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CULTURA SPAGNOLA

L’ECLISSI DELLA DEMOCRAZIA


CAPITOLO 1: VERSO UNA GUERRA EUROPEA
Esmond Romilly, Giovanni Cuccagna, Hans Landauer, Mihail Florescu e Steve Nelson sono tutti esempi di quei volontari
che costituivano una pura “milizia” della democrazia avente in sé un dato eroico e considerata una straordinaria
mobilitazione di uomini per andare a battersi in una guerra lontana, in cui non erano in gioco né la difesa né gli interessi
del loro paese, ma solo motivi ideali. Fino al 1933 (anno in cui Hitler prese potere in Germania), instabili equilibri
generati da guarnigioni militari sollevate contro il governo, da colpi di Stato, da tentativi di rovesciare il governo,
cominciavano ad essere travolti dalla volontà tedesca di guerra: una volontà che riassumeva le due idee di conflitto che
diversamente intrecciate attraversavano i paesi del continente.
1. Il lontano anteguerra
C’era il conflitto delle potenze, la contrapposizione tra gli Stati, orientata dai loro interessi e sostenuta da nazionalismi
di massa autonomi da ogni altra posizione politica. In posizione di predominio c’erano i due principali paesi vincitori
della prima guerra mondiale, l’Inghilterra e la Francia, la cui forza economica e militare non era commisurata al ruolo
che essi occupavano. L’Inghilterra, logorata dallo forzo bellico, aveva perduto la sua preminenza economica a vantaggio
degli Stati Uniti ed era stata travolta anch’essa dalla Grande Crisi del 1929, mostrando la sua debolezza al pari degli altri
paesi. Questo effetto economico intaccò anche la saldezza del sistema politico. Sulla scena c’è il Partito Laburista
favorevole ad un intervento statale che riequilibrasse le condizioni di vita dei cittadini britannici. Ma le agitazioni degli
anni 20 alterarono ancora di più il sistema bipartitico (Tory-Whig), portando nel 1931 alla formazione di un governo di
unità nazionale, presieduto da MacDonald. Sintomo significativo del malessere fu il fatto che un esponente di spicco del
Partito Laburista, sir Oswald Mosley, fondava nello stesso anno un partito fascista, ottenendo inizialmente un certo
seguito. La Gran Bretagna, tuttavia, fu in grado di resistere meglio di altri paesi all’urto della crisi non tanto in virtù della
sua forza e capacità ma soprattutto grazie al suo patrimonio ereditario e mercato sempre aperto alla produzione. È
anche vero, però che dovette abdicare e stabilire con lo Statuto di Westminister un rapporto di parità con i suoi
“dominions”, e con la Conferenza di Ottawa delle relazioni commerciali ad essi più favorevoli. Questa connotazione fu
capace di ridestare aspetti invidiosi della Germania sconfitta e dell’Italia insoddisfatta dei frutti della vittoria, facendo
loro apparire possibile sfidarla e vincerla. Anche la Francia, il paese più devastato dal conflitto mondiale, aveva
mostrato un vigore di ripresa e una forza produttiva inadeguati alla sua pretesa di perpetuare la vittoria molto oltre la
fine della guerra. Alla fine degli anni 20 infatti essa sembrava aver raggiunto un’invidiabile robustezza economica; ma
quando a seguito della crisi del ’29 cessarono i prestiti alla Germania e questa cessò del tutto i pagamenti delle
riparazioni francesi, le cose cambiarono. La Francia così si limita a interrompere a sua volta i pagamenti del suo debito
con gli Stati Uniti ma ciò non bastò ad evitare il contagio della crisi, a cui riesce a far fronte grazie alle risorse dei suoi
domini coloniali. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, le forze armate anglo-francesi avevano un numero di carri
molto superiore a quelli tedeschi ma non avevano ancora ben capito come si potesse impiegare quell’arma-chiave della
nuova guerra di terra, avendo invece una flotta aerea assai inferiore perché non avevano ancora ben capito come
usarla in coordinamento con mezzi blindati. Durante la guerra, la Francia rimase il paese che aveva pagato il più alto
costo in vite umane. In questo contesto culturale si fondano le basi per lo sviluppo e la diffusione del pacifismo i cui più
importanti portavoce furono il sindacato CGT ed il Partito Socialista colpiti dal senso di colpa di aver contribuito al
“grande macello”. Ma l’orrore della guerra era un sentimento talmente diffuso che anche la destra doveva tenerne
conto (una delle più frequenti accuse che la destra rivolgeva agli avversari era quella di portare la Francia allo scontro
con la Germania), tuttavia, anche le guide intellettuali dell’opinione pubblica erano per la maggior parte contrarie alla
guerra. Tutto sommato i francesi continuavano ad avere la necessità di difendere il loro paese mentre agli inglesi non
era molto chiaro per quale necessità e benefici avessero dovuto andare a battersi e morire a migliaia sul continente.
Nonostante fossero contrari ad adottare il pacifismo integrale, il Partito Laburista e le Trade Unions raccolsero e
diedero espressione a vaste correnti di classi medie e popolari che erano piuttosto di critica verso la guerra (e non di
ostilità), ma con cui ogni governo al momento di dover decidere se sostenere il conflitto armato avrebbe dovuto fare i
conti. Anche nelle upper-class e negli stati conservatori era diffuso uno scarso entusiasmo per la guerra, non tanto per
antibellicismo quanto per convenienza e per potersi concentrare sulla conservazione e sul rafforzamento del proprio
impegno coloniale. Non è, tuttavia, possibile comprendere a pieno l’operato delle due potenze occidentali tra le due
guerre senza considerare la paura diffusa dalla Russia Sovietica. Nella Russia dei soviet si era dichiarata la guerra alla
borghesia come classe sociale abbattuta assieme alla nobiltà zarista e si era anche edificato uno “Stato del proletariato”
che non solo si poneva come modello verso tutti gli altri paesi del mondo ma che aveva come linea programmatica
l’esportazione verso l’esterno della sua rivoluzione. Per raggiungere questo obiettivo, la Russia si servì di un elemento
operativo: l’Internazionale Comunista (Terza Internazionale o Comintern) ossia un partito mondiale articolato in sezioni
nazionali il cui compito era quello di promuovere la rivoluzione (specie nell’Occidente Europeo) chiamando a raccolta il
proletariato di ogni paese per combattere la propria borghesia nazionale. Sotto l’impulso di questa rivoluzione russa,
nel dopoguerra, quando Lenin esortò le masse a “mutare la guerra imperialista in guerra civile” rivolgendo le armi
contro le borghesie, questa idea sembrava essere divenuta di assoluta attualità. Già dal 1919, anno in cui il Partito
Comunista aveva preso potere in Ungheria, la rivoluzione sembrava propagarsi dalla Russia verso ovest finchè, nel
1920, l’esercito sovietico raggiunse le porte di Varsavia (venne poi costretto a ritirarsi). Ma la Russia aveva come primo
obiettivo la Germania, avente una posizione centrale in Europa. Da subito la Comintern si era dimostrata disponibile e
favorevole ad una qualsiasi iniziativa rivoluzionaria ma tutti i tentativi in questo senso fallirono costringendo la Russia a
ripiegarsi su se stessa anche perché veniva a mancare un importante presupposto della rivoluzione: una congiuntura
economica mondiale. Era tuttavia proprio questo a rendere l’Internazionale uno strumento subalterno a quella che
esso chiamava “stabilizzazione” del sistema capitalistico. In questo contesto non solo crescono i partiti della
socialdemocrazia ma si sviluppa anche la volontà di mantenere una linea di demarcazione netta tra rivoluzione e
riformismo in attesa di migliori tempi. Solo con la Grande Crisi del ’29 si era ricreata la migliore situazione per una
esplosione rivoluzionaria. Stalin aveva predetto tutto ciò: fu proprio per questo che si rafforzò contro i suoi oppositori
di destra e che portava la linea di rivoluzione a passare per la lotta contro i socialdemocratici, ormai denominati
“socialfascisti”. Nuovamente l’impresa risultò fallimentare specie perché il Partito Comunista contribuì molto alla
vittoria nazista e alla sconfitta della democrazia, oltre che alla sua stessa rovina ed al trionfo del fascismo. Fu grazie alla
Grande Depressione che era diventata evidente la scarsa solidità di protezione dell’orientamento democratico contro
la disoccupazione e l’immiserimento dei lavoratori, e l’assente salvaguardia contro il declassamento e l’indigenza dei
ceti medi. Mentre il modello della rivoluzione bolscevica, facendo leva sulla frustrazione delle necessità materiali,
rendeva più forte il bisogno di sublimazione e di ideali che trascendessero la condizione personale; il nazionalsocialismo
offriva riferimenti immateriali ed emozionali su parole-chiave quali quelle dell’onore, della grandezza e dell’eroismo.
