CAPITOLO 1: VERSO UNA GUERRA EUROPEA Esmond Romilly, Giovanni Cuccagna, Hans Landauer, Mihail Florescu e Steve Nelson sono tutti esempi di quei volontari che costituivano una pura “milizia” della democrazia avente in sé un dato eroico e considerata una straordinaria mobilitazione di uomini per andare a battersi in una guerra lontana, in cui non erano in gioco né la difesa né gli interessi del loro paese, ma solo motivi ideali. Fino al 1933 (anno in cui Hitler prese potere in Germania), instabili equilibri generati da guarnigioni militari sollevate contro il governo, da colpi di Stato, da tentativi di rovesciare il governo, cominciavano ad essere travolti dalla volontà tedesca di guerra: una volontà che riassumeva le due idee di conflitto che diversamente intrecciate attraversavano i paesi del continente. 1. Il lontano anteguerra C’era il conflitto delle potenze, la contrapposizione tra gli Stati, orientata dai loro interessi e sostenuta da nazionalismi di massa autonomi da ogni altra posizione politica. In posizione di predominio c’erano i due principali paesi vincitori della prima guerra mondiale, l’Inghilterra e la Francia, la cui forza economica e militare non era commisurata al ruolo che essi occupavano. L’Inghilterra, logorata dallo forzo bellico, aveva perduto la sua preminenza economica a vantaggio degli Stati Uniti ed era stata travolta anch’essa dalla Grande Crisi del 1929, mostrando la sua debolezza al pari degli altri paesi. Questo effetto economico intaccò anche la saldezza del sistema politico. Sulla scena c’è il Partito Laburista favorevole ad un intervento statale che riequilibrasse le condizioni di vita dei cittadini britannici. Ma le agitazioni degli anni 20 alterarono ancora di più il sistema bipartitico (Tory-Whig), portando nel 1931 alla formazione di un governo di unità nazionale, presieduto da MacDonald. Sintomo significativo del malessere fu il fatto che un esponente di spicco del Partito Laburista, sir Oswald Mosley, fondava nello stesso anno un partito fascista, ottenendo inizialmente un certo seguito. La Gran Bretagna, tuttavia, fu in grado di resistere meglio di altri paesi all’urto della crisi non tanto in virtù della sua forza e capacità ma soprattutto grazie al suo patrimonio ereditario e mercato sempre aperto alla produzione. È anche vero, però che dovette abdicare e stabilire con lo Statuto di Westminister un rapporto di parità con i suoi “dominions”, e con la Conferenza di Ottawa delle relazioni commerciali ad essi più favorevoli. Questa connotazione fu capace di ridestare aspetti invidiosi della Germania sconfitta e dell’Italia insoddisfatta dei frutti della vittoria, facendo loro apparire possibile sfidarla e vincerla. Anche la Francia, il paese più devastato dal conflitto mondiale, aveva mostrato un vigore di ripresa e una forza produttiva inadeguati alla sua pretesa di perpetuare la vittoria molto oltre la fine della guerra. Alla fine degli anni 20 infatti essa sembrava aver raggiunto un’invidiabile robustezza economica; ma quando a seguito della crisi del ’29 cessarono i prestiti alla Germania e questa cessò del tutto i pagamenti delle riparazioni francesi, le cose cambiarono. La Francia così si limita a interrompere a sua volta i pagamenti del suo debito con gli Stati Uniti ma ciò non bastò ad evitare il contagio della crisi, a cui riesce a far fronte grazie alle risorse dei suoi domini coloniali. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, le forze armate anglo-francesi avevano un numero di carri molto superiore a quelli tedeschi ma non avevano ancora ben capito come si potesse impiegare quell’arma-chiave della nuova guerra di terra, avendo invece una flotta aerea assai inferiore perché non avevano ancora ben capito come usarla in coordinamento con mezzi blindati. Durante la guerra, la Francia rimase il paese che aveva pagato il più alto costo in vite umane. In questo contesto culturale si fondano le basi per lo sviluppo e la diffusione del pacifismo i cui più importanti portavoce furono il sindacato CGT ed il Partito Socialista colpiti dal senso di colpa di aver contribuito al “grande macello”. Ma l’orrore della guerra era un sentimento talmente diffuso che anche la destra doveva tenerne conto (una delle più frequenti accuse che la destra rivolgeva agli avversari era quella di portare la Francia allo scontro con la Germania), tuttavia, anche le guide intellettuali dell’opinione pubblica erano per la maggior parte contrarie alla guerra. Tutto sommato i francesi continuavano ad avere la necessità di difendere il loro paese mentre agli inglesi non era molto chiaro per quale necessità e benefici avessero dovuto andare a battersi e morire a migliaia sul continente. Nonostante fossero contrari ad adottare il pacifismo integrale, il Partito Laburista e le Trade Unions raccolsero e diedero espressione a vaste correnti di classi medie e popolari che erano piuttosto di critica verso la guerra (e non di ostilità), ma con cui ogni governo al momento di dover decidere se sostenere il conflitto armato avrebbe dovuto fare i conti. Anche nelle upper-class e negli stati conservatori era diffuso uno scarso entusiasmo per la guerra, non tanto per antibellicismo quanto per convenienza e per potersi concentrare sulla conservazione e sul rafforzamento del proprio impegno coloniale. Non è, tuttavia, possibile comprendere a pieno l’operato delle due potenze occidentali tra le due guerre senza considerare la paura diffusa dalla Russia Sovietica. Nella Russia dei soviet si era dichiarata la guerra alla borghesia come classe sociale abbattuta assieme alla nobiltà zarista e si era anche edificato uno “Stato del proletariato” che non solo si poneva come modello verso tutti gli altri paesi del mondo ma che aveva come linea programmatica l’esportazione verso l’esterno della sua rivoluzione. Per raggiungere questo obiettivo, la Russia si servì di un elemento operativo: l’Internazionale Comunista (Terza Internazionale o Comintern) ossia un partito mondiale articolato in sezioni nazionali il cui compito era quello di promuovere la rivoluzione (specie nell’Occidente Europeo) chiamando a raccolta il proletariato di ogni paese per combattere la propria borghesia nazionale. Sotto l’impulso di questa rivoluzione russa, nel dopoguerra, quando Lenin esortò le masse a “mutare la guerra imperialista in guerra civile” rivolgendo le armi contro le borghesie, questa idea sembrava essere divenuta di assoluta attualità. Già dal 1919, anno in cui il Partito Comunista aveva preso potere in Ungheria, la rivoluzione sembrava propagarsi dalla Russia verso ovest finchè, nel 1920, l’esercito sovietico raggiunse le porte di Varsavia (venne poi costretto a ritirarsi). Ma la Russia aveva come primo obiettivo la Germania, avente una posizione centrale in Europa. Da subito la Comintern si era dimostrata disponibile e favorevole ad una qualsiasi iniziativa rivoluzionaria ma tutti i tentativi in questo senso fallirono costringendo la Russia a ripiegarsi su se stessa anche perché veniva a mancare un importante presupposto della rivoluzione: una congiuntura economica mondiale. Era tuttavia proprio questo a rendere l’Internazionale uno strumento subalterno a quella che esso chiamava “stabilizzazione” del sistema capitalistico. In questo contesto non solo crescono i partiti della socialdemocrazia ma si sviluppa anche la volontà di mantenere una linea di demarcazione netta tra rivoluzione e riformismo in attesa di migliori tempi. Solo con la Grande Crisi del ’29 si era ricreata la migliore situazione per una esplosione rivoluzionaria. Stalin aveva predetto tutto ciò: fu proprio per questo che si rafforzò contro i suoi oppositori di destra e che portava la linea di rivoluzione a passare per la lotta contro i socialdemocratici, ormai denominati “socialfascisti”. Nuovamente l’impresa risultò fallimentare specie perché il Partito Comunista contribuì molto alla vittoria nazista e alla sconfitta della democrazia, oltre