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LE NOVELLE DI BANDELLO

Parafrasi de Il Bandello ai candidi ed umani lettori

Sono già molti anni da quando io iniziai a scrivere alcune novelle spinto dagli incitamenti della virtuosa
signora Ippolita Sforza, il cui ricordo è sempre aspro e degno, moglie del sensibile signor Alessandro
Bentivoglio, che Dio l’abbia in gloria. Mentre ella ancora viveva, le facevo leggere tutte le mie opere,
malgrado alcune di esse fossero dedicate ad altri. Ma non essendo il mondo degno di avere in terra uno
spirito così elevato e glorioso, nostro Signore richiamò presso di sé questo spirito nel cielo con prematura
morte. Così che dopo la sua morte mi capitò, come capita di solito alla mola che gira, che essendo fatta
girare da una mano robusta, malgrado si tolga questa mano, tuttavia la ruota, per la spinta del primo
movimento, senza essere toccata continua a girare su sé stessa per “un bel po’”. Così dopo la morte di
questa nobilissima signora il mio animo (=i miei sentimenti), che è sempre stato desideroso di ubbidirle,
non si fermò di girare la mia debole mano, affinché io continuassi a scrivere adesso questa e poi quell’altra
novella, a seconda dell’occasione offerta, cosicché ne scrissi molte. Dunque, ci sono alcuni miei amici che
desiderano vederle, malgrado siano già state vedute molto, (questi) mi esortano tutto il giorno a
pubblicarle. Molte ne ho bruciate, quelle poi, che si sono salvate dalle fiamme, non avendo io conservato
nessun ordine, le ho riunite disordinatamente a seconda di come via via le ho scritte e le ho divise in tre
parti per essere divise in tre libri affinché esse rimangano in volumi più piccoli possibile. Io non invito né
costringo nessuno a leggerle, ma ben prego tutti quelli che vorranno leggerle che si degnino di leggerle con
la disposizione d’animo con cui io le ho scritte. Dichiaro esplicitamente che le ho scritte per far star bene la
gente e divertire. Se io adesso dunque sono riuscito in questo scopo (dare benessere e divertire) mi rimetto
a voi miei benevoli lettori, al vostro giudizio sincero e benevolo. Io non voglio dire che, come disse il nobile
ed eloquentissimo (=dalla scrittura magnifica) che queste mie novelle siano scritte in fiorentino volgare,
perché direi una bugia evidente perché io non sono né fiorentino né toscano, ma sono lombardo. E
sebbene io non abbia stile, cosa che confesso, mi sono detto che era / opportuno giusto che io scrivessi
queste novelle perché ho creduto che la storia e questo tipo di novelle potessero divertire in qualsiasi
lingua fossero scritte. State sani.

Parafrasi de “Il Bandello a la molto illustre e virtuosa eroina …”


Si incontrarono nei giorni scorsi a casa vostra a Milano molti gentiluomini*, che secondo la loro lodevole
consuetudine nel corso di tutta la giornata vengono da voi a diporto/visita di svago così che sempre nella
brigata/nel gruppo di persone che vi si riunisce vi è qualche bello e divertente discussione (ragionamento)
dei fatti*) che accadono durante il giorno sia di faccende d’amore sia di altri casi. Qui sopraggiungendo io –
che ero stato mandato dal signor Alessandro Bentivoglio vostro marito e da voi dalla signora Barbara
Gonzaga contessa di Caiazzo con la ragione/per causa di dare per moglie una delle vostre figliuole al signor
conte Roberto Sanseverino suo figlio (di Barbara Gonzaga) - in quel momento io ritornavo con la gentile
(graziosa) risposta avuta da lei e tutti e tre (Ippolita, Alessandro e Bandello) andammo in una stanza vicina
alla sala* dove io vi esposi quanto avevo negoziato. Parve al signor Alessandro e a voi che tutto ciò che
riguardava questa notizia si dovesse comunicare con quei gentiluomini che aspettavano in sala., così che
ciascuno dicesse il suo parere. Esposi in sala alla presenza di tutti il fatto, come l’avevo esposto prima al
vostro consorte e a voi. Furono vari i pareri della compagnia in quanto le indoli, l’inclinazione naturale e le
opinioni sono diverse. Alla fine dopo aver preso in considerazione ogni cosa si concluse che non bisognasse
più parlare di questo accordo con la contessa (Barbara Gonzaga) giacché l’arcivescovo Sanseverino, zio del
conte Roberto, si adoperava (teneva il maneggio) per dare in sposa la sorella del cardinale Cybo al suo
nipote, affinché papa Leone X non si adirasse contro di voi. E così mi ordinaste/incaricaste ad avvisare la
contessa di tale decisione il che fu puntualmente eseguito da me il giorno successivo. Fra gli altri della
compagnia vi era il molto cortese/nobile d’animo Ludovico Alemanni, ambasciatore fiorentino, il quale
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avendo sentita la decisione assai prudente che si era presa, lodandola (la decisione) con parole molto
opportune disse che non si poteva fare meglio. Ed a questo proposito egli raccontò un violento/gravissimo
fatto accaduto a Firenze altre volte, un tempo/precedentemente. La quale (narrazione di Ludovico) essendo
stata ascoltata con attenzione ancor di più rafforzò l’opinione/confermò in vostro marito e voi
nell’avvenuta chiusura delle trattative (=conclusione). Per cui io sembrandomi il fatto narrato degno di
compassione e di memoria proprio esattamente come era stato detto da Alemanni lo scrissi. Ricordandomi
poi che voi (Ippolita) tante volte mi avete esortato di fare una scelta degli avvenimenti che io sentivo
raccontare in diversi luoghi e farne un libro ed avendone già scritti molti pensai, andando a soddisfare le
vostre esortazioni che presso (appo) di me sono come un ordine, di mettere insieme sotto forma di novella
quello che avevo scritto non osservando alcun ordine di tempo, ma disporre queste (esse) novelle così
come mi capitavano in mano, e a ciascuna di quelle novelle dare un patrono o una patrona (=figura di
riferimento/garante) di quelli che sono miei signori e amici. Il perché (di dare alle novelle un patrono/a)
avendo scritto la storia dell’Alemanni malgrado altre ne siano state raccontate in vostra presenza giudicai
una cosa giusta (ben fatto) che questa qui dedicando al vostro nome, quello (nome) alle mie novelle io ho
usato il vostro nome come capo (come prima dedicataria in quanto figura autorevole di riferimento) e
come difensiva insegna. Essendo dunque stata voi la causa e l’origine, non avendo ben misurato le mie
forze, che io scrivessi le novelle, quali esse siano, mi è parsa cosa giusta che voi siate la prima alla quale io,
pagando il debito della mia servitù (contratto con voi essendo al vostro servizio) e di tanti benefici vostri
verso di me, doni una novella e che voi siate all’inizio di questo libro di novelle colei che mostrerà la strada
alle altre novelle. Io mi do a credere, anzi ho l’opinione fermissima che voi leggerete le cose mie, perché ho
visto altre volte quanto lietamente voi avete preso in mano le mie chiacchiere (ciance) e trascorso molto
tempo a leggerle. E non contenta di questo, le rileggete e, cosa molto più importante, le lodate. E alcuni
potrebbero dire che voi lodate i miei scritti non perché essi siano degni di essere detti e celebrati ma perché
vengono da me che vi sono servitore e che voi, la vostra mercé, in mille casi avete dimostrato di apprezzare
più di quanto, considerato bene ciò che io sono, non sarebbe giusto essendo voi tra le rarissime donne del
nostro secolo la più rara di virtù, di costumi/comportamenti, di cortesie e di onestà, erudita tanto da
padroneggiare la letteratura latina e volgare, che accrescono la vostra divina bellezza con maggior grazia, io
non di meno tengo queste lodi in grande considerazione, conoscendo quanto il vostro ingegno sia acuto,
quale sia la vostra erudizione, quale sia la vostra dottrina e tante altre vostre singolari (e quindi
straordinarie) ed eccellentissime doti. Ogni giorno è facile vedere la profonda conoscenza che avete delle
buone lettere essendo di continuo portate ora poesie in latino ed ora in volgare che voi subito, con una un
solo sguardo penetrate il loro senso in modo tale che sembra non facciate altro che dedicarvi agli studi. Vi
ho vista tante volte nel discutere venir alle mani (=entrare in una discussione accalorata) con nostro
eruditissimo messer Gerolamo Cittadino, che voi tenete a casa con uno stipendio dignitoso, e se qualche
volta si entrava nella lettura di qualche passo oscuro nel significato, o di qualche poeta odi qualche storico,
in maniera così dotta esponevate la vostra opinione con argomenti solidi il che era cosa che dava stupore e
meraviglia a ascoltarvi. Ma che del vostro giudizio coerente, oculato e saldo e non influenzato dal lato dove
tira il vento di qua o di la. Mirabile quanto con profondità e sottigliezza voi siete capaci di interpretare
parola per parola, senso per senso certi passi degli scrittori che ogni persona che vi sente lo vede.

Saltiamo una piccola parte fino a “Ora, chi udita v’avesse”

Ora, chi vi avesse udita quel giorno che il dottore e poeta soavissimo messere Niccolò Amanio venne a farvi
riverenza, e che furono letti i due sonetti, uno della signora Cecilia Bergamini contessa di San Giovanni in
Croce, e l’altro de la Signora Camilla Scarampa, quando con facilità discutevate dello scopo del poeta e delle
caratteristiche che deve avere chi vuole comporre poesia in latino o in volgare, e con quanta abbondanza di
parole pure e proprie (con perfetta proprietà di linguaggio) e con una disposizione elegante voi esponeste
tutto quanto e chiunque avrebbe detto dicendo il vero, che non era una donna quella che parlava, ma che
fosse qualcuno dei più doti, sapienti (facondo) ed eloquentissimi uomini che oggi vivono che parlava.

Saltiamo una piccola parte fino a…

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Ma io mi sono fatto trasportare troppo, non essendo questo luogo dovuto alle vostre lodi, a cui sarebbero
più opportuni assai più “purgati” inchiostri/ migliori autori.

Saltiamo una piccola parte fino a…


Se poi come probabilmente capiterà vi saranno cose rozze/spiegate male né disposte nel modo giusto o
espresse con una lingua barbara, se queste cose capiteranno che siano attribuite (ascritte) alla debolezza
del mio basso ingegno e alla mia ignoranza e gradisca piuttosto la mia buona volontà pensando che io sono
lombardo e nella Lombardia ai confini con la Liguria nato e per la maggior parte della mia vita ho vissuto in
questa parte d’Italia e che ho scritto come parlo non per insegnare agli altri (come si scrive) né per
aggiungere bellezza all’Italiano, ma soltanto per ricordare le cose che sono degne di essere scritte e per
ubbidire a voi che me lo avete ordinato. State sana.

*aggettivo usato solo per gli uomini aristocratici


* accidenti= forma participiale per ciò che accade, quindi fatti
*oggi diremmo salone, il luogo dove si riceve, la stanza più grande della casa dove si ricevono gli ospiti o si
fanno i grandi incontri di famiglia

IL BANDELLO AL MOLTO VALOROSO SIGNORE


IL SIGNOR CESARE FIERAMOSCA LUOGOTENENTE
DE L'ILLUSTRISSIMO SIGNOR PROSPERO COLONNA

(lettera introduttiva alla VI novella del libro I che segue)

Abbiamo noi lombardi un proverbio che molto spesso si costuma dire, cioè che il lupo muta pelo e non
cangia vizio. E perché i proverbi son parole approvate, conviene che il piú de le volte siano vere: onde
quando si vede uno invecchiato in una costuma o buona o rea che si sia, si può fermamente credere che
egli il piú de le volte in quella morrá. Può l'uomo da bene peccare, e di fatto talora pecca, ma per non
essere al male avvezzo, con l'aiuto de la misericordia di Dio s'avvede del suo errore, e pentito ritorna a la
via dritta. Gli uomini sconci e scelerati che nel mal operare hanno fatto il callo, si vedeno a le volte far
buone e vertuose opere, ma poco durano in quelle, anzi ritornano a la loro pessima vita. E la ragione di
questo è che, come l'uomo con i frequenti atti ha fatto l'abito e consuetudine in una cosa, quell'abito o
consuetudine difficilmente si può rimuovere. E ragionandosi, non è molto, in casa del nobilissimo signor
Galeazzo Sforza signor di Pesaro, che era in Milano, a la presenza de la molto vertuosa signora Ginevra
Bentivoglia sua consorte, di questa materia, perciò che si diceva d'un vecchio che piú di venti anni aveva
sempre tenuto una concubina e morendo non l'aveva voluta lasciare, il magnifico messer Paolo Taeggio
dottor di leggi narrò un mirabil accidente in Milano avvenuto, che fece meravigliar senza fine tutti quelli che
l'udirono. E certamente il caso è degno di ammirazione e di pietá, e se non fosse meschiato di cose sacre
sarebbe da riderne pur assai. Onde per dar numero a le mie novelle mi parve di scriverlo e al nome vostro
dedicarlo, sapendo che non poco ve ne ammirarete, essendo voi molto ne le cose sacre cerimonioso, come
io piú volte ho esperimentato. Vi piacerá che il nostro piacevole Gian Tomaso Tucca anco egli legga questa
novella, ricordandogli quella del rammarro, che da voi fu scritta quando con le genti d'arme eravate al
Finale del Ferrarese. State sano.

Parafrasi della lettera fino a “si può rimuovere”


Noi lombardi abbiamo un proverbio che molto spesso siamo soliti dire cioè che il lupo cambia il pelo ma
non cambia il vizio. E siccome i proverbi sono detti provati dai fatti capita che la maggior parte delle volte
siano veri: infatti si vede quando uno è invecchiato in un costume (abitudine/comportamento) o buono o
cattivo che sia, si può essere sicuri che nella maggior parte dei casi morirà con quel modo di comportarsi.
Può peccare l’uomo per bene, e di fatto/effettivamente qualche volta pecca, ma siccome non è
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avvezzo/abituato al male con l’aiuto della misericordia di Dio si accorge (avvede) del suo errore/peccato e
ritorna pentito sulla retta via. Gli uomini indecenti nei loro comportamenti (sconci) e crudelmente malvagi
(scellerati) che si sono incalliti nei loro cattivi comportamenti a volte si vedono fare opere buone e virtuose,
ma sono poco costanti nelle buone azioni, anzi ritornano alla loro pessima condotta di vita e la spiegazione
di questo è come l’individuo con azioni frequenti ha fatto l’abitudine e la consuetudine di una certa cosa,
quell’abitudine o consuetudine difficilmente si può togliere.

NOVELLA VI: Il Porcellio romano si prende trastullo di beffar il frate confessandosi.

Messer Dioniso Corio, gentiluomo di questa cittá molto onorato e di antica famiglia, soleva molto volentieri,
quando era in compagnia, con qualche novella gli ascoltanti rallegrare. Egli era bellissimo parlatore e
sempre aveva qualche bella cosa a le mani. Onde, quando il signor cavalier Vesconte Alfonso fece le nozze
de la signora Antonia Gonzaga sua moglie, io che era ancor degli invitati mi ricordo che narrò tra l'altre
volte una novella qui a Milano avvenuta, la quale, per esser a proposito de la materia di cui ora si ragionava,
mi piace di dirvi. Vi dico adunque che Francesco Sforza, che con l'armi s'acquistò il ducato di Milano, fu
uomo ne le cose militari senza dubio da esser agguagliato a qualunque eccellente ed antico romano. Egli
ancor che non fosse letterato, come quello che era stato sotto il vittorioso capitano Sforza Attendulo suo
padre da teneri anni nodrito, nondimeno amò sempre gli uomini dotti in qualunque scienza si fosse, e diede
loro gran salarii. Fra molti adunque che egli qui in Milano e altrove mantenne, v'era il Porcellio, poeta
romano, il quale, ben che fosse nato e allevato a Napoli, nondimeno voleva esser detto romano. Egli era
assai buon poeta secondo quei tempi che le buone lettere, ch'erano state tante centinaia d'anni sepolte,
cominciavano a levar il capo e a ripolirsi. E chi bramasse veder qualche sua composizione, vada nel palazzo
che fu del famoso conte Gasparo Vimercato e vedrá ne le sale e camere a diversi propositi sotto varie
pitture, epigramme assai de le sue, che dimostrano la vivacitá del suo ingegno. In lui però l'eccellenza de le
lettere ed il pregio de le muse di gran lunga avanzavano molti enormi vizii che aveva. Ma fra gli altri diffetti
che in lui abbondavano, questo fra gli altri era uno dei solenni, che sempre la carne del capretto gli piaceva
molto piú che altro cibo che se gli potesse dare, di maniera che questo era il sommo suo diletto d'andar in
zoccoli per l'asciutto. Tuttavia, per diminuir l'openione che in corte generalmente di lui si teneva, piú che per
voglia ch'egli n'avesse, e anco stimolato dal duca Francesco, che bramava pure ch'egli s'avvezzasse a
mangiar altre carni che di capretto, prese per moglie una vedova di venti otto anni che 'l duca gli fe' dare,
che aveva una buona ereditá. La moglie, ch'era donna molto costumata, s'accorse in breve che il marito mal
volentieri andava in nave per il piovoso; pur, essendo buona femina e sperando che col tempo il marito
devesse mutar vezzo, se ne passava a la meglio che poteva, pregando tutto il dí Iddio che degnasse
illuminar la mente del marito e levarlo da cosí abominevol peccato. Ed ecco che il Porcellio infermò
gravissimamente, di modo che i medici avevano poca speranza de la vita del povero vecchio, avendo
perduto il sonno ed il mangiare. Egli era piú vicino ai settanta anni che altrimenti e si trovava molto debole.
Veggendo questo, la moglie si sforzò con mille buone ragioni d'indurlo che si confessasse. Egli l'ascoltava,
ma diceva poi che non voleva farlo. Onde ella conoscendo che indarno s'affaticava, mandò al duca
Francesco umilmente pregandolo che per amor di Dio degnasse mandar una persona d'autoritá, che al
Porcellio persuadesse, essendo cosí gravemente infermo come era, che volesse aver qualche cura de
l'anima, a ciò che egli come un cane non morisse senza i santi sagramenti de la Chiesa. Il duca, udita la
santissima supplicazione de la buona femina e pietosa moglie, mandò al convento de le Grazie dei Frati
osservanti di san Domenico, che alora di nuovo era edificato, e si fece chiamar il padre fra Giacomo da
Sesto, uomo vecchio e di santissima vita, e quello informò di quanto voleva che facesse. Il santo Uomo,
udita la volontá del duca, se n'andò di lungo a la casa del Porcellio. Quivi arrivato e detto a la donna come
per commessione del prencipe era venuto per visitare e confessar il Porcellio, fu da lei con grandissima
riverenza ricevuto. La quale, poi che l'ebbe fatto sedere, cominciò a pienamente informarlo de la malvagitá
de la vita del marito, pregandolo con le lagrime sugli occhi che si volesse affaticar per far che il marito
s'emendasse. Il santo frate, stringendosi ne le spalle, si ritrovò assai di mala voglia, e disse che per non
mancar del debito suo farebbe ogni cosa che a lui fosse possibile. Bramoso adunque di guadagnare
un'anima che, secondo che la moglie diceva, era ne le mani del diavolo, entrò ne la camera del Porcellio e