Per un verso l’orientamento nazionalsocialismo era pacificante (umanismo), dall’altro legittimava le aggressività
individuali e quelle della comunità nazionale indirizzate contro i responsabili stranieri della misera condizione tedesca
nazionale e popolare. Ma non era la Russia a minacciare la Germania quanto la Francia che aveva voluto mantenere il
paese in povertà, privandolo delle colonie, imponendo onerose riparazioni, ma anche sottraendogli la flotta
commerciale e le protezioni doganali per il mercato interno; e che aveva voluto tenerlo disarmato, subordinato ed
esposto all’invasione anche dei paesi confinanti più deboli. In questo modo piccoli-borghesi e una gran parte delle
classi subalterne furono spinti a fondere le loro speranze di riscatto con quelle della patria. Nelle mani di Hitler, quindi,
la prospettiva non fu solo quella di rivedere le condizioni del Trattato di Versailles per recuperare pari dignità tra i paesi
Europei, ma fu anche quella di portare la Germania al vertice di una nuova gerarchia delle potenze europee e di fare
del Reich tedesco un nuovo impero continentale (in espansione specie verso est, territorio designato da Hitler come
“spazio vitale”) sottolineando che il riarmo non avrebbe avuto solo funzione difensiva. Non a caso già nel luglio 1934
faceva il suo primo tentativo di annessione dell’Austria e l’anno successivo (marzo 1935) reintroduceva il servizio di
leva obbligatorio e definì un programma di ampliamento delle forze armate.
Con l’episodio della Renania (nel 1919 la Francia divenne una delle potenze alleate che parteciparono all'occupazione
della Renania; le tensioni razziali con alcuni tedeschi furono in seguito utilizzati a scopo propagandistico dal nascente
partito nazista) ci sono tutte le premesse di quella che sarebbe stata la condotta di Francia e Inghilterra durante la
guerra di Spagna, dove i motivi di difesa degli interessi nazionali saranno meno solidi e i motivi della difesa della
democrazia ancor meno. La Francia usciva dalla crisi renana indifesa avendo dovuto constatare il fallimento della
Società delle Nazioni che, mostrandosi incapace di far rispettare i trattati e tutelare gli interessi anche dei suoi membri
più autorevoli, perdeva ogni credibilità. Per questo motivo, quando si porrà per il governo francese il problema se
prestare aiuto alla Repubblica spagnola sfidando le potenze fasciste, nessuno riuscirà a capire perché correre il rischio
di una guerra per la Spagna quando non fu fatto per la Renania.
2. Favorire la guerra cercando la pace
Poiché l’aggressività della Germania non poteva non dirigersi anche (e soprattutto) verso la Francia, per l’URSS vi erano
molte premesse per ricostruire l’alleanza della prima guerra mondiale (con l’Inghilterra) che avrebbe potuto bloccare i
tedeschi tra due fuochi. La politica della “sicurezza collettiva” di cui i sovietici furono sostenitori, consisteva proprio nel
realizzare questa alleanza. Hitler aveva dunque provocato un cambiamento nella linea di sviluppo delle relazioni
internazionali da affrontare: tesa adesso ad un riavvicinamento delle potenze occidentali (specie la Francia) in funzione
antitedesca poiché vari paesi erano minacciati dalla Germania. Ma il fatto di dover attuare un avvicinamento politico
tra i governi dei paesi contraenti sui motivi ispiratori e sulle finalità delle azioni, risultò essere un grande ostacolo nella
politica di alleanza dell’URSS perché essa restava il paese del comunismo, restava il paese che perseguiva
l’abbattimento dei “regimi borghesi capitalisti” della Germania come della Francia e dell’Inghilterra. Da un lato questo
creava una forte diffidenza nei potenziali alleati di un patto antitedesco; ma dall’altro questo rendeva anche meno
concrete le possibilità di reciproco aiuto in caso di guerra. Occorreva infatti che l’URSS cercasse di colmare il fossato
politico che la separava della Francia, dall’Inghilterra e dagli altri paesi borghesi ma questo poteva accadere solo se
l’URSS fosse disposta ad un cambiamento radicale di linea politica. Non bastavano infatti i trattati e gli accordi
interstatali; bisognava promuovere in ogni paese democratico un movimento, in cui impegnare tutti i partiti comunisti
nazionali, capace di unire in una solida alleanza il più ampio ventaglio di forze sociali e politiche. Solo l’antifascismo
poteva essere alla base di quella alleanza. Tuttavia, proprio quando diventava più forte il senso di timore della minaccia
tedesca, si determinavano le condizioni per essere disposti a fare “il patto col diavolo” pur di costituire un fronte
comune. Questa situazione di “emergenza” fece perdere progressivamente alla Comintern gli ultimi margini di
indipendenza dalla dirigenza sovietica, capace ormai di imporre ai suoi aderenti bruschi cambiamenti di rotta. Il VII
Congresso dell’Internazionale nell’estate del 1935 fu il contesto in cui fu formulato il nuovo indirizzo: la lotta contro il
fascismo era definito come la “dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, sciovinisti e imperialisti del
capitale finanziario”. La vera novità del congresso fu il fatto che in esso era indicata la necessità della creazione di un
largo fronte popolare antifascista aperto ad adesioni sociali e politiche molto più vaste, con la sola condizione del
denominatore comune antifascista. Il riscontro immediato di questa nuova linea politica si ebbe in Francia, che sarebbe
stato l’unico paese dove essa fu sottoposta a una verifica significativa. Anche una coalizione delle sinistre, il Fronte
Popolare, si sarebbe formata in Spagna nel gennaio 1936 e avrebbe vinto le elezioni. Gli eventi di entrambi i paesi in
questo periodo si sarebbero influenzati vicendevolmente e gli sviluppi successivi avrebbero favorito una omologazione
delle loro storie in quella che era stata definita “la stagione dei Fronti Popolari”. In un clima di violenza instaurato dalle
leghe, i rapporti tra forze antifasciste divennero sempre più stretti, fino a culminare nella prima grande manifestazione
pubblica (a Parigi in occasione della festa nazionale, 14 luglio) del Rassemblement populaire, l’unione dei partiti,
sindacati e organizzazioni umanitarie della sinistra che prefigurava il futuro Fronte Popolare. È impossibile stabilire con
assoluta certezza se fin dall’origine il riavvicinamento dei comunisti francesi agli altri partiti antifascisti fosse orientato
da Mosca ma quel che è sicuro è che il Partito Comunista francese diventava il cardine e la più salda garanzia
dell’alleanza che si andava costruendo. In tal modo, infatti, il partito comunista francese (PCF) finisce per fare da
legante a tutto lo schieramento, spiazzando e condizionando ogni altra componente che si mostrava più insofferente di
una unione organica con un partito “borghese” come il radicale; infatti il partito rinuncia al suo antimilitarismo e
sostiene il riarmo del paese, rimuovendo un altro elemento di divergenza coi radicali. In una condizione di instabilità di
sicurezza lavorativa, quando il Fronte Popolare si presenta come alleanza di governo alle elezioni dell’aprile-maggio
1936, esso promette ai lavoratori il recupero del potere d’acquisto soppresso o assottigliato dalla crisi e la riduzione
della settimana lavorativa senza riduzione del salario. Questo avrebbe liberato posti di lavoro, venendo incontro ai
bisogni di un crescente numero di disoccupati. Il fronte promette anche di stroncare la minaccia del fascismo interno
sciogliendo le leghe e mettendole fuorilegge. Tuttavia, il programma del fronte non suscitava grandi entusiasmi,
piuttosto rivendicazioni che dovevano essere contenute. La vittoria del Fronte Popolare fu interpretata da gran parte
dei suoi elettori come il via libera ad un cambiamento decisivo della loro condizione per riequilibrare il sistema di
potere. In Spagna, dopo il successo del Fronte popolare alle elezioni, il programma elettorale della sinistra era stato
scavalcato da un movimento di rivendicazioni e insubordinazione diffusa che sembrava vittorioso. Si diffonde un quasi
spontaneo movimento di scioperi per diverse critiche condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, tanto da spingere i
lavoratori ad adottare forme di lotta più intransigenti arrivando anche all’occupazione delle fabbriche, anche per
impedire che il patronato ricorresse alla serrata. Queste insorgenze toccarono anche altri settori ed imprese di minori
proporzioni ma non si arrivò mai a gravi episodi di violenza, piuttosto a manifestazioni di solidarietà e umanismo. Il
partito comunista, come quello fascista assecondarono il movimento. Ma i comunisti sono anche preoccupati del fatto
che il movimento possa imboccare la deriva rivoluzionaria verso la quale spingono le frange più estremiste all’interno
del Partito Socialista, che può gettare il paese nel disordine e infrangere l’alleanza antifascista. Si impegnarono,
dunque, a limitare le lotte. Difronte al rischio di una radicalizzazione delle lotte, Blum l’8 giugno 1936 convoca le
rappresentanze sindacali e quelle degli imprenditori, forzando questi ultimi ad un accordo che soddisfa gran parte le
richieste dei lavoratori: il governo istituisce per legge la settimana lavorativa di 40 ore e il diritto di ferie pagate.