che alla sua stessa rovina ed al trionfo del fascismo. Fu grazie alla Grande Depressione che era diventata evidente la scarsa solidità di protezione dell’orientamento democratico contro la disoccupazione e l’immiserimento dei lavoratori, e l’assente salvaguardia contro il declassamento e l’indigenza dei ceti medi. Mentre il modello della rivoluzione bolscevica, facendo leva sulla frustrazione delle necessità materiali, rendeva più forte il bisogno di sublimazione e di ideali che trascendessero la condizione personale; il nazionalsocialismo offriva riferimenti immateriali ed emozionali su parole-chiave quali quelle dell’onore, della grandezza e dell’eroismo. Per un verso l’orientamento nazionalsocialismo era pacificante (umanismo), dall’altro legittimava le aggressività individuali e quelle della comunità nazionale indirizzate contro i responsabili stranieri della misera condizione tedesca nazionale e popolare. Ma non era la Russia a minacciare la Germania quanto la Francia che aveva voluto mantenere il paese in povertà, privandolo delle colonie, imponendo onerose riparazioni, ma anche sottraendogli la flotta commerciale e le protezioni doganali per il mercato interno; e che aveva voluto tenerlo disarmato, subordinato ed esposto all’invasione anche dei paesi confinanti più deboli. In questo modo piccoli-borghesi e una gran parte delle classi subalterne furono spinti a fondere le loro speranze di riscatto con quelle della patria. Nelle mani di Hitler, quindi, la prospettiva non fu solo quella di rivedere le condizioni del Trattato di Versailles per recuperare pari dignità tra i paesi Europei, ma fu anche quella di portare la Germania al vertice di una nuova gerarchia delle potenze europee e di fare del Reich tedesco un nuovo impero continentale (in espansione specie verso est, territorio designato da Hitler come “spazio vitale”) sottolineando che il riarmo non avrebbe avuto solo funzione difensiva. Non a caso già nel luglio 1934 faceva il suo primo tentativo di annessione dell’Austria e l’anno successivo (marzo 1935) reintroduceva il servizio di leva obbligatorio e definì un programma di ampliamento delle forze armate. Con l’episodio della Renania (nel 1919 la Francia divenne una delle potenze alleate che parteciparono all'occupazione della Renania; le tensioni razziali con alcuni tedeschi furono in seguito utilizzati a scopo propagandistico dal nascente partito nazista) ci sono tutte le premesse di quella che sarebbe stata la condotta di Francia e Inghilterra durante la guerra di Spagna, dove i motivi di difesa degli interessi nazionali saranno meno solidi e i motivi della difesa della democrazia ancor meno. La Francia usciva dalla crisi renana indifesa avendo dovuto constatare il fallimento della Società delle Nazioni che, mostrandosi incapace di far rispettare i trattati e tutelare gli interessi anche dei suoi membri più autorevoli, perdeva ogni credibilità. Per questo motivo, quando si porrà per il governo francese il problema se prestare aiuto alla Repubblica spagnola sfidando le potenze fasciste, nessuno riuscirà a capire perché correre il rischio di una guerra per la Spagna quando non fu fatto per la Renania. 2. Favorire la guerra cercando la pace Poiché l’aggressività della Germania non poteva non dirigersi anche (e soprattutto) verso la Francia, per l’URSS vi erano molte premesse per ricostruire l’alleanza della prima guerra mondiale (con l’Inghilterra) che avrebbe potuto bloccare i tedeschi tra due fuochi. La politica della “sicurezza collettiva” di cui i sovietici furono sostenitori, consisteva proprio nel realizzare questa alleanza. Hitler aveva dunque provocato un cambiamento nella linea di sviluppo delle relazioni internazionali da affrontare: tesa adesso ad un riavvicinamento delle potenze occidentali (specie la Francia) in funzione antitedesca poiché vari paesi erano minacciati dalla Germania. Ma il fatto di dover attuare un avvicinamento politico tra i governi dei paesi contraenti sui motivi ispiratori e sulle finalità delle azioni, risultò essere un grande ostacolo nella politica di alleanza dell’URSS perché essa restava il paese del comunismo, restava il paese che perseguiva l’abbattimento dei “regimi borghesi capitalisti” della Germania come della Francia e dell’Inghilterra. Da un lato questo creava una forte diffidenza nei potenziali alleati di un patto antitedesco; ma dall’altro questo rendeva anche meno concrete le possibilità di reciproco aiuto in caso di guerra. Occorreva infatti che l’URSS cercasse di colmare il fossato politico che la separava della Francia, dall’Inghilterra e dagli altri paesi borghesi ma questo poteva accadere solo se l’URSS fosse disposta ad un cambiamento radicale di linea politica. Non bastavano infatti i trattati e gli accordi interstatali; bisognava promuovere in ogni paese democratico un movimento, in cui impegnare tutti i partiti comunisti nazionali, capace di unire in una solida alleanza il più ampio ventaglio di forze sociali e politiche. Solo l’antifascismo poteva essere alla base di quella alleanza. Tuttavia, proprio quando diventava più forte il senso di timore della minaccia tedesca, si determinavano le condizioni per essere disposti a fare “il patto col diavolo” pur di costituire un fronte comune. Questa situazione di “emergenza” fece perdere progressivamente alla Comintern gli ultimi margini di indipendenza dalla dirigenza sovietica, capace ormai di imporre ai suoi aderenti bruschi cambiamenti di rotta. Il VII Congresso dell’Internazionale nell’estate del 1935 fu il contesto in cui fu formulato il nuovo indirizzo: la lotta contro il fascismo era definito come la “dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario”. La vera novità del congresso fu il fatto che in esso era indicata la necessità della creazione di un largo fronte popolare antifascista aperto ad adesioni sociali e politiche molto più vaste, con la sola condizione del denominatore comune antifascista. Il riscontro immediato di questa nuova linea politica si ebbe in Francia, che sarebbe stato l’unico paese dove essa fu sottoposta a una verifica significativa. Anche una coalizione delle sinistre, il Fronte Popolare, si sarebbe formata in Spagna nel gennaio 1936 e avrebbe vinto le elezioni. Gli eventi di entrambi i paesi in questo periodo si sarebbero influenzati vicendevolmente e gli sviluppi successivi avrebbero favorito una omologazione delle loro storie in quella che era stata definita “la stagione dei Fronti Popolari”. In un clima di violenza instaurato dalle leghe, i rapporti tra forze antifasciste divennero sempre più stretti, fino a culminare nella prima grande manifestazione pubblica (a Parigi in occasione della festa nazionale, 14 luglio) del Rassemblement populaire, l’unione dei partiti, sindacati e organizzazioni umanitarie della sinistra che prefigurava il futuro Fronte Popolare. È impossibile stabilire con assoluta certezza se fin dall’origine il riavvicinamento dei comunisti francesi agli altri partiti antifascisti fosse orientato da Mosca ma quel che è sicuro è che il Partito Comunista francese diventava il cardine e la più salda garanzia dell’alleanza che si andava costruendo. In tal modo, infatti, il partito comunista francese (PCF) finisce per fare da legante a tutto lo schieramento, spiazzando e condizionando ogni altra componente che si mostrava più insofferente di una unione organica con un partito “borghese” come il radicale; infatti il partito rinuncia al suo antimilitarismo e sostiene il riarmo del paese, rimuovendo un altro elemento di divergenza coi radicali. In una condizione di instabilità di sicurezza lavorativa, quando il Fronte Popolare si presenta come alleanza di governo alle elezioni dell’aprile-maggio 1936, esso promette ai lavoratori il recupero del potere d’acquisto soppresso o assottigliato dalla crisi e la riduzione della settimana lavorativa senza riduzione del salario. Questo avrebbe liberato posti di lavoro, venendo incontro ai