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disse: – La pace d'Iddio sia a questa casa e a tutti quelli che vi stanno. – Cosí dicendo s'accostò al letto e
dolcemente salutò il Porcellio, il quale fe' vista di veder assai volentieri il frate. Quivi entrati in varii
ragionamenti, il santo frate gli fece intender come l'eccellentissimo signor duca lo mandava e la cagione
perché. Dopoi gli disse molte buone parole essortandolo destramente a confessarsi, perché ogni ora che a
lui fosse comoda egli era presto a udirlo. Il Porcellio, dopo che ebbe ringraziato de l'umanitá il duca e il frate
de la fatica, disse che alora si confessarebbe. Usciti adunque tutti de la camera, cominciò il santo frate con
sommissima diligenza a far l'ufficio suo. E, venendo ai peccati de la carne, modestamente il domandò se
mai aveva peccato contra natura. A questa interrogazione il Porcellio, in sé raccolto, cominciò con
ammirazione fisamente a riguardar il frate, e quasi come se mezzo scandalizzato fosse: – Messere, – disse, –
voi mi domandate pur la strana cosa. Che parlate voi? Io non peccai contra natura a la vita mia giá mai. – Il
santo sacerdote, vergognandosi d'avergli tal richiesta fatto, passò a l'altre cose, e usata ogni diligenza che
seppe perché l'infermo perfettamente si confessasse, poi che vide che il Porcellio non aveva altro che dire,
gli diede quella penitenza che gli parve e l'assolse, imaginandosi che la buona moglie fosse in grande errore.
Assolto che l'ebbe e fattogli una santa essortazione, volendo partire, gli disse: – Messer Porcellio, io verrò
domane a visitarvi, e se altro vi ricordarete io vi udirò e ordinerassi poi che venga il sacerdote vostro
parrocchiano a darvi il santo sacramento de l'Eucarestia, a ciò che prendendo il salutifero viatico* state in
ordine per far quanto piacerá al nostro redentore messer Giesu Cristo, in mano del quale sta la vita e la
morte nostra. – Fate voi, – rispose il Porcellio, – ché io tanto farò quanto mi comandarete. – Il buon padre
col segno de la santa croce lo benedí e partissi di camera. Come la moglie il vide uscito di camera, cosí
fattosegli incontro lo interrogò se il marito era deliberato di piú non peccare contra natura. A cui il santo
frate umanamente rispose: – Madonna, voi devete pensare che quando noi udiamo la confessione di chi si
sia, o sano od infermo, che noi facciamo tutto il debito nostro, e non appartiene a nessuno a voler
intendere ciò che il confitente dica. A noi poi, che siamo dai nostri superiori deputati a udire le confessioni,
non sta bene far motto in qualunque modo si voglia di cosa alcuna che detta ci sia, anzi, se noi rivelassimo
la confessione, saremmo degni d'esser morti. Ma tanto vi vo' e posso ben ora dire, che voi sète in
grandissimo errore de la openione sí strana che di vostro marito avete. Egli, sia lodato Iddio, non ha punto
quel sozzo vizio che voi mi diceste, anzi n'è molto lontano. – La buona femina alora, che sapeva come il
fatto stava, piangendo teneramente disse: – Padre mio caro, io non son punto errata né m'inganno, ma il
misero di mio marito è quello che inganna se stesso, e si vergogna dire questo enorme peccato. Credetelo a
me che io lo so, che egli vi è piú avviluppato dentro che non è il pulcino ne la stoppa. Tornate, padre, di
grazia, a riparlargli e non guardate a lui, ché io v'assicuro che egli vi ha detto la bugia. – Bene, madonna, –
disse il buon frate, – io ci ritornerò domatina per farlo communicare, e se cosí sará, farò quanto a me
conviene. – E cosí, presa da la donna licenza, se ne ritornò a le Grazie. La seguente matina il frate andò a
l'infermo e dopo le salutazioni gli disse: – Figliuol mio, io sono ritornato a ciò che questa matina tu riceva il
nostro salvatore, come deve far ogni fedel cristiano. Ed a riceverlo, quanto la fragilitá umana comporta,
bisogna preparare la mente nostra, che sia degno albergo di tanto oste. Perciò conviene essersi
intieramente di tutti i peccati confessato e non celar cosa nessuna al sacerdote. Ieri tu mi dicesti che niente
altro avevi a dirmi, ed io son avvertito da buona via che tu per vergogna hai tacciuto un peccato che è in te.
Ma egli non si vuole far cosí. Ché se tu avessi messo Cristo in croce e che tu ne sia mal contento di core e te
ne confessi, egli sta confitto lá su la croce con le braccia aperte, e sempre è presto, purché tu voglia, a
perdonarti. Sí che, figliuol mio, dimmi liberamente ogni tuo peccato, e secondo che non hai avuto vergogna
a commetterlo, non ti vergognar a dirlo. E forse che sei dinanzi al giudice del maleficio*, che tu debbia
dubitar de la vita? Non temere, e di' il tutto come sta. – Padre, – rispose il Porcellio, – io ieri intieramente
mi confessai e a tutte le interrogazioni che mi faceste risposi la pura veritá. Tuttavia, se avete dubio alcuno,
dite ed io tosto ve ne chiarirò. – Alora il frate pieno di zelo de la salute del peccatore gli disse: – Figliuolo, a
me è stato affermato che tu sei molto colpevole, e dico pur assai, del peccato contra natura. Il perché, se
cosí è, tu me lo devi dire ed aver dolore di cosí enorme vizio, e fermamente deliberarti mai piú di non
commetterlo. Se tu te ne confessi, io te ne assolverò; altrimenti tu ne anderai in bocca di Lucifero tra quelle
insopportabili pene d'inferno. – Il Porcellio, a queste parole mezzo corrucciato, quasi in còlera rispose: –
Messere, voi mi parete un altro, perciò che cotesto che mi dite non è vero. E chi mi fa di peccato contra
natura colpevole non sa ciò che si dica, e mente. Voi devete creder a me in questo caso e non ad altri.
Nessuno sa meglio i casi miei di me. – Il santo padre sentendo questo, e sapendo che al confitente bisogna

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credere cosí quello che dice contra se stesso come in favore, in questo modo gli rispose: – Figliuolo, ho fatto
il debito mio, secondo che la bontá divina m'ha spirato. Egli sará ben fatto che si mandi al parrocchiano che
porti il sacramento de l'altare, al quale io venendo in qua ho parlato, ed egli aspetta. – Si mandò al
parrocchiano, e la moglie, veggendo che il frate era dimorato buona pezza con l'infermo, pensò, sentendo
anco che il parrocchiano veniva, che il marito si fosse d'ogni cosa confessato. In questo mezzo che il
parrocchiano s'aspettava, il santo frate stette ragionando di buone cose col Porcellio, il quale a certo
proposito gli disse: – Io non so chi sia né saper lo voglio chi m'abbia appo voi infamato del peccato contra
natura, che in me non fu mai; Dio glielo perdoni. – E qui cominciò con giuramenti affermar al frate che gli
era stata detta la bugia, ed al testimonio suo chiamava tutti i santi del cielo con le piú terribili parole del
mondo. Il buon padre che propinquo a la morte il vedeva, non si averia potuto imaginare che egli altro che
il vero dicesse giá mai. Il perché venuto il parrocchiano, il povero Porcellio prese il Sacramento de l'altare, e
in apparenza mostrava una gran contrizione. Di che la moglie sua mostrava grandissima contentezza,
pensando d'aver guadagnata l'anima del marito. Partendosi poi il frate, la donna l'accompagnò verso la
porta, ringraziandolo sommamente del santo ufficio che aveva fatto col marito, e lo supplicava che
pregasse Iddio che il Porcellio si mantenesse in questa openione e che piú non ritornassi al vomito. Il frate
le fece una onesta riprensione e le disse: – Madonna, voi sète ostinata innanzi che no, e peccate avendo
cattiva openione di vostro marito in quel che egli non è colpevole, ed infamandolo come fate di cosí
vituperoso vizio. Egli* non sta bene né si vuol far cosí. – La donna, udendo questo, fece fermar il frate che
voleva uscir di casa e sí gli disse: – Padre, io non vorrei giá che voi vi partiste scandalizzato di me non
facendo cosa che debbiate scandalizzarvi, ed anco non vorrei che mio marito morisse come una bestia. Ché
se egli è vivuto, come ha fatto fin qui, peggio che non fanno gli animali irrazionali, io vorrei pure se possibil
fosse che morisse come deve fare ciascun buon cristiano. Ciò che io di lui v'ho detto, non pensate giá che
detto l'abbia per gelosia o per qualche lieve sospetto che di lui mi sia venuto, ché io non mi moverei cosí
leggermente. Ma io con questi dui occhi il tutto ho visto. Né io, misera me, in questo son sola, ma in casa
tutti ve ne renderanno testimonio. E forse che seco non ne ho fatto cento volte romor grandissimo,
assicurandovi che egli a la presenza mia* non l'averia saputo negare. Il perché, padre mio, non guardate al
negare ch'egli faccia, ma per Dio ritornate in camera e vedete cavarlo di mano del diavolo. – Restò a questo
il santo uomo smarrito, e ritornò al Porcellio e gli disse: – Oimè, figliuolo, io non so quello che di te mi dica.
Tu mi neghi d'aver peccato contra natura, del quale sei piú carico che se tu avessi a dosso la fabrica del
maggior tempio di Milano, e nondimeno sono io assicurato che tu sei piú vago mille volte dei fanciulli che
non è la capra del sale. – Alora il Porcellio con alta voce piú che puoté e crollando il capo disse: – Oh, oh,
padre reverendo, voi non mi sapeste interrogare. Il trastullarmi con i fanciulli a me è piú naturale che non è
il mangiar e il ber a l'uomo, e voi mi domandavate se io peccava contra natura. Andate, andate, messere,
ché voi non sapete che cosa sia un buon boccone. – Il santo frate, tutto a questa diabolica voce stordito, si
strinse ne le spalle, e rimirato alquanto il Porcellio per miracolo, come averebbe fatto mirando un
spaventoso mostro, sospirando disse: – Oimè, signor Iddio, io ho fatto porre Cristo in una ardente fornace;
– e partissi, e incontrando la donna disse: – Madonna, io ho fatto quanto ho potuto. – In questo il Porcellio
chiamò ad alta voce la moglie; ella subito corse in camera del marito. Il ribaldone e scelerato uomo le disse:
– Moglie, fammi recare una secchia d'acqua e non tardare. – Dimandato ciò che ne volesse fare: – Io vo' –
disse egli – ammorzare il fuoco intorno a Cristo, che quel bestione del frate mi dice che io ho posto in una
fornace; – e narrò a la moglie il tutto, la quale ebbe di doglia a morire*. Il Porcellio prese meglioramento e
sanò del male, e a cosa si divolgò in corte e per Milano, di maniera che da tutti essendo mostrato a dito, fu
astretto non uscir piú di casa, e creder si può che come era vivuto da bestia si morisse da bestione. E
insomma si può dire che il lupo muta il pelo ma non cangia vizio.

Parafrasi da “Vi dico” alla 7° riga


Vi racconto dunque che Francesco Sforza che divenne Duca di Milano con le armi fu nelle cose militari
senza dubbio da essere eguagliato/al pari/ considerato uguale a qualsiasi eccellente antico (generale)
romano. E malgrado non avesse una cultura come quello che essendo stato da teneri anni allevato/educato
(nutrito) sotto suo padre il vittorioso generale (Nuzzio) Attendolo Sforza, amò sempre gli uomini dotti/di
cultura a qualunque disciplina appartenessero e agli uomini di cultura diede grossi stipendi. Fra molti
dunque che egli qui a Milano ed altrove mantenne vi era il Porcellio, poeta romano, il quale benché fosse

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nato e cresciuto a Napoli, ciò nonostante voleva essere chiamato ‘romano’. Egli era un poeta piuttosto
bravo come accadeva in quei tempi in cui la poesia (buone lettere) che era stata sepolta per centinaia di
anni cominciava a risollevarsi e ripulirsi. E chi desiderasse vedere qualche sua composizione vada nel
palazzo che fu del famoso conte Gasparo Vimercati e vedrà nelle sale e nelle camere su diversi temi (a
diversi propositi) sotto pitture di vario tipo/diverse molti epigrammi dei suoi che provano le sue capacità di
poeta (la vivacità del suo ingegno). In lui però l’eccellenza (nello scrivere poesie) ed il valore delle Muse
superavano di gran lunga molti vizi enormi che aveva. Ma fra i vari difetti che abbondavano nella sua
personalità questo fra gli altri era uno dei più grandi (solenni) che sempre la carne del capretto gli piaceva
molto più di tutte le altre carni che gli si potessero dare poiché il suo diletto più grande era quello di
“andare in zoccoli per l’asciutto” (perifrasi per indicare un rapporto anale con un minore dello stesso sesso).
Tuttavia per rendere meno forte l’opinione che si avesse di lui nella corte sforzesca, più che lui lo volesse
veramente, e anche stimolato dal Duca Francesco che desiderava anche lui che Porcellio si abituasse a
mangiare altre carni che non fossero di capretto, (Porcellio) prese per moglie una vedova di ventotto anni
che aveva una buona eredità che il Duca gli fece dare. La moglie che era una donna di buoni costumi, capì
subito che il marito mal volentieri “andava in mare per il piovoso” (espressione usata per definire il
rapporto sessuale fra sessi opposti) tuttavia essendo una buona donna e sperando che il marito col tempo
potesse cambiare inclinazione cercava di superare la cosa il meglio possibile pregando tutto il giorno Dio
che si degnasse di illuminare l’animo del marito e levarlo da un peccato così abominevole. Ecco che il
Porcellio si ammalò gravissimamente, talché i medici avevano poca speranza della vita/che sopravvivesse
del povero vecchio che aveva perduto il sonno e l’appetito. Egli ormai era prossimo ai 70 anni ed era molto
indebolito. Vedendo questo la moglie si sforzò con mille buone ragioni di indurlo a confessarsi. Egli la
ascoltava ma poi diceva che non voleva farlo per cui lei avendo capito che si affaticava inutilmente/in vano
(indarno) scrisse al Duca Francesco pregandolo umilmente che, per amor di Dio, degnasse/fosse così gentile
da mandare una persona autorevole/d’autorità = un bravo confessore che persuadesse Porcellio, essendo
così gravemente ammalato, che curasse l’anima affinché non morisse come un cane senza i santi
sacramenti. Il Duca, ascoltata la supplica santissima (che riguarda la salvezza dell’anima) della buona donna
e moglie pietosa (che conosce la pietas, ossia le regole sacre del vivere) scrisse al convento delle Grazie dei
frati osservanti di San Domenico. Il santo uomo, Fra Giacomo da Sesto se ne andò in conclusione (di lungo)
alla casa del Porcellio. Arrivato qui, detto alla donna come per incarico/ordine del principe (ossia il Duca
Francesco) era giunto per visitare e confessare il Porcellio. Come disse questa cosa fu ricevuto da lei con
grandissima reverenza (=manifestazione di rispetto) e dopo che la donna lo fece sedere cominciò ad
informarlo nei dettagli/puntualmente della cattiva condotta di vita del marito pregandolo con le lacrime agli
occhi/piangendo che si sforzasse (affadigar) per far sì che il marito si correggesse/ripulisse (emendasse). Il
Santo frate stringendosi nelle spalle si ritrovò assai di malavoglia però disse che per non venir meno al suo
dovere (mancar del debito suo) avrebbe fatto qualsiasi cosa che gli fosse possibile. Desideroso di
recuperare un’anima che secondo quanto diceva la moglie era già in mano al Diavolo, entrò nella stanza da
letto di Porcellio e disse: “la pace di Dio sia in questa casa e in tutti quelli che qui vi abitano. Così dicendo si
avvicinò al letto e salutò soavemente il Porcellio perché mostrò di vedere molto volentieri il frate quindi
iniziata la discussione di vari argomenti il Santo frate gli fece capire che lo mandava il Duca Sforza e la causa
del perché (confessione). Dopo gli disse molte buone parole esortandolo abilmente a confessarsi perché
egli era sollecito/disposto ad ascoltarlo ogni ora/qualsiasi momento che gli fosse comoda/andasse bene a
lui. Il Porcellio, dopo aver ringraziato il Duca per la sensibilità ed il frate per la fatica, disse che si sarebbe
confessato. Usciti tutti dalla camera il santo frate con estrema diligenza iniziò a fare il suo dovere (ufficio). E
venendo ai peccati della carne gli domandò dimessamente se mai avesse commesso peccati contro natura.
A questa domanda il Porcellio, raccolto in sé stesso, cominciò con stupore (ammirazione) ad osservare a
lungo fissamente il frate e quasi come se fosse mezzo scandalizzato disse “Messere, voi mi domandate una
cosa strana, ma di che cosa parlate? Io non ho peccato mai in tutta la mia vita contro natura.” Il Santo
sacerdote vergognandosi di avergli chiesto questa cosa passò alle altre ed operò con ogni diligenza che poté
(che seppe) affinché il malato si confessasse perfettamente e dopo che vide che Porcellio non aveva altro
da aggiungere gli assegnò la penitenza che ritenne opportuna e lo assolse, pensando che la buona moglie si
fosse sbagliata della grossa. Una volta che il frate lo assolse e dopo avergli detto parole di santa esortazione
volendo andarsene gli disse “Messer Porcellio, io verrò domani a farvi visita e se per caso vi ricorderete

