Sei sulla pagina 1di 8

MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n.

142 (1987)
Contro "Il nome della rosa"
1. La trama
Negli ultimi mesi ha avuto larghissima circolazione in tutto il mondo il film di Jean-Jacques
Annaud Il nome della rosa, realizzato - come recitano i titoli di testa - "sul palinsesto del
romanzo di Umberto Eco", che a sua volta - con oltre cinque milioni di copie diffuse in
venticinque lingue - viene celebrato come il libro di autore italiano più venduto di tutti tempi
(1).
Sarebbero sufficienti le dimensioni del fenomeno a rendere opportuno un suo esame critico,
a cui mi sembra utile premettere - per chi già non la conoscesse - un breve accenno alla
trama.
Nel novembre 1327 si incontrano, presso una imprecisata ma ricca abbazia benedettina
dell'Italia Settentrionale, per una disputa sulla povertà di Cristo e della Chiesa, una
delegazione francescana - di cui fa parte il protagonista, Guglielmo da Baskerville, che è
accompagnato dal giovane novizio Adso da Melk - e una legazione pontificia guidata
dall'inquisitore domenicano Bernardo Gui. Nell'abbazia sono rifugiati due ex eretici della
setta estremista dei dolciniani, che conducono vita sregolata e di notte fanno entrare nel
convento una ragazza del vicino villaggio, che finirà per sedurre il giovane Adso. La vita
dell'abbazia è sconvolta da una serie di oscuri delitti su cui indagano, con metodi diversi,
Guglielmo da Baskerville e Bernardo Gui. L'inquisitore identifica i responsabili nella ragazza,
che scambia per una strega, e nei due ex dolciniani. Nel romanzo questi presunti colpevoli
vengono condotti da Bernardo Gui verso Avignone, e di loro non si sa più nulla; il film mette
invece in scena - presso l'abbazia stessa - la loro condanna e immediata esecuzione sul
rogo, seguita da un'improbabile rivolta di contadini - in cui l'inquisitore trova la morte -, che
riesce a salvare almeno la ragazza. Nel frattempo Guglielmo da Baskerville - in una notte di
tregenda, in cui l'abbazia è distrutta da un incendio - scopre il vero assassino: è il vecchio
monaco cieco Jorge, che ha ucciso per impedire che venisse alla luce il perduto libro
secondo della Poetica di Aristotele, un'opera pericolosa per la Chiesa perché vi si esalta
l'umorismo che "uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. Senza la paura
del demonio non c'è più la necessità del timore di Dio" (2).
2. Il "film": un Medioevo di cartapesta
Il film, molto meno complesso del libro, si concentra su due temi noti alla propaganda
anticattolica di tutti i tempi: la corruzione dei monaci e gli orrori dell'Inquisizione. Stanca
ripetizione di temi noti: contro monaci e inquisitori avevano tuonato la propaganda
protestante e i libelli illuministi; contro inquisitori e monaci si scagliava la letteratura
popolare ottocentesca di ispirazione massonica. I benedettini vengono dipinti con una
galleria di volti deformati, sadici e volgari; i vizi più inconfessabili si danno convegno
nell'abbazia mentre i pezzenti del villaggio si scannano per accaparrarsi gli avanzi gettati via
dal monastero. Un quadro grottesco, non compatibile neppure con l'incipiente decadenza del
monachesimo nel secolo XIV, e che si prende qualche libertà anche con il romanzo dove - se
la ragazza rappresenta un caso isolato di miseria - il cantiniere Remigio ha cura di precisare
che il villaggio non è povero - "una famiglia normale laggiù possiede anche cinquanta tavole
di terreno" - e liberalmente beneficiato dall'abbazia (3). Ma il danno agli spettatori più
semplici è fatto: chi, uscito dalla proiezione de Il nome della rosa, ricorderà più che proprio i
benedettini hanno fatto la nostra Europa, trasmettendo tesori di cultura - ma anche di
conoscenze tecniche e agricole - e costruendo nei secoli punti di riferimento per i poveri e
per i sapienti?
Sul tema dell'Inquisizione - che dilata in modo abnorme rispetto al romanzo - il film riapre
vecchi armadi polverosi, pieni di arnesi dimenticati da qualche decennio: catene, ferri
roventi, segrete, cortei notturni con torce ardenti. Ne nasce un quadro in cui nulla è vero.