bisogni di un crescente numero di disoccupati. Il fronte promette anche di stroncare la minaccia del fascismo interno sciogliendo le leghe e mettendole fuorilegge. Tuttavia, il programma del fronte non suscitava grandi entusiasmi, piuttosto rivendicazioni che dovevano essere contenute. La vittoria del Fronte Popolare fu interpretata da gran parte dei suoi elettori come il via libera ad un cambiamento decisivo della loro condizione per riequilibrare il sistema di potere. In Spagna, dopo il successo del Fronte popolare alle elezioni, il programma elettorale della sinistra era stato scavalcato da un movimento di rivendicazioni e insubordinazione diffusa che sembrava vittorioso. Si diffonde un quasi spontaneo movimento di scioperi per diverse critiche condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, tanto da spingere i lavoratori ad adottare forme di lotta più intransigenti arrivando anche all’occupazione delle fabbriche, anche per impedire che il patronato ricorresse alla serrata. Queste insorgenze toccarono anche altri settori ed imprese di minori proporzioni ma non si arrivò mai a gravi episodi di violenza, piuttosto a manifestazioni di solidarietà e umanismo. Il partito comunista, come quello fascista assecondarono il movimento. Ma i comunisti sono anche preoccupati del fatto che il movimento possa imboccare la deriva rivoluzionaria verso la quale spingono le frange più estremiste all’interno del Partito Socialista, che può gettare il paese nel disordine e infrangere l’alleanza antifascista. Si impegnarono, dunque, a limitare le lotte. Difronte al rischio di una radicalizzazione delle lotte, Blum l’8 giugno 1936 convoca le rappresentanze sindacali e quelle degli imprenditori, forzando questi ultimi ad un accordo che soddisfa gran parte le richieste dei lavoratori: il governo istituisce per legge la settimana lavorativa di 40 ore e il diritto di ferie pagate. Continuare le agitazioni non avrebbe avuto alcuno sbocco positivo, visto che la maggior parte dei lavoratori aveva conseguito il massimo risultato possibile; eppur le vicende che seguirono la vittoria del Fronte Popolare in Francia mostrano i limiti e le contraddizioni di tutta la politica frontista che non poteva limitarsi a promuovere una alleanza antifascista nei paesi democratici e a favorire un’intesa di quei paesi con l’URSS in funzione antitedesca; doveva anche sostanziarsi di contenuti che andassero incontro alle rivendicazioni popolari e quanto meno ridimensionassero il potere delle classi dominanti. Il partito comunista non poteva rinunciare a proporre una linea di continuità tra l’obiettivo rivoluzionario e la nuova politica tanto che in nessun momento esso volle presentarsi come una forza puramente riformista. Esso era ancora una forza abbastanza circoscritta ma ciò non poteva disperdere ogni inquietudine visto che la storia del movimento comunista mostrava che esso non perseguiva la presa del potere maggioritario. In questo contesto, l’elemento di maggiore debolezza del Fronte Popolare consisteva nel fatto che esso suscitava un entusiasmo popolare che superava gli obiettivi programmatici che esso si era dato, mettendo in discussione le gerarchie sociali. Si era formata una crepa così profonda da prefigurarsi come una guerra civile. La coalizione ne risentiva notevolmente, restando prossima al punto di disgregazione. In conclusione, il Fronte Popolare si rivela poco efficace sia perché l’instabilità generata in Francia accresceva l’indecisione riguardo l’alleanza, sia per il clima formatosi in paese; sia per il fatto che non riuscendo a produrre una coesione nazionale, finiva per stimolarne l’aggressività. Era perciò urgente interesse stringere i tempi, cogliere o creare quanto prima l’occasione per impedire alla Francia di acquistare la base di sicurezza e le posizioni vantaggiose che le avrebbero consentito di sostenere quello scontro o di dissuadere i suoi bellicosi vicini ad affrontarlo. 3. La convergenza delle dittature fasciste In realtà la vittoria del Fronte Popolare in Francia non aveva provocato grandi apprensioni, né in Germania né in Italia, nonostante il fatto che il divario fosse militarmente notevole. Il programma del fronte si limitava a postulare uno “sforzo incessante per passare dalla pace armata alla pace disarmata” prima tramite un patto di limitazione degli armamenti, poi tramite la loro riduzione generale. In quell’epoca, la principale preoccupazione delle autorità politiche e militari francesi non era cambiata col nuovo governo ma era rimasta quella di rassicurare e lenire l’Italia alla ricerca della sua amicizia in funzione antitedesca. Fu proprio questo senso di arrendevolezza a stimolare l’agire di Mussolini sia perché la dipendenza della Francia rafforzava la volontà di prevaricarla; sia perché il suo rinnovato antifascismo e la sua ostinata volontà di dominio apparivano provocatori a Mussolini, suscitando in egli un atteggiamento di disprezzo. Con l’affermazione del Fronte Popolare, si era già evidenziato qualche cambiamento della politica estera italiana: primo fu la guerra d’Etiopia (fino a quel momento l’Italia fascista era stata regolata del criterio di perseguire gli obiettivi sfruttando le rivalità delle grandi potenze). Perciò l’azione di Mussolini, per costruire un equilibrio, fu diretta a limitare il potere della Francia, con il favore della Germania di Weimar e della Gran Bretagna, ed in questo modo l’Italia riuscì ad assumere un ruolo di potenza di primo piano a cui venivano assegnate funzioni moderatrici, davanti al consenso europeo. Quando Hitler prende potere in Germania, Mussolini pensa di trarne vantaggio assecondando il contenimento delle sue spinte aggressive. In questa linea si erge a garante dell’indipendenza dell’Austria con l’invio di truppe al Brennero al primo tentativo di annessione e concorre a promuovere la Conferenza di Stresa, aprile 1935, dove sottoscrive con Francia ed Inghilterra una dichiarazione che le impegna ad opporsi ad ogni forma di rigetto unilaterale dei Trattati suscettibile di mettere in pericolo la pace in Europa. In realtà dal possesso dell’Etiopia, Mussolini non poteva aspettarsi grandi guadagni ma accrescere i territori coloniali gli sembrava la strada giusta da prendere per poter soddisfare la sua aspirazione ad entrare a far parte del loro circolo (Società delle Nazioni) ristretto su un piano di parità. In questa consapevolezza, la Francia si era indotta a dare il suo consenso all’impresa etiopica, sperando di mantenere indenne la Società ma entrambi i suoi obiettivi (amicizia dell’Italia ed incolumità della Società delle Nazioni) furono mancati del tutto perché la sua linea conciliativa si scontrò con un’ostilità più ferma da parte dell’Inghilterra all’aggressione all’Etiopia. Questa opposizione, però, dipendeva soprattutto dal fatto che l’espansione italiana in quell’area dell’Africa minacciava gli interessi britannici ed incoraggiava ulteriori rivendicazioni dell’Italia nelle zone di comune interesse: prima fra tutti il Mediterraneo. Ma quando Mussolini diede inizio alle operazioni militari, nell’ottobre 1935, Inghilterra e Francia condannarono l’Italia alla Società delle Nazioni come paese aggressore. Tuttavia, per non perdere vantaggi bellici, neanche l’Inghilterra voleva rompere con l’Italia; perciò consentì che le sanzioni non implicassero i metalli ed il petrolio, indispensabili a Mussolini per combattere. E mentre a Ginevra si proclamava l’intangibilità dell’Etiopia, si predisponeva un piano di pace da offrire al Duce che prendeva la cessione all’Italia di due terzi del paese africano. Così anche l’Inghilterra finì per perdere i suoi obiettivi, inaugurando una politica di appeasement di concessioni alle potenze fasciste, per distoglierle dagli obiettivi in cui erano in gioco importanti interessi britannici, che si sarebbe rivelata del tutto fallimentare. Ma da questa disponibilità delle potenze franco- britannica Mussolini fu incoraggiato