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qualcos’altro io vi ascolterò e poi ordinerò che venga il vostro parroco a darvi la comunione in modo che
prendendo il salvifica eucarestia (salutifero viatico*) in modo che prendendo l’eucarestia siate in ordine/a
posto per quanto dopo deciderà nostro signore Gesù Cristo nelle cui mani sta la nostra vita e la nostra
morte. “Fate voi” rispose Porcellio “che intanto io farò tutto quello che mi direte”. Il buon prete lo benedì
facendogli il segno della croce e se ne andò dalla camera. Come la moglie lo vide uscire dalla camera, dopo
essersi avvicinata gli chiese se il marito era stato assolto dall’aver peccato contro natura. Il santo frate
umanamente rispose “Mia signora, voi dovete pensare che quando noi udiamo la confessione di chi che sia,
sano o infermo, noi compiamo a pieno il nostro dovere, e nessuno può pretendere di sapere ciò che in
confidenza il confessato dica. Per quanto riguarda noi (frati) poi, che siamo dai nostri superiori
deputati/scelti a sentire le confessioni, non sta bene che si dica in qualunque modo si voglia alcuna cosa
che venga detta, anzi se noi rivelassimo la confessione, meriteremmo di morire. Ma vi voglio e vi posso ben
dire che siete in grave errore con la vostra strana opinione che vostro marito abbia avuto queste
inclinazioni. Anzi lui proprio, sia lodato Iddio, mi ha detto di esserne molto lontano. La buona donna che
sapeva come stavano i fatti si mise a piangere teneramente (non rumorosamente) “Mio caro padre io non
mi sbaglio né mi inganno, ma è quel poveraccio/misero di mio marito inganna sé stesso e si vergogna di
confessare questo peccato, credetemi, io so che egli vi è più dentro (avviluppato) di quanto sia il pulcino
nella stoffa. Tornate, Padre, vi prego di grazia e non credete a lui che io vi assicuro che egli vi ha mentito.”
“bene mia signora” disse il buon frate “io ritornerò domattina per farlo comunicare e se così sarà farò
quanto devo fare (a me conviene) e salutata la donna ritorna al convento. La seguente mattina il frate andò
dall’Infermo (Porcellio) e dopo averlo salutato gli dice “figliolo io sono tornato perché riceva il nostro
salvatore (Eucarestia) come deve fare ogni bravo cristiano e a riceverlo, per quanto la nostra debolezza
umana possa farlo, bisogna preparare noi stessi (la nostra mente) affinché siamo un albergo degno di tanto
importante ospite (oste, ossia Cristo). Perciò è opportuno di essersi confessati interamente di tutti i peccati
e di non nascondere cosa nessuna al sacerdote. Ieri tu mi dicesti che non avevi altro da dirmi ed io sono
avvisato da un informatore affidabile (avvertito da buona via) che tu per vergogna hai tenuto nascosto un
peccato che è in te. Ma non bisogna far così (*egli). Che se tu hai peccato (messo Cristo in croce) e ne sei
scontento nel cuore/ti sei pentito e te ne confessi, Cristo sta crocefisso là sulla croce con le braccia aperte
ed è sempre pronto/si presta sempre (presto) a perdonarti purché tu lo voglia. Così che, figliolo mio, dimmi
liberamente il tuo peccato e anche se non hai avuto vergogna a commetterlo, non ti vergognare di dirlo. Sei
forse davanti al giudice del maleficio* e temi di essere messo a morte? Non temere e confessati di tutto.
“Padre io mi sono confessato pienamente ieri e a tutte le vostre domande io ho sempre risposto la pura
verità. Tuttavia, se avete un ancora qualche dubbio, ditemelo e io ve lo chiarirò immediatamente.” Allora il
frate che era pieno di zelo per la salvezza (salute) del peccatore gli disse “Figliulo mi è stato detto con
certezza che tu sei molto colpevole del peccato contro natura, motivo per cui/ragion per cui (il perché) se è
proprio così tu me lo devi dire ed avere dolore di un vizio così enorme e prendere la ferma/irremovibile
decisione di non commetterlo mai più. Se tu lo confessi io ti assolverò, altrimenti finirai nella bocca di
Lucifero tra quelle insopportabili pene dell’Inferno.” Il Porcellio, adombrato in viso da queste parole e quasi
adirato/in collera rispose “Messere voi mi parete un altro quello che dite non è vero e chi mi accusa di
essere colpevole contro natura non sa quello che dice e mente e voi dovete credere a me in questo caso e
non ad altri. Nessuno sa meglio di me i fatti miei.” Il buon frate sapendo questo e che a chi si confessa
bisogna credere sempre, sia a quello che dice contro sé stesso che a quello che dice a favore di sé stesso,
rispose in questo modo “Figliolo ho fatto il mio dovere secondo l’ispirazione divina che avevo avuto. Adesso
è il caso che si mandi a chiamare il parroco che avevo avvisato venendo qua e che sta aspettando che porti
l’eucarestia (sacramento dell’altare cioè l’ostia consacrata). Si mandò a chiamare il parroco e la moglie
vedendo Nel frattempo che si attendeva il parroco, il frate rimase a discutere di argomenti religiosi (buone
cose) col Porcellio il quale ad un certo proposito gli disse “Io non so proprio chi sia né voglio sapere chi
presso di voi mi abbia infamato/calunniato di aver peccato contro natura che non mi è mai appartenuto.
Che il Signore gli perdoni di aver detto questa falsità” e qui iniziò giurando e affermando che al frate era
stata detta una bugia e chiamava tutti i Santi del Cielo a sua testimonianza dicendo parole terribili/con
parole particolarmente forti. Il buon Padre che lo vedeva vicino alla morte non avrebbe mai potuto
immaginare che egli non dicesse altro che il vero. Così che venuto il parrocchiano il povero Porcellio prese
l’eucarestia ed in apparenza mostrava un gran pentimento di fatti la moglie mostrava grandissima

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contentezza pensando di aver guadagnato/salvato l’anima del marito. Andandosene via il frate la moglie lo
accompagnò alla porta ringraziandolo tantissimo della santa opera che aveva fatto col marito e lo
supplicava che pregasse Dio affinché Porcellio proseguisse sulla retta via (si mantenesse in questa opinione)
e che non ricadesse nel suo peccato abominevole (tornasse al vomito). Il frate le fece un rimprovero
moderato (onesta riprensione) e le disse “Madonna voi siete molto ostinata e peccate nell’avere
un’opinione così cattiva di vostro marito in ciò che egli è innocente e infamandolo come fate di un vizio così
riprovevole (vituperoso) non sta bene né si deve fare così*”. La donna, udendo questo, fede fermare il frate
che voleva uscire di casa e gli disse così “Padre, io non vorrei affatto (già) che voi ve ne andaste avendo una
cattiva opinione di me/scandalizzato di me siccome non faccio nessuna cosa di cui dobbiate scandalizzarvi,
ed inoltre (ed anco) non vorrei che mio marito morisse come un animale. Perché se egli è vissuto, come ha
fatto fino ad oggi, peggio di quello che non fanno gli animali senza raziocinio (irrazionali), io vorrei malgrado
ciò (pure) se fosse possibile che morisse come deve fare ogni buon cristiano. Quello che vi ho detto di lui
non pensate mai che l’abbia detto per gelosia o per qualche leggero sospetto che mi sia venuto di lui,
perché non mi sarei mossa con tanta leggerezza/superficialità. Ma io con questi due occhi ho visto tutto. Né
io misera/povera me sono l’unica/sola in questo, ma in casa tutti vi potranno testimoniare questo. Forse
che con lui non ho fatto tante volte strepiti/litigi (romor grandissimo), ma vi assicuro che egli in presenza
mia non l’avrebbe saputo negare. Ragione per cui (il perché), padre mio, non badate al fatto che neghi ma
per l’amore di Dio ritornate in camera e cercate di toglierlo dalle mani del diavolo.” A questo punto il santo
uomo rimase disorientato ritornò dal Porcellio e gli disse “Povero me, figliulo, io non so cosa dire di te, tu
mi neghi di aver peccato contro natura, (peccato) del quale sei più carico (sulla schiena) che se tu avessi
sulla schiena/addosso il duomo di Milano e malgrado ciò (nondimeno) mi hanno reso assolutamente
certo/mi hanno assicurato che tu sei mille volte più desideroso (vago) dei ragazzi di quanto non lo sia la
capra del sale.” Allora il Porcellio gridando a squarciagola e scrollando la testa disse “Padre reverendo siete
voi che non avete saputo confessarmi, il divertirmi con i fanciulli per me è una cosa più naturale di quanto
non sia per l’essere umano il mangiare e il bere, mentre voi mi chiedevate se io avevo peccato contro
natura, andatevene, andatevene via perché voi neanche sapete cos’è un buon boccone”. Il santo frate,
tutto stordito da questa frase (voce) diabolica, si strinse nelle spalle, e osservato a lungo/con costanza il
Porcellio come se fosse una cosa da rimanere meravigliati (per miracolo), come avrebbe fatto osservando
un mostro spaventoso, sospirando disse “oimè Signore Iddio io ho fatto mettere Cristo in una fornace
ardente” e se ne partì e incontrando la donna le disse “Madonna, io ho fatto quello che ho potuto”. In
quello stesso istante il Porcellio chiamò ad alta voce la moglie che corse subito nella stanza del marito. Il
delinquente (ribaldone) e malvagio (scelerato) uomo le disse “Moglie, fammi portare una secchia d’acqua e
sbrigati” Domandanto che cosa ne volesse fare Porcellio rispose “io voglio” disse egli “spegnere il fuoco
intorno a Cristo che quel grande animale del frate mi ha detto che io ho messo nella fornace dell’Infermo e
raccontò tutto alla moglie che dal dolore voleva quasi morire. Il Porcellio iniziò a migliorare e guarì dalla
malattia, e la notizia si sparse nella corte ducale (lo seppe anche il Duca) e per Milano, così che/di modo che
(di maniera che) essendo indicato da tutti, fu costretto a non uscire più di casa, e si può pensare che vissuto
come aveva vissuto da animale, morisse come un grande animale e in conclusione (insomma) possiamo dire
che il lupo cambia il pelo ma non cambia il vizio.

*salutifero viatico: alla lettera sarebbe il pasto che si portava sulla via ma vale anche come eucarestia data
ai moribondi per salvare le loro anime)
* egli: vale per l’impersonale, oggi viene tolto perché non lo formiamo più così l’impersonale. “Non si fa
così”
*Giudice del maleficio: vale come processo per un reato grave
*non sta bene né si deve fare così: egli anche qui ha funzione di impersonale e si elide.
* in presenza mia: intende dire che se anche lei (moglie) fosse stata presente alla confessione, il Porcellio
non avrebbe saputo negare. Far partecipare qualcuno ad una confessione era cosa vietatissima.
*‘ebbe di doglia a morire’: può essere parafrasato come ‘capitò che morì dal dolore’ oppure come ‘dal
dolore voleva quasi morire’; sull’interpretazione non si è ancora chiarito definitivamente.

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IL BANDELLO AL MOLTO MAGNIFICO ED ECCELLENTE
MESSER GIROLAMO FRACASTORO
POETA E MEDICO DOTTISSIMO SALUTE

Andò questa state il valoroso ed illustrissimo signore, il signor Cesare Fregoso vostro grandissimo amico e
mio signore, a ber l'acque dei bagni di Caldero, ove alloggiò in una casa di messer Matteo Boldiero, persona
gentilissima e d'ogni parte di castigata ed integerrima vita. Quivi, come assai meglio di me sapete, di tutta
Lombardia* e di Lamagna e d'altre parti vicine e lontane molta gente concorre per la salubritá di
quell'acque, de le quali mirabilissimi effetti ogni volta che ordinatamente si beveno si sono veduti. Ed io tra
gli altri ne posso render verissimo testimonio, che essendo dal noioso* mal de le reni fieramente afflitto, voi
me le faceste bere alcuni dí qui in Verona, l'un giorno per l'altro mandando a Caldero a prender essa acqua.
Il giovamento che ella mi fece, fu tale quale voi ed io desideravamo, perciò che di modo mi liberò da quei
dolori che piú non ho dapoi sentito pur una minima puntura, che prima non mi poteva chinar a terra né
chinato senza gravi dolori levarmi. Stette il signor Cesare a' detti bagni alquanti dí, usando de l'onesta
libertá* la quale a chi beve quell'acque si concede, ricreandosi di brigata con quelli che ai bagni si
ritrovavano. Venivano anco da le cittati circonvicine gentiluomini assai a visitarlo, i quali tutti esso signore
lietamente riceveva e con ricca e sontuosa mensa onorava, ché conoscete bene come egli sa onorar cui ne
l'animo gli cape che il vaglia. Si facevano varii e piacevoli giuochi, e chiunque piú di trastullo pigliava in un
giuoco che in un altro, in quello si dava piacere. Ora ragionandosi* un giorno dei casi fortunevoli che ne le
cose de l'amore avversi avvengono, il capitano Alessandro Peregrino narrò una pietosa istoria che in Verona
al tempo del signor Bartolomeo Scala avvenne, la quale per il suo infelice fine quasi tutti ci fece piangere. E
perché mi parve degna di compassione e d'esser consacrata a la posteritá, per ammonir i giovini che
imparino moderatamente a governarsi e non correr a furia, la scrissi. Quella adunque da me scritta a voi
mando e dono, conoscendo per esperienza le ciancie mie esservi grate e che volentieri quelle leggete; il che
chiaramente dimostra il vostro colto e numeroso epigramma che sovra le mie Parche giá componeste. State
sano.

Parafrasi della lettera


Andò, questa estate, il valoroso e famosissimo signore Cesare Fregoso, vostro amico grandissimo e mio
padrone, a bere le acque dei bagni di Caldero (oggi Caldiero) dove alloggiò in una casa che era di Matteo
Boldiero, persona cortesissima e per qualsiasi rispetto (d’ogni parte) di vita morale (castigata) ed
integerrima. Qui, come sapete molto meglio di me, da tutto il nord Italia e dalla Germania e da altri luoghi
vicini e lontani molte persone giungono per la salubrità di quelle acque termali delle quali si sono visti
effetti meravigliosi tutte le volte che vengono bevute senza eccesso (ordinatamente). Ed io insieme agli altri
(che hanno provato queste acque) posso dare una testimonianza del tutto veritiera, perché essendo io
ferocemente (fieramente) tormentato/afflitto dal fastidiosissimo (noioso) male di reni. Voi mi faceste bere
quest’acqua per alcuni giorni, qua a Verona mandando giorno dopo giorno a prender quest’acqua a
Caldiero. Il beneficio che quest’acqua mi diede fu proprio come voi ed io desideravamo per ciò che mi
liberò da quei dolori tanto che poi non ho sentito neppure una piccolissima puntura, che prima non mi
potevo neanche abbassare verso terra né una volta abbassatomi, alzarmi senza dolori forti. Il signor Cesare
rimase ai bagni di Caldero per alcuni giorni praticando l’onesta libertà che si concede a chi beve quelle
acque, divertendosi/rilassandosi in gruppo (di brigata) con gli altri ospiti che stavano alle terme. Venivano
molti gentiluomini a fargli visita anche dalle città circostanti e questo signore (Fregoso) li riceveva tutti
allegramente e li onorava/rendeva loro onore con una tavola ricca e lussuosa, perché sapete bene come lui
sa come rendere onore a chi gli entra in animo (nell’animo gli cape) /si persuade che valga (la pena) di
essere onorato. Si facevano svariati/diversi e piacevoli giochi e, a seconda che a qualcuno piacesse di più un
gioco che un altro, in quello si divertiva. Dunque discutendo un giorno dei casi dipendenti dalla fortuna che
avvengono/capitano avversi nelle questioni amorose, il capitano Alessandro Peregrino raccontò una storia
che risvegliò i sentimenti di pietà (pietosa) che avvenne a Verona al tempo di Bartolomeo della scala la
quale storia, per la sua conclusione infelice*, ci fece piangere quasi tutti. E siccome mi sembrò degna di
compassione e di essere consacrata alla posterità/resa degna di sopravvivere anche tra i posteri e per
ammonire i giovani che imparino a condurre la propria vita moderatamente (moderatamente a governarsi)

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e non correr troppo veloce, la scrissi. Dunque quella storia da me scritta a voi (Girolamo) la invio e la offro
in regalo. Sapendo per esperienza che le mie chiacchiere vi sono gradite e che le leggete volentieri come è
chiaramente provato dal vostro colto/ricco e numeroso/abbondante epigramma che avete composto sopra
il mio poema “Le parche”. State sano.