Continuare le agitazioni non avrebbe avuto alcuno sbocco positivo, visto che la maggior parte dei lavoratori aveva
conseguito il massimo risultato possibile; eppur le vicende che seguirono la vittoria del Fronte Popolare in Francia
mostrano i limiti e le contraddizioni di tutta la politica frontista che non poteva limitarsi a promuovere una alleanza
antifascista nei paesi democratici e a favorire un’intesa di quei paesi con l’URSS in funzione antitedesca; doveva anche
sostanziarsi di contenuti che andassero incontro alle rivendicazioni popolari e quanto meno ridimensionassero il potere
delle classi dominanti. Il partito comunista non poteva rinunciare a proporre una linea di continuità tra l’obiettivo
rivoluzionario e la nuova politica tanto che in nessun momento esso volle presentarsi come una forza puramente
riformista. Esso era ancora una forza abbastanza circoscritta ma ciò non poteva disperdere ogni inquietudine visto che
la storia del movimento comunista mostrava che esso non perseguiva la presa del potere maggioritario. In questo
contesto, l’elemento di maggiore debolezza del Fronte Popolare consisteva nel fatto che esso suscitava un entusiasmo
popolare che superava gli obiettivi programmatici che esso si era dato, mettendo in discussione le gerarchie sociali. Si
era formata una crepa così profonda da prefigurarsi come una guerra civile. La coalizione ne risentiva notevolmente,
restando prossima al punto di disgregazione. In conclusione, il Fronte Popolare si rivela poco efficace sia perché
l’instabilità generata in Francia accresceva l’indecisione riguardo l’alleanza, sia per il clima formatosi in paese; sia per il
fatto che non riuscendo a produrre una coesione nazionale, finiva per stimolarne l’aggressività. Era perciò urgente
interesse stringere i tempi, cogliere o creare quanto prima l’occasione per impedire alla Francia di acquistare la base di
sicurezza e le posizioni vantaggiose che le avrebbero consentito di sostenere quello scontro o di dissuadere i suoi
bellicosi vicini ad affrontarlo.
3. La convergenza delle dittature fasciste
In realtà la vittoria del Fronte Popolare in Francia non aveva provocato grandi apprensioni, né in Germania né in Italia,
nonostante il fatto che il divario fosse militarmente notevole. Il programma del fronte si limitava a postulare uno
“sforzo incessante per passare dalla pace armata alla pace disarmata” prima tramite un patto di limitazione degli
armamenti, poi tramite la loro riduzione generale. In quell’epoca, la principale preoccupazione delle autorità politiche e
militari francesi non era cambiata col nuovo governo ma era rimasta quella di rassicurare e lenire l’Italia alla ricerca
della sua amicizia in funzione antitedesca. Fu proprio questo senso di arrendevolezza a stimolare l’agire di Mussolini sia
perché la dipendenza della Francia rafforzava la volontà di prevaricarla; sia perché il suo rinnovato antifascismo e la sua
ostinata volontà di dominio apparivano provocatori a Mussolini, suscitando in egli un atteggiamento di disprezzo. Con
l’affermazione del Fronte Popolare, si era già evidenziato qualche cambiamento della politica estera italiana: primo fu
la guerra d’Etiopia (fino a quel momento l’Italia fascista era stata regolata del criterio di perseguire gli obiettivi
sfruttando le rivalità delle grandi potenze). Perciò l’azione di Mussolini, per costruire un equilibrio, fu diretta a limitare
il potere della Francia, con il favore della Germania di Weimar e della Gran Bretagna, ed in questo modo l’Italia riuscì ad
assumere un ruolo di potenza di primo piano a cui venivano assegnate funzioni moderatrici, davanti al consenso
europeo. Quando Hitler prende potere in Germania, Mussolini pensa di trarne vantaggio assecondando il
contenimento delle sue spinte aggressive. In questa linea si erge a garante dell’indipendenza dell’Austria con l’invio di
truppe al Brennero al primo tentativo di annessione e concorre a promuovere la Conferenza di Stresa, aprile 1935,
dove sottoscrive con Francia ed Inghilterra una dichiarazione che le impegna ad opporsi ad ogni forma di rigetto
unilaterale dei Trattati suscettibile di mettere in pericolo la pace in Europa. In realtà dal possesso dell’Etiopia, Mussolini
non poteva aspettarsi grandi guadagni ma accrescere i territori coloniali gli sembrava la strada giusta da prendere per
poter soddisfare la sua aspirazione ad entrare a far parte del loro circolo (Società delle Nazioni) ristretto su un piano di
parità. In questa consapevolezza, la Francia si era indotta a dare il suo consenso all’impresa etiopica, sperando di
mantenere indenne la Società ma entrambi i suoi obiettivi (amicizia dell’Italia ed incolumità della Società delle Nazioni)
furono mancati del tutto perché la sua linea conciliativa si scontrò con un’ostilità più ferma da parte dell’Inghilterra
all’aggressione all’Etiopia. Questa opposizione, però, dipendeva soprattutto dal fatto che l’espansione italiana in
quell’area dell’Africa minacciava gli interessi britannici ed incoraggiava ulteriori rivendicazioni dell’Italia nelle zone di
comune interesse: prima fra tutti il Mediterraneo. Ma quando Mussolini diede inizio alle operazioni militari,
nell’ottobre 1935, Inghilterra e Francia condannarono l’Italia alla Società delle Nazioni come paese aggressore. Tuttavia,
per non perdere vantaggi bellici, neanche l’Inghilterra voleva rompere con l’Italia; perciò consentì che le sanzioni non
implicassero i metalli ed il petrolio, indispensabili a Mussolini per combattere. E mentre a Ginevra si proclamava
l’intangibilità dell’Etiopia, si predisponeva un piano di pace da offrire al Duce che prendeva la cessione all’Italia di due
terzi del paese africano. Così anche l’Inghilterra finì per perdere i suoi obiettivi, inaugurando una politica di
appeasement di concessioni alle potenze fasciste, per distoglierle dagli obiettivi in cui erano in gioco importanti
interessi britannici, che si sarebbe rivelata del tutto fallimentare. Ma da questa disponibilità delle potenze franco-
britannica Mussolini fu incoraggiato a intensificare le operazioni militari in Etiopia al fine di conquistarla nel maggio
1936. Il successo e l’atteggiamento della Francia e dell’Inghilterra, produssero un decisivo cambiamento nella politica
estera mussoliniana: il Duce si convinse che il peso determinante per ottenere grandi risultati per l’Italia consisteva
ormai nel minacciare le potenze democratiche o fare loro guerra. Fu dunque il rigetto non solo teorico del pacifismo ma
di una pratica stessa di sicurezza collettiva a collocare l’Italia a fianco della Germania. Nonostante le diffidenze italiane,
i due paesi erano destinati ad allearsi a danno delle “vecchie potenze” (Francia e Inghilterra) che apparivano sempre
più inette alla guerra. Nelle sue ambizioni nel Mediterraneo, l’Italia avrebbe potuto trovare un concreto ostacolo nella
Francia (sottovalutata da Mussolini) nei confronti della quale il regime fascista cominciò a rendere pubbliche una serie
di rivendicazioni: Tunisia, Corsica, Nizza e la Savoia. In questa prospettiva, tuttavia, Mussolini non poteva non
condividere le sue preoccupazioni sui possibili sviluppi politici in un paese governato da una coalizione il cui comune
denominatore era l’antifascismo. Perciò egli fu spinto a premunirsi, indebolire o annullare ogni posizione di forza della
nazione vicina. Dunque, la vittoria del Fronte Popolare destava da un lato una “gioia maligna”, dovuta alla loro
convinzione che in seguito a quella vittoria la politica interna francese sarebbe entrata “in un’epoca di difficoltà che se i
partiti di sinistra fossero rimasti uniti e se il loro blocco si fosse dissolto, la Francia non sarebbe sfuggita all’anarchia e
alla guerra civile”; dall’altro lato infondeva però il timore che nella nuova situazione politica francese potesse crescere il
peso dei comunisti che avrebbe minacciato il Reich da ovest. Di qui la stessa propensione dell’Italia fascista a stringere
ancora di più la Francia a cogliere o creare occasioni che ne accrescessero le discordie intestine e indebolissero le sue
difese.