a intensificare le operazioni militari in Etiopia al fine di conquistarla nel maggio 1936. Il successo e l’atteggiamento della Francia e dell’Inghilterra, produssero un decisivo cambiamento nella politica estera mussoliniana: il Duce si convinse che il peso determinante per ottenere grandi risultati per l’Italia consisteva ormai nel minacciare le potenze democratiche o fare loro guerra. Fu dunque il rigetto non solo teorico del pacifismo ma di una pratica stessa di sicurezza collettiva a collocare l’Italia a fianco della Germania. Nonostante le diffidenze italiane, i due paesi erano destinati ad allearsi a danno delle “vecchie potenze” (Francia e Inghilterra) che apparivano sempre più inette alla guerra. Nelle sue ambizioni nel Mediterraneo, l’Italia avrebbe potuto trovare un concreto ostacolo nella Francia (sottovalutata da Mussolini) nei confronti della quale il regime fascista cominciò a rendere pubbliche una serie di rivendicazioni: Tunisia, Corsica, Nizza e la Savoia. In questa prospettiva, tuttavia, Mussolini non poteva non condividere le sue preoccupazioni sui possibili sviluppi politici in un paese governato da una coalizione il cui comune denominatore era l’antifascismo. Perciò egli fu spinto a premunirsi, indebolire o annullare ogni posizione di forza della nazione vicina. Dunque, la vittoria del Fronte Popolare destava da un lato una “gioia maligna”, dovuta alla loro convinzione che in seguito a quella vittoria la politica interna francese sarebbe entrata “in un’epoca di difficoltà che se i partiti di sinistra fossero rimasti uniti e se il loro blocco si fosse dissolto, la Francia non sarebbe sfuggita all’anarchia e alla guerra civile”; dall’altro lato infondeva però il timore che nella nuova situazione politica francese potesse crescere il peso dei comunisti che avrebbe minacciato il Reich da ovest. Di qui la stessa propensione dell’Italia fascista a stringere ancora di più la Francia a cogliere o creare occasioni che ne accrescessero le discordie intestine e indebolissero le sue difese. CAPITOLO 2: UNA TRAGEDIA SPAGNOLA La grande occasione di indebolire le difese francesi fu la Spagna: in quel paese una coalizione di Fronte Popolare aveva vinto le elezioni nel febbraio 1936, pochi mesi prima lo stesso risultato si ebbe in Francia. Tuttavia, nel contesto internazionale, questa coalizione di sinistra aveva avuto meno successo in Spagna che in Francia sia per la marginalità iberica nella storia europea sia perché l’origine e la storia del Fronte spagnolo non si inseriva nel programma del Comintern. Anzi, la spagna si inserì nel contesto bellico solo in seguito ad un equivoco: la sbagliata denominazione di un cartello elettorale perché il Partito Comunista spagnolo (formazione politica piuttosto esigua) non aveva avuto alcun ruolo nella nascita del Fronte, a differenza di quanto avvenne in Francia. L’iniziativa dell’alleanza era stata presa da Manuel Azana, il leader più prestigioso della sinistra democratica, che il 20 ottobre 1935 in vista di probabili elezioni, aveva lanciato l’idea di una coalizione delle sinistre durante un comizio a Madrid. Fino al giorno precedente al comizio, molti partecipanti avevano invaso Madrid con numerosi camion, vetture private, biciclette, muli e cavalli. Un ingorgo di tale importanza spinse la Guardia Civil, l’arma di polizia, a bloccarli a molta distanza dalla meta costringendo i partecipanti a percorrere a piedi un lungo tragitto. Ciò che stupisce è il fatto che dietro quella affluenza di massa v’era un partito quasi inesistente ed incapace di sostenere quella mobilitazione, sebbene i Partiti Socialista e Comunista avessero esortato i loro militanti ad assistere al comizio senza impegnarsi ad organizzare i vari trasporti. Lo sforzo organizzativo, non a caso, fu imponente ma non tutti riuscirono ad arrivare in vista della tribuna da cui parlò Azana. Per la verità il suo discorso non fu emozionante; era dedicato a problemi internazionali e finanziari, ad una contestazione dell’operato del governo in carica, a propositi costruttivi generici. La stessa proposta dell’alleanza delle sinistre era stata fatta quasi per inciso e senza enfasi. Ma il discorso non rinunciò ad una conclusione ad effetto: aveva imposto il silenzio alla folla, silenzio che dichiara la tristezza e l’indignazione del popolo. Tutti i presenti erano lì per esprimere la voglia di riscatto; l’alleanza che, infatti, si andò a costituire si definiva soprattutto in negativo, mostrando un’ostilità non tanto al fascismo quanto al blocco ultraconservatore, militarista e oscurantista che aveva dominato nel paese per quasi tutto l’arco della sua storia contemporanea. Quando la guerra civile sarà scoppiata e la Spagna repubblicana verrà tappezzata da manifesti, l’esempio più significativo risiedeva nel manifesto della “navicella della Spagna nazionale” del vignettista Juan Antonio Morales che dava grandissima evidenza al blocco dei tradizionali “nemici del popolo” con in primo piano un generale ed un uomo con un sacco di monete a simboleggiare i banchieri, i capitalisti ed ogni altro tipo di facoltoso possidente. Il lungo predominio precedente era stato contraddistinto dalla comune volontà di esercito, Chiesa e classi dominanti di mantenere soggette le classi subalterne, di tenerle lontane da ogni tipo di emancipazione e soprattutto dalla democrazia. 1. Le sventure della democrazia La strada dell’emancipazione delle classi subalterne, della democrazia e del sistema liberale che ne gettò le basi è stata sommersa da ostacoli e difficoltà. Liberalismo e democrazia sono stereotipi a cui nessun paese è mai riuscito ad aderire perfettamente: nessuno stato europeo ne è rimasto così a lungo e così distante quanto la Spagna perché in nessuno degli stati europei le forze armate statali giocarono un ruolo così distruttivo dell’ordinamento costituzionale, delle norme di attribuzione del potere (suffragio) e della possibilità per le classi popolari di ottenere per questa via la partecipazione al governo del paese e un miglioramento delle loro condizioni generali di vita. Nel corso di novant’anni, tra il 1834 ed il 1932, per ben nove volte, i militari avevano imposto con l’uso delle armi e con minacce un cambiamento radicale del governo e della Costituzione. Nello stesso arco di tempo, numerosissimi furono anche i pronunciamenti falliti e le sommosse militari a carattere circoscritto dirette ad esercitare pressioni sui governanti e a raggiungere obiettivi più limitati. Tra il 1840 ed il 1874, si registra accanto al personale politico anche una forte presenza di politici-militari, tanto che lo storico inglese Raymond Carr potè definire quegli anni come il periodo del “parlamentarismo pretoriano”. Al forte peso esercitato in politica dai militari spagnoli di quel periodo, si accompagnava una loro assunzione di compiti di amministrazione civile specie nell’area di competenza dei ministeri dell’Interno e della Giustizia, con conseguenti gravi limitazioni dell’esercito delle libertà civili da parte dei cittadini. I metodi repressivi dei disordini e delle violazioni popolari delle norme dell’autorità militare erano quelli di un esercito d’occupazione in territorio di operazioni, con cannonate sulla folla, corti marziali e rapide esecuzioni dei trasgressori. Neppure il condannare di queste azioni servirono perché i militari continuarono ad ingerirsi nella politica del paese, senza ammettere limiti e aree di intangibilità per la loro azione. Lo strapotere del militarismo era un sintomo di un’intima e persistente refrattarietà della società spagnola e in primis della sua classe dirigente, ad accettare quelle norme. In primo luogo, infatti, l’esercito era stato chiamato a salvare il sistema liberale dall’attacco del carlismo (forte movimento che rappresentava una volontà diffusa di mantenere la monarchia assoluta e l’antico regime). Poiché le pretese di don Carlos e dei suoi successori non si erano estinte, lo spirito di