*Lombardia: comprendeva da Verona fino al Piemonte la Lombardia all’epoca quindi lo potremmo più
correttamente parafrasare come Nord Italia.
*noioso: all’epoca aveva un senso molto più forte di significato rispetto ad oggi, ‘disturbante’
*onesta libertà: soggiorno termale libero dagli impegni ufficiali e dai doveri concessa perché il soggiorno è
un periodo di cura e non tanto una vacanza.
*ragionandosi*: molto frequenti sono i casi di verbi che in italiano hanno forma attiva mentre nell’italiano
del passato avevano forma riflessiva: vale ragionando con sé stesso, ha lo stesso significato di oggi.
*infelice: ha qui la bivalenza di infelice e poco fortunata

Novella IX: RIASSUNTO

LA SFORTUNATA MORTE DI DUII INFELICISSIMI AMANTI


CHE L’UN DI VELENO E L’ALTRO DI DOLORE MORIRONO, CON VARII ACCIDENTI

Un anno dopo Natale, a Verona si iniziarono a tenere le feste in maschera a cui partecipavano i giovani
della città. Antonio Capelletto, organizzò una sontuosa festa nel suo palazzo. A questa partecipa anche
Romeo Montecchi. Con gli amici entra in casa Capelletto, mascherato. All’epoca Romeo era da due anni
innamorato di una donna che non lo ricambiava minimamente, nonostante le molte lettere e ambasciate
inviatele da lui. Il povero Romeo, per dimenticarla decide di abbandonare Verona e viaggiare qualche anno
per l’Italia, ma ancora non si decide a partire. Gli amici cercavano di consolarlo, partecipando alle varie
feste in maschera della città, cercando una donna che potesse sostituire l’amata. Alla festa del Capelletti
egli rimane in disparte ad osservare gli invitati, poi decide di togliersi la maschera suscitando sgomento per
la sua bellezza, ma anche per la sua presenza nella casata nemica. Romeo però che è un ‘giovinetto molto
costumato e gentile’ viene apprezzato da tutti generalmente. A rimanere particolarmente colpita da lui è
soprattutto la figlia del Capelletti, Giulietta, ma i due non trovano modo di potersi parlare o conoscersi.
L’occasione si presenta quando inizia il ballo del ‘torchio’. Romeo viene preso a ballare da una donna, e
passato il torchio ad un’altra donna va a sistemarsi nel cerchio formato dai partecipanti al ballo, proprio a
fianco di Giulietta e con lei mano nella mano. Nell’altra mano ella tiene messer Marcuccio, un ‘uomo di
corte molto piacevole’ ma dalle mani perennemente fredde, opposte a quelle calde di Romeo. Terminato il
ballo, i due si separano a malincuore ansiosi di conoscersi meglio. Giulietta interroga la fida nutrice e scopre
l’identità di Romeo e la sua casata di appartenenza. Romeo in quel primo incontro si è follemente
innamorato, e va sempre più spesso sotto la finestra di giulietta nella speranza di scorgerla di nascosto. Una
sera ella apre la finestra e affacciandosi, scorge Romeo illuminato dalla luna. Stupita, gli rivolge la parola e i
due scoprono il reciproco amore. Giulietta però dice a Romeo che potranno incontrarsi solo se legati dal
sacro vincolo del matrimonio. Decidono così di sposarsi con l’aiuto di frate Lorenzo da Reggio, padre
spirituale di Giulietta e amico di Romeo. Egli oltre che esperto di filosofia e teologia vanta anche ampie
conoscenze distillatorie e pratica l’arte magica. Accetta di sposare i due sperando che le nozze pongano fine
alla rivalità fra le due famiglie. Così con la scusa di confessarsi, Giulietta si reca presso la chiesa e il religioso
li incontra e li fa sposare. Giunta la notte, Romeo si reca a casa Capelletti e scavalca il muro, per incontrare
finalmente l’amata sposa. I due si lasciano promettendosi di trovare quanto prima il modo di informare il
padre di lei del matrimonio.

È il periodo pasquale e due gruppi uno di Capelletti e uno di Montecchi, si incontrano dando luogo ad uno
scontro armato. Il più acceso nella mischia è Tebaldo, cugino di Giulietta. Arriva Romeo e cerca di placare gli
animi e separare i contendenti. Mentre questo è intento a far desistere i suoi, Tebaldo gli tira una stoccata
al fianco. La corazza salva Romeo, che non reagisce ed esorta Tebaldo ad abbassare le armi ed evitare
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spargimenti di sangue, ma questi non sente ragione e si avventa nuovamente su Romeo che nel parare il
colpo uccide per sbaglio Tebaldo. Bartolomeo della Scala, ascoltato il racconto della zuffa, decide di credere
alle buone intenzioni di Romeo e gli risparmia la vita, ma lo bandisce da Verona. In casa Capelletti si
diffonde intanto la disperazione per la morte di Tebaldo, cui si somma quella di Giulietta per
l’allontanamento dell’amato. Romeo si nasconde nella cella di Frate Lorenzo e la sera riesce ad incontrare
Giulietta. Lei lo prega di portarla via con lui se necessario ella si fingerà un suo paggio pur di stare con lui.
Lui la dissuade e le promette che troverà il modo di farla giungere da lui. Tra le lacrime i due si salutano.
Romeo ripara nella vicina Mantova. Giulietta intanto non si dà pace: non mangia e non dorme, piange
costantemente. La madre di Giulietta ignorando il vero motivo del suo dolore, crede che questo sia dovuto
al desiderio di sposarsi come già avevano fatto le sue amiche. Assieme al padre dunque decidono di
maritare la figlia al conte di Lodrone, un giovane di importante lignaggio. Giulietta si rifiuta e scatena l’ira
del padre.

Sono ora i giorni della festa dell’Assunzione e Giulietta con la scusa di confessarsi incontra frate Lorenzo per
dirgli che è intenzionata ad andare da Romeo travestita da ragazzo. Frate Lorenzo cerca di dissuaderla al
che lei gli chiede del veleno per poter morire, visto che non può ricongiungersi a Romeo e nemmeno
risposarsi. Capendo la determinazione della giovane il frate acconsente a darle una pozione che la farà
sembrare morta. Seppellita nelle tombe di famiglia, la notte seguente si sveglierà e aiutata dal frate, potrà
ricongiungersi con l’amato. Giulietta accetta, torna a casa con l’animo sollevato e si mette a completare i
preparativi per il matrimonio. Giunge la notte prima delle nozze e la giovane sta per bere la pozione del
frate. Immagina però il suo risveglio fra gli avi in decomposizione ripensa ai racconti su ciò che accade la
notte nei cimiteri e colta dall’orrore esita a bere, poi pensa a Romeo e senza indugio la beve. La mattina
seguente, la nutrice va a svegliarla e la trova morta. La disperazione colpisce ancora una volta la famiglia
Capelletti e con essa l’intera città. I dottori non sanno spiegarsi la ragione della morte così improvvisa e
l’attribuiscono alla tristezza. Nel frattempo Fra Lorenzo scrive una lettera a Romeo per spiegargli l’accaduto
e l’affida al frate del suo convento che invia a Mantova. Giunto qui, il messaggero va al convento di San
Francesco a cercare aiuto nella ricerca del giovane veronese. Purtroppo quella stessa sera era morto un
frate del convento e si sospettava che si trattasse di peste, dunque il messaggero viene messo in
quarantena coi frati e nessuno può né entrare né uscire e così la lettera non viene consegnata. Nel
frattempo Pietro, fidato servitore di Romeo, corre da questi a dargli notizia della morte della sposa. Romeo
sconvolto dalla cosa cerca di uccidersi con la propria spada, ma Pietro glielo impedisce. Riportato alla
ragione, Romeo decide di volerla vedere ancora una volta e si accorda col servitore per tornare a Verona
travestito da tedesco. Prima di partire Romeo scrive una lettera al padre decretando le sue ultime volontà e
raccontandogli del matrimonio segreto. Prende con sé del veleno. Giulietta viene adagiata nel frattempo
nell’arca di famiglia.

Romeo arriva a Verona che è ancora notte e subito si reca nella Chiesa di San Francesco, fuori dalle mura
della cittadella. Con l’aiuto di Pietro, apre l’avello e vi entra svenendo per il dolore di vedere Giulietta
morta. Disperato beve il veleno, consegna la lettera al servitore e gli ordina di chiudere il sarcofago.
Rimasto solo con Giulietta, la stringe in un triste abbraccio sciogliendosi in lacrime. Giulietta si sveglia e
dopo il primo stupore crede che chi la stringe sia Frate Lorenzo che si sta approfittando di lei, riconosce
Romeo che nella gioia di vederla viva si dispera e le dice che ha bevuto il veleno. La giovane, sconvolta, gli
racconta quanto progettato col frate. Romeo vedendo Tebaldo chiede perdono all’amata, poi la prega di
vivere felice e a lungo anche senza di lui. Frate Lorenzo che non vede arrivare Romeo si avvia verso la
tomba di Giulietta. Una volta arrivato egli si trova davanti alla drammatica scena. Romeo proferisce le
ultime parole e spira. Giulietta piange disperata e dice di voler seguire l’amato. Il frate e Pietro la supplicano
di uscire, ormai nulla si può fare per Romeo. Frate Lorenzo la farà entrare in un monastero dove potrà
pregare l’anima del marito. Giulietta però con il grembo il capo di Romeo, senza dire nulla, muore.
Credendola svenuta, vanno a soccorrerla e la trovano morta quando vengono sorpresi da gendarmi giunti
sul posto richiamati dal trambusto. Frate Lorenzo viene portato da Bartolomeo della Scala che una volta
udito l’accaduto, perdona il frate e decreta che i due giovani rimangano sepolti insieme, appacificando così
le due famiglie. Sul sarcofago vi è inciso un epitaffio.

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IL BANDELLO AL MAGNIFICO E VERTUOSO
MESSER FRANCESCO TORRE

Rade volte, come per esperienza veduto avete, suol avvenire che quando questi gentiluomini veneziani
vengono a diporto in terraferma tra loro di brigata o con le mogli ed altre donne, e cápitano a Verona, il
signor Cesare Fregoso mio padrone non gli faccia sontuosi e splendidi conviti, tanto qui in Verona quanto
fuori, al mormorio de le freschissime e limpidissime fontane di Montorio tanto dal Boccaccio nel Filocopo*
celebrate, e a Garda da cui il famoso lago di Benaco ora ha preso il nome. A Garda hanno questi signori
Fregosi un gran palagio con giardini bellissimi ove sono tutti gli arbori di frutti soavissimi che questo cielo*
può nodrire. Quivi sono naranci, cedri, limoni, pomi granati bellissimi, per non raccordar tana* altre sorti di
frutti. Vi si gode poi l'amenitá del piscoso e bellissimo lago che ne l'una e l'altra sponda Pomona, Bacco e
Flora* pomposamente adornano. Ma io porto de le civette ad Atene*. Ora essendo questi dí una bella ed
onorata compagnia di vaghe e bellissime* donne veneziane con i mariti ed altri lor parenti ed amici venuta
a Verona ed avendo loro il signor Cesare fatto apparecchiar un desinare ed una cena a Mortorio, fece anco
invitar molti gentiluomini veronesi, e la signora Gostanza sua moglie invitò alcune donne. Voi alora eravate
a Mantova mandato dal reverendissimo vescovo di Verona Gian Matteo Giberto a negoziar alcuni suoi affari
appo l'illustrissimo e reverendissimo signor Ercole cardinal di Mantova. Il che al signor Cesare non
mezzanamente dispiacque, con ciò sia cosa che molto desiderava che voi fossi a Verona per intertener cosí
gentil e bella compagnia di donne. Fu il desinare secondo l'usanza fregosa bello e veramente luculliano, ed
oltra le carni domestiche vi si mangiarono tutti quei salvaggiumi cosí d'augelli come di quadrupedi che la
stagione comportava, mescolando variamente, secondo che convenevol pareva a messer Antonio
Giovenazzo nostro maestro di casa, di tutte quelle maniere di pesci che quelle fontane in abbondanza
fanno, con i piú delicati che produce il famoso Benaco. Dopo il desinare si fecero molti piacevoli giuochi
sotto un folto e molto lungo e largo frascato fatto a posta, ove anco al suono dei piffari si ballò da chi poco
curava il caldo. A l'ora poi del merigge, essendo il caldo grande e i balli cessati, si misero uomini e donne
diversamente a ragionar insieme secondo che loro piú era a grado. Io mi ritirai in una molto onorata
compagnia ov'era il signor Cesare, e sentii che parlavano del Decamerone del Boccaccio e d'alcune novelle
di quello, raccontando le beffe fatte da Bruno e Buffalmacco al povero Calandrino e a quel valente medico,
maestro Simone da Villa. Era quivi il gentilissimo dottor di leggi messer Lodovico Dante Aligeri, il qual disse
molte cose in commendazione del Boccaccio, nomandolo suo compatriota, perciò che esso Aligeri, come
chiaro si sa, è disceso per linea maschile da uno dei fígliuoli del famoso e dottissimo Dante che in Verona
rimase al servigio dei signori de la Scala. Il conte Raimondo da la Torre vostro zio, uomo di molte buone doti
ornato, seguendo il parlar di messer Lodovico narrò una piacevol novella, la quale il signor Cesare mi
comandò che io scrivessi. Il che avendo fatto, ancor ch'io creda che piú volte voi l'abbiate udita raccontare,
m'è paruto convenevole tale quale descritta l'ho, che sia vostra. So bene che non averò saputo
rappresentar l'eloquenza di vostro zio né por in iscritto la novella cosí puntalmente come fu da lui narrata.
Io ho ben avuto buon animo, ma il non saper piú è stato cagione che secondo l'animo non ho avuto le forze.
Tale adunque qual è ve la dono ed al vertuoso vostro nome dedico e consacro. Scrissi non è molto la
novelletta che voi pure a Montorio narraste quando un'altra compagnia dal signor Cesare vi fu condutta, e
quella ho donata al nostro gentilissimo conte Bartolomeo Canossa a cui le cose da voi narrate sogliono
mirabilmente piacere. Ma a chi non piace egli ciò che voi con la penna od in prosa od in verso scrivete o tra
gli amici ed altrove ragionate? Egli sará bene di poco gusto e di rintuzzato ingegno. State sano.

Parafrasi
Accade raramente, come sapete per esperienza, che è solito accadere che quando i signori veneziani
vengono a svago/per svagarsi (a diporto) in terra ferma radunandosi in brigate/gruppo con la moglie ed
altre donne e capitano a Verona, che il mio padrone Cesare Fregoso gli faccia preparare ricevimenti lussuosi
e magnifici tanto qui a Verona quanto fuori di Verona al mormorio delle freschissime e trasparentissime
sorgenti di Montorio Veronese tanto celebrate dal Boccaccio nel Filocolo e a Garda da cui il famoso lago
Benaco ora ha preso il nome. A Garda questi signori hanno un grande palazzo con giardini bellissimi dove ci

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sono tutti i dolcissimi alberi di frutti che questo cielo può nutrire. Qui ci sono gli aranci, i cedri, i limoni, i
melograni (tutti quanti) bellissimi, per non parlare di altri tipi di frutta. Si può anche godere poi l’amenità
del lago bellissimo e pescoso che sull’una e sull’altra sponda Pomona, Bacco e Flora
pomposamente/spettacolarmente adornano. Ma dico cose già risapute. In questi dì/tempi/in questo
periodo una bella/dignitosa compagnia, di bellissime donne veneziane con i mariti ed altri loro parenti,
vennuti a Verona ed avendo il signor Cesare Fregoso fatto apparecchiare un pranzo (desinare) ed una cena
a Mortorio, vennero invitati anche molti gentiluomini veronesi, e la signora Costanza sua moglie invitò
alcune donne. Voi allora eravate a Mantova mandato dal reverendissimo vescovo di Verona Gian Matteo
Giberto a negoziare alcuni suoi affari presso l’illustrissimo e reverendissimo signor Ercole cardinale di
Mantova. Il che al signor Cesare non mezzanamente (?) dispiacque, dato che desiderava molto che voi foste
a Verone per godere di così gentile e bella compagnia di donne. Il pranzo fu secondo l’usanza di casa
Fregoso, bello e veramente luculliano (fastoso/raffinato) e oltre alle carni di animali domestici, vi si
mangiarono tutti i tipi di selvaggina (salvaggiumi) sia di uccelli sia di mammiferi secondo quello che la
stagione offriva, alternandole in maniera fantasiosa (mescolando variamente), secondo quanto sembrava
ad Antonio Giovenazzo, nostro maggiordomo (maestro) di casa, di tutti quei tipi di pesci che danno
abbondantemente quelle sorgenti, insieme ai pesci più delicati che produce il celebre lago di Garda
(Benaco). Dopo il pranzo si fecero molti giochi piacevoli sotto un folto lunghissimo e largo frascato* fatto a
posta. Dove al suono di pifferi chi poco badava al caldo, ballò. Poi nelle ore più centrali siccome il caldo era
forte e le danze si erano chiuse, si misero donne e uomini a discutere insieme diversamente assortiti
secondo quanto gradivano di più. Io mi ritirai con una compagnia molto onorata dove c’era il signor Cesare
e sentii che parlavano del Decameron del Boccaccio e di alcune novelle di quello, raccontando le beffe fate
da Bruno e Buffalmacco al povero Calandrino e a quel capace (valente) medico, Simone da Villa. Ed era
qui/in questo gruppo l’onorabilissimo dottore di legge, il signor Ludovico Dante Alighieri che disse molte
cose in lode (commendazione) del Boccaccio chiamandolo suo compatriota, per il fatto che questo Alighieri,
come è noto (chiaro si sa) è discendente diretto da uno dei figli del celebre e sapientissimo Dante che a
Verona fu ai servigi di Cangrande della Scala. Il conte Raimondo della Torre vostro zio, uomo ornato di
molte buone doti, dopo aver sentito quanto aveva detto Ludovico Alighieri narrò una novella piacevole
(non tragica), la quale il signor Cesare mi ordinò che io scrivessi. Avendolo fatto, ed avendola anche sentita
raccontare più volte da lui, mi è parso opportuno così come l’ho descritta che fosse vostra/dedicarvela. So
bene che non avrò saputo rappresentare l’eloquenza di vostro zio né di aver scritto la novella puntualmente
così come fu da lui narrata.

*Filocopo: uso scorretto e diffuso del titolo del ‘Filocolo’, opera giovanile del Boccaccio.
*questo cielo: sta per ‘a questa latitudine’, sottolinea l’eccezionalità climatica dei laghi a questa latitudine.
*per non raccordar tana: ‘per non dare ospitalità’, formula antica per dire “per non parlare di”
* Pomona, Bacco e Flora: sono rispettivamente nella religione romana: la dea che sovrintende
l’abbondanza delle messi, qui dei frutti, il dio del vino e la dea della vegetazione. Entrambe le sponde sono
splendidamente ornate dei loro doni: frutta vigne e vegetazione.
* Ma io porto de le civette ad Atene: modo di dire in voga all’epoca per dire “dico cose già risapute”
*vaghe e bellissime: è una dittologia, ossia due termini accostati, sinonimiche ossia con significato identico.
Potrebbero anche avere un significato molto simile e quasi uguale o addirittura contrario.
*frascati: strutture di legno con delle frasche sopra

NOVELLA X:

Piacevoli beffe d'un pittor veronese


fatte al conte di Cariati, al Bembo e ad altri, con faceti ragionamenti.