Bernardo Gui inquisitore ignorante e feroce: menzogna. Procuratore generale del suo ordine
"per la sua vasta produzione, specialmente storica, la ricca e minuta informazione e lo
studio dell'esattezza, il G[ui] è considerato uno dei più notevoli storici del primo Trecento,
come pure il migliore storico domenicano del medioevo" (4). Oggi gli specialisti hanno
completato lo spoglio dei suoi processi inquisitoriali: su novecentotrenta imputati, dal 1308
al 1323, "se ne trovano soltanto 42 rimessi al braccio secolare", mentre altri sono
condannati a pene minori, spesso di straordinaria mitezza, e centotrentanove assolti (5).
Bernardo Gui impegnato nella caccia alle streghe: menzogna. Presso Bernardo e gli
inquisitori suoi contemporanei "è sempre modestissimo il numero degli accusati per pratiche
stregoniche" (6), del resto di competenza dei vescovi e non degli inquisitori, a meno che la
stregoneria si presentasse mescolata all'eresia. Anche in epoche successive la caccia alle
streghe nascerà nei paesi protestanti, mentre la Chiesa cattolica si sforzerà piuttosto di
controllare e di frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario
discernimento, dai tribunali laici dei principi (7). La tortura generalizzata e
indiscriminatamente applicata: menzogna. L'Inquisizione del secolo XIV - a differenza dei
tribunali laici del tempo - usa in casi rarissimi la tortura di cui - secondo un decreto del 1311
di Papa Clemente V - l'inquisitore non può, da solo, decidere di servirsi: deve sospendere il
procedimento e instaurare "un giudizio speciale, al quale partecipi il vescovo o il suo
rappresentante" (8). L'inquisitore che decide in poche ore senza difesa né appello, e anzi
enuncia il principio che "chiunque contesta il verdetto di un inquisitore è lui stesso un
eretico": menzogna. È l'Inquisizione del secolo XIV che inventa la giuria, consilium che
mette l'imputato nella condizione di essere giudicato da un collegio numeroso - spesso di
trenta o anche di cinquanta giurati -, dove molti "diventano di conseguenza gli avvocati
dell'accusato" ed è l'inquisitore che, davanti alla loro muta, si trova piuttosto in situazione di
inferiorità". Del resto l'imputato ha diritto di difendersi e "può produrre testimoni a
discarico"; "può anche ricusare i suoi giudici e, in caso di rifiuto di questa ricusazione,
ottenerla mediante un appello a Roma" (9). La sentenza eseguita subito dopo la condanna, i
rei confessi - e perfino il demente Salvatore - bruciati, il rogo organizzato direttamente dal
domenicano inquisitore: menzogna. Nel processo inquisitoriale - lungo e complesso - i rei
confessi e pentiti possono essere condannati soltanto a pene minori; è il potere laico, il
braccio secolare - e mai la Chiesa -, a occuparsi dell'esecuzione delle condanne. Il popolo,
infine, che insorge e uccide Bernardo Gui: menzogna. Gli storici, anche i più ostili alla
Chiesa, confermano invece la notevole popolarità dell'Inquisizione presso il popolo, che se
ne vedeva protetto dalle vessazioni di eretici che - come i catari e i dolciniani - non di rado
trascendevano in violenze e in stragi.
Bernardo Gui morì tranquillamente nel suo letto, dopo essere stato nominato vescovo di Túy
nel 1323 e poi di Lodève nel 1324.
3. Il libro: un'apologia della modernità
1. Un romanzo pseudo-storico
Il libro di Umberto Eco può essere letto a tre diversi livelli: come romanzo pseudo-storico;
come romanzo ideologico a tesi; e come romanzo iniziatico, che contiene anche un senso
nascosto. La lettura più facile è quella pseudo-storica del Medioevo di cartapesta, a cui
corrisponde il film. Di alcune delle menzogne di fatto della pellicola non sembra
direttamente responsabile il romanzo, che contiene però sul Medioevo e sull'Inquisizione le
menzogne di principio fondamentali.
L'Inquisizione viene presentata nel romanzo come un tribunale ideologico, inteso a
reprimere ogni possibile discussione di una serie di tesi razionalmente insostenibili, che
potevano essere imposte solo con la forza delle armi e dei roghi, seminando il terrore
attraverso la continua denuncia e perfino la "creazione" di un nemico. "Spesso - osserva
Adso - sono gli inquisitori a creare gli eretici". E un tribunale ideologico non può che
condannare sempre e comunque: "Sarai dannato e condannato se confesserai - dice
Bernardo Gui al suo imputato -, e sarai dannato e condannato se non confesserai, perché
sarai punito come spergiuro!" (10). Lo spoglio statistico delle sentenze dell'Inquisizione, da
cui si ricava la bassa percentuale di condanne, ha ormai dimostrato che questa tesi è falsa.