CAPITOLO 2: UNA TRAGEDIA SPAGNOLA
La grande occasione di indebolire le difese francesi fu la Spagna: in quel paese una coalizione di Fronte Popolare aveva
vinto le elezioni nel febbraio 1936, pochi mesi prima lo stesso risultato si ebbe in Francia. Tuttavia, nel contesto
internazionale, questa coalizione di sinistra aveva avuto meno successo in Spagna che in Francia sia per la marginalità
iberica nella storia europea sia perché l’origine e la storia del Fronte spagnolo non si inseriva nel programma del
Comintern. Anzi, la spagna si inserì nel contesto bellico solo in seguito ad un equivoco: la sbagliata denominazione di
un cartello elettorale perché il Partito Comunista spagnolo (formazione politica piuttosto esigua) non aveva avuto alcun
ruolo nella nascita del Fronte, a differenza di quanto avvenne in Francia. L’iniziativa dell’alleanza era stata presa da
Manuel Azana, il leader più prestigioso della sinistra democratica, che il 20 ottobre 1935 in vista di probabili elezioni,
aveva lanciato l’idea di una coalizione delle sinistre durante un comizio a Madrid. Fino al giorno precedente al comizio,
molti partecipanti avevano invaso Madrid con numerosi camion, vetture private, biciclette, muli e cavalli. Un ingorgo di
tale importanza spinse la Guardia Civil, l’arma di polizia, a bloccarli a molta distanza dalla meta costringendo i
partecipanti a percorrere a piedi un lungo tragitto. Ciò che stupisce è il fatto che dietro quella affluenza di massa v’era
un partito quasi inesistente ed incapace di sostenere quella mobilitazione, sebbene i Partiti Socialista e Comunista
avessero esortato i loro militanti ad assistere al comizio senza impegnarsi ad organizzare i vari trasporti. Lo sforzo
organizzativo, non a caso, fu imponente ma non tutti riuscirono ad arrivare in vista della tribuna da cui parlò Azana. Per
la verità il suo discorso non fu emozionante; era dedicato a problemi internazionali e finanziari, ad una contestazione
dell’operato del governo in carica, a propositi costruttivi generici. La stessa proposta dell’alleanza delle sinistre era
stata fatta quasi per inciso e senza enfasi. Ma il discorso non rinunciò ad una conclusione ad effetto: aveva imposto il
silenzio alla folla, silenzio che dichiara la tristezza e l’indignazione del popolo. Tutti i presenti erano lì per esprimere la
voglia di riscatto; l’alleanza che, infatti, si andò a costituire si definiva soprattutto in negativo, mostrando un’ostilità non
tanto al fascismo quanto al blocco ultraconservatore, militarista e oscurantista che aveva dominato nel paese per quasi
tutto l’arco della sua storia contemporanea. Quando la guerra civile sarà scoppiata e la Spagna repubblicana verrà
tappezzata da manifesti, l’esempio più significativo risiedeva nel manifesto della “navicella della Spagna nazionale” del
vignettista Juan Antonio Morales che dava grandissima evidenza al blocco dei tradizionali “nemici del popolo” con in
primo piano un generale ed un uomo con un sacco di monete a simboleggiare i banchieri, i capitalisti ed ogni altro tipo
di facoltoso possidente. Il lungo predominio precedente era stato contraddistinto dalla comune volontà di esercito,
Chiesa e classi dominanti di mantenere soggette le classi subalterne, di tenerle lontane da ogni tipo di emancipazione e
soprattutto dalla democrazia.
1. Le sventure della democrazia
La strada dell’emancipazione delle classi subalterne, della democrazia e del sistema liberale che ne gettò le basi è stata
sommersa da ostacoli e difficoltà. Liberalismo e democrazia sono stereotipi a cui nessun paese è mai riuscito ad aderire
perfettamente: nessuno stato europeo ne è rimasto così a lungo e così distante quanto la Spagna perché in nessuno
degli stati europei le forze armate statali giocarono un ruolo così distruttivo dell’ordinamento costituzionale, delle
norme di attribuzione del potere (suffragio) e della possibilità per le classi popolari di ottenere per questa via la
partecipazione al governo del paese e un miglioramento delle loro condizioni generali di vita. Nel corso di novant’anni,
tra il 1834 ed il 1932, per ben nove volte, i militari avevano imposto con l’uso delle armi e con minacce un
cambiamento radicale del governo e della Costituzione. Nello stesso arco di tempo, numerosissimi furono anche i
pronunciamenti falliti e le sommosse militari a carattere circoscritto dirette ad esercitare pressioni sui governanti e a
raggiungere obiettivi più limitati. Tra il 1840 ed il 1874, si registra accanto al personale politico anche una forte
presenza di politici-militari, tanto che lo storico inglese Raymond Carr potè definire quegli anni come il periodo del
“parlamentarismo pretoriano”. Al forte peso esercitato in politica dai militari spagnoli di quel periodo, si accompagnava
una loro assunzione di compiti di amministrazione civile specie nell’area di competenza dei ministeri dell’Interno e della
Giustizia, con conseguenti gravi limitazioni dell’esercito delle libertà civili da parte dei cittadini. I metodi repressivi dei
disordini e delle violazioni popolari delle norme dell’autorità militare erano quelli di un esercito d’occupazione in
territorio di operazioni, con cannonate sulla folla, corti marziali e rapide esecuzioni dei trasgressori. Neppure il
condannare di queste azioni servirono perché i militari continuarono ad ingerirsi nella politica del paese, senza
ammettere limiti e aree di intangibilità per la loro azione. Lo strapotere del militarismo era un sintomo di un’intima e
persistente refrattarietà della società spagnola e in primis della sua classe dirigente, ad accettare quelle norme. In
primo luogo, infatti, l’esercito era stato chiamato a salvare il sistema liberale dall’attacco del carlismo (forte movimento
che rappresentava una volontà diffusa di mantenere la monarchia assoluta e l’antico regime). Poiché le pretese di don