dedizione rimase vivo manifestandosi in altre guerre (carliste) nel corso del XIX secolo. Fu col caso della difesa della corona di Isabella che gli uomini dei pronunciamenti rimasero ostili al liberalismo, continuando ad operare entro le sue coordinate, con costituzioni, parlamenti ecc (parlamentarismo pretoriano) senza instaurare una vera dittatura militare a cui sarebbero stati più inclini. Ma non spiega del tutto il loro interventismo: questo fu determinato o favorito dal fatto che né i sovrani né la gran parte dei politici civili fossero molto inclini a far funzionare il sistema liberale ed in particolare le norme fondamentali che regolavano l’accesso al potere politico con esclusione di ogni ricorso alla forza o alla frode. Tra il 1833 ed il 1874 la scena politica della Spagna liberale è infatti dominata dal conflitto di due partiti, il Partito Progressista ed il Partito Moderato, le cui posizioni opposte riguardavano l’estensione delle libertà civili e dei poteri delle Cortes, l’esproprio dei beni ecclesiastici, l’autonomia delle amministrazioni locali ed i requisiti necessari per essere elettori. Poiché i moderati prevalsero più a lungo, il suffragio rimase censitario; non a caso con un elettorato così ristretto ed omogeneo socialmente si lasciò che le maggioranze parlamentari fossero decise dal voto. Ogni governo, infatti, manipolava le elezioni e otteneva la vittoria così sistematicamente da rendere vana ogni competizione politica. Al partito dell’opposizione non restava altra via per aggiungere il potere se non ricorrendo a metodi violenti, praticando il reitraimiento (rifiuto di partecipare alle elezioni dando per scontato che sarebbero state truffaldine) che provocava agitazioni popolari e sollevazioni nelle città principali. I frequenti pronunciamenti erano legati all’impossibilità dell’alternanza dei partiti al potere che con la Restaurazione (col ritorno sul trono di Alfonso XII, figlio di Isabella) si pensò di riuscire a porre fine agli interventi militari e stabilizzare il sistema liberale rendendo realizzabile l’avvicendamento dei partiti al governo. Così fu fatto e da qui seguì un periodo di circa mezzo secolo in cui non ci furono né pronunciamenti né ingerenze decisive dell’esercito nell’ambito della politica riservata ai cittadini. Ma questo rimedio fu addirittura peggiore perché fu il frutto di artifici, frodi ed altri espedienti col risultato di presentare la democrazia agli occhi di grandi masse di uomini che vi si accostavano come un inganno e una farsa. Tra i Partiti Conservatore e Liberale, eredi del moderato e del progressista, fu infatti concordato il patto di governare a turno: dal 1881, anno in cui Antonio Cánovas del Castillo (leader dei conservatori) si spogliò del potere indicando al re di nominare suo successore come primo ministro Práxedes Sagasta (leader dell’opposizione), fino al colpo di stato di Primo de Rivera, i due partiti si alternarono al governo regolarmente quasi senza eccezioni. Ma quella regolarità di “rotazione” non poteva essere garantita che dalla perpetuazione di un sistema caratterizzato dal fatto che anziché essere i governi a dipendere dalle maggioranze parlamentari, erano i governi a crearle: il re scioglieva le Cortes dopo aver affidato al primo ministro l’incarico. L’”illimitata parzialità” dipendeva dal fatto che i governi predisponevano del cosiddetto encasillado (mappa dei risultati elettorali collegio per collegio) concordando con il partito cui toccava il turno dell’opposizione una consistente rappresentanza di minoranza, e usavano poi tutte le possibili risorse a disposizione perché la composizione delle future Cortes corrispondesse a quanto pianificato. Preferendo mezzi più pacifici, si ricorse alla vasta rete delle clientele ramificata per il paese che nei collegi faceva capo a notabili, i caciques, capaci di indirizzare a loro piacimento la scelta degli elettori. In questo modo, prassi elettorale, sistema politico e sistema clientelare furono considerati un tutt’uno e designati come fenomeno del caciquismo. In realtà questi notabili non potevano nulla senza la complicità del governo, a cui spettava l’azione risolutiva nel determinare la vittoria dei suoi candidati: si presentavano delle difficoltà. Quando per i dissidi locali gli elettori si mostravano indocili, non si esitava comunque a ricorrere a casi di violenze, minacce, controllo dei seggi, controllo della documentazione elettorale dopo il voto, giacché con questo sistema i risultati venivano manipolati in modo favorevole al candidato designato dal governo. Vista la situazione, i governi alla vigilia delle elezioni provvedevano (tramite i prefetti) a insediare dove possibile gli uomini disposti ad assecondare i loro disegni. Questa pratica era talmente di dominio pubblico che per tutto il XIX secolo il funzionamento del sistema fu favorito dall’assenteismo dell’elettorato. Antonio Maura, il leader conservatore che avrebbe voluto ristabilire il sistema, scriveva che “la dominazione oligarchica del caciquismo derivava dall’indifferenza di un popolo che si ritrae dalla propaganda, dalle controversie e dalle elezioni”. Delle 19 elezioni generali celebrate in quel periodo, 18 furono vinte dal governo, ad eccezione di quelle del 1919 perdute da Maura perché non volle scendere a patti coi liberali. Malgrado le crescenti opposizioni, la regola spartitoria che presiedeva al sistema era talmente ferrea che si procedette allo stesso modo fino alla fine. Così le elezioni del 1923, le ultime del periodo, ebbero le stesse o peggiori caratteristiche delle precedenti per tutto quel che riguarda falsificazione, corruzione, pressioni al fine di far risultare eletti i candidati encasillados, fossero essi governativi o dell’opposizione. Il sistema del turno andò progressivamente verso la soppressione, trascinando con sé anche il sistema liberaldemocratico. 2. Movimenti centrifughi Anche molta parte degli intellettuali e uomini politici che credevano nella bontà di un genuino sistema liberaldemocratico cominciarono a pensare che fosse necessario ricorrere a metodi forti per innestarlo stabilmente nel paese. Uno dei principali animatori del movimento “rigenerazionista”, Joaquín Costa, nel 1901 scrisse che per conseguire a quella rigenerazione occorreva un “chirurgo di ferro” che estirpasse i mali della patria affinchè la Spagna potesse essere una nazione parlamentare cambiando la forma oligarchica dello Stato con un regime liberale e di selfgovernment; ma per raggiungere quel fine occorreva un governo personale, forte che dotasse il popolo delle qualità che gli mancavano per essere capace di una civiltà superiore. La voce di costa si confondeva, però, con quella dei nemici del Parlamento che non pensavano affatto alla provvisorietà della sua abrogazione. Tuttavia, quella proposta di via dittatoriale alla democrazia appariva come l’unica via di salvezza per il sistema liberaldemocratico. Per questo, quando nel 1923 il generale Primo de Rivera venne ad impersonare il “chirurgo di ferro” instaurando una dittatura militare (con sospensione e non abrogazione della Costituzione), non incontrò quasi nessuna opposizione e fu accolto con grandi aspettative. Nonostante ciò, non poteva essere il generale ad educare gli spagnoli alla democrazia perché il sistema del turno non era stato che lo specchio di una classe dirigente medio-alta (dedita alle sue particolari convenienze, incapace di una visione degli interessi collettivi) che il generale non voleva né poteva surrogare. La massima sventura della democrazia fu che a partire dal 1890, da quando fu introdotto il suffragio universale maschile, le classi subalterne non furono più spettatrici ma vittime del sistema del turno. Il sistema del turno, infatti, non ebbe come effetto solo quello di allontanare le classi subalterne dalle elezioni e dalla liberaldemocrazia più che in qualsiasi altro paese europeo; esso contribuì anche ad allontanarle da ogni ordinamento