Ma non meno falsa è la sua premessa: l'Inquisizione nasce tardi, verso la fine del Medioevo
propriamente detto, non a fronte di eretici immaginari ma come reazione agli eccessi reali e
concreti di movimenti come i catari, portatori di un "totalitarismo della morte" apologista del
suicidio e dell'omicidio degli oppositori, e - più tardi - come i dolciniani, impegnati a mettere
a ferro e a fuoco i villaggi in nome di un'utopia comunistica. Senza escludere deviazioni ed
errori tipici di ogni tribunale umano, non si può che concludere che l'Inquisizione dei secoli
XIII e XIV "è stata il modo necessario di affrontare un antigene sociale molto pericoloso"
(11). Affermare il contrario significa liquidare un secolo di studi scientifici sull'Inquisizione per
tornare al museo degli orrori dei romanzi di appendice del secolo scorso.
Fuorviante è poi, nel romanzo, l'elemento di supporto della trama, cioè il desiderio della
Chiesa di occultare un volume che - con l'autorità di Aristotele - avrebbe pericolosamente
legittimato, insieme con la commedia, l'umorismo, nemico della fede perché può liberare
dalla paura su cui la religione si fonda. La tesi non è minimamente plausibile. I benedettini
del Medioevo hanno salvato con amore anche il legato del mondo classico relativo alla
commedia, pure spesso moralmente discutibile. Come ha mostrato Hans Urs von Balthasar,
il Medioevo - oltre la critica rigida della patristica - ha dato inizio alla rivalutazione del teatro
(12). Nella Summa Theologiae di san Tommaso si afferma, nella questione 168 della Secunda
Secundae, che, se l'umorismo vano e malizioso deve essere evitato, l'umorismo di suo
costituisce una manifestazione della razionalità umana che può essere perfino virtuosa. Di
più: nella mancanza di senso dell'umorismo - "in defectu ludi" - si trova "un qualche
peccato", perché "tutto quanto è contro la ragione nelle cose dell'uomo è vizioso", e
mancare di umorismo significa spesso rivelarsi poco ragionevoli, "molesti agli altri", "duri et
agrestes" secondo l'espressione dello stesso Aristotele (13). Sono questi i medioevali de Il
nome della rosa: cupi, tetri, in perenne quanto morbosa attesa di disastri apocalittici?
2. Un romanzo ideologico
Il nome della rosa è essenzialmente un romanzo ideologico a tesi, che intende indurre il
lettore a scegliere come giusta una delle due posizioni in conflitto nel secolo XIV nella
disputa sulla povertà - la Armutsstreit, come la chiama la storiografia tedesca - fra una
parte dell'ordine francescano e la curia pontificia di Avignone. Nel film la disputa viene
ridotta al semplice quesito se Cristo fosse o meno proprietario delle proprie vesti. Qualche
spettatore della pellicola potrà quindi stupirsi nell'apprendere che uno dei massimi storici del
diritto viventi, Michel Villey, ha visto nella Armutsstreit "uno degli eventi capitali nella storia
della filosofia del diritto", sia privato che pubblico (14). In realtà la posta in gioco nella
disputa era la nascente ideologia della modernità - la tesi di cui si vuole convincere il lettore
de Il nome della rosa - nelle sue tre principali dimensioni, cioè quelle filosofica, giuridica e
politica.
a. Guglielmo da Baskerville è la figura abbastanza trasparente - quando parla di filosofia - di
un altro Guglielmo francescano, inglese e nemico di Papa Giovanni XXII, Guglielmo di
Occam, di cui nel romanzo si dice amico e discepolo. La filosofia di Guglielmo di Occam è il
nominalismo relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali - questo
cavallo, quest'uomo -, mentre i presunti "universali" - l'uomo, il cavallo - sono semplici
segni che servono a connotare - cioè a "notare insieme" - gruppi di realtà individuali, di cui
esprimono - peraltro in modo incerto e impreciso - qualche generale rassomiglianza. Il
metodo di Guglielmo da Baskerville è certamente quello di Sherlock Holmes - il suo nome fa
riferimento al romanzo holmesiano Il mastino dei Baskerville e Adso assona con Watson -;
ma già il filosofo marxista Ernst Bloch aveva considerato il metodo "detettivo" del romanzo
poliziesco come figura popolare della logica moderna, il cui frutto più maturo sarebbe
appunto il marxismo (15). All'inizio del romanzo, in una scena tipicamente holmesiana,
Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei più minuti particolari, da qualche
tenue traccia, un cavallo che non ha mai visto; quando Adso-Watson gli chiede come ha
fatto, risponde con una lezione di occamismo, spiegando che "tra la singolarità della traccia
e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un'idea universale", ha scelto la
traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono "puri segni", ed è così
pervenuto alla "conoscenza piena", che è "l'intuizione del singolare" (16). È grazie alla nuova
logica di Occam che Guglielmo da Baskerville risolve gli enigmi dell'abbazia, mentre il
tomista Bernardo Gui, che ragiona per universali, segue piste false; ed è con un motto
nominalista che il romanzo si chiude: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus",
"La rosa originaria - la presunta essenza della rosa - consiste in un nome, noi non abbiamo
che nudi nomi".