Egli è circa un anno che in questo medesimo luogo il valoroso e splendidissimo signor Cesare che quivi con
quei capitani ed altri gentiluomini e vaghe donne ragiona, e ad un'altra bella compagnia venuta da Vinegia
fece un largo e splendido convito, come ordinariamente fa a chi dei nostri gentiluomini veneziani ci cápita;

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oltra che poche segnalate persone cápitano a Verona che egli non levi da l'osteria e conduca a casa sua,
onorando ciascuno secondo la qualitá e valore degli uomini. E nel vero io ho veduti pochi suoi pari che
sappiano accarezzare cosí umanamente un forestiero come egli festeggia, intertiene ed onora. Questo
maggio passato, se vi ricorda, vennero a Verona alcuni signori e signore mantovane ai quali qui in questo
proprio luogo, ai Lanfranchini e sul lago di Garda fece conviti sontuosissimi, di modo che non ci fu persona
che non rimanesse stupefatta de la delicatura, copia e varietá dei cibi e del quieto e bellissimo ordine del
servire; ed alora la vertuosa e gentilissima signora sua consorte che quivi vedete non ci puoté essere, perciò
che non era una settimana che di parto giaceva nel letto. Avete veduto che desinar è stato quello d'oggi, e
la cena vederete che non sará meno un pelo, anzi ci sará alcuna cosa da vantaggio. Ma io vi vo' far vedere
che quando a mezzo giorno è il cielo senza una minima nugoletta sereno, che il sole risplenda, che chi non è
orbo il vede chiarissimamente, come al presente si vede: cosí voglio io farvi conoscer la generosità, lo
splendore e la cortese liberalitá di questo valoroso signore, quasi che tutto 'l dí non si veda e si tocchi con
mano. Or ecco che esso signor Cesare se ne ritorna qui ed io a lui mi volterò. Quando voi di qui vi partiste
noi eravamo, signor mio, entrati a ragionar de l'eloquente e facondissimo messer Giovanni Boccaccio e de
le beffe fatte da Bruno e Buffalmacco a Calandrino lor sozio ed a maestro Simone, quando fu fatto cavalier
bagnato di Laterino per voler esser innamorato de la contessa di Civillari. E certamente non si può se non
dire che tra l'altre opere in lingua toscana d'esso Boccaccio il Decamerone sia da esser piú lodato di tutte. E
ben meritamente il nostro eccellente dottore messer Lodovico Aligeri Dante, ricordandosi che i suoi avoli
ebbero l'origine loro da Firenze, l'ha lodato come suo cittadino e s'è allegrato a sentirne parlare; il che
dimostra la generositá de l'animo suo e l'amore verso l'antica sua patria. Io medesimamente tutte le volte
che mi occorre veder o sentir ragionar dei nostri de la Torre, che cacciati fuor di Milano di cui erano signori
e per l'Italia in varii luoghi dispersi, mantengono ancora per tutto l'antica lor nobiltá, non posso fare che
non mi rallegri, parendo pure che la natura ed il sangue m'inchini e tiri ad amarli. Vedo altresí voi, signor
Cesare, onorare, accarezzare e volentier veder tutti i vostri Fregosi che per l'Italia ne l'arte militare
rappresentano il valore dei vostri antichi; e non solamente i Fregasi, ma egli non cápita genovese chi si sia a
Verona o uomo del paese de la Liguria che voi non gli diate albergo in casa vostra e che di danari ed altri
bisogni non gli soccorriate, perché sono genovesi, e l'onoranda memoria di vostro padre fu duce di Genova,
e voi contra piú di sei mila fanti tra italiani e spagnuoli dei quali era capo il capitano generale de l'artiglieria
de l'imperadore, Gabriele Tadino, con settecento scelti soldati eletti da voi Genova per forza pigliaste e
tutta quella fanteria rompeste, facendo prigione esso Tadino. Ma perché sète qui presente, io non vi voglio
in faccia lodare. Solamente dirò che voi ancora non passavate venticinque anni quando faceste questa
gloriosa impresa, e Genova ad instanzia de la serenissima Signoria vostra riduceste sotto l'ubidienza del re
cristianissimo. Ma tornando al Boccaccio, io dico che non si può negare che Bruno e Buffalmacco per quello
che in diverse novelle di loro scrive il Boccaccio non fossero uomini d'ingegno, maliziosi, avveduti ed
accorti; tuttavia a dir il vero, se eglino avessero avuto a far con persone svegliate ed avviste, non so come
loro le beffe fossero riuscite. Essi si abbatterono in un Calandrino, sempliciotto e disposto a creder tutto
quello che udiva ed uomo proprio da fargli mille beffe. Taccio il bambo, quel maestro Simone che quando ei
partí da Bologna credo io che con la bocca aperta fuor se n'uscisse e tutto il senno che apparato aveva, col
fiato volò via. Io vorrei che si fossero apposti a beffar altri che uno scemonnito pittore ed un medico
insensato che non sapeva se era morto o vivo, tanto teneva del poco senno. Credetelo, che averebbero
imparato senno a le spese loro e cosí di leggero non veniva lor fatto di far dispregnar Calandrino e fargli
l'altre beffe che gli fecero, né averiano fatto credere quello andar in corso e tante meraviglie come credette
maestro Simone. Ma le novelle si scriveno secondo che accadeno, o almeno deveriano esser scritte non
variando il soggetto, se bene con alcun colore s'adorna. E poi che io veggio che il caldo è in colmo e che fin
a cena ci è tempo assai, e che questi nostri gentiluomini e gentildonne col ragionar tra loro in diversi
drappelli passano il tempo, io vi vo' far toccar con mano che in Verona è stato un pittore di molto maggior
avvedimento ed accortezza che non furono i dui pittori del Boccaccio; con ciò sia cosa che se eglino
ingannarono ser Calandrino e maestro Simone che erano pecora campi, oves et boves, questo nostro di cui
intendo parlarvi ingannò, o per dir meglio, senza dubio beffò due segnalate ed accortissime persone e degli
altri assai, che quando gli nominerò vi farò far di meraviglia il santo segno de la croce. Egli primieramente
beffò il signor Gian Battista Spinello conte di Cariati al tempo che governava la cittá nostra di Verona a
nome di Massimigliano d'Austria imperadore, e nondimeno esso conte era astutissimo ed uomo di gran

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maneggio. Beffò poi il dottissimo e vertuoso signor Pietro Bembo che tutti conoscete di che ingegno sia e
prudenza, il quale papa Leone, uomo giudizioso e di buoni ed elevati ingegni conoscitore, non averebbe
eletto per suo segretario se conosciuto non l'avesse di prudenza, sagacitá ed accortezza dotato. E se non
vogliamo per riverenza di questi dui personaggi eccellenti dire che il nostro pittore gli beffasse, almeno
diremo che diede loro il giambo*, e v'aggiungeremo per terzo l'eccellente messer Girolamo Fracastore, che
sempre che gliene dimandarete, largamente vi confesserá come restò ingannato. Io non credo giá che ci sia
uomo di cosí poco vedere che voglia parangonare a costoro Calandrino e maestro Simone; e se il
facondissimo Boccaccio avesse avuto questo soggetto, io mi fo a credere che ne averebbe composta una o
due bellissime novelle ed ampliatele e polite con quella sua larga e profluente vena di dire. Ma io dirò
semplicemente il caso come occorse, senza fuco d'eloquenza e senza altrimenti con ampliazioni e colori
retorici polirlo. Devete adunque sapere che il pittore di cui vi parlo fu maestro Girolamo da Verona, che
quasi tutti avete conosciuto e poco tempo è che morí. Egli era il piú faceto e piacevol uomo ed il meglior
compagno che si possa imaginare, e troppo volentieri dava il giambo ed il pigliava. Era poi tanto affezionato
ai nostri signori veneziani che tutta Verona per tale il conosceva. Ora in quei calamitosi tempi de le guerre
che tanto a la cittá nostra nocquero e senza dolore non si ponno ricordare, mentre che Verona fu in poter
dei nemici di San Marco, non era possibile che maestro Girolamo tacesse e che non discoprisse l'affezion
sua. Aveva il conte di Cariati un giorno fatto levar via San Marco ch'era su la porta del palazzo del signor
podestá, e in luoco di quello volle che vi si dipingesse l'aquila con l'insegna di casa d'Austria. Fu l'impresa
data a maestro Girolamo il quale mal volentieri prese l'assunto di farlo; nondimeno non essendo a quei dí
chi gli desse guadagno, per esser una gran parte dei cittadini fuori, chi in essiglio e chi per non veder tutte
l'ore lo strazio che dai soldati si faceva, non avendo altro essercizio a le mani da guadagnarsi il vivere, si
mise a dipingere le dette insegne. E mentre dipingeva v'era sempre gente in piazza ed alcuni si fermavano a
vedere. Il buon pittore a cui troppo era dispiaciuto il levar via San Marco e gli doleva dever far quell'arme,
non si poteva contener che non sospirasse e molte volte dicesse: – Durabunt tempore curto, – onde fu
subito accusato al conte per un gran marchesco. Il conte dubitò che forse ne la cittá fosse alcun occulto
trattato contra l'imperadore e che il pittore ne fosse consapevole. Il perché fattolo a sé chiamare,
diligentemente cominciò ad essaminarlo e domandargli a che fine aveva dette quelle parole latine. Egli che
non credeva esser stato sentito e vedeva che il negarle non ci aveva luogo, da subito conseglio aiutato, con
un buon viso rispose: – Signore, io vi confesso aver dette le parole che mi ricercate, e le dico anco di bel
nuovo, che quelle insegne non dureranno. Sapete voi perché? Perché ho avuti tristi colori che a l'aria e a la
pioggia non reggeranno. – Piacque mirabilmente la pronta risposta al conte, ed in effetto pensò che a cotal
fine qual narrato aveva, il pittore le parole puramente dette avesse, e piú innanzi non investigò il fatto. Ché
ancora che trattato contra gli imperiali non ci fosse, nondimeno il sagace pittore disse le parole, come agli
amici affermava, con salda speranza che i veneziani devessero ricuperar la cittá e far levar via l'aquila con
l'insegna d'Austria, come non dopo molto fu fatto. Vi par egli che al bisogno si sapesse schermire e che
molto galantemente si salvasse? Egli seppe sí ben fare e di modo governarsi che del conte divenne molto
domestico e ne traeva assai profitto. Ma vegnamo a parlar del signor Pietro Bembo, la cui novella sará
molto piú festevole e da ridere ed io meglio ve la saperò contare, perché la cosa fu in casa nostra ed io vi fui
presente, e vi fu anco il nostro Fracastore che ebbe la parte sua de la beffa. Non accade che con ambito di
parole a voi tutti che qui sète io m'affatichi a voler dar a conoscere che personaggio si sia il signor Pietro
Bembo, essend'egli per le sue rare ed eccellentissime doti ed opere ne l'una e l'altra lingua composte e
stampate a tutta cristianitá notissimo. Questo vi dirò ben io esser sua consuetudine, per l'amicizia che ha
con noi che suoi ospiti siamo, ogni volta che viene a Verona venirsene domesticamente a smontar in casa
nostra, ove tanto v'alberga con i suoi che vengono seco quanto gli piace dimorar ne la cittá, e con noi
diportarsi nei luoghi nostri di Valle Policella e di Pantena, come noi volgarmente diciamo, ove ai nostri
poderi gli doniamo quegli onesti piaceri che la stagion comporta ed il luogo ci può dare. Vi venne egli una
volta tra l'altre e seco vi era quell'altro dottissimo giovine, – giovine, dico, a par del signor Pietro, – messer
Andrea Navagero. Fu quando a casa nostra in Verona vennero, del mese di gennaro, ed arrivarono la sera a
le ventiquattro ore. Miei fratelli ed io secondo il costume nostro facemmo lor quelle grate accoglienze che
per noi si seppero le maggiori. Invitammo subito alcuni gentiluomini a venirgli a tener compagnia, tra i quali
venne messer Girolamo Fracastore nostro e dei dui ospiti amicissimo. Vedetelo lá, il Fracastore, dico, che
ora tutto solo se ne sta a contemplar le limpide e cristalline acque di questi fonti e forse compone alcuna

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bella cosa degna del suo sublime ingegno. Messer Gian Battista mio fratello, di sempre acerba ed onorata
memoria, mi disse ciò che intendeva fare per ricreazion de la compagnia, a cui io risposi che mi rimetteva a
lui. Si diede ordine che la cena fosse onorevole. Poi che gli osti nostri si furono a le camere loro cavati gli
stivali e le vestimenta da viaggio, se ne vennero in sala ove ardeva un buon fuoco e si misero a sedere. Il
Navagero cominciò a parlar col Fracastore, ed alcuni altri ed io ci intertenevamo col signor Bembo di varie
cose ragionando. Messer Giulio mio fratello, perché era cagionevole alquanto de la persona, presa licenza
se n'andò via. In quello arrivò messer Gian Battista, la cui venuta fu cagione che il Navagero, lasciato il
Fracastore, si ritirò a parlar seco. Erano quasi le due ore di notte quando io domandai se volevano cenare.
Essi risposero che potevano ancora star una ora. Ed in questo ecco che si sentí picchiar molto forte a la
porta, né guari stette che venne di sopra un dei nostri servidori il quale al Bembo disse: – Signore, egli è di
sotto un vostro parente che viene per visitarvi, e dice che anch'egli ha nome Pietro Bembo. – Sentendo
questo il signor Bembo stette un pochetto sovra di sé; dapoi rivolto a noi altri disse: – Che buona ventura
può aver condutto in qua questo vecchio? Egli suol aver la stanza in Vicentina ad un suo podere, e sono piú
di vent'anni ch'io nol vidi ancor che siamo stretti parenti. – Alora messer Gian Battista comandò che si
accendessero duo torchi per andar a farlo venir su. Voleva il Bembo andargli incontra, ma noi nol
sofferimmo; onde io ci andai e condussi il vecchio in sala, al quale il capo e le mani forte tremavano.
Com'egli fu in sala, parlando schietto il parlar veneziano dei nicoletti, abbracciò il Bembo dicendo: – Lodato
sia Iddio, Zenso mio, che avanti ch'io mora ti veggio, la Dio mercé, sano, (si chiamano l'un l'altro Zenso se
hanno un medesimo nome), e con questo lo basciò in fronte lasciandogli un poco di bava sul viso. E perché
sappiate come era vestito, udite. Egli aveva indosso una toga a la ducale che giá fu di scarlatto e alora era
scolorita e pelata che se le vedeva tutta l'orditura, e non aggiungeva a un gran palmo ai piedi. Aveva poi
una cornetta che si chiama da' veneziani becca, di panno morello, piú vecchia che la madre di Evandro* e in
alcuni luoghi stracciata. La berretta era a la veneziana, unta e bisunta fuor di misura. Le calze erano ne le
calcagna lacerate, con un paio di pantofole che i veneziani chiamano zoccoli*, sí triste che i diti dei piedi per
la rottura de le calze pendevano fuori. Messer Gian Battista l'abbracciò e gli disse: – Magnifico*, voi ci avete
fatto torto a non venir a smontar qui in casa vostra, ché essendo parente del signor Bembo, sète padrone di
noi altri. – E volendo mio fratello mandar a l'osteria a pigliar i cavalli, disse il vecchio che non bisognava,
perché era venuto suso una cavalla a vettura e ito ad albergo col Cigogna suo antico oste. Il signor Pietro
veggendo il vecchio sí mal in arnese e che cosí sgarbatamente parlava, mezzo si stordí e non sapeva che
dirsi. In questo il vecchio entrò a ragionar di casa Bemba e sí minutamente raccontò tutti i parenti loro e di
quanto gli era per molti anni avvenuto, che pareva che avesse il registro di ciò che diceva innanzi agli occhi.
E parlando del padre ed avo e di messer Carlo fratello del Bembo, si lasciava di tenerezza cader alcune
lagrime. Poi disse: – Io ho inteso, Zenso mio, che tu componi di bei versi che sono piú belli che non è il
Serafino né il Tebaldeo. Che Dio ti benedica, Zenso mio. – Dicendo questo sternutò dinanzi e di dietro tre
volte molto forte e disse: – Perdonatemi, figliuoli miei, ché io son vecchio ed il freddo dei piedi m'ha
causato questo; – onde s'accostò al fuoco e cavando i piedi de le pantofole, or l'uno ed or l'altro scaldava.
Veggendo il Bembo che i diti apparivano fuori, mezzo turbato disse a mio fratello: – Di grazia levatemi
questa seccaggine di questo mio parente rimbambito. – Mio fratello si scusò che non sapeva come fare. Il
vecchio alora disse: – Figliuoli, non vi meravigliate se io sono cosí mal in ordine, perché questo è abito
cavalcaresco, ma a casa io ho bene de l'altre veste; – e poi entrò in un pecoreccio* di pappolate da far
ridere ogni svogliato e malinconico, di maniera che il Bembo ancor che in còlera fosse, non poteva far che
non ridesse. Volendo poi il vecchio nettarsi il naso cavò un fazzoletto assai grande, rotto in piú luoghi e
tanto sporco che pareva che fosse stato un mese in cucina a nettar le padelle. Il Navagero ancor che
ridesse, tuttavia mezzo adirato gli disse: – Messere, voi sète venuto a far un grand'onore al vostro parente,
ed essendo stato tanto a vederlo, l'avete fatto maschio. Egli è ben fatto che questi gentiluomini vi diano da
cena, perché noi non ceneremo di qui a buona pezza. – O figliuol mio, – rispose egli, – io veggio bene che i
poveri vecchi sono malveduti dai giovini. Io ho avuta tanta voglia di veder il mio parente, ed ora tu* vuoi
che me ne vada? A le guagnele* di san Zaccaria, tanto che egli stará qui, io lo vo' godere. Cenate pure tanto
tardi quanto volete, ché io aspetterò, perché non sono tre ore che il mio oste quando smontai mi fece
mangiar quattro fegatelli di cappone e ber duo bicchieri di vernaccia. – Io me ne crepava de le risa, e per
non guastar la coda al pavone mi ritirai verso la credenza, fingendo veder ciò che si faceva. Mio fratello
senza punto cangiarsi di viso, rivolto al vecchio disse: – Magnifico, lasciate dir chi vuole, ché voi sète in casa