della vita collettiva fondato sullo Stato, indirizzandole verso forme di organizzazione comunitaria più circoscritte e con connotazioni utopiche (a loro dire più genuine e più aperte alla loro partecipazione e più rispondenti ai loro bisogni). La loro spontanea ostilità al sistema liberaldemocratico debordava così nella radicale avversione a ogni forma di Stato, nucleo dell’ideologia anarchica diffusa alla fine degli anni ’60 del XIX secolo. La grande diffusione dell’anarchismo già aveva acquistato terreno nell’identificazione con la patria chica (luogo di nascita, locale e non nazionale) piuttosto che con quella nazionale, che caratterizzavano l’area iberica e che si erano palesati spesso in una frammentazione della sovranità nel corso delle crisi della Spagna liberale. I pronunciamenti, infatti, erano quasi sempre preceduti da numerose sollevazioni di città anche di piccole dimensioni in cui si insediavano giunte di governo disposte a trattare con le altre come fossero organi autonomi o sovrani (come avvenne ad esempio a Saragozza). Per questo, lo Stato liberale si frantumava. Fino al punto che quando nel 1873 si instaurava la Repubblica, i “repubblicani intransigenti” delle provincie davano vita alla “rivoluzione cantonalista”, in cui la polverizzazione del potere arrivò a provocare aperti conflitti tra i cantoni (divisioni amministrative) come quelli di Siviglia e Cartagena, che cominciarono a tenare di espandersi fuori dalla loro sfera di influenza, e quelli di città che non volevano scambiare la tutela di Madrid con la tirannia di una nuova capitale. Fu in questo contesto di rivoluzione che iniziò a diffondersi l’Internazionale dei Lavoratori il cui deputato Giuseppe Fanelli era venuto a promuoverne l’organizzazione. Invece, durante il 1873 gli internazionalisti entrarono in azione: critici verso i “repubblicani intransigenti”, indussero uno sciopero generale a Barcellona e la rivolta di Alcoy dove durante uno sciopero i lavoratori fucilarono il sindaco e decapitarono il suo corpo e quelli delle guardie uccise nella mischia, organizzando una parata lungo le vie della città. Da allora, dopo essere stata dichiarata fuori legge, l’organizzazione crebbe in clandestinità fino alla reintroduzione nel 1881 della libertà di associazione come Federación de Trabajadores de la Región Espanola. Perduta la sua forma unitaria, il movimento anarchico spagnolo conobbe la forte ostilità e la persecuzione dei governi borghesi; nondimeno esso continuò ad essere per gran parte dei lavoratori il principale punto di riferimento ideologico e rivendicativo. L’ideale del collettivismo e del “comunismo libertario” divulgato dagli anarchici si innesta così sulle rivendicazioni ancora vive del ritorno all’uso comune delle terre come in Antico Regime. La loro propaganda incontra un terreno fertile che ne permette una diffusione a miccia; tanto che il forte ruralismo del movimento anarchico in questo periodo è dovuto anche al fatto che esso era rimasto l’unica espressione politica delle classi subalterne delle campagne. Ma il movimento si andò diffondendo soprattutto a partire dagli anni ’80 del XIX secolo, anche nelle aree urbane (conquistando Barcellona, il centro industriale del paese). Anche in questo caso esso attecchì e gettò le sue basi in un clima di lotte popolari ed operaie che risultarono controproducenti per le indiscriminate reazioni repressive che provocano, tanto da lasciare forti sospetti che in diversi casi proprio la repressione fosse il fine ultimo di attentatori armati dal padronato o dalla polizia. Tanto più che nella prima decade del ‘900, gli obiettivi degli attentati furono spesso luoghi socialmente neutri (mercati, caffè..) privi di significato concreto o simbolico e le vittime casuali. Questa catena di attentati inizia ad esaurirsi solo quando il movimento anarchico ritrova un nucleo organizzativo con la Confederación Nacional del Trabajo (CNT) e con la Solidaridad Obrera, in cui confluiranno man mano migliaia di lavoratori in tutta la Spagna. All’interno della CNT si fa così strada una linea di sindacalismo rivendicativo e riformista sostenuta da alcuni leader come Salvador Seguí e Angel Pestana: questi uomini per alcuni anni riescono a dare alla CNT la forma di un sindacato moderno, combattivo ed orientato al conseguimento di obiettivi accettabili dalle controparti statali. Questa tendenza sembra così consolidarsi con il congresso di Sants (1918) durante il quale la confederazione si riunisce per rami d’industria e con la vittoria del lungo sciopero contro l’impresa elettrica Canadiense (1919). Però, nei primi anni ’20, i “sindacalisti” della CNT perdono il controllo della situazione, travolti dalle guerre dei pistoleros che contribuiranno a distruggere il movimento anarchico perché quell’ambiente di guerra aperta favorirà i progetti di Primo de Rivera come restauratore dell’ordine e rigeneratore della politica e dell’amministrazione. Dopo la scomparsa della CNT e di tutto il movimento, essi risorgeranno solo con l’avvento della Repubblica democratica. Nel frattempo, in Germania, Francia, Paesi Bassi ed Italia sorgono i partiti socialisti che intraprendono una marcia attraverso le istituzioni che li porterà in Parlamento a rappresentare i bisogni dei lavoratori del loro paese, facendo gradatamente declinare la caduta dell’anarchismo. Tuttavia, in Spagna, col sistema del turno questo diventa impossibile: il PSOE (Partido Socialista Obrero Espanol) di ispirazione riformista fondato da Pablo Iglesias nel 1879 vive una vita minoritaria fino alle elezioni del 1910 quando viene per la prima volta eletto come unico rappresentante del suo partito. Solo con le elezioni del 1923, le ultime del periodo del turno, i socialisti raggiungeranno il più alto numero di rappresentanti alle Cortes mai ottenuto. Questo dimostrava il fatto che una tale chiusura alla rappresentanza democratica dei lavoratori non poteva far altro che produrre una radicalizzazione del loro movimento. Il Partito Socialista nell’agosto 1917 si farà principale promotore di uno sciopero generale il cui seguito fece temere alle autorità sbocchi rivoluzionari (come quelli della Russia): lo sciopero però fu stroncato con l’intervento dell’esercito mentre i membri del comitato dello sciopero verranno condannati all’ergastolo. Come conseguenza di questo deficit democratico, si era sviluppato a Barcellona (anche tra repubblicani) un movimento estremista (il Partito Radicale di Alejandro Lerroux) i cui giovani rappresentanti saranno promotori nel 1909 di una settimana di sommossa – la settimana tragica – nella capitale catalana. In seguito a questo Lerroux fu denominato l’”Imperatore del Parallelo” e considerato il primo canalizzatore dell’azione delle masse urbane spagnole verso le pratiche della rappresentanza politica moderna, per essere stato capace di indirizzare il suo movimento su obiettivi elettorali sconfiggendo (nel 1901) i candidati governativi. In nessun altro paese il popolo era così convinto del fatto che la democrazia fosse una finzione irrealizzabile: più che altrove mancò in Spagna alle classi dominanti la capacità di arginare la lotta promossa dal basso e al tempo stesso mitigare i propri egoismi col nazionalismo, usare la nazione come collante contro la disgregazione del corpo sociale. Questo dipese dal fatto che a loro stesse faceva difetto il senso della collettività nazionale, non come idea quanto come responsabilità; perciò mancò loro anche la forza morale di coinvolgere le classi subalterne in una grande impresa nazionale condividendo con esse i sacrifici necessari a realizzarla. La guerra di Cuba, la cui conclusione nel 1898 è ancora oggi in Spagna designata come el desastre, è forse l’evento più significativo dell’inadeguatezza della classe dominante spagnola ad essere anche classe dirigente nazionale: non solo per la sua inettitudine a prevenire la rivolta dei cubani e la sua iattanza nell’affrontare la guerra con gli