Le conseguenze del nominalismo occamista sono di straordinaria gravità: se si conosce
soltanto l'individuale, ogni presunta verità che vada al di là dell'individuale singolare e
provvisorio è del tutto malferma; ultimamente, la verità non esiste. Guglielmo da
Baskerville non sfugge a questa conclusione; e anzi la esprime nei termini brutali del
"pensiero debole" del secolo XX: "Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare",
"l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità" e perfino "il diavolo
è [...] la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va"
(17). Il primo arcano della modernità svelato dal romanzo di Umberto Eco è il relativismo
scettico: fuori dal relativismo vi è solo "la passione insana per la verità", chi "sa dove va" è
un "diavolo" che si esprime nell'intolleranza e nei roghi e che deve essere a ogni costo
combattuto.
b. Sul piano del diritto, come ha mostrato in particolare Michel Villey, dal relativismo
occamista deriva il positivismo giuridico, "prodotto del nominalismo. E della dottrina di
Guglielmo di Occam" (18). Se non esiste la verità, non esistono neppure le verità: non esiste
un ordine naturale che possa essere fonte di un diritto naturale, ma fonti del diritto sono
soltanto le espressioni positive di una volontà individuale. Sul piano del diritto privato si
rovescia la nozione di jus, che non è più id quod iustum est, la "parte" o porzione giusta
assegnata a ciascuno secondo equità, ma è - per Guglielmo di Occam - il "diritto
soggettivo", già in senso moderno, il potere concesso da qualche norma positiva di far
valere la propria potestà. Questa autentica rivoluzione giuridica nasce proprio dalla disputa
sulla povertà dei francescani, i quali affermano di non avere la proprietà ma solo l'uso di
tutti i loro beni, come aveva - dicono - lo stesso Gesù Cristo. Ma - afferma Papa Giovanni
XXII - la separazione fra proprietà e uso è una finzione, almeno per i beni che i francescani
godono in perpetuo e per i beni consumabili come il cibo e le vesti: non si può avere l'uso
del pezzo di formaggio che si mangia senza averne anche la proprietà. Se per jus si intende
"la parte dei beni che ci viene attribuita secondo giustizia", il Pontefice ha ragione, e lo
stesso san Francesco aveva un diritto di proprietà sul pane che mangiava; per contraddire
questa tesi "bisogna cambiare la nozione di jus, darle un significato più ristretto e in qualche
modo peggiorativo; bisogna ridurre il diritto a strumento di coercizione materiale, al potere
di difendersi davanti al giudice". È a questo potere di difendere i beni che i francescani - e
già Cristo e gli Apostoli - hanno - secondo Occam - rinunciato; ma il diritto di proprietà
consiste appunto in questo. Questioni pedanti e superate? Tutt'altro: il mutamento della
nozione del diritto di proprietà, e del diritto in genere, comporta "una vera e propria
rivoluzione copernicana nella storia della scienza del diritto". Siamo "di fronte alla frontiera
che divide due mondi diversi" (19): il mondo del diritto naturale classico e cristiano e la
modernità, di cui il positivismo giuridico - con la separazione del diritto dall'ordine morale -
costituisce, dopo il relativismo, il secondo arcano rivelato da Il nome della rosa.
c. Gli effetti del positivismo giuridico sono particolarmente gravi sul piano del diritto
pubblico, dove nasce lo Stato moderno, sovrano assoluto nel senso di solutus ab, "sciolto
da" qualunque controllo o vincolo superiore alla sua volontà. Se non esistono verità e valori,
non vi è nessun criterio o istanza superiore in base a cui giudicare lo Stato e le sue leggi. E
lo Stato certamente non può essere giudicato dalla Chiesa: Guglielmo da Baskerville e i suoi
amici vogliono una "Chiesa povera", ma non nel senso - come pretende ingenuamente il film
- di una Chiesa che rinuncia alle sue ricchezze e le distribuisce ai poveri. Non è questo tipo
di riforma ecclesiastica che interessa Guglielmo da Baskerville: "Povera - precisa - non
significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare
sulle cose terrene". La "Chiesa povera" dei "teologi imperiali" è una Chiesa confinata in
sacrestia, che rinuncia a giudicare la politica e le leggi: "Il dominio temporale e la
giurisdizione secolare nulla hanno a che vedere con la chiesa e con la legge di Cristo Gesù".