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vostra. – Il Bembo gli teneva pur detto: – Voi, messer Gian Battista, pensate farmi piacere e mi fate il
maggior dispetto del mondo. Lasciatelo andar per l'amor di Dio, ché io mi muoio di vergogna. – Alora il
Fracastore mosso a compassione del fastidio del Bembo, al vecchio disse: – Magnifico, il signor Navagero vi
dá un buon conseglio: voi sète attempato anzi che no e il tempo è freddo. Io che medico sono, v'essorto a
cenar a buon'ora ed andarvi a posare. – Domine magister*, – rispose il vecchio, – pigliate questo conseglio
per voi, ché io non lo voglio. Ma saperei ben volentieri chi è questo Navagero, ancor che essendo col mio
Zenso deve esser Andrea, che intendo aver di gran lettere. – Voi v'ingannate, – disse il Navagero, – perché
io mi chiamo Pancrati. – Io non so, – soggiunse il vecchio, – chi usurpi questo nome se non quelli da ca'
Giustiniana. So bene che i Navageri non l'hanno. – E qui fece un altro catalogo di casa Navagera. Ora la cosa
andò molto in lungo con dispiacer infinito del Bembo, il quale vedeva questo suo parente, ché per tale lo
credeva, in raccontar le genealogie veneziane esser un Tullio, ma nel resto dimostrarsi il maggior sciocco
del mondo. A la fine il vecchio mutata la voce e il modo di parlare, ridendo disse: – Io so che sète galanti
uomini a non riconoscer il vostro Girolamo pittore. Che vi venga il gavocciolo, «poëtis quae pars est». – Fu
subito riconosciuto, e risolvendosi il tutto in riso, egli se n'andò in una camera, e spogliatosi l'abito da
comedia si rivestí i suoi panni e ritornò in sala, dando a tutti la baia e facendoli di nuovo molto ben ridere.
Affermava il Bembo averlo sempre tenuto per il suo parente, ed ancor che lo vedesse sí mal in arnese e cosí
mal costumato, che credeva che per la vecchiaia fosse ribambito, e che in vero n'aveva una strema
vergogna. Il Navagero si disperava di non averlo conosciuto, perché e in Vinegia e in Verona esso pittore a
lui e al Bembo era molto domestico. Ma sovra tutti il Fracastore era quello che non si poteva dar pace, ché
tutto 'l dí avendo pratica con lui e conversando familiarmente insieme e dilettandosi de le chiacchiere di
quello, alora fosse sí smemorato e fuor di sé che mai non gli fosse venuto in mente. Medesimamente gli
altri gentiluomini veronesi che ci erano e domesticamente di continovo il praticavano, confessarono senza
dubio non averlo in quell'abito buffonesco conosciuto giá mai. Insomma tutta la cena fu piena di riso e di
gioia, né mai il signor Pietro mi scrive, – che pure per cortesia sua spesso mi manda lettere, – che qui
sempre non faccia menzione di questa beffa e che ancora non ne rida. Ma ora io non vo' dirvi la beffa che
fece a Massimigliano Cesare in Isprucco, che forse non fu men faceta di questa.

Parafrasi

Piacevoli beffe di un pittore veronese


fatte al conte di Cariati, al Bembo e ad altri, con discorsi divertenti.

Egli (Girolamo dei Libri) primieramente burlò il conte Giovanni Battista Spinelli, conte di Cariati al tempo in
cui reggeva la nostra città di Verona a nome dell’Imperatore Massimigliano d’Austria, e malgrado il fatto
che il conte fosse un uomo astutissimo ed abituato a pratiche importanti (di gran maneggio). Si fece burla
inoltre del sapientissimo e virtuoso Pietro Bembo che tutti quanti sapete di quale intelligenza sia e di quale
avvedutezza (prudenza) sia, tanto che Papa Leone X che fu un uomo di buon giudizio, e conoscitore di
ingegni di qualità ed elevati, non lo avrebbe scelto/eletto come suo segretario se non avesse saputo di
quanta prudenza, acutezza ed avvedutezza fosse dotato. E se non vogliamo per rispetto/riverenza di questi
due personaggi eccellenti dire che il nostro pittore li burlò, almeno diremo che “diede loro il giambo”, e vi
aggiungiamo per terzo l’eccellente signor Girolamo Fracastoro, il quale ogni volta che glielo chiederete
apertamente vi confesserà come fu ingannato.

*diede loro il giambo: modo di dire più raffinato per dire ‘burlare’

Secondo passo letto: da “ma vegnamo a parlar” parafrasi veloce -> Bembo è molto amico dei della Torre
ed anche quando va a Verona con i suoi amici, di cui sono ospiti si divertono con loro e fanno anche delle
gite nei dintorni e via dicendo (viaggiavano in gruppo perché è più sicuro).

Parafrasi riprende da “Vi venne egli una volta”


Una certa volta tra le altre venne e con lui quel dottissimo giovane- giovane dico io da pari/coetaneo del
signor Pietro- Andrea Navagero. Fu quando a casa nostra a Verona vennero, nel mese di gennaio, ed

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arrivarono la sera alle ventiquattro. I miei fratelli ed io, secondo nostra abitudine, li accogliemmo con
gratitudine nel modo più grande possibile. Invitammo subito alcuni gentiluomini a venire a tenergli
compagnia, tra i quali Messer Girolamo Fracastore, molto amico dei due ospiti oltre che nostro. Guardatelo
là, Fracastoro, che ora se ne sta tutto solo a contemplar le limpide e cristalline acque di queste fonti e forse
compone una bella opera/scritto degna del suo sublime ingegno. Messere Giovanni Battista, mio fratello, di
sempre onoratissima memoria, mi disse che intendeva far preparare un pasto per la compagnia, io gli
risposi che ci pensasse lui/se ne occupasse lui (rimetteva). Si ordinò che la cena fosse onorevole. Dopo che
gli ospiti nostri (ossia Navagero e Bembo) si furono tolti gli stivali ed i vestiti da viaggio nelle loro stanze,
vennero nella sala dove ardeva un bel fuoco e si misero a sedere. Il Navagero cominciò a parlare con
Fracastoro e qualcun altro invece io e il signor Bembo ci mi intrattenevo col signor Bembo discutendo
(ragionando) di diversi argomenti. Messer Giulio della torre, mio fratello, poiché era cagionevole di salute,
prese licenza/dopo aver salutato, se ne andò via. In quel momento arrivò Giovan Battista Spinelli (aka il
Conte di Cariati), il cui arrivo fu la causa per cui Navagero, lasciato Fracastoro si ritirò a parlare con lui.
Erano quasi le due di notte (per noi le 29 circa) quando domandai se volevano cenare. Essi risposero che
potevano restare ancora un’ora. Ed ecco che in quel momento si sentì bussare molto forte alla porta, né
molto ci fu (né guari stette) che arrivò di sopra uno dei nostri servi il quale disse a Bembo: - Signore qui
sotto c’è un vostro parente che viene per farvi visita e dice che anche lui si chiama Pietro Bembo. -
Sentendo questo Bembo si mise a pensare tra sé e sé e poi rivolto verso noi altri disse: - Quale caso/ buona
ventura può aver portato qua questo vecchio? Egli è solito aver la stanza/residenza vicino a Vicenza in un
suo podere/terreno, e sono più di vent’anni che io non lo vedo, seppure siamo parenti stretti. – Allora
Messer Giovanni Battista Spinelli ordinò che si accendessero due torce (torchi) per andare a farlo venire su.
Il Bembo voleva andargli incontro, ma noi lo fermammo, quindi andai io e condussi in sala il vecchio a cui
tremavano la testa e le mani. Come egli fu in sala, parlando il puro (schietto) parlar veneziano dei Nicoletti
(sarebbe più giusto Nicolotti), abbracciò il Bembo dicendo: - lodato sia Iddio, Zenso mio che ti vedo sano
prima che io muoia, per pietà (mercé) di Dio (a Venezia si chiamano l’un l’altro Zenso quando due persone
appartengono alla stessa stirpe/famiglia)* e dopo aver detto questo lo baciò sulla fronte lasciandogli un
po’ di saliva sul viso. E perché sappiate come era vestito, udite. Egli aveva in dosso una toga alla ducale
(cioè come quella del Doge) che un tempo fu rossa scarlatta e invece in quel momento era scolorita e pelata
e difatti si vedeva l’orditura e questo tipo di toga arrivava generalmente ai piedi/alle scarpe e invece questa
non giungeva ad un palmo ampio dai piedi. Aveva poi un copricapo chiamato becca dai veneziani, di tessuto
marrone chiaro, più vecchia della madre di Evandro e in alcuni luoghi stracciati. La berretta era alla
veneziana, unta e bisunta/ sporca fuor di misura. Le calze (calzamaglia per noi) erano strappate ai calcagni,
con un paio di pantofole che i veneziani chiamano zoccoli così squallide (tristi) che le dita dei piedi per la
rottura delle calze pendevano fuori. Messer Giovan Battista lo abbracciò e gli disse: - Magnifico signor mio
voi ci avete fatto un torto a non venire subito qua a casa nostra a smontare da cavallo, perché essendo
parente del signor Bembo siete come a casa vostra, nostro padrone. – E siccome mio fratello voleva
mandare all’osteria a prendere i cavalli, il vecchio disse che non c’era bisogno perché era venuto sopra
(suso)/a cavallo di una cavalla a noleggio (a vetture) ed era andato a sistemarsi dai Cicogna, suo antico
ospite. Il signor Pietro vedendo il vecchio così malridotto e che parlava con tanto poco garbo, rimase mezzo
stordito e non sapeva cosa dire. In questa situazione il vecchio iniziò a discutere di casa Bemba/della
famiglia Bembo e raccontò così minutamente/in tutti i dettagli tutti i loro parenti e di ciò che era capitato in
tanti anni che sembrava che avesse davanti agli occhi il registro di ciò che diceva. E parlando del papà di
Bembo e del nonno e del fratello Carlo, che è morto giovane, lo fece anche commuovere. Poi disse: - Io ho
sentito Zenso, che scrivi dei versi più belli di quelli di Serafino d’Aquilano e del Tebaldeo. Che Dio ti
benedica, Zenso mio. - Dicendo questo starnutì davanti e dietro per tre volte e molto forte e disse: -
Perdonatemi, figliuoli miei, ma io sono vecchio ed il freddo dei piedi mi fa questo effetto – dunque si
avvicinò al fuoco e togliendo i piedi dalle scarpe scaldava a turno ora uno ora l’altro piede. Vedendo il
Bembo che egli aveva le dita di fuori, prossimo allo svenimento/molto imbarazzato disse a mio fratello: - Di
grazia, toglietemi questa seccatura di questo mio parente rimbambito. - Mio fratello si scusò ma non
sapeva come fare (non può venire meno alla consuetudine dell’ospitalità). Il vecchio allora disse: - Figliuoli,
non vi meravigliate se io sono così malmesso perché questo è l’abito con cui vado a cavallo ma a casa ho
ben altri vestiti. - E poi entro in un pecoreccio di sciocchezze da far ridere qualsiasi persona che non avesse

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voglia di ridere o fosse depresso in maniera tale che anche il Bembo, malgrado fosse ancora in collera non
poteva fare a meno di non ridere. Volendo poi il vecchio pulirsi il naso tirò poi fuori un fazzoletto assai
grande strappato in più punti e così sporco che sembrava che fosse stato usato un mese in cucina per pulire
le padelle. Il Navagero malgrado ridesse, piuttosto adirato gli disse: - Messere voi siete venuto qui a fare un
gesto di gentilezza al vostro parente, e siete stato tanto a vederlo, e l’avete fatto felice (maschio). Sarebbe
cosa ben fatta che questi gentiluomini (i della Torre) vi diano la cena, perché noi non mangeremo per un bel
pezzo. – O figliuol mio, - gli rispose il vecchio – io mi accorgo bene che i poveri vecchi sono visti male dai
giovani. Io ho avuto tanto desiderio di vedere il mio parente, e adesso tu vuoi che me ne vada? Per il
Vangelo di san Zaccaria, tutto il tempo che lui starà qua io voglio godere della sua compagnia. Voi cenate
pure tardi quanto volete perché io aspetterò, perché non sono passate ancora tre ore da quando il mio
ospite mi fece mangiare quattro fegatelli di cappone e bere due bicchieri di vernaccia (tipo di vino) quando
scesi da cavallo. – Io (il della Torre) stavo morendo dalle risate ma per non andare a rovinare la scena
(guastar la coda al pavone) mi spostai verso la credenza facendo finta di vedere quel che stava accadendo
realmente. Mio fratello senza cambiarsi in volto/cambiare espressione rivolto al vecchio disse: - Magnifico
signore lasciate che questi dicano perché qui siete come se foste a casa vostra.- Il Bembo subito gli disse: -
Voi Signor Gian Battista pensate di farmi piacere e mi fate il maggior dispetto del mondo, lasciatelo andar
via perché sto morendo di vergogna.- Allora Fracastoro impietosito dall’inquietudine/fastidio del Bembo, al
vecchio disse: - Il signor Navagero vi ha dato un buon consiglio: voi siete piuttosto attempato e il tempo è
freddo. Io che sono medico vi esorto a cenare presto e andare a letto presto. - Domine magister, - rispose il
vecchio, - tenete questo consiglio per voi perché io non lo voglio ma saprei ben volentieri chi è questo
Navagero e siccome sta qui col mio zenso dev’essere Andrea Navagero che io so essere un gran letterato. -
Voi v’ingannate, - disse il Navagero, - perché io mi chiamo Pancrati (Pancrazio). - Io non so, - soggiunse il
vecchio,- chi usi malamente/usurpi questo nome se non quelli della casa Giustiniana. Io so bene che la casa
Navagero non lo porta. – E qui fece un altro catalogo di casa Navagero. La cosa andò avanti a lungo con
infinito dispiacere del Bembo che vedeva questo suo parente che nel raccontare la genealogia delle famiglie
veneziane era un Tullio (sapiente come Marco Tullio Cicerone), ma per tutte le altre cose era l’essere più
stupido del mondo. Alla fine (della narrazione) il vecchio cambia la voce e il modo di parlare e ridendo dice:
- Io so che siete dei gentiluomini a non riconoscere il vostro Girolamo pittore. Che vi venga la peste
(bubbone della peste), “che è una cosa propria dei poeti”. - Fu subito riconosciuto e tutto si trasformò in
riso. Egli andò in una camera si tolse l’abito della commedia rivestì i suoi panni e tornò in sala, prendendo in
giro tutti quanti e facendoli di nuovo molto ridere di gusto. Il Bembo affermava di averlo sempre ritenuto il
suo parente, e malgrado lo avesse visto così malvestito e così maleducato, che credeva che si fosse
rimbambito per la vecchiaia, e che in verità ne aveva una estrema vergogna. Il Navagero si disperava di non
averlo riconosciuto perché a Venezia e Verona questo pittore frequentava spesso lui e Bembo. Ma più di
tutti il Fracastoro era quello che non si poteva dar pace, che frequentandolo (avendo pratica) ogni giorno e
conversando con lui famigliarmente/in confidenza e divertendosi delle sue chiacchiere, allora/in quel
frangente non si fosse accorto che era lui e il Fracastoro era fuori di sé per non averlo riconosciuto. Allo
stesso modo gli altri gentiluomini veronesi presenti e di continuo lo frequentavano familiarmente,
confessarono senza esitazione di non averlo riconosciuto minimamente in quell’abito buffonesco. Insomma
tutta la cena fu piena di riso e di gioia, e ogni volta che Pietro Bembo mi scrive, - che per sua cortesia spesso
mi manda lettere – ricorda sempre di questa beffa e che ancora non ne rida.

* a Venezia si chiamano ecc… la parentesi fa parte del testo, è un commento dell’autore non tuo!!!
* Evandro: antico re del Lazio che incontra Enea, suo coetaneo circa.
* zoccoli alla veneziana: sono scarpe basse da cui escono le dita dei piedi.
*Magnifico: per secoli a persone di alto rango esclusivamente se veneziani ci si rivolgeva in forma di
riverenza con “magnifico” o parimenti il “magnifica” per le donne.
*pecoreccio: è la parte scoperta dell’ovile, luogo dove stanno le pecore circondate dallo steccato. Il
pecoreccio siccome vi stanno le pecore, non è un luogo estremamente pulito. In senso metaforico indica un
argomento ‘sporco’, borderline, che può andare contro il buongusto, argomento in cui è facile sporcarsi.
*tu: gli dà del tu, forma irrispettosa.