Stati Uniti ma anche per la sua indisponibilità a dividere col popolo sforzi e sofferenze che la difesa del suo residuo impero d’oltremare comportava. La guerra fu un disastro non tanto per la sconfitta e le sue perdite (Cuba, Portorico e Filippine) ma per il modo in cui venne persa: si giunse alla disfatta in soli 4 mesi, con il totale affondamento delle flotte del Pacifico e dell’Atlantico senza che la marina americana subisse perdite di uomini e naviglio. Questo mostrava la debolezza di una classe politica screditata, impotente a far fronte ai furori nazionalistici dell’esercito e della stampa, e incapace quindi di sottrarre il paese ad una sconfitta inevitabile. A fermare ogni possibile sviluppo del nazionalismo popolare fu la volontà delle classi dominanti di far pagare il prezzo di sangue della guerra alle classi subalterne, conservando la facoltà per i ricchi di evitarlo tramite l’esborso di una somma per il pagamento di un sostituto. Alla mortificazione del sentimento nazionale si aggiunse il disvelamento della “falsità” del patriottismo delle classi dominanti o della loro volontà di ripartirne i costi sempre in modo ineguale. Questi due fattori accelerarono la separazione delle classi subalterne dalla comunità nazionale. A seguito del desastre, il movimento catalanista (rivendicazione di identità culturale) si volge in aperta disaffezione nei confronti dello Stato spagnolo: notabili e fabbricanti attribuirono al governo della capitale le responsabilità della sconfitta e cominciarono a distaccarsene costituendo nel 1901 la Lliga Regionalista, che avrebbe dovuto creare le basi di un autogoverno regionale e rappresentare più efficacemente gli interessi catalani delle Cortes. Ma per quanto non avesse alcun carattere nazionalista, la Lliga fece da intermediario ad un movimento catalanista sempre più consistente e combattivo. Il movimento catalanista faceva tanti più iscritti quando più si scontrava con un nazionalismo spagnolo centralista così chiuso che la sola concessione nel 1914 della Mancomunitat (per realizzare opere di interesse comune) fu vista come un delitto di lesa patria. Questo atteggiamento non poteva che esasperare i caratteri di forza centrifuga del catalanismo, accentuandone la componente democratica. Il catalanismo delle classi medie e popolari prese così un carattere radicale, indipendentista e repubblicano che sarebbe giunto a maturazione nel periodo successivo alla Restaurazione (dal congresso di Vienna 1/11/1814 ai moti del 1830-31). Al momento del recupero del catalano come lingua di cultura, i catalani avevano una conoscenza talmente imperfetta della loro lingua da essere incerti addirittura sugli articoli maschili. Il movimento nazionalista, nel Paese Basco, nacque politicamente come “foralismo”, come rivendicazione dei fueros dopo la loro definitiva abolizione del 1876 perché trovava in essi la concrezione giuridica dei costumi, usi e tradizioni immemorabili dei baschi e quindi il fondamento della loro identità e un sinonimo della loro indipendenza. Per questo il nazionalismo basco si configura subito come indipendentismo e come netta ripulsa della Spagna e degli spagnoli. Sabino Arana, il suo inventore e teorico gli da un carattere fortemente combattivo contro “la nazione che opprime la Biscaglia” (comune di una comunità spagnola). Nonostante questo primo nazionalismo basco fosse più separatista e aggressivo di quello catalano, ricevette meno attenzione e suscitò minore ostilità da parte dei governi di Madrid sia perché fu più circoscritto, sia perché, discendendo dal carlismo, era estremamente conservatore e così ultracattolico da poter contare sullo scudo delle gerarchie ecclesiastiche: esso rappresentava in larga misura una reazione di rigetto della società tradizionale alla rapida industrializzazione della Biscaglia; lo sviluppo delle miniere e dell’industria basca nell’ultimo terzo del XIX secolo era infatti stato talmente intensivo da forzare al massimo i tempi del normale processo di adattamento della società preindustriale al cambiamento. In particolare l’industrializzazione comportò un aumento demografico (la popolazione di Bilbao quintuplicò) a cui concorse la manodopera proveniente dal resto della Spagna. IL NAZIONALISMO BASCO FU LA REAZIONE DI UN’IDENTITÁ CULTURALE MINACCIATA DA SCONVOLGIMENTI SOCIALI PRODOTTI DALLA RAPIDA INDUSTRIALIZZAZIONE E DALL’IMMIGRAZIONE MASSICCIA DEI LAVORATORI SU UN POPOLO CON UNA MARCATA COSCIENZA PARTICOLARISTA E CON FORME DI VITA E COSTUMI PROFONDAMENTE CONSERVATORI E TRADIZIONALI. Respinti, quegli immigrati consumavano le loro vite precarie in lavori in fabbriche, officine e laboratori malsani, concentrati nei vicoli di case del centro antico o nei suburbi senza servizi igienici. Male accolti, questi uomini erano disponibili a confluire con la loro disperazione in qualunque movimento di rottura dell’ordine esistente. In questo contesto, la vicenda della “settimana tragica” mostra la leggerezza della componente ideologico-politica nell’orientare l’azione di queste masse nei loro moti di rivolta. Iniziata come sommossa contro l’imbarco di riservisti per la guerra in Marocco, la rivolta avrà come oggetto di furia, chiese ed altri edifici religiosi a denotare che quei paria dei grandi agglomerati urbani si sentivano abbandonati dagli uomini come anche dal cielo, visto che la Chiesa li aveva respinti e delusi. 3. La Chiesa e i suoi apostati In una rappresentazione teatrale di uno spettacolo comico a Madrid nel 1831, si rilevava tra il popolo una certa irriverenza verso il clero ed un eccetto di familiarità con “le cose sante”: questo fu l’effetto di una vita in cui la pietà era diventata abitudine o di un indebolimento delle credenze che fa sì che si rida dell’antica fede degli spagnoli. Al di là delle impressioni, in una Spagna che stava avviando la sua transizione verso la modernità, molti uomini vivevano ancora immersi nel sacro mentre altri avevano mutato l’antica fede in una feroce ostilità esplosa nel 1834 nella matanza dei frati di Madrid, massacrati per le strade della capitale. L’anno successivo, altri episodi sarebbero avvenuti a Saragozza e a Reus, mentre a Barcellona si bruciavano i conventi dando inizio ad una lunga tradizione. La posta in gioco tra i due schieramenti, il clericale e l’anticlericale, che da allora cominciavano ad affrontarsi nella storia di Spagna era principalmente di potere politico ed economico: pur di mantenere la sua autorità, la Chiesa aveva cercato di tenere il piede tra liberalismo e assolutismo. Tuttavia, in questo conflitto chiarificato nella prospettiva di successione al re tra don Carlos ed Isabella, la Chiesa cercò di non compromettersi con nessuna delle due parti, sebbene i suoi uomini più intransigenti avessero da tempo scelto di dare battaglia insieme al pretendente. La Chiesa non solo perse le decime e ogni altra forma di tassazione in suo possesso ma in forza delle leggi di desamortización, adottate tra il 1835 e il 1855, che prevedevano l’incameramento da parte dello Stato dei beni ecclesiastici, fu spogliata di quasi tutto il suo patrimonio terriero e di buona parte di quello immobiliare urbano. Gli espropri furono preceduti da dalla soppressione degli ordini monastici ai cui membri furono riconosciute modeste pensioni statali, scarsamente pagate, mentre il mantenimento del clero secolare veniva demandato alle casse di uno Stato in ristrettezze finanziarie. In conseguenza, non solo peggiorarono le condizioni di gran parte del clero basso, ma soprattutto la Chiesa perse uno strumento di influenza così importante che molta dell’attività pastorale dei vescovi spagnoli del XIX secolo fu diretta al recupero del potere economico perso in seguito alle misure di desamortizacion. Juan Alvarez Mendizábal, il ministro che nel 1836 adottò le più drastiche misure d’esproprio nei confronti della Chiesa, lo fece soprattutto per far fronte ad urgenti spese per l’esercito senza le quali la guerra