Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Non sono certo il primo a subire l'attrazione terribile della così chiamata arte
primitiva. Questa si collega a molte cose che accadono oggi, come al grande sviluppo
della paleontologia e della paleoantropologia (per Natale mi sono regalato il recente
libro di Giorgio Manzi Il grande racconto dell'evoluzione umana, non breve) ma anche
ad una sorta di idea semplificata del dipinto in grotta che ho sempre coltivato, sin da
quando un mio professore di disegno e storia dell'arte era partito a rilento col
programma, proprio da Lascaux (che il libro riprende col cavallo della copertina) e
dalla boteriana Venere di Willendorf. Potrei descriverla, abborracciarla almeno, come
un'idea che in me ravvicina moltissimo la pittura rupestre ad una sorta di
prefigurazione e ripetizione del movimento. E poi è evidente che il Novecento è stato
un secolo di grande riscoperta di quest'arte, e bene o male al Novecento appartengo
(appartenevo). Ma veniamo a Villa. Siamo in piena Seconda guerra mondiale quando
dei bambini scoprono la prima grotta di Lascaux. Finita la guerra, uno stato che sa
ricavare anche oggi generosi punti PIL dalla cosiddetta cultura e dalle più disparate
forme di "turismo culturale", industrializza il complesso che inizia a diventare meta
per tanti visitatori. Emilio Villa vi arriva, evidentemente motivatissimo, nel 1961 e
inizia a scrivere questo saggio già negli anni Sessanta. Il testo, appartenuto in origine
all'artista Gianni De Bernardi, uscì prima come anticipazione sulla rivista "Il Verri" a
fine anni Novanta. L'edizione Abscondita uscì poi, con il contributo del sempre chiaro,
puntuale e utile Aldo Tagliaferri.
Per convincervi che questo è un libro che merita la fatica di essere scovato, magari
tra i libri a metà prezzo timbrati come "seconda scelta" e pure quella di essere
ripubblicato, non farò molto. Mi limiterò a riportare un solo passaggio. Sentite come
Emilio Villa si sgancia dal falso problema della concezione astratta e della concezione
figurativa, dalle inutili polemiche, politicamente e ideologicamente incrostate, che
riguardavano la speculazione di quegli anni, anche tra un "conservatore dottrinario"
come il Bianchi Bandinelli e il paletnologo Alberto Carlo Blanc, sostenitore di una
"priorità genetica" dell'arte astratta, opinione poi abbracciata anche dal fondatore
della paletnologia Henri Breuil:
[...] l'analogia "uomo primordiale - bambino" è analogia del tutto dubbiosa, anzi da
ritenere arbitraria. La questione della "priorità" genetica non ha fondamento nella
realtà morfologia e nella naturalezza dell'uomo espressivo dei primordi. La realtà dei
tempi, le condizioni degli spazi solo presuntivamente hanno una sintassi descrittiva
di carattere cronologico: in realtà lo spazio e il tempo dell'operazione primordiale
partecipa di un contesto talmente unitario, talmente proprio e sostanziale, e genera
una tale concrezione tra la proprietà assoluta dell'uomo primordiale e la sua
condizione "storica", da non ammettere l'inserzione di qualsiasi tipo di sviluppo o di
flessione evoluzionistica. Il processo di formazione espressiva dell'uomo è un
continuo flusso, un processo inalterabile di integrazione simultanea: è incessante
presa del mondo, posto della immaginazione come pura captatio. Il segno è figura, la
figura è atto, l'atto è unità, comunione, integrazione, generazione; l'unità è il divino, il
divino è figura, la figura è segno. Così come azione e simbolo sono l'unica e
medesima realtà.
Parlando della poesia di Villa, in quel contributo che ho citato in apertura, Zanzotto
sosteneva che "la sua risalita alle origini ("che non ci sono" - e già Artaud lo aveva
detto) comporta uno sprofondamento sacrificale nell'enigma - che può, ovviamente,
anzi deve, farsi scherzo, indovinello". In questa coppia di righe c'è anche il Villa che si
interroga sull'arte dell'uomo primordiale e esce dallo sprofondamento nella grotta con
uno scherzo, un indovinello che giunge con la luce della sua intelligenza.