"I minoriti - Guglielmo lo ammette - fanno il gioco imperiale" di Ludovico IV il Bavaro, una
figura chiave nella genesi dell'Europa moderna, il primo imperatore che si fa incoronare a
Roma non dal Pontefice ma da un laico, e per di più da quello Sciarra Colonna che era stato
uno dei responsabili dello schiaffo di Anagni, l'oltraggio alla Chiesa che, con la sua carica
simbolica, aveva posto fine - secondo molti storici - al Medioevo propriamente detto. Poiché
poi nel secolo XX gli imperatori, anche se laicisti e miscredenti, non sono più di moda,
Guglielmo da Baskerville si premura di dichiarare che - una volta garantita la laicità dello
Stato - lui e il suo amico Marsilio da Padova preferirebbero alla monarchia imperiale una
"assemblea generale elettiva", per cui però sfortunatamente "i tempi non sono maturi" (20).
Ma in realtà il problema non consiste tanto nella forma dello Stato quanto nella estensione
dei suoi poteri. Lo Stato laico moderno non si emancipa solo da possibili rischi di
prevaricazioni clericali; si emancipa da qualunque controllo e limite e pone le premesse del
totalitarismo, secondo un processo che è stato colto da autori cattolici ma anche da un
maestro del neoliberalismo come Friedrich August von Hayek (21). Il nome della rosa mette
in scena - è il terzo arcano della modernità - il momento sorgivo dello statalismo moderno.
Lo statalismo non può che essere contro la Chiesa, perché una Chiesa libera si sentirà libera
di criticare l'autorità politica, ed è una sfida che il potere totalitario non può tollerare. Lo
afferma - sulla scia di Marsilio da Padova - Guglielmo da Baskerville: "Se il pontefice, i
vescovi e i preti non fossero sottomessi al potere mondano e coattivo del principe, l'autorità
del principe ne verrebbe inficiata" (22).
3. Un romanzo iniziatico
Si sa che Umberto Eco è un grande appassionato di enigmi e di enigmistica, e Il nome della
rosa è un romanzo insieme enigmistico ed enigmatico. Enigmistico, perché - come afferma
la stessa manchette del volume - contiene una serie di "giochi" da risolvere, fra cui un
"giallo di citazioni" non denunciate come tali. Esula dalle mie intenzioni seguire fino in fondo
il gioco, anche se alcuni degli enigmi sono interessanti, perché rivelano citazioni occulte di
autori fra i più radicalmente anticattolici del nostro secolo come Georges Bataille - a cui si
deve la tesi secondo cui il suppliziato sperimenta un'estasi del dolore paragonabile alla
mistica (23) - e Roger Peyrefitte, dal cui romanzo Le chiavi di San Pietro è tratta quasi
letteralmente la pagina sulle false reliquie (24). Il romanzo è insieme enigmatico perché
alcune tesi possono non emergere a una prima lettura del testo e si rivelano
progressivamente: si può quindi parlare anche di romanzo iniziatico (25).