Carlos e dei suoi successori non si erano estinte, lo spirito di dedizione rimase vivo manifestandosi in altre guerre
(carliste) nel corso del XIX secolo. Fu col caso della difesa della corona di Isabella che gli uomini dei pronunciamenti
rimasero ostili al liberalismo, continuando ad operare entro le sue coordinate, con costituzioni, parlamenti ecc
(parlamentarismo pretoriano) senza instaurare una vera dittatura militare a cui sarebbero stati più inclini. Ma non
spiega del tutto il loro interventismo: questo fu determinato o favorito dal fatto che né i sovrani né la gran parte dei
politici civili fossero molto inclini a far funzionare il sistema liberale ed in particolare le norme fondamentali che
regolavano l’accesso al potere politico con esclusione di ogni ricorso alla forza o alla frode. Tra il 1833 ed il 1874 la
scena politica della Spagna liberale è infatti dominata dal conflitto di due partiti, il Partito Progressista ed il Partito
Moderato, le cui posizioni opposte riguardavano l’estensione delle libertà civili e dei poteri delle Cortes, l’esproprio dei
beni ecclesiastici, l’autonomia delle amministrazioni locali ed i requisiti necessari per essere elettori. Poiché i moderati
prevalsero più a lungo, il suffragio rimase censitario; non a caso con un elettorato così ristretto ed omogeneo
socialmente si lasciò che le maggioranze parlamentari fossero decise dal voto. Ogni governo, infatti, manipolava le
elezioni e otteneva la vittoria così sistematicamente da rendere vana ogni competizione politica. Al partito
dell’opposizione non restava altra via per aggiungere il potere se non ricorrendo a metodi violenti, praticando il
reitraimiento (rifiuto di partecipare alle elezioni dando per scontato che sarebbero state truffaldine) che provocava
agitazioni popolari e sollevazioni nelle città principali. I frequenti pronunciamenti erano legati all’impossibilità
dell’alternanza dei partiti al potere che con la Restaurazione (col ritorno sul trono di Alfonso XII, figlio di Isabella) si
pensò di riuscire a porre fine agli interventi militari e stabilizzare il sistema liberale rendendo realizzabile
l’avvicendamento dei partiti al governo. Così fu fatto e da qui seguì un periodo di circa mezzo secolo in cui non ci
furono né pronunciamenti né ingerenze decisive dell’esercito nell’ambito della politica riservata ai cittadini. Ma questo
rimedio fu addirittura peggiore perché fu il frutto di artifici, frodi ed altri espedienti col risultato di presentare la
democrazia agli occhi di grandi masse di uomini che vi si accostavano come un inganno e una farsa. Tra i Partiti
Conservatore e Liberale, eredi del moderato e del progressista, fu infatti concordato il patto di governare a turno: dal
1881, anno in cui Antonio Cánovas del Castillo (leader dei conservatori) si spogliò del potere indicando al re di
nominare suo successore come primo ministro Práxedes Sagasta (leader dell’opposizione), fino al colpo di stato di
Primo de Rivera, i due partiti si alternarono al governo regolarmente quasi senza eccezioni. Ma quella regolarità di
“rotazione” non poteva essere garantita che dalla perpetuazione di un sistema caratterizzato dal fatto che anziché
essere i governi a dipendere dalle maggioranze parlamentari, erano i governi a crearle: il re scioglieva le Cortes dopo
aver affidato al primo ministro l’incarico. L’”illimitata parzialità” dipendeva dal fatto che i governi predisponevano del
cosiddetto encasillado (mappa dei risultati elettorali collegio per collegio) concordando con il partito cui toccava il
turno dell’opposizione una consistente rappresentanza di minoranza, e usavano poi tutte le possibili risorse a
disposizione perché la composizione delle future Cortes corrispondesse a quanto pianificato. Preferendo mezzi più
pacifici, si ricorse alla vasta rete delle clientele ramificata per il paese che nei collegi faceva capo a notabili, i caciques,
capaci di indirizzare a loro piacimento la scelta degli elettori. In questo modo, prassi elettorale, sistema politico e
sistema clientelare furono considerati un tutt’uno e designati come fenomeno del caciquismo. In realtà questi notabili
non potevano nulla senza la complicità del governo, a cui spettava l’azione risolutiva nel determinare la vittoria dei suoi
candidati: si presentavano delle difficoltà. Quando per i dissidi locali gli elettori si mostravano indocili, non si esitava
comunque a ricorrere a casi di violenze, minacce, controllo dei seggi, controllo della documentazione elettorale dopo il
voto, giacché con questo sistema i risultati venivano manipolati in modo favorevole al candidato designato dal governo.
Vista la situazione, i governi alla vigilia delle elezioni provvedevano (tramite i prefetti) a insediare dove possibile gli
uomini disposti ad assecondare i loro disegni. Questa pratica era talmente di dominio pubblico che per tutto il XIX
secolo il funzionamento del sistema fu favorito dall’assenteismo dell’elettorato. Antonio Maura, il leader conservatore
che avrebbe voluto ristabilire il sistema, scriveva che “la dominazione oligarchica del caciquismo derivava
dall’indifferenza di un popolo che si ritrae dalla propaganda, dalle controversie e dalle elezioni”. Delle 19 elezioni
generali celebrate in quel periodo, 18 furono vinte dal governo, ad eccezione di quelle del 1919 perdute da Maura
perché non volle scendere a patti coi liberali. Malgrado le crescenti opposizioni, la regola spartitoria che presiedeva al
sistema era talmente ferrea che si procedette allo stesso modo fino alla fine. Così le elezioni del 1923, le ultime del
periodo, ebbero le stesse o peggiori caratteristiche delle precedenti per tutto quel che riguarda falsificazione,
corruzione, pressioni al fine di far risultare eletti i candidati encasillados, fossero essi governativi o dell’opposizione. Il
sistema del turno andò progressivamente verso la soppressione, trascinando con sé anche il sistema
liberaldemocratico.