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* Domine Magister: formula usata all’epoca per rivolgersi ai professori universitari e significa ‘signor
maestro’

IL BANDELLO AL MAGNIFICO E VERTUOSO


MESSER EMILIO DEGLI EMILII

Sono, sí come sapete, giá alcuni anni che io cominciai a scriver le mie novelle secondo che dagli amici
m'erano narrate o per altra via mi venivano a le mani; ed avendone giá scritte molte, fui a mal grado
sforzato d'abbandonar Milano per la cagione che giá vi dissi e d'andarmene peregrinando variamente per
l'Italia. Tornato poi che fui a Milano, trovai con mio grandissimo dispiacere che dai soldati spagnuoli alcuni
miei coffani erano stati sconficcati, pensando forse trovarvi dentro un gran tesoro; ma veggendo che altro
non c'era che libri ne portarono via una gran parte e lasciarono i forzieri aperti, di maniera che, oltra i libri
stampati, mi furono rubati molti scritti di mia mano, cosí mie composizioni come di molti belli ingegni de
l'etá nostra che io aveva raccolti essendo a Roma, a Napoli e in varii altri luoghi. E tra l'altre cose mi
rubarono la maggior parte de le mie rime ed alcune novelle insieme con quel mio gran volume dei vocaboli
latini, da me raccolti da tutti i buoni autori che a le mani venuti m'erano, il quale tanto vi piacque quando lo
vedeste. Di questo libro piú mi grava la perdita che di tutti gli altri, perché mai piú non mi verrà fatto che io
abbia l'ozio di durar piú tanta fatica, e ben che io avessi l'ozio, non averò piú la copia di tanti libri quanti
alora aveva. Poi è morto il non mai a pieno lodato e degno di viver molti secoli, il dottissimo messer Aldo
Manuzio, col cui mezzo non si stampava libro ne la Magna, in Francia e in Italia che io subito non l'avessi. Sì
che io sono fuor di speranza di mai piú metterlo insieme. Ora avendo io ricuperati alcuni fragmenti così de
le mie rime come de le novelle, mi son messo a trascrivere esse novelle ed anco, – secondo che di nuovo
alcuna n'intendo, – scriver e come a le mani mi vengono a metterle insieme, non mi curando dar loro
ordine alcuno. Onde avendone alquante scritte che sono state da molti lette, m'è stato detto che in due
cose sono biasimate. Dicono per la prima che non avendo io stile non mi deveva metter a far questa fatica.
Io rispondo loro che dicono il vero che io non ho stile, e lo conosco pur troppo. E per questo non faccio
profession di prosatore. Ché se solamente quelli devessero scrivere che hanno buon stile, io porto ferma
openione che molto pochi scrittori averemmo. Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che scritta
fosse ne la piú rozza e zotica lingua che si sia, sempre diletterá il suo lettore. E queste mie novelle,
s'ingannato non sono da chi le recita, non sono favole ma vere istorie. Dicono poi che non sono oneste*. In
questo io son con loro, se sanamente intenderanno questa onestá. Io non nego che non ce ne siano alcune
che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubio confesso che sono disonestissime, perciò che
se io scrivo ch'una vergine compiaccia del suo corpo a l'amante, io non posso se non dire che il caso sia
disonestissimo. Medesimamente se la moglie concede il suo corpo ad altri che al marito facendolo duca di
Cornovaglia*, chi presumerá dire che ella non sia disonesta? Taccio di quelle che con fratelli, cognati, cugini
ed altri del proprio sangue si meschiano. Né peccano meno gli uomini de le donne. Ché se l'uomo lasciata la
propria moglie morir di freddo sola nel letto, va adulterando le mogli altrui, chi sará che nomi costui
onesto? Egli sará pur chiamato adultero, e gli adulteri per la legge Giulia deveno esser puniti. Ed in effetto io
credo che non si trova nessuno di sana mente che non biasimi gli incesti, i ladronecci, i micidiali ed altri vizii.
Confesso io adunque molte de le mie novelle contener di questi e simili enormi e vituperosi peccati,
secondo che gli uomini e le donne gli commettono; ma non confesso giá che io meriti d'esser biasimato.
Biasimar si deveno e mostrar col dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive. Le novelle
che da me scritte sono e che si scriveranno, sono e saranno scritte de la maniera che i narratori l'hanno
raccontate. Affermo bene averle scritte e volerne de l'altre scrivere piú modestamente che sia possibile,
con parole oneste e non sporche né da far arrossire chi le sente o legge. Affermo anco che non si troverá
che 'l vizio si lodi né che i buoni costumi e la vertú si condannino, anzi tutte le cose mal fatte sono biasimate
e l'opere vertuose si commendano e si lodano. E perché avendone alcuna volta parlato insieme, ho trovato
che voi sète de la mia openione, io lascerò dire ciò che si vorranno questi cosí scropolosi che forse altra
intenzione hanno di quella che ne le parole mostrano, sovenendomi di quello che una volta disse il
piacevole e faceto Proto da Lucca al signor Prospero Colonna. Egli diceva che lo scriver le cose mal fatte non

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è male mentre non si lodino, e che ne la Sacra Scrittura sono adulterii descritti, incesti ed omicidii, come
chiaramente si sa. Ora avendone nuovamente scritta una che narrò a una bella compagnia il nostro Pandino
da Pandino, che è di quelle che muoveno lo stomaco a questi critici, ve la mando e sotto il nome vostro
voglio che sia letta, perché essendo voi, come sète, uomo di giudizio, non de lo scrittore vi scandalezzarete
ma di chi averá le sconcie e disoneste cose operato, come il dever ricerca. State sano.

Parafrasi
Come già sapete, sono già alcuni anni che scrivo le mie novelle a seconda di quando mi venivano narrate
dagli amici o per altra via giungevano alle mie mani; ed avendone già scritte molte, fui mio malgrado
forzato ad abbandonare Milano per la ragione che vi ho già detto e a vagare/peregrinare in giro per l’Italia.
Una volta tornato a Milano, scoprì con mio grandissimo dispiacere che i soldati spagnoli avevano
sconficcato (?)alcuni miei cofani/bauli, pensando forse di trovarvi dentro un gran tesoro; ma vedendo che
altro non c’era che libri, ne hanno portati via una buona parte e lasciarono i forzieri aperti, di modo che,
oltre ai libri stampati mi furono rubati anche molti miei scritti, tanto mie composizioni come belle
invenzioni della nostra epoca che io avevo raccolto quando ero a Roma, a Napoli ed in altri vari luoghi. E fra
le altre cose che mi rubarono la maggior parte delle mie rime/composizioni poetiche ed alcune novelle
insieme al mio grande volume di vocaboli latini, da me raccolti da tutti i grandi autori che mi erano passati
fra le mani/avevo incontrato nelle mie letture, che tanto vi piacque quando lo vedeste. Della perdita di
questo libro mi dispiaccio più che di tutti gli altri perché non mi capiterà mai più che io abbia il tempo (ozio)
a disposizione di perseverare in tanta fatica, e anche se io avessi del tempo libero, non avrò più
l’abbondanza (copia) di tanti libri come avevo allora. Poi è morto il mai sufficientemente lodato e degno di
vivere molti secoli, il dottissimo signore Aldo Manuzio, con il cui mezzo non si stampava libro nella Magna,
in Francia o in Italia che io non avessi subito. Dunque non ho speranza di poterlo mai più rimettere insieme.
Ora avendo io recuperato alcuni frammenti sia delle rime sia delle novelle, mi sono messo a trascrivere
queste novelle ed anche, - secondo che me sento di nuove, - scrivere senza ordine/come mi vengono alle
mani, senza curarmi di dare loro alcun ordine. Per cui avendone scritte molte che sono state lette da molti,
mi è stato detto che su due questioni sono criticate. Dicono in primo luogo che non avendo io stile non mi
dovevo disturbare di scrivere/prendere questa fatica. Io rispondo che loro dicono la verità, che io non ho
stile e lo so purtroppo. E per questo non faccio il scrittore/prosatore di professione. Se dovessero scrivere
solamente quelli che hanno buon stile, sono fermamente convinto che avremmo molti pochi scrittori. Ma
per quel che mi riguarda dico che qualsiasi storia anche se scritta nella lingua più rozza e
maleducata/incolta che ci sia, sempre divertirà i suoi lettori. E queste mie novelle se io non sono ingannato
da chi me le ha raccontate non sono favole ma vere storie. Dicono poi che non sono decenti (oneste). In
questo io sono con loro se vorranno considerare onestamente che cosa sia veramente questa decenza. Io
non nego che ce ne siano alcune che non solo non sono decenti, ma dico e senza dubbio confesso che sono
molto indecenti, perché se io scrivo di una vergine compiace il suo amante col suo corpo, io non posso dire
null’altro che il fatto sia molto indecente. Allo stesso modo se la moglie concede il proprio corpo ad altri che
al marito facendolo duca di Cornovaglia, chi oserà dire che ella non sia indecente? Per non parlare di quelli
che con fratelli, cognati, cugini ed altri del proprio sangue si uniscono/mischiano. Non peccano meno gli
uomini delle donne. Poiché se l’uomo lascia la propria moglie a morire di freddo sola nel letto e va
adulterando le mogli altrui, chi sarà a chiamare costui onesto/decente? Egli sarà chiamato adultero e gli
adulteri per la lex Iulia (una legge romana) devono essere puniti. Ed effettivamente io credo che sia
impossibile trovare qualcuno sano di mente che non critichi (biasimi) gli incesti, i furti, gli omicidi ed altri
peccati (vizi). Confesso dunque che molte delle mie novelle effettivamente contengono peccati simili,
enormi e degni di essere biasimati (vituperosi) nel modo in cui gli uomini e le donne commettono questi
peccati, ma io non ammetto che meriti di essere criticato. Criticati e additati/infamati devono essere coloro
che commettono questi errori non chi li scrive. Le novelle da me scritte e che scriverò sono state scritte nel
modo in cui i narratori me le hanno raccontate. Affermo con fermezza di averle scritte e volerne scrivere
altre nel modo più umile che sia possibile, con parole decenti e non sporche né in grado di far arrossire chi
le senta o le legga. Asserisco inoltre che non si troverà la lode del vizio né che buoni costumi o virtù vi siano
condannati, anzi tutte le cose sbagliate (mal fatte) sono criticate e le opere virtuose si encomiano e si
lodano. E poiché avendone parlate alcune volte insieme, ho scoperto che voi siete della mia stessa
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opinione, io lascerò dire a questi che sono così scrupolosi che forse hanno altre intenzioni da quelle che
mostrano con le parole, ricordandomi di quello che una volta disse il piacevole e arguto Proto da Lucca al
signor Prospero Colonna. Lui diceva che lo scrivere di cose mal fatte/peccati non fosse male fintanto che
non si lodavano, e che nella Sacra Scrittura si descrivono adulteri, incesti ed omicidi come è ben noto.
Avendone appena scritta una che narrò il nostro Pandino da Pandino ad una bella compagnia, che è di
quelle che infastidiscono questi critici, ve la mando e sotto il vostro nome voglio che sia letta, perché
essendo voi, come siete, uomo di giudizio, non vi scandalizzerete dello scrittore ma di chi avrà commesso
opere sconcie e indecenti come il dovere ricerca. State sano.

*oneste: all’epoca aveva un significato molto più forte di oggi, voleva dire ‘decenza’.
*fare duca di Cornovaglia: espressione usata per indicare il ‘mettere le corna’, ma detto con un’espressione
più elegante. Come anche l’espressione ‘andare a Corneto’ sempre usata da Bandello per indicare lo stesso
concetto. Sono perifrasi usate per evitare termini troppo sboccati.

NOVELLA XI

Una donna si trova in un tempo aver tre innamorati


in casa e venendo il marito quello mirabilmente beffa.

Francesco Sforza*, secondo di questo nome duca di Milano, dopo la pace e convenzione fatta a Bologna
con Carlo quinto imperadore, essendo ritornato pacifico possessore di quel ducato, la maggior parte dei
gentiluomini di Milano e del paese quivi intorno, perché le passate guerre avevano lor disfatto le
possessioni, ne le quali era di lavoratori, massari, buoi ed altri animali per la cultura de le terre carestia
estrema, cercava gente che volesse pigliar le possessioni loro ad affitto, e con picciolo pagamento le
affittavano; onde molti ne prendevano e massimamente dei forestieri, con ciò sia cosa che ne traevano
grosso profitto. Tra diverse nazioni* che vennero a Milano per prender degli affitti, molti bresciani, affittate
le case loro e le possessioni ad altri, andavano a Milano e nei luoghi circonvicini, e attesero a prender
diversi affitti e far i fatti loro. Di questi ne conosco io piú di duo paia che vi si son fatti molto ricchi, e tale ne
so io che su un affitto avanzò oltra tutte le spese mille scudi d'oro di guadagno in meno di dui anni. Ora
avvenne che un bresciano, uomo di poca levatura ma che si pensa esser Salomone, avendo imborsato sotto
l'ombra di certo signore a cui serviva su le guerre qualche centinaia di ducati, entrò in umore di voler
arricchire. Egli non aveva cosa né bene alcuno stabile in questo mondo e si trovava con moglie e figliuoli a
le spalle, e con il salario che aveva dal padrone e facendo trafficar i suoi danari poteva assai scarsamente
vivere. Ma entratogli in capo questo ghiribizzo* di prender un grande affitto non essendo mai piú stato in
cosí fatti maneggi, s'accordò con i signori d'una grandissima possessione che è vicina ad Adda, non molto
lontana da casa mia, e quivi condusse la moglie e i figliuoli. La possessione era miseramente rovinata e
guasta, non v'essendo né lavoranti né bestie, che la guerra e la pestilenza avevano morti*, presi e cacciati.
Quivi il bresciano attese largamente a spender quella somma di danari che si trovava, facendo quelle
riparazioni che piú gli parevano necessarie. E certamente se egli avesse avuto duo mila scudi di contanti da
far ciò che a la possessione era bisogno, egli di modo l'averebbe concia che in fine de l'affitto non
solamente averebbe cavati tutti i suoi danari, ma anco si averebbe imborsato una gran somma di ducati,
perché la possessione è molto buona se vi s'attende e grande, e il fieno che fa per esser copiosa d'acque gli
averebbe pagato il fitto. Onde il meschino per voler far il grande e volar senz'ale, non avendo ben misurato
le sue forze, in meno di dui anni, avendo l'affitto per sette*, si ritrovò con le mani piene di mosche e fu in
periglio se non se ne fuggiva di perder la vita. Ma lasciamo questo conto, perché io non mi son messo a
dirvi di lui per narrar la fine de l'affitto, che fu che vi perdette tutti i suoi danari e restò anco debitore di
buona somma ai padroni de la possessione; ma cominciai a parlare per narrar una piacevol e ridicola
novella che a sua moglie avvenne. Egli aveva a Vinegia presa questa sua moglie fuor del chiazzo*, essendosi
di quella innamorato, la quale per un marchetto la volta dava da beccar a chi ne voleva*. Ella era assai
appariscente, con un viso molto lieto e proprio da donna allevata tra meretrici. Era ella fin da fanciulla
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avvezza molto liberale a compiacer del corpo suo a chiunque la ricercava, onde non volendo in quel luogo
starsi con le mani a cintola, trovò in breve chi benissimo conobbe la voluntá sua e che cominciò a scoterle
stranamente il pelliccione. E questo fu un dei servidori dei signori del luogo, il quale, sí come avviene,
dicendo ciò che faceva con lei ad uno dei padroni, giovine e volontaroso, gliene fece venir appetito. Il
giovine non diede indugio al fatto, ma trovatola tutta sola dentro a l'orto che raccoglieva erbe per cena, se
l'accostò e dopo averla salutata e dettole diece* parole amorose, la richiese apertamente d'amore. La
donna anzi cattiva femina che a tutti che la ricercavano diceva di sí, non volse al padrone dir di no, ma tutta
ridente se gli offerse sempre pronta a fargli piacere ogni volta che la comoditá ci fosse. E cosí molto
volentieri si recò, trovata l'oportunitá, a trastullarsi con quello, e piú e piú volte a quello si sottomise, e si
riputava un gran favore che uno dei padroni seco si giacesse. Ella era ardita e baldanzosa molto, e poco
temeva il marito, veggendolo che non era buono se non di dir parole spolverizzate e mostrar il grande e il
ben agiato e dir male di qualunque persona gli veniva in bocca, e poi nel letto faceva piú del dormiglione
che de l'uomo, ed ella l'averebbe voluto vigilante e di duro nerbo. Avvenne che il padrone del luogo che
seco si giaceva molto spesso, si partí e stette fuori alcuni mesi; il che piacque a certi compagni che servidori
di casa erano, i quali per riverenza del padrone non ardivano trescar* con la donna. Ma come egli fu
partito, uno di loro chiamato «il lodigiano», giovine bruno e molto gagliardo, fece di modo che con la donna
si domesticò ed amorosamente la godeva. Medesimamente un altro servidore milanese divenne anco egli
in poco tempo di quella possessore e con lei di modo s'accordò che l'altro punto non se n'avvide. Ed ancor
che di lei non so che si bucinasse, ella a cui piaceva troppo menar le calcole, punto non si turbò, pur che
l'orto suo fosse ben innacquato, ed ora il milanese ora il lodigiano, secondo che l'agio v'era, a dosso si
tirava. E dandosi costoro il miglior tempo del mondo con lei, avvenne che un prete de la contrada a cui ella
piaceva, cominciò anco egli a domesticarsi seco e prender il possesso de la donna. Era il prete di pel rosso,
giovine e nei servigi de le femine gagliardo, e molto a la donna piaceva; di modo che ad ogni ora ci era chi
lavorava. E perché tutti erano del bresciano benvoglienti e conoscenti, praticavano domesticamente per
casa, e tanto piú che i dui servidori albergavano ne l'istesso palazzo ove albergava la donna. Andava spesso
il bresciano a Milano per suoi affari, il che dava comoditá agli adulteri di far i fatti loro. Un dí montò a
cavallo esso bresciano con un suo fratello, e l'ora era molto tarda. La moglie gli chiese ove andava, a la
quale egli disse: – Moglie, a me conviene esser domatina a Milano; per questo cavalcaremo tutta notte. –
Or sia con Dio, – disse ella. Venne voglia a la donna di giacersi quella notte col prete, perché era gagliardo
lavoratore, e l'invitò a cena ed al letto, e per meglio cenare ella ordinò una buona torta. Aveva quella
matina dato da desinare il bresciano a certi soldati suoi conoscenti che erano quindi passati, e per mostrarsi
ben onorevole aveva messo su la tavola un gran tapeto dei signori di casa e fatto da desinare molto bene,
onde era avanzata roba assai. Come fu sera ella diede a buon'ora cena al lavoratore e figliuoli, e sbrattatasi
da tutti attese il prete che a l'ora debita venne, e per meglio porsi in appetito, si dispose correr con la donna
due o tre miglia e scaricar lo stomaco innanzi cena. Ma a pena aveva egli corso un buon miglio che il
milanese arrivò a la porta e forte picchiando disse chi era. Ella alora fatto entrar il prete ne la cantina del
vino, lo fece appiattar dietro una botte, e andando ad aprir al milanese gli disse che fosse il ben venuto. – E
voi la ben trovata, anima mia, – rispose egli –. Serrato poi l'uscio cominciò suso una panca con lei il
milanese a trastullarsi, ed avendo il corso suo compíto, eccoti che il lodigiano diede di piedi ne l'uscio, che
era venuto per parlar al marito de la donna. Il milanese che non voleva dal lodigiano esser visto, disse: –
Oimè, come faremo? – Noi la faremo bene, – disse la donna, e lo fece nasconder dentro il luoco del
necessario che in camera rispondeva. Poi aprí al lodigiano, il quale subito domandò che era del marito. – A
Milano se n'è egli ito, – soggiunse la donna. – Adunque sète voi sola? – rispose egli. – E come sono io sola, –
diss'ella, – se voi sète meco? – Poi che vostro marito non ci è – disse il lodigiano, – io starò una pezza a
diportarmi con voi e non perderò in tutto i passi, ché forse non averò bella comoditá un'altra volta fin a
molti dí come ora m'è data. – Ed entrato in ballo, con lei fece una danza. La qual fornita, sentirono cavalli
nel cortile. Ed ecco il bresciano che indietro era tornato, il quale cominciò a chiamar la moglie. La donna
sentito il marito, disse: – Oimè, io son morta. Ecco il mio marito, che Dio lo faccia tristo, che è tornato, e
non so come né so ciò che si voglia dire. – Ma pur volendo celar il lodigiano e non avendo accorgimento di
mandarlo o di farlo nasconder altrove, lo fece ricoverare sotto il tapeto de la tavola, che tanto largo era che
d'ogni banda toccava terra. Ora aiutata da subito conseglio andò ad aprir al marito e gli disse: – Voi siate il
ben tornato; e che vuol dir cotesto? Almeno fosse il ritorno vostro stato di mezz'ora prima, perché