Quando il retto uso della ragione va perduto, l'errore può manifestarsi come razionalismo o
come irrazionalismo. Il proprium della modernità consiste nel fatto che razionalismo e
irrazionalismo si manifestano insieme, come due facce della stessa medaglia. Alla "corrente
fredda" razionalista e positivista della modernità si accompagna una "corrente calda" che fa
della Rivoluzione una religione atea, che si esprime in simboli e miti; così la massoneria,
vestale della modernità, coniuga il più estremo razionalismo e il più improbabile
irrazionalismo esoterico, il comunismo è insieme materialismo e religione secolarizzata come
adorazione filosofica del divenire, e così via. La distinzione fra le due correnti, calda e
fredda, è di Ernst Bloch e le citazioni implicite di Bloch ne Il nome della rosa abbondano; sua
è la tesi del "filo rosso" che legherebbe le speculazioni di Gioachino da Fiore, le eresie
medioevali, il dipanarsi della modernità e il marxismo. La "corrente calda" della modernità
coincide, sostanzialmente, con quella che il cardinale de Lubac ha chiamato "la posterità
intellettuale di Gioachino da Fiore": una posterità che, in diversi modi, secolarizza
l'aspirazione mistica del monaco calabrese verso una prossima aurea "età dello Spirito
Santo" trasformandola in mito rivoluzionario (26). Per intendere il senso occulto de Il nome
della rosa può essere utile distinguere fra una posterità speculativa di Gioachino da Fiore -
nel romanzo rappresentata da Ubertino da Casale -, che legge l'età dello Spirito Santo come
meta di una storia in progresso animata da Dio, ma vorrebbe mantenere una apertura alla
trascendenza e conservarsi ancora cattolica, e una posterità rivoluzionaria, che trascrive il
sogno gioachimita dall'eternità escatologica al futuro politico (27). Nel romanzo di Umberto
Eco il gioachimismo speculativo, che vuole ancora salvare la trascendenza, si rivela
perdente di fronte al gioachimismo rivoluzionario. È vero: Guglielmo da Baskerville
disapprova il gioachimismo utopistico delle bande dolciniane che vogliono imporre il
comunismo con il ferro e con il fuoco. Ma il suo giudizio lucido e spietato sulle eresie
utopistiche è desunto, quasi letteralmente, da Ernst Bloch. Il gioachimismo utopistico degli
eretici è il grido dei "lebbrosi", dove per "lebbrosi" si intendono le masse subalterne del
proletariato Lumpen, "cencio": gli "esclusi, poveri, semplici, diseredati". "Tutte le eresie
sono bandiera di una realtà dell'esclusione. Gratta l'eresia, troverai il lebbroso". "I semplici
[...] hanno ragione perché posseggono l'intuizione dell'individuale, che è l'unica buona" -
naturalmente in una prospettiva occamista -, "ma questa intuizione, da sola, non basta":
lasciata a sé stessa "l'esperienza dei semplici ha esiti selvaggi". Per raggiungere il suo scopo
il gioachimismo rivoluzionario dovrà passare "dall'utopia alla scienza"; ci penserà - e qui
Guglielmo mette in scena le profezie di un altro suo maestro, Ruggero Bacone - una "nuova
scienza della natura", una "grande impresa dei dotti per coordinare, attraverso una diversa
conoscenza dei processi naturali, i bisogni elementari che costituivano anche il coacervo
disordinato, ma a suo modo vero e giusto, delle attese dei semplici. La nuova scienza, la
nuova magìa naturale" (28). Scienza e magia, ma soprattutto gnosi: nel gioachimismo
secolarizzato alla Ernst Bloch - che implica certamente un salto rispetto a Gioachino da
Fiore, ma un salto che diventa quasi inevitabile nel gioco intrecciato delle sue posterità -
emerge il classico tema gnostico dell'avvento del nuovo eone, verso il quale svolgono opera
di guida gli iniziati alla gnosi, soli competenti a interpretare le attese confuse dei semplici
(29). Non manca neppure, in questa verità ultima del romanzo - e della modernità -,
l'estremo arcano della gnosi - antica e moderna -, cioè la riduzione di Dio a un'unità
originaria indistinta che, in ultimo, coincide con il nulla. Sul finire della storia Adso chiede a
Guglielmo: "Che differenza c'è allora tra Dio e il caos primigenio?". Sostenere che non esiste
la verità, e quindi che da Dio non scaturisce un mondo ordinato ma un fascio infinito di
possibili, "non equivale a dimostrare che Dio non esiste?". Guglielmo non lo nega, ma si
limita a rispondere ambiguamente: "Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il
suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?". Qualche pagina dopo Adso conclude
"Gott ist ein lautes Nichts", "Dio è un grande nulla", con una proposizione che trae dalla
mistica renana ma che interpreta inequivocabilmente in senso gnostico, perché afferma di
non credere più in un Dio personale ma solo in una "divinità silenziosa e disabitata" come
abisso in cui "andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza" (30).