2. Movimenti centrifughi
Anche molta parte degli intellettuali e uomini politici che credevano nella bontà di un genuino sistema
liberaldemocratico cominciarono a pensare che fosse necessario ricorrere a metodi forti per innestarlo stabilmente nel
paese. Uno dei principali animatori del movimento “rigenerazionista”, Joaquín Costa, nel 1901 scrisse che per
conseguire a quella rigenerazione occorreva un “chirurgo di ferro” che estirpasse i mali della patria affinchè la Spagna
potesse essere una nazione parlamentare cambiando la forma oligarchica dello Stato con un regime liberale e di
selfgovernment; ma per raggiungere quel fine occorreva un governo personale, forte che dotasse il popolo delle qualità
che gli mancavano per essere capace di una civiltà superiore. La voce di costa si confondeva, però, con quella dei
nemici del Parlamento che non pensavano affatto alla provvisorietà della sua abrogazione. Tuttavia, quella proposta di
via dittatoriale alla democrazia appariva come l’unica via di salvezza per il sistema liberaldemocratico. Per questo,
quando nel 1923 il generale Primo de Rivera venne ad impersonare il “chirurgo di ferro” instaurando una dittatura
militare (con sospensione e non abrogazione della Costituzione), non incontrò quasi nessuna opposizione e fu accolto
con grandi aspettative. Nonostante ciò, non poteva essere il generale ad educare gli spagnoli alla democrazia perché il
sistema del turno non era stato che lo specchio di una classe dirigente medio-alta (dedita alle sue particolari
convenienze, incapace di una visione degli interessi collettivi) che il generale non voleva né poteva surrogare. La
massima sventura della democrazia fu che a partire dal 1890, da quando fu introdotto il suffragio universale maschile,
le classi subalterne non furono più spettatrici ma vittime del sistema del turno. Il sistema del turno, infatti, non ebbe
come effetto solo quello di allontanare le classi subalterne dalle elezioni e dalla liberaldemocrazia più che in qualsiasi
altro paese europeo; esso contribuì anche ad allontanarle da ogni ordinamento della vita collettiva fondato sullo Stato,
indirizzandole verso forme di organizzazione comunitaria più circoscritte e con connotazioni utopiche (a loro dire più
genuine e più aperte alla loro partecipazione e più rispondenti ai loro bisogni). La loro spontanea ostilità al sistema
liberaldemocratico debordava così nella radicale avversione a ogni forma di Stato, nucleo dell’ideologia anarchica
diffusa alla fine degli anni ’60 del XIX secolo. La grande diffusione dell’anarchismo già aveva acquistato terreno
nell’identificazione con la patria chica (luogo di nascita, locale e non nazionale) piuttosto che con quella nazionale, che
caratterizzavano l’area iberica e che si erano palesati spesso in una frammentazione della sovranità nel corso delle crisi
della Spagna liberale. I pronunciamenti, infatti, erano quasi sempre preceduti da numerose sollevazioni di città anche di
piccole dimensioni in cui si insediavano giunte di governo disposte a trattare con le altre come fossero organi autonomi
o sovrani (come avvenne ad esempio a Saragozza). Per questo, lo Stato liberale si frantumava. Fino al punto che
quando nel 1873 si instaurava la Repubblica, i “repubblicani intransigenti” delle provincie davano vita alla “rivoluzione
cantonalista”, in cui la polverizzazione del potere arrivò a provocare aperti conflitti tra i cantoni (divisioni
amministrative) come quelli di Siviglia e Cartagena, che cominciarono a tenare di espandersi fuori dalla loro sfera di
influenza, e quelli di città che non volevano scambiare la tutela di Madrid con la tirannia di una nuova capitale. Fu in
questo contesto di rivoluzione che iniziò a diffondersi l’Internazionale dei Lavoratori il cui deputato Giuseppe Fanelli era
venuto a promuoverne l’organizzazione. Invece, durante il 1873 gli internazionalisti entrarono in azione: critici verso i
“repubblicani intransigenti”, indussero uno sciopero generale a Barcellona e la rivolta di Alcoy dove durante uno
sciopero i lavoratori fucilarono il sindaco e decapitarono il suo corpo e quelli delle guardie uccise nella mischia,
organizzando una parata lungo le vie della città. Da allora, dopo essere stata dichiarata fuori legge, l’organizzazione
crebbe in clandestinità fino alla reintroduzione nel 1881 della libertà di associazione come Federación de Trabajadores
de la Región Espanola. Perduta la sua forma unitaria, il movimento anarchico spagnolo conobbe la forte ostilità e la
persecuzione dei governi borghesi; nondimeno esso continuò ad essere per gran parte dei lavoratori il principale punto
di riferimento ideologico e rivendicativo. L’ideale del collettivismo e del “comunismo libertario” divulgato dagli
anarchici si innesta così sulle rivendicazioni ancora vive del ritorno all’uso comune delle terre come in Antico Regime.
La loro propaganda incontra un terreno fertile che ne permette una diffusione a miccia; tanto che il forte ruralismo del
movimento anarchico in questo periodo è dovuto anche al fatto che esso era rimasto l’unica espressione politica delle
classi subalterne delle campagne. Ma il movimento si andò diffondendo soprattutto a partire dagli anni ’80 del XIX
secolo, anche nelle aree urbane (conquistando Barcellona, il centro industriale del paese). Anche in questo caso esso
attecchì e gettò le sue basi in un clima di lotte popolari ed operaie che risultarono controproducenti per le
indiscriminate reazioni repressive che provocano, tanto da lasciare forti sospetti che in diversi casi proprio la
repressione fosse il fine ultimo di attentatori armati dal padronato o dalla polizia. Tanto più che nella prima decade del
‘900, gli obiettivi degli attentati furono spesso luoghi socialmente neutri (mercati, caffè..) privi di significato concreto o
simbolico e le vittime casuali. Questa catena di attentati inizia ad esaurirsi solo quando il movimento anarchico ritrova
un nucleo organizzativo con la Confederación Nacional del Trabajo (CNT) e con la Solidaridad Obrera, in cui
confluiranno man mano migliaia di lavoratori in tutta la Spagna. All’interno della CNT si fa così strada una linea di
sindacalismo rivendicativo e riformista sostenuta da alcuni leader come Salvador Seguí e Angel Pestana: questi uomini
per alcuni anni riescono a dare alla CNT la forma di un sindacato moderno, combattivo ed orientato al conseguimento
di obiettivi accettabili dalle controparti statali. Questa tendenza sembra così consolidarsi con il congresso di Sants
(1918) durante il quale la confederazione si riunisce per rami d’industria e con la vittoria del lungo sciopero contro
l’impresa elettrica Canadiense (1919). Però, nei primi anni ’20, i “sindacalisti” della CNT perdono il controllo della
situazione, travolti dalle guerre dei pistoleros che contribuiranno a distruggere il movimento anarchico perché
quell’ambiente di guerra aperta favorirà i progetti di Primo de Rivera come restauratore dell’ordine e rigeneratore della
politica e dell’amministrazione. Dopo la scomparsa della CNT e di tutto il movimento, essi risorgeranno solo con
l’avvento della Repubblica democratica. Nel frattempo, in Germania, Francia, Paesi Bassi ed Italia sorgono i partiti
socialisti che intraprendono una marcia attraverso le istituzioni che li porterà in Parlamento a rappresentare i bisogni
dei lavoratori del loro paese, facendo gradatamente declinare la caduta dell’anarchismo. Tuttavia, in Spagna, col
sistema del turno questo diventa impossibile: il PSOE (Partido Socialista Obrero Espanol) di ispirazione riformista
fondato da Pablo Iglesias nel 1879 vive una vita minoritaria fino alle elezioni del 1910 quando viene per la prima volta
eletto come unico rappresentante del suo partito. Solo con le elezioni del 1923, le ultime del periodo del turno, i
socialisti raggiungeranno il più alto numero di rappresentanti alle Cortes mai ottenuto. Questo dimostrava il fatto che
una tale chiusura alla rappresentanza democratica dei lavoratori non poteva far altro che produrre una radicalizzazione
del loro movimento. Il Partito Socialista nell’agosto 1917 si farà principale promotore di uno sciopero generale il cui
seguito fece temere alle autorità sbocchi rivoluzionari (come quelli della Russia): lo sciopero però fu stroncato con
l’intervento dell’esercito mentre i membri del comitato dello sciopero verranno condannati all’ergastolo. Come
conseguenza di questo deficit democratico, si era sviluppato a Barcellona (anche tra repubblicani) un movimento
estremista (il Partito Radicale di Alejandro Lerroux) i cui giovani rappresentanti saranno promotori nel 1909 di una
settimana di sommossa – la settimana tragica – nella capitale catalana. In seguito a questo Lerroux fu denominato
l’”Imperatore del Parallelo” e considerato il primo canalizzatore dell’azione delle masse urbane spagnole verso le
pratiche della rappresentanza politica moderna, per essere stato capace di indirizzare il suo movimento su obiettivi
elettorali sconfiggendo (nel 1901) i candidati governativi. In nessun altro paese il popolo era così convinto del fatto che
la democrazia fosse una finzione irrealizzabile: più che altrove mancò in Spagna alle classi dominanti la capacità di
arginare la lotta promossa dal basso e al tempo stesso mitigare i propri egoismi col nazionalismo, usare la nazione
come collante contro la disgregazione del corpo sociale. Questo dipese dal fatto che a loro stesse faceva difetto il senso
della collettività nazionale, non come idea quanto come responsabilità; perciò mancò loro anche la forza morale di
coinvolgere le classi subalterne in una grande impresa nazionale condividendo con esse i sacrifici necessari a realizzarla.
