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di Davide Inchierchia
1. All’Origine
«Aforismi di luce» è il titolo suggestivo che Claudio Borghi ha scelto per questa sua
nuova opera poetico-filosofica, la cui genesi giunge in realtà da molto lontano.
Concepita e vergata a più riprese senza alcun iniziale intento sistematico negli anni
giovanili della formazione, è stata poi perfezionata e in parte rivista – più nella
struttura linguistico-espositiva che non nella sostanza – in anni successivi fino ad oggi,
quando il maturare di interessi scientifici e di ricerche specificamente fisico-
cosmologiche non avrebbero impedito all’Autore di dedicarsi ancora alla filosofia e alla
poesia (come dimostrano le sillogi in prosa poetica di recente pubblicazione, rispetto
alle quali gli Aforismi possono considerarsi una prima embrionale prefigurazione).
Ma se è vero che il frammento, con la sua caratteristica a-sistematicità, costituisce
senz’altro la cifra formale dell’opera, non si tratta di un testo ‘frammentario’.
Nonostante il carattere visionario, a tratti rapsodico, di un flusso interiore a prima
vista di difficile decifrazione, è possibile coglierne – quasi musicalmente, ad una
lettura lenta – la pulsante trama unitaria. Come accade negli illustri esempi letterari o
filosofici di pensiero aforistico cui l’Autore si volge più o meno direttamente (Pascal,
Kierkegaard, Schopenhauer, ma soprattutto Novalis) negli Aforismi ricerca conoscitiva,
riflessione speculativa e meditazione spirituale si fondono con sapienza cercando di
attingere l’unico Centro: la Cosa ultima, l’Origine assoluta nella quale materia e
coscienza, immanenza e trascendenza – anziché ipostasi separabili – entrano in
risonanza quali emanazioni sostanziali di una viva Essenza che di sé permea ogni
creatura ed ogni natura.
La ricerca dell’Originario che Borghi intraprende qui per la prima volta, attraverso un
itinerario dell’anima entro un “corpo di luce”, che si rivela ora enigmatico e sfuggente
ora chiarissimo, concede comunque ben poco alle pulsioni irrazionalistiche
dell’intimismo. In effetti, a differenza di quanto ci sta da tempo raccontando tanta
(presunta) nuova poetica e tanta (sedicente) post-filosofia odierne, in queste pagine
assistiamo ad una speculazione ontologica che non si chiude mai in rigido
‘ontologismo’, ad uno scavo nello spirito che non diviene mai sterile ‘spiritualismo’:
così che anche nelle sequenze in cui palpabile si fa la vertigine mistica il pensiero –
anziché rifugiarsi nel comodo abbraccio del ‘misticismo’ – non abdica mai a se stesso e
alla necessità, certo sofferta, dell’intellegibile.
2. Rappresentazione e Presenza
Elemento decisivo, per molti versi il nucleo teoretico generativo degli Aforismi, è il
costante implicito riferimento, non certo estrinseco, alla filosofia platonica e
neoplatonica dell’ “analogia Entis” che, da Plotino a Cusano, attraverso Agostino e
Meister Eckhart, nutre l’intera speculazione romantico-moderna e senza la quale,
secondo l’autorevole giudizio di Marco Vannini, pressoché nulla sarebbe davvero
comprensibile del sapere filosofico contemporaneo (cfr. M. Vannini, «Introduzione a M.
Eckhart, Sermoni tedeschi», Adelphi 1985).
La disamina svolta sin qui non può in effetti esimersi da tutta una serie di sequenze –
che compongono le parti centrale e finale del testo – nelle quali Borghi (per citarne
solo i titoli) si appresta a tessere alcuni “Pensieri della sera” per annunciare, infine, il
sopraggiungere di “Nuove trame di luce”. Sono i momenti, di intenso impatto, in cui
l’Autore si cimenta in una delle imprese più ardue e complesse, che più mettono alla
prova la nostra razionalità di pensanti del XXI° secolo: il retrocedere, l’eckhartiano
“distacco”, dal Sé dell’Io soggettivo – l’Io psicologico ma finanche l’Io esistenziale – e
il suo ‘aprirsi’ in se stesso a sé alla vibrante imminenza, alla prossimità estrema di una
Identità ‘altra’.