Che cosa può imparare il mondo cattolico dalla grande operazione propagandistica realizzata
attraverso Il nome della rosa? Certamente una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del
fatto che qualcuno ritiene assolutamente necessario sottoporre le folle a periodici bagni di
menzogne sulla civiltà cristiana medioevale, insistendo sempre sugli stessi temi - i monaci,
l'Inquisizione -, tanto più oggi a fronte del grave rischio che la nuova medievistica scientifica
giunga, sia pure lentamente, a conoscenza del pubblico dei non specialisti e smantelli
mitologie a cui certe forze sono straordinariamente attaccate. Il film, "mini-museo
antireligioso posto dall'altra parte di una cortina di ferro sempre presente" (31), costituisce
una facile iniziazione offerta a tutti affinché varchino la soglia ed entrino nel mondo del
romanzo, dove si svelano gli arcani della modernità nella loro verità ultima, nichilista e
gnostica. Lo scopo di Umberto Eco consiste certamente nel temprare "lo scettro a'
regnatori", esaltando lo Stato laico moderno e la sua ideologia; ma talora -
involontariamente, e sta qui l'occasione positiva offerta al mondo cattolico - anche "gli allòr
ne sfronda" e "svela di che lacrime grondi e di che sangue" il potere svincolato dalla
religione e dalla morale e sostenuto da filosofie relativiste o da miti gnostici. Se ne potrà
ricavare, per diametrum, che la verità, e una politica che si lasci giudicare dalla verità, fa
libero l'uomo, mentre la negazione dell'esistenza di una verità che si imponga anche ai
principi - si tratti di Ludovico il Bavaro o del "moderno principe", come Antonio Gramsci
chiamava il partito comunista - lo rende schiavo dei potenti di turno. Se poi la lettura de Il
nome della rosa indurrà qualcuno a meditare seriamente, sia pure a partire da Gioachino da
Fiore, sull'azione dello Spirito Santo nella storia, gli si potrà consigliare - in alternativa
all'immensa posterità spirituale gioachimita, rivoluzionaria o "moderata" - la lettura
dell'enciclica Dominum et vivificantem, dove l'intervento dello Spirito nella storia viene
presentato nella sua forma corretta, radicalmente antiprogressistica, nel senso che la terza
persona della Trinità - ben lungi dal venire a certificare la storia come progresso necessario
verso una crescente "liberazione" - viene a "convincere il mondo quanto al peccato" anche
nella sua dimensione storica. Si comprenderà allora che l'arcano ultimo della modernità
come ideologia è il rifiuto di Dio, la "resistenza allo Spirito Santo" che trova "specialmente
[…] nell'epoca moderna la sua dimensione esteriore" (32).
Massimo Introvigne
***
(1) Cfr. Scott Sullivan, Master of the Signs, in Newsweek (Atlantic edition), vol. CVIII, n. 25,
22-12-1986, p. 46.
(2) Sono parole del film, che riassumono un più articolato discorso del romanzo. È
interessante notare che il film è stato prodotto anche con fondi della RAI, cioè dei
contribuenti italiani.
(3) Umberto Eco, Il nome della rosa, 5a ed., Bompiani, Milano 1981, p. 273.
(4) Abele Redigonga, voce Gui, Bernard, in Enciclopedia Cattolica, Ente per l'Enciclopedia
Cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1951, vol. VI., col. 1274, con bibliografia.
(5) Jean Dumont, L'Église au risque de l'histoire, Criterion, Limoges 1982, p. 217.
(6) Raoul Manselli, Le premesse medioevali della caccia alle streghe, in Marina Romanello (a
cura di), La stregoneria in Europa (1450-1650), Il Mulino, Bologna 1975, p. 55.
(7) Cfr. Herbert Thurston S.J., La Chiesa e la stregoneria, in Satana (dalla collezione degli
Etudes Carmelitaines), trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1953, pp. 199-208. A Roma, centro
della cattolicità, risulta con certezza un solo giustiziato per stregoneria, nel 1424. Spesso,
del resto, i delitti degli accusati di stregoneria non erano immaginari: la storiografia più
recente non mette più in dubbio l'autenticità di casi di veneficio, omicidio rituale e simili.
(8) J. Dumont, op. cit., p. 215.
(9) Ibid., pp. 214-215.
(10) U. Eco, op. cit., pp. 58 e 384.
(11) J. Dumont, op. cit., p. 220.
(12) Cfr. Hans Urs von Balthasar, Teodrammatica, vol. I: Introduzione al dramma, trad. it.,
Jaca Book, Milano 1980, pp. 94-95
(13) Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 168.
(14) Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, ed. it., Jaca Book, Milano
1986, p. 167. M. Villey commenta (ibid., p. 171) un passo del satirico Roman de la Rose - a
cui vi è forse una allusione nel titolo dell'opera di Umberto Eco -, nel quale si mette in scena
il "monaco Falso-Sembiante, che è di sicuro un francescano". Il Roman de la Rose, a
differenza de Il nome della rosa, esprime una posizione anti-francescana; ma l'allusione
invita forse a cercare la vera dottrina sotto il "faux-semblant" della disputa sulla povertà.