La guerra di Cuba, la cui conclusione nel 1898 è ancora oggi in Spagna designata come el desastre, è forse l’evento più
significativo dell’inadeguatezza della classe dominante spagnola ad essere anche classe dirigente nazionale: non solo
per la sua inettitudine a prevenire la rivolta dei cubani e la sua iattanza nell’affrontare la guerra con gli Stati Uniti ma
anche per la sua indisponibilità a dividere col popolo sforzi e sofferenze che la difesa del suo residuo impero
d’oltremare comportava. La guerra fu un disastro non tanto per la sconfitta e le sue perdite (Cuba, Portorico e Filippine)
ma per il modo in cui venne persa: si giunse alla disfatta in soli 4 mesi, con il totale affondamento delle flotte del
Pacifico e dell’Atlantico senza che la marina americana subisse perdite di uomini e naviglio. Questo mostrava la
debolezza di una classe politica screditata, impotente a far fronte ai furori nazionalistici dell’esercito e della stampa, e
incapace quindi di sottrarre il paese ad una sconfitta inevitabile. A fermare ogni possibile sviluppo del nazionalismo
popolare fu la volontà delle classi dominanti di far pagare il prezzo di sangue della guerra alle classi subalterne,
conservando la facoltà per i ricchi di evitarlo tramite l’esborso di una somma per il pagamento di un sostituto. Alla
mortificazione del sentimento nazionale si aggiunse il disvelamento della “falsità” del patriottismo delle classi
dominanti o della loro volontà di ripartirne i costi sempre in modo ineguale. Questi due fattori accelerarono la
separazione delle classi subalterne dalla comunità nazionale. A seguito del desastre, il movimento catalanista
(rivendicazione di identità culturale) si volge in aperta disaffezione nei confronti dello Stato spagnolo: notabili e
fabbricanti attribuirono al governo della capitale le responsabilità della sconfitta e cominciarono a distaccarsene
costituendo nel 1901 la Lliga Regionalista, che avrebbe dovuto creare le basi di un autogoverno regionale e
rappresentare più efficacemente gli interessi catalani delle Cortes. Ma per quanto non avesse alcun carattere
nazionalista, la Lliga fece da intermediario ad un movimento catalanista sempre più consistente e combattivo. Il
movimento catalanista faceva tanti più iscritti quando più si scontrava con un nazionalismo spagnolo centralista così
chiuso che la sola concessione nel 1914 della Mancomunitat (per realizzare opere di interesse comune) fu vista come
un delitto di lesa patria. Questo atteggiamento non poteva che esasperare i caratteri di forza centrifuga del
catalanismo, accentuandone la componente democratica. Il catalanismo delle classi medie e popolari prese così un
carattere radicale, indipendentista e repubblicano che sarebbe giunto a maturazione nel periodo successivo alla
Restaurazione (dal congresso di Vienna 1/11/1814 ai moti del 1830-31). Al momento del recupero del catalano come
lingua di cultura, i catalani avevano una conoscenza talmente imperfetta della loro lingua da essere incerti addirittura
sugli articoli maschili. Il movimento nazionalista, nel Paese Basco, nacque politicamente come “foralismo”, come
rivendicazione dei fueros dopo la loro definitiva abolizione del 1876 perché trovava in essi la concrezione giuridica dei
costumi, usi e tradizioni immemorabili dei baschi e quindi il fondamento della loro identità e un sinonimo della loro
indipendenza. Per questo il nazionalismo basco si configura subito come indipendentismo e come netta ripulsa della
Spagna e degli spagnoli. Sabino Arana, il suo inventore e teorico gli da un carattere fortemente combattivo contro “la
nazione che opprime la Biscaglia” (comune di una comunità spagnola). Nonostante questo primo nazionalismo basco
fosse più separatista e aggressivo di quello catalano, ricevette meno attenzione e suscitò minore ostilità da parte dei
governi di Madrid sia perché fu più circoscritto, sia perché, discendendo dal carlismo, era estremamente conservatore
e così ultracattolico da poter contare sullo scudo delle gerarchie ecclesiastiche: esso rappresentava in larga misura una
reazione di rigetto della società tradizionale alla rapida industrializzazione della Biscaglia; lo sviluppo delle miniere e
dell’industria basca nell’ultimo terzo del XIX secolo era infatti stato talmente intensivo da forzare al massimo i tempi
del normale processo di adattamento della società preindustriale al cambiamento. In particolare l’industrializzazione
comportò un aumento demografico (la popolazione di Bilbao quintuplicò) a cui concorse la manodopera proveniente
dal resto della Spagna. IL NAZIONALISMO BASCO FU LA REAZIONE DI UN’IDENTITÁ CULTURALE MINACCIATA DA
SCONVOLGIMENTI SOCIALI PRODOTTI DALLA RAPIDA INDUSTRIALIZZAZIONE E DALL’IMMIGRAZIONE MASSICCIA DEI
LAVORATORI SU UN POPOLO CON UNA MARCATA COSCIENZA PARTICOLARISTA E CON FORME DI VITA E COSTUMI
PROFONDAMENTE CONSERVATORI E TRADIZIONALI. Respinti, quegli immigrati consumavano le loro vite precarie in
lavori in fabbriche, officine e laboratori malsani, concentrati nei vicoli di case del centro antico o nei suburbi senza
servizi igienici. Male accolti, questi uomini erano disponibili a confluire con la loro disperazione in qualunque
movimento di rottura dell’ordine esistente. In questo contesto, la vicenda della “settimana tragica” mostra la
leggerezza della componente ideologico-politica nell’orientare l’azione di queste masse nei loro moti di rivolta. Iniziata
come sommossa contro l’imbarco di riservisti per la guerra in Marocco, la rivolta avrà come oggetto di furia, chiese ed
altri edifici religiosi a denotare che quei paria dei grandi agglomerati urbani si sentivano abbandonati dagli uomini
come anche dal cielo, visto che la Chiesa li aveva respinti e delusi.
3. La Chiesa e i suoi apostati
In una rappresentazione teatrale di uno spettacolo comico a Madrid nel 1831, si rilevava tra il popolo una certa
irriverenza verso il clero ed un eccetto di familiarità con “le cose sante”: questo fu l’effetto di una vita in cui la pietà era
diventata abitudine o di un indebolimento delle credenze che fa sì che si rida dell’antica fede degli spagnoli. Al di là
delle impressioni, in una Spagna che stava avviando la sua transizione verso la modernità, molti uomini vivevano
ancora immersi nel sacro mentre altri avevano mutato l’antica fede in una feroce ostilità esplosa nel 1834 nella
matanza dei frati di Madrid, massacrati per le strade della capitale. L’anno successivo, altri episodi sarebbero avvenuti
a Saragozza e a Reus, mentre a Barcellona si bruciavano i conventi dando inizio ad una lunga tradizione. La posta in
gioco tra i due schieramenti, il clericale e l’anticlericale, che da allora cominciavano ad affrontarsi nella storia di Spagna
era principalmente di potere politico ed economico: pur di mantenere la sua autorità, la Chiesa aveva cercato di tenere
il piede tra liberalismo e assolutismo. Tuttavia, in questo conflitto chiarificato nella prospettiva di successione al re tra
don Carlos ed Isabella, la Chiesa cercò di non compromettersi con nessuna delle due parti, sebbene i suoi uomini più
intransigenti avessero da tempo scelto di dare battaglia insieme al pretendente. La Chiesa non solo perse le decime e
ogni altra forma di tassazione in suo possesso ma in forza delle leggi di desamortización, adottate tra il 1835 e il 1855,
che prevedevano l’incameramento da parte dello Stato dei beni ecclesiastici, fu spogliata di quasi tutto il suo
patrimonio terriero e di buona parte di quello immobiliare urbano. Gli espropri furono preceduti da dalla soppressione
degli ordini monastici ai cui membri furono riconosciute modeste pensioni statali, scarsamente pagate, mentre il
mantenimento del clero secolare veniva demandato alle casse di uno Stato in ristrettezze finanziarie. In conseguenza,
non solo peggiorarono le condizioni di gran parte del clero basso, ma soprattutto la Chiesa perse uno strumento di
influenza così importante che molta dell’attività pastorale dei vescovi spagnoli del XIX secolo fu diretta al recupero del
potere economico perso in seguito alle misure di desamortizacion. Juan Alvarez Mendizábal, il ministro che nel 1836
adottò le più drastiche misure d’esproprio nei confronti della Chiesa, lo fece soprattutto per far fronte ad urgenti spese
per l’esercito senza le quali la guerra contro don Carlos sarebbe stata persa. Per le costanti difficoltà finanziarie, anche i
governanti liberali più moderati non poterono tornare indietro sulla via della desamortizacion. Uno di questi, Juan
Bravo Murillo, si impegnò a sospendere gli espropri in cambio dell’accettazione da parte del Vaticano di quelli già
avvenuti. Costretta a subire l’impoverimento, la Chiesa rimase decisa e rivalersi sul piano del potere mantenendo nei
confronti dello Stato liberale un atteggiamento di integralismo. Quella stessa congiunzione di religioso e politico
comportò la grave conseguenza di aggregare in un’unica militanza due adesioni che avrebbero dovuto rimanere
distinte. Durante la Restaurazione, si aprirono scuole, ospedali, manicomi, associazioni di accoglienza per giovani
sbandati, il cui personale era costituito da religiosi, con una grande espansione delle congregazioni e una crescita
rapida e consistente dei loro membri. In concorrenza con le organizzazioni sindacali socialiste e anarchiche si
costituirono diverse associazioni operaie, rivolte più al mutualismo e all’assistenza che al sostegno degli associati nei
conflitti di lavoro; anche se a partire dal nuovo secolo (XX) si crearono veri e propri sindacati scarsamente combattivi e
dipendenti dai finanziamenti padronali in funzione antisocialista.