Solamente un malinteso ‘criticismo’, alimentato da un altrettanto frainteso ‘realismo’ –
oggi tipico di rinomate ma alquanto discutibili operazioni intellettualistiche
decostruttive – potrebbe a questo punto misinterpretare, in direzione ancora una volta
mistico-esoterica, quell’Indicibile che gli Aforismi non temono invece di ‘in-dicare’ con
rigore: è esso il Concreto, l’Uno-Unico che è viva Presenza, e del quale l’Evento
cristiano – l’incarnarsi del Verbo – diviene Figura escatologica essenziale. A questa
altezza, la metafisica dell’estetico wittgensteiniano si trova come ‘trasfigurata’ in virtù
dell’ “alta fantasia” neoplatonica che medita sulla interiorità del Principio: l’infinito
Essere, visibile in ogni sembianza del finito, si mostra nella stessa sapienza trinitaria
dello Spirito in quanto eterno presentarsi destinale del Padre “nel” Figlio. (Rilevante
sarebbe il confronto, su questi temi, con la dialettica filosofica che da molti decenni
Massimo Cacciari sta intrattenendo col neoplatonismo e il pensiero teologico cristiano:
si vedano ad esempio le notevoli riflessioni sulla “età del Figlio” e sulla “estetica
dell’Icona” contenute in «Generare Dio», Il Mulino 2017).
L’ ”itinerarium mentis”, che in questa sua opera lontanissima Borghi fa cominciare
dalla ricerca ‘universale’ del Fondamento, si chiude pertanto in circolo riannettendosi
all’Inizio ‘assoluto’, all’ “È” che eternamente si fa a noi Presente. Ciò che poteva
malauguratamente sembrare l’ennesimo ritorno ‘hegeliano’ ad un’ambiziosa, quanto
improbabile, metafisica della Totalità – in cui il Soggetto si illude di plasmare l’Oggetto
allo ‘specchio’ della propria insaziabile ed egoica volontà di potenza – ha dato voce al
contrario, passo dopo passo, frammento dopo frammento, alla irriducibile Singolarità
dell’essente.
Ecco perché gli «Aforismi di luce» sono capaci di delineare ancora (in senso
controcorrente rispetto alla cultura della “post-verità”, oggi dominante, con tutti i
rischi connessi ad un sempre più inquietante e incontrollato “transumanesimo”) una
metafisica, che trova il suo specifico come ontologia dell’alterità. Laddove infatti
autentica trascendenza dell’Essere non si realizza se non nel ‘trascendersi’ del
Pensante al di qua (non al di là!) della sua propria immanenza, diventa praticabile un
excursus poetico, ovvero speculativo e contemplativo, entro la “differenza ontologica”,
dove l’Altro – anziché essere ‘nient’altro’ che la copia di un Medesimo – è Novitas
assoluta.
L’altro essente è , in sé e per sé, sempre un “alter-ego”: non solo ‘parte’ di un Tutto,
mera ripetizione di un Archetipo, ma un “in-dividuo” che ‘partecipa’ della infinita
finitudine, dell’irripetibile natura ‘singolare’ di ciascun altro Singolo. Ad immagine e
somiglianza ‘rammemorante’ del “Verbum agentis”, l’immemorabile poiesi creaturale
che inerisce alla originaria e fontale Parola: l’iniziale «Fiat Lux» che nessuna Ragione,
nessuna Relazione ‘logica’ potrebbe mai determinare ‘scientificamente’, ma che fonda
la possibilità ontologica della nostra – e di ogni ‘altra’ – esistenza che viene “alla luce”
dell’Essere.
Nelle parole ‘alte’ di una bella pagina recente di Emanuele Severino, «il discorso che
abbiamo fatto non consiste nel dire (…): c’è soltanto l’apparire finito. Non c’è soltanto
l’apparire finito, secondo quanto si è voluto ricordare, che è finito in quanto accoglie il
sopraggiungere della terra, ma (…) l’apparire finito, la costellazione dell’apparire
finito, implica necessariamente l’apparire infinito». Ossia «quell’apparire che non solo
è eterno, ma non è nemmeno il luogo in cui qualcosa va sopraggiungendo: giacché è
già tutto presente»
(E. Severino, «Lezioni milanesi. Il nichilismo e la terra (2015-2016)», Mimesis 2018,
pp. 192-193).