(15) Cfr. Ernst Bloch, Philosophische Ansicht des Detektivroman, in Idem, Verfremdungen I,
Suhrkamp, Francoforte 1962, pp. 37 ss.
(16) U. Eco, op. cit., p. 36.
(17) Ibid., pp. 494-495 e 481.
(18) M. Villey, op. cit., p. 185.
(19) Ibid., pp. 216-224.
(20) U. Eco, op. cit., pp. 349-360.
(21) "Nel mondo occidentale la sovranità illimitata venne raramente rivendicata in tutto il
periodo dell'antichità", "non fu concessa ai principi medioevali, che la reclamarono
raramente", e "sebbene venne richiesta con successo dai monarchi assoluti del continente
europeo, non fu accettata come legittima fin dopo l'avvento della democrazia moderna, che
sotto questo aspetto ha ereditato la tradizione dell'assolutismo" (Friedrich August von
Hayek, Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della
giustizia e della economia politica, ed. it., Il Saggiatore, Milano 1986, pp. 408-409). Sul
ruolo di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova nella genesi del moderno statalismo,
cfr. soprattutto i sei volumi di Georges de Lagarde, Aux origines de l’ésprit laique,
Nauwelaerts, Lovanio 1952-1961 (trad. it. dei primi due volumi: Alle origini dello spirito
laico, Morcelliana, Brescia 1961-1965).
(22) U. Eco, op. cit., p. 358.
(23) Cfr. Georges Bataille, Le lacrime di Eros, trad. it., Arcana, Roma 1979, pp. 113-118, a
cui corrisponde U. Eco, op. cit., p. 67.
(24) Cfr. Roger Peyrefitte, Le chiavi di San Pietro, trad. it., Longanesi, Milano 1968, pp. 26-
27, a cui corrisponde U. Eco, op. cit., pp. 425-427. Sull'argomento cfr. l'indagine di uno
scienziato contemporaneo, agnostico, Pier Luigi Baima Bollone, L'impronta di Dio. Alla
ricerca delle reliquie di Cristo, Mondadori, Milano 1985, da cui si ricava che molte reliquie
della Passione, affrettatamente giudicate false da una scienza imbevuta di pregiudizi
anticattolici, sono probabilmente vere.
(25) In senso debole: scoprire le tesi nascoste non è poi così difficile.
(26) Henri de Lubac, La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, 2 voll., trad. it., Jaca
Book, Milano 1981-1984. Il tema delle eresie percorre quasi tutte le opere di Ernst Bloch:
cfr., in particolare, il suo Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell'Esodo e del Regno,
trad. it., Feltrinelli, Milano 1971.
(27) Il nome della rosa giunge in un momento propizio, che vede la rinascita di un certo
gioachimismo speculativo presso teologi che rivalutano Gioachino da Fiore e - sulla scia delle
discussioni intorno all'opera di Erik Peterson Il monoteismo come problema politico (trad.
it., Queriniana, Brescia 1983) - vedono nel progresso verso forme democratiche una
affermazione del principio trinitario contro un "monoteismo" che trascriverebbe l'idea di un
Dio monarchico, non trinitario, in un ideale politico autocratico. Una sintesi delle posizioni di
questa recente corrente teologica si può trovare in Bruno Forte, Trinità come storia. Saggio
sul Dio cristiano, Edizione Paoline, Torino 1985. Per la rivalutazione di Gioachino da Fiore,
che "ha saputo pensare storicamente la Trinità e trinitariamente la storia", cfr. ibid., pp. 81-
87.
(28) U. Eco, op. cit., pp. 205-209.
(29) "Gnostiche" sono le interpretazioni del gioachimismo proposte da Ernst Bloch anche
secondo H. de Lubac (op. cit., vol. II, p. 418), che ne segnala peraltro l'infedeltà rispetto
alle intenzioni originarie di Gioachino da Fiore. Ma sembra al lettore dell'opera di H. de
Lubac che il pensiero del monaco calabrese non possa avere esiti storici se non a condizione
di essere "tradito", e dunque celi già in sé stesso almeno una sostanziale ambiguità.
(30) U. Eco, op. cit., pp. 496 e 503.
(31) Così scrive una delle maggiori medieviste viventi, Régine Pernoud, James Bond va in
monastero, in 30 Giorni, anno V, n. 1, gennaio 1987, p. 65.
(32) Giovanni Paolo II, Enciclica Dominum et vivificantem, del 18-5-1986, n. 56.

Potrebbero piacerti anche