contro don Carlos sarebbe stata persa. Per le costanti difficoltà finanziarie, anche i governanti liberali più moderati non poterono tornare indietro sulla via della desamortizacion. Uno di questi, Juan Bravo Murillo, si impegnò a sospendere gli espropri in cambio dell’accettazione da parte del Vaticano di quelli già avvenuti. Costretta a subire l’impoverimento, la Chiesa rimase decisa e rivalersi sul piano del potere mantenendo nei confronti dello Stato liberale un atteggiamento di integralismo. Quella stessa congiunzione di religioso e politico comportò la grave conseguenza di aggregare in un’unica militanza due adesioni che avrebbero dovuto rimanere distinte. Durante la Restaurazione, si aprirono scuole, ospedali, manicomi, associazioni di accoglienza per giovani sbandati, il cui personale era costituito da religiosi, con una grande espansione delle congregazioni e una crescita rapida e consistente dei loro membri. In concorrenza con le organizzazioni sindacali socialiste e anarchiche si costituirono diverse associazioni operaie, rivolte più al mutualismo e all’assistenza che al sostegno degli associati nei conflitti di lavoro; anche se a partire dal nuovo secolo (XX) si crearono veri e propri sindacati scarsamente combattivi e dipendenti dai finanziamenti padronali in funzione antisocialista. Negli anni della Restaurazione si andò elaborando, nell’ambito della rigida ortodossia cattolica, un’ideologia nazionalista nella quale la Chiesa aveva il ruolo di guida ispiratrice delle grandi imprese della storia del paese e di coagulo dell’identità nazionale. Sebbene questo nazionalcattolicesimo non fosse un indirizzo concreto della Chiesa spagnola, esso conquistò moltissime adesioni tra gli ambienti cattolici ed il clero, creando un forte legame tra essi e l’esercito. La convergenza si saldò con la figura di Alfonso XIII che era in grande sintonia con le gerarchie militari sul modo di concepire la grandezza della nazione e che al tempo stesso era sostenitore della funzione portante della Chiesa per la stabilità del sistema sociale esistente. Questo legame tra Chiesa, nazione e trono avrebbe trovato la sua massima espressione nel 1919 quando il re consacrava la Spagna al Sacro Cuore di Gesù, inaugurando un monumento su cui svettava l’alta croce del Cerro de los Angeles. IN UN PAESE ORFANO DI UN NAZIONALISMO FORTE DI IMPRESE RECENTI, LA CHIESA ACCRESCEVA IL SUO ASCENDENTE COME CONTINUITÀ DI UN GLORIOSO PASSATO. Era inevitabile che a fronte di una Chiesa così clericale e intollerante si sviluppasse un anticlericalismo tanto più aggressivo quanto più politicamente perdente: quantunque il conflitto tra clericali e anticlericali occupasse uno spazio crescente nell’agone politico, i tentativi di laici e anticlericali di “secolarizzare” lo Stato furono sconfitti. A deviare il laicismo verso un anticlericalismo contribuirono il potere della Chiesa nell’educazione e nell’emarginazione di ogni istanza di istruzione aconfessionale aperta alla cultura della ragione. Nel 1876 Francisco Giner de los Ríos fondò un centro di istruzione indipendente, la Institución Libre de Ensenanza, ispirata ad un’etica laica ma non irreligiosa, aperta alla conoscenza scientifica e a metodi educativi razionali e moderni, per la quale passarono molti dei maggiori rappresentanti della cultura spagnola contemporanea: Joaquin Costa, Américo Castro, Antonio Machado, Juan Ramon Jimenez. Tuttavia questo centro restò un’isolata scuola di elite nemica della Spagna e della religione. Difronte a ciò, l’anticlericalismo cercò una rivalsa nella denuncia del suo oscurantismo e dogmatismo come ostacoli ad ogni progresso e ad ogni benessere che potessero derivarne; soprattutto esso tese a eroderne l’autorità ed il seguito popolare denunciando la sua debolezza morale accusandola di avidità, mondanità e ipocrisia. Nel 1907 Lerroux attaccava in un discorso pubblico i Gesuiti, bersaglio favorito per il loro attivismo e il loro crescente potere economico accusandoli di avere sete d’oro, di appropriarsi delle eredità, di catechizzare le figlie delle famiglie ricche e di sotterrarle nei loro monasteri. L’anticlericalismo politico e acculturato, incontrandosi con quello del popolo, cominciò ad avere un’enorme risonanza: gli organi di stampa radicali e repubblicani come “la Publicidad” o “el Progreso” si facevano ogni giorno espressione dell’anticlericalismo più virulento, ma più che istigatori essi erano punto di attrazione di un pubblico popolare che voleva leggere. I sentimenti anticlericali erano così diffusi che qualunque movimento politico che volesse radicarsi tra le classi subalterne e goderne dell’appoggio, doveva condividerli. Anche il movimento operaio ne fu conquistato. Era improbabile che il clero spagnolo deviasse più di altri dalle norme morali che esso stesso predicava e che fosse dedito ad ogni sorta di vizi ma a quelle accuse di tradimento ecclesiastico del Vangelo credeva molta parte del popolo come vendetta per un abbandono, come risentita denigrazione di una chiesa che aveva messo una grande distanza fra sé ed i suoi fedeli. È innegabile che la Chiesa lungo il processo di urbanizzazione e industrializzazione della Spagna si schierò dalla parte delle classi dominanti e nei conflitti di lavoro dalla parte dei padroni ma, rinunciando a collocarsi in una posizione di mediazione che stemperasse i conflitti di classe, la Chiesa non potè impedire che questi diventassero una guerra in cui anch’essa sarebbe rimasta coinvolta. Ma più che un errore di prospettiva, quello schieramento e quella rinuncia erano il riflesso di una vera lontananza dalle classi subalterne, di un’ostilità alla loro emancipazione, alla loro conquista del diritto a migliori condizioni di vita che privasse in gran parte di senso le opere di carità che favorivano la diffusione del suo credo e giustificavano la sua stessa esistenza: era questo il nodo del conflitto tra Chiesa e masse di popolo che continuavano a essere cariche di necessità materiali e bisogni religiosi, ma non riuscivano ad accettare che occorresse rassegnarsi alla subordinazione per soddisfare le une e gli altri. La Chiesa a partire dalla Restaurazione, aveva accompagnato un fervore di opere di carità che coprivano i servizi assistenziali che in molti paesi europei erano prestati dallo Stato; essa appariva così preoccupata piuttosto di garantirsene la docilità, l’ottemperanza ai suoi precetti e alle pratiche religiose da cui si erano allontanati. Non a caso, dalla metà del XIX secolo, si era avviato un processo di “scristianizzazione” che avrebbe imposto alla Chiesa l’invio di periodiche missioni interne al fine di rievangelizzare le popolazioni. “I FIGLI DEL POPOLO SI GETTAVANO FRA LE BRACCIA DI UN SOCIALISMO ATEO E RIVOLUZIONARIO”. Prima di gettarsi in queste braccia, però, c’era stato un lungo periodo di abbandono: fisico perché il clero parrocchiale era insufficiente, morale e spirituale perché la Chiesa appariva fermamente associata alla ricchezza e avversa all’emancipazione delle classi subalterne tanto da incrinare la fiducia di queste nel carattere provvidenziale della sua esistenza. Per molti era stato spontaneo il passaggio dall’indifferenza all’empietà: Dio era crollato con la sua Chiesa perché senza il supporto di essa era difficile sviluppare una religiosità alternativa. Più facile fu mutare il fervore religioso in aggressività anche in odio di una illusione non svanita completamente. Tuttavia la situazione non era uguale in ogni parte del paese: cinquant’anni dopo la chiesa aveva addirittura rafforzato le sue roccaforti dei Paesi Baschi e della Navarra, della Catalogna rurale e della Meseta settentrionale, grazie ad un clero più presente nella vita comunitaria. Così la linea di frattura del corpo sociale in base alle adesioni religiose non seguiva solo un andamento che separava le classi subalterne da quelle medio-alte, si ramificava anche per la geografia nazionale, come per scavare una trincea.