Negli anni della Restaurazione si andò elaborando, nell’ambito della rigida ortodossia cattolica, un’ideologia
nazionalista nella quale la Chiesa aveva il ruolo di guida ispiratrice delle grandi imprese della storia del paese e di
coagulo dell’identità nazionale. Sebbene questo nazionalcattolicesimo non fosse un indirizzo concreto della Chiesa
spagnola, esso conquistò moltissime adesioni tra gli ambienti cattolici ed il clero, creando un forte legame tra essi e
l’esercito. La convergenza si saldò con la figura di Alfonso XIII che era in grande sintonia con le gerarchie militari sul
modo di concepire la grandezza della nazione e che al tempo stesso era sostenitore della funzione portante della
Chiesa per la stabilità del sistema sociale esistente. Questo legame tra Chiesa, nazione e trono avrebbe trovato la sua
massima espressione nel 1919 quando il re consacrava la Spagna al Sacro Cuore di Gesù, inaugurando un monumento
su cui svettava l’alta croce del Cerro de los Angeles. IN UN PAESE ORFANO DI UN NAZIONALISMO FORTE DI IMPRESE
RECENTI, LA CHIESA ACCRESCEVA IL SUO ASCENDENTE COME CONTINUITÀ DI UN GLORIOSO PASSATO. Era inevitabile
che a fronte di una Chiesa così clericale e intollerante si sviluppasse un anticlericalismo tanto più aggressivo quanto più
politicamente perdente: quantunque il conflitto tra clericali e anticlericali occupasse uno spazio crescente nell’agone
politico, i tentativi di laici e anticlericali di “secolarizzare” lo Stato furono sconfitti. A deviare il laicismo verso un
anticlericalismo contribuirono il potere della Chiesa nell’educazione e nell’emarginazione di ogni istanza di istruzione
aconfessionale aperta alla cultura della ragione. Nel 1876 Francisco Giner de los Ríos fondò un centro di istruzione
indipendente, la Institución Libre de Ensenanza, ispirata ad un’etica laica ma non irreligiosa, aperta alla conoscenza
scientifica e a metodi educativi razionali e moderni, per la quale passarono molti dei maggiori rappresentanti della
cultura spagnola contemporanea: Joaquin Costa, Américo Castro, Antonio Machado, Juan Ramon Jimenez. Tuttavia
questo centro restò un’isolata scuola di elite nemica della Spagna e della religione. Difronte a ciò, l’anticlericalismo
cercò una rivalsa nella denuncia del suo oscurantismo e dogmatismo come ostacoli ad ogni progresso e ad ogni
benessere che potessero derivarne; soprattutto esso tese a eroderne l’autorità ed il seguito popolare denunciando la
sua debolezza morale accusandola di avidità, mondanità e ipocrisia. Nel 1907 Lerroux attaccava in un discorso pubblico
i Gesuiti, bersaglio favorito per il loro attivismo e il loro crescente potere economico accusandoli di avere sete d’oro, di
appropriarsi delle eredità, di catechizzare le figlie delle famiglie ricche e di sotterrarle nei loro monasteri.
L’anticlericalismo politico e acculturato, incontrandosi con quello del popolo, cominciò ad avere un’enorme risonanza:
gli organi di stampa radicali e repubblicani come “la Publicidad” o “el Progreso” si facevano ogni giorno espressione
dell’anticlericalismo più virulento, ma più che istigatori essi erano punto di attrazione di un pubblico popolare che
voleva leggere. I sentimenti anticlericali erano così diffusi che qualunque movimento politico che volesse radicarsi tra le
classi subalterne e goderne dell’appoggio, doveva condividerli. Anche il movimento operaio ne fu conquistato. Era
improbabile che il clero spagnolo deviasse più di altri dalle norme morali che esso stesso predicava e che fosse dedito
ad ogni sorta di vizi ma a quelle accuse di tradimento ecclesiastico del Vangelo credeva molta parte del popolo come
vendetta per un abbandono, come risentita denigrazione di una chiesa che aveva messo una grande distanza fra sé ed i
suoi fedeli. È innegabile che la Chiesa lungo il processo di urbanizzazione e industrializzazione della Spagna si schierò
dalla parte delle classi dominanti e nei conflitti di lavoro dalla parte dei padroni ma, rinunciando a collocarsi in una
posizione di mediazione che stemperasse i conflitti di classe, la Chiesa non potè impedire che questi diventassero una
guerra in cui anch’essa sarebbe rimasta coinvolta. Ma più che un errore di prospettiva, quello schieramento e quella
rinuncia erano il riflesso di una vera lontananza dalle classi subalterne, di un’ostilità alla loro emancipazione, alla loro
conquista del diritto a migliori condizioni di vita che privasse in gran parte di senso le opere di carità che favorivano la
diffusione del suo credo e giustificavano la sua stessa esistenza: era questo il nodo del conflitto tra Chiesa e masse di
popolo che continuavano a essere cariche di necessità materiali e bisogni religiosi, ma non riuscivano ad accettare che
occorresse rassegnarsi alla subordinazione per soddisfare le une e gli altri. La Chiesa a partire dalla Restaurazione,
aveva accompagnato un fervore di opere di carità che coprivano i servizi assistenziali che in molti paesi europei erano
prestati dallo Stato; essa appariva così preoccupata piuttosto di garantirsene la docilità, l’ottemperanza ai suoi precetti
e alle pratiche religiose da cui si erano allontanati. Non a caso, dalla metà del XIX secolo, si era avviato un processo di
“scristianizzazione” che avrebbe imposto alla Chiesa l’invio di periodiche missioni interne al fine di rievangelizzare le
popolazioni. “I FIGLI DEL POPOLO SI GETTAVANO FRA LE BRACCIA DI UN SOCIALISMO ATEO E RIVOLUZIONARIO”. Prima
di gettarsi in queste braccia, però, c’era stato un lungo periodo di abbandono: fisico perché il clero parrocchiale era
insufficiente, morale e spirituale perché la Chiesa appariva fermamente associata alla ricchezza e avversa
all’emancipazione delle classi subalterne tanto da incrinare la fiducia di queste nel carattere provvidenziale della sua
esistenza. Per molti era stato spontaneo il passaggio dall’indifferenza all’empietà: Dio era crollato con la sua Chiesa
perché senza il supporto di essa era difficile sviluppare una religiosità alternativa. Più facile fu mutare il fervore
religioso in aggressività anche in odio di una illusione non svanita completamente. Tuttavia la situazione non era uguale
in ogni parte del paese: cinquant’anni dopo la chiesa aveva addirittura rafforzato le sue roccaforti dei Paesi Baschi e
della Navarra, della Catalogna rurale e della Meseta settentrionale, grazie ad un clero più presente nella vita
comunitaria. Così la linea di frattura del corpo sociale in base alle adesioni religiose non seguiva solo un andamento che
separava le classi subalterne da quelle medio-alte, si ramificava anche per la geografia nazionale, come per scavare una
trincea.

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