
da

deliri
e
da
inebriamenti
è
più
variata

dalla
presenza
di
innumerevoli
temi
e
motivi

secondari
 che
 talvolta
 balenano
 fuggevolmente
 e
 scompaiono.
 È
 difficile

dimenticare
 il
 misterioso
 e
 nobile
 ritmo
 di
 marcia
 che
 la
 apre
 e
 che
 mai
 più

riappare,
il
primo
inquieto
e
drammaticissimo

tema,
il
secondo
tema
sfolgorante
di

luce,
 
 il
 breve
 e
 magico
 corale
 che
 precede
 la
 ripresa.
 
 La
 poetica
 di
 Chopin
 è
 una

poetica
 meravigliosamente
 negativa,
 poiché
 nera
 e
 tenebrosa
 è
 la
 sua
 concezione

del
 mondo.
 Ma
 se,
 come
 nessuno
 può
 negare,
 il
 messaggio
 immutabile
 di
 questo

compositore
 è
 il
 male
 di
 vivere,
 un
 
 messaggio
 leopardiano
 e
 lucreziano,

schopenhaueriano
e
nietzschiano,

non
è
meno
indubbio

che,
potendo
scegliere

al

principio
 della
 propria
 vita
 gli
 spiriti
 forti
 e
 superiori
 sceglierebbero
 quella

condizione
amara
e
spinosa,

considerando
gli
incantamenti
e
le
meraviglie

in
cui
il

male
di
vivere
può
trasformarsi
grazie
alla
musica,
grazie
ad
artefici
come
Chopin.


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