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Morgante è corso fin qui dietro al nostro prete con una spada in mano, e io non so ove il prete sia.
Morgante perciò m'ebbe tanto rispetto che non gli diede. Ma sète venuto a tempo di cena e ci è una buona
torta. – Or bene, – disse il bresciano, – egli mi rincresce del sere che non vorrei che avesse male, e tu lo
devevi ritener qui ché non s'incontrasse in quel pazzerone. Ma sai che è? Manda la fante a metter a letto
mio fratello che è cascato in Adda, e penso abbia un poco di febre e non vo' che mangi questa sera. – Sia
con Dio, – disse la donna; e data una voce a la fante che ad imitazione di madonna si dava buon tempo
quando ci era alcuno che seco giacesse, le commise che conducesse il cognato a letto. In questo avendo
voglia il bresciano di scaricar la vesica, se n'andò diritto al destro ove il milanese era nascoso, il quale
sentendo aprir l'uscio e udita la voce del marito de la donna, non sapeva che farsi; e tuttavia stette cheto.
Egli era buio ed il bresciano fece il suo bisogno e lavò il volto al milanese d'altro che d'acqua rosata, ma non
s'avvide che persona quivi fosse ascosa. Dapoi domandò la moglie perché non accendeva fuoco in camera.
– Io son stata in cucina, disse ella, – e pur mò quando arrivaste io era partita dal fuoco e venuta qui a far
non so che; ma io subito l'allumerò. – E pigliata la lucerna che ardeva e posto de le legne sul focolare,
facendo vista d'accendere il fuoco ammorzò la lucerna a sommo studio, volendo dar fine a quanto l'era
caduto ne l'animo. Il marito alora entrato in còlera, volse dar d'un piede a la moglie e diede nel tapeto de la
tavola e nei fianchi del lodigiano, il quale fu vicino a gridare e manifestarsi; pur si ritenne. E pensando il
bresciano che fusse uno dei mastini de' massari, lo sgridò; e la donna altresí che era da l'altra parte de la
tavola, diede de le mani sotto il tapeto e preso il lodigiano gli disse forte, mostrando con i piedi di
percoterlo; – Tira fuora, tira fuora, mastinaccio. – Il lodigiano comprendendo l'intenzione de la donna,
carpone, essendo nel luogo buio che niente vi si poteva vedere, se n'uscí fuori che di lui il bresciano punto
non s'accorse, e si fermò in sala. Il marito bestemmiando e garrendo la moglie e minacciandola di darle de
le busse, teneva detto che allumasse il fuoco. Ella si levò di camera e serrando tosto l'uscio, chiavò dentro il
marito. Il lodigiano recatesela in braccio, in capo d'una panca diede un pasto al suo cavallo*. Gridava il
marito che aprisse, e mostrando ella aver di lui paura, attendeva pure a pascer il cavallo* del lodigiano. Né
contenta di dargli una provenda, volle che due ne beccasse, di modo che il buon compagno in poco d'ora si
trovò aver messo il diavolo né l'inferno tre volte. Fatto questo, gli disse la donna: – Voi ve n'uscirete per la
porta de la strada ed indi a poco tornate con scusa di parlar a mio marito, e cenaremo insieme. – Il
bresciano pieno di mal talento, tuttavia gridava minacciando la moglie, e diceva ella non volergli aprire se
non le giurava di non batterla. Egli che era tutto veleno e còlera contra la moglie, salito suso una scaletta
che andava di sopra donde poi si scendeva nel cortile, andava ad alta voce gridando: – Al corpo del giusto
Dio io ti coglierò. – Ella che era certa l'uscio che dava adito nel cortile esser chiavato, come sentí il marito
esser in solaro, aperse l'uscio de la camera ed entrata dentro, chiavò quello per cui il bestione era ito di
sopra, di modo che ser capocchio si trovò confinato lá su e non poteva entrar nel cortile né tornar in
camera. Ora egli sarebbe tempo perduto a voler dir le braverie del bresciano, il quale la buona moglie
lasciando bravare e maledir quanto voleva, cavò il milanese di prigione ed ancor che fosse tutto innacquato
e ben molle d'urina, se lo tolse a dosso e cominciò a macinare. Macinato ch'ebbe il milanese quanto volle,
la donna gli disse: – Tu n'andrai a casa per la via de l'orto e ti caverai questo saione*, perché tu puti
fieramente. Poi fa che torni a cenar con noi, ché io voglio che godiamo di brigata la buona torta che ho fatto
fare e molte altre vivande che ci sono, a la barba di quel castronaccio* di mio marito che fa professione di
saper governar col suo senno tutta Italia. – Era a pena partito il milanese, quando il lodigiano entrò nel
cortile e disse ad alta voce chiamando il bresciano: – Non ho udito dire che voi sète tornato? – Egli che era
in palco rispose: – Tu sia il ben venuto: io sono qui a noverar le stelle e divenir astrologo. – In questo la
donna venne ne la corte e disse: – Voi sète venuto a tempo, lodigiano. – E che vuol dir questa comedia, –
disse alora il lodigiano, – che messer è in palco e voi sète qui? E' mi par proprio veder un atto di comedia. –
Io vi dirò, – rispose la donna. – Volendo io accender il fuoco essendo mio marito tornato a casa, per mala
disgrazia spensi il lume che in mano aveva, onde egli fieramente meco adiratosi mi volle battere; ma, la Dio
mercé, mi son pure finora salvata, perciò ch'io lo rinchiusi in camera, e volendo egli riuscirne per disopra a
la via del cortile, gli fermai l'uscio dietro, di modo che egli ancora è in alto e non fa se non garrirmi e
minacciarmi di darmi tante busse che mi fiaccherá l'osso del collo; onde io voglio prima che possa discender
giú, che mi perdoni e mi prometta non battermi, perché, a la croce di Dio, io non ammorzai volentieri il
lume. – Al corpo di Dio, – disse alora il bresciano, – che io te ne darò un giorno tante che tu ti ricorderai per
parecchi dí del fatto mio, e ti scarmignerò di tal modo senza pettine che una pagherá tutte. – Orsú,

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messere, – disse il lodigiano, – cotesto è picciol fallo. Io vo' che per amor mio perdoniate a madonna e che
mettiate giú questa vostra còlera e piú non ne sia altro. Orsú, fate, madonna, recare del lume, ché io aprirò
a messere. – Arrivò in questo cantando il milanese, e sentendo ciò che dicevano, disse: – Olá, che ora è
questa da far romore? Al corpo del vermocan* che saria meglio bever un tratto e andar a dormire. – Fra
tanto la donna andò a la cucina e fece che la fante recò del lume. Il bresciano cosí, borbottando, venne giú
ed iratamente disse: – Moglie, ringrazia Dio e costoro che ci sono venuti, altrimenti io t'insegnava scherzar
meco. Affrettati ed alluma il fuoco, ché io mi muoio di freddo, ed ordina tosto da cena. – La donna accese il
fuoco e mise la fante in faccende; e mentre distendeva la tovaglia, disse il bresciano: – Amici miei, voi
cenerete meco e mangerete de la torta. – Il milanese rispose che cenato aveva*, ma che nondimeno
piglieria dui bocconi. – Or sia con Dio, – disse il bresciano, – ché se questa pazza non mi faceva entrar in
còlera, io averei cenato e voi non avereste mangiata de la torta. Moglie, va per vino e cava del «raspato*»
de la possessione di San Pietro, ché a dirti il vero, la maggior paura che io avessi era che tu non trangugiassi
la torta senza me. – Ella facendo vista di prender animo, gli rispose: – Io lo deveva ben fare, poi che avendo
io a caso spento il lume, faceste tanto romore. – Detto questo ella andò per vino e trovò dentro il rivolto il
prete che aspettava pur uscir fuori; ma ella volle che entrasse dentro e desse ber al suo stallone*. Gli disse
poi quanto voleva che facesse. Indi tratto un grandissimo strido e lasciato il vaso in terra, se ne venne
fuggendo ove il marito era, il quale avendola sentita gridare, con i dui che seco erano andò ad incontrarla.
Ella tutta tremando disse loro che dentro il vòlto aveva visto uno e che non sapeva chi si fosse. Il bresciano
crollando il capo: – Io veggio bene, – disse, – che tu hai bevuto. – Aveva una vertú la donna oltra l'esser
puttanissima, che assai spesso s'inebriava. – Mai sí*, – rispose ella, – io ho bevuto. Andatevi voi, ché io per
me non sono per venirci. – Andarono tutti tre e trovarono il messer che faceva la gatta morta, il quale come
gli vide, disse loro: – Lodato Dio che io veggio qui tre miei amici. – E che cosa è questa? – disse il bresciano.
– Io ve lo dirò, – soggiunse il prete; – questa sera essendo partito di casa di Mondarello, qui vicino fui
assalito da non so chi, il quale sfodrata la spada mi disse: – Ahi traditore, tu sei morto! – e mi corse a dosso;
e io fuggendo me ne venni qui in casa, dove la madonna sgridò colui che mi perseguitava. Ora venendo qui
non so chi per cavar vino, io volli uscire ch'io era dietro ad una botte, ma quella donna gridando se ne fuggí,
ed a la voce io la conobbi donna. – Orsú, siate pure il ben trovato, domine*, – disse il bresciano. – Andiamo
a cena. Ma ditemi, che avete voi a far con quella bestia di Morgante, ché mia moglie mi disse che Morgante
era colui che vi venne dietro con la spada in mano? – Nulla ho io da far con Morgante, né chi mi assalí fu
egli, perciò che come sapete, Morgante è grande e grosso e per questo gli hanno messo cotal nome, e colui
che mi voleva ammazzare è picciolo, proprio de la vostra statura*. – E cosí parlando vennero di brigata a la
camera ove la cena era in ordine. Come la donna vide il domine: – Ecco, – disse ella, – che io non era
ubriaca. – Si scaldarono e poi si diede l'acqua a le mani e tutti di compagnia lietamente cenarono. La donna
ancor che molto bene fosse pasciuta di dolcitudine, nondimeno ella mangiò molto bene e bevette secondo
l'usanza sua meglio. E ser castronaccio* dopo che molte ciancie ebbe dette, ringraziò Iddio che sí bella e
buona compagnia gli aveva dato a cena. Dopo cena tutti accompagnarono il sere a la chiesa. I tre compagni
quando agio avevano, attendevano a consolar la donna, la quale seppe sí ben fare che tutti tre accordò
insieme e con loro si dava buon tempo, i quali si davano amorevolmente luoco l'un l'altro. Ella poi non
contenta di costoro, a molti anco fece copia del corpo suo, parendole che il tutto fosse niente se non star su
l'amorosa vita, e piú che poteva cangiava pasto. Né mai ser beccone* se n'accorse, o se pur se n'avide, egli
mangiò tanto zafferano che fece buono stomaco. E per quello che io ne intendo, ella fa il medesimo ora a
Verona dove sta. Pensate se ella è di quelle buone; ma non è meraviglia, perché allevata e nodrita in
chiazzo, credo io che dentro vi voglia viver e morire.

Parafrasi

Quando Francesco II Sforza, dopo la pace e l’accordo fatto a Bologna con l’Imperatore Carlo V (siamo
intorno al 1530), quando ritornò in pace possessore di quel ducato, la maggior parte dei gentiluomini di
Milano e della regione che circonda Milano cercava gente che volesse affittare le loro proprietà e le
affittavano a basso prezzo perché le guerre degli anni precedenti avevano disfatto le loro proprietà in cui
c’era mancanza (carestia) estrema di contadini, fattori, buoi ed altri animali per coltivare la terra; per cui
molti prendevano in affitto queste proprietà e soprattutto (massimamente) forestieri (rispetto a Milano e
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dintorni) col fatto che traevano grossi guadagni/profitti. Tra le diverse comunità forestiere che giunsero a
Milano per fare degli affitti molti furono i Bresciani, che affittate le case e le proprietà loro (dei Milanesi)
andarono a Milano e nei luoghi circostanti/vicini, e affittarono diverse proprietà e fecero i loro affari. Di
questi ne conosco quattro che si sono arricchiti a tale punto che su un affitto ebbero un profitto, tolte tutte
le spese, di oltre mille scudi d’oro in meno di due anni. Dunque capitò che un bresciano, uomo di poca
levatura/poco elevato intellettualmente/poco sveglio ma che pensava di essere sapiente come il re
Salomone, avendo intascato/messo nel portafoglio qualche centinaio di ducati a servizio (sotto l’ombra) di
un certo signore durante le guerre, prese la decisione/si sentì di volersi arricchire. Egli non aveva alcun
bene né mobile né immobile in questo mondo e aveva con moglie e figli sulle spalle, e con lo stipendio che
riceveva dal padrone e con gli affari che faceva coi propri soldi (facendo trafficar) riusciva a vivere assai
malamente. Ma entratogli in testa questo ghiribizzo di prendere una grande proprietà in affitto non avendo
mai avuto esperienza di questi affari, fece un contratto/si accordò con i proprietari di una grandissima
proprietà che è vicina al fiume Adda, non molto lontana da casa mia (parla Pandino da Pandino, villaggio
vicino al fiume Adda fuori Milano) e qui condusse la moglie e i figli. La proprietà era distrutta e devastata,
non vi erano né contadini né animali, poiché la guerra e la pestilenza (nel ’29) li aveva uccisi, deportati o
cacciati. Qui il bresciano spese ampiamente quella somma di denari che aveva, facendo quelle riparazioni
che gli sembravano più urgenti. E certamente se egli avesse avuto in mano duemila scudi di contanti per
fare tutto ciò di cui la proprietà aveva bisogno egli non solo l’avrebbe rimessa a posto/sistemata per cui non
solo avrebbe riavuto i soldi investiti ma avrebbe anche guadagnato una gran quantità di ducati perché la
proprietà è molto buona e grande e se la si segue con cura (s’attende) e per il fieno che fa data la sua
abbondanza d’acqua, gli avrebbe pagato l’affitto. Dunque il poveretto per voler fare il grosso/grande e
volare senz’ali, non avendo ben misurato/calcolato le sue forze in meno di due anni, avendo l’affitto molto
caro (rispetto ai suoi guadagni), si ritrovò con le mani piene di mosche e se non scappava si trovava in
pericolo di perder la vita. Ma lasciamo perdere questo discorso, perché non mi sono messo a dirvi di lui per
raccontarvi dell’affitto, che vi perdette tutti i suoi denari e restò anche in debito di una buona somma coi
padroni della possessione, ma ho iniziato a parlarne per narrare di una piacevole e ridicola/divertente che
capitò a sua moglie. Egli aveva preso questa sua moglie fuori dal chiasso/postribolo/casa di tolleranza
(chiazzo) siccome si era innamorato di lei, la quale per un marchetto (moneta di bassissimo valore di
Venezia) dava da beccare a chi ne voleva. Ella era assai appariscente, con un viso allegro e caratteristico da
donna cresciuta tra le prostitute fin da ragazza era abituata ad essere molto liberale a concedere il proprio
corpo a chiunque la cercasse, dunque non volendo restare in quel luogo con le mani in mano/senza far
nulla in poco tempo trovo chi seppe chiaramente le sue intenzioni e che incominciò a sbatterle/scuoterle in
un certo modo strano/inusuale la pelliccia. E questo era uno dei servitori dei signori del luogo, il quale, così
come avviene/capita, raccontando quello che faceva con lei ad uno dei padroni, giovane e interessato alla
questione, gliene fece venire appetito/voglia/desiderio. Il giovane non indugiò per agire ma trovatala tutta
sola nell’orto intenta a raccogliere le erbe/la verdura per la cena, le si avvicinò, e dopo averla salutata ed
averle detto dieci parole amorose (poche concise parole quasi di circostanza) le richiese esplicitamente
l’amore (ossia sesso). La donna che non era una donna cattiva/che era una donnaccia che diceva di sì a tutti
quelli che le chiedevano non volle dire di no al padrone, ma tutta allegra si offrì a lui/gli disse che era
sempre disponibile a fare ciò che gli piaceva tutte le volte che ci fosse l’opportunità. E così molto volentieri,
trovata l’opportunità/quando si poteva andò a divertirsi con quello, e più e più volte si unì a lui e
considerava un grande privilegio che uno dei padroni la frequentasse intimamente/giacesse con lei. Lei era
audace e molto spavalda, e non aveva paura del marito vedendo che non era capace se non a dire parole
prive di sostanza/consistenza e raccontare e sue grandezze (che non aveva) e la sua agiatezza e parlare
male di qualunque persona che gli venisse alla bocca/tutti, e poi nell’intimità/a letto si comportava più da
dormiglione che da uomo vero, mentre lei l’avrebbe voluto ben sveglio/vigile e di forte temperamento.
Accadde che il padrone del luogo che giaceva spesso con lei, partì e stette fuori alcuni mesi; il che piacque
molto a certi compagni (intesi come soci di una compagnia) che erano servitori di casa, i quali per rispetto
verso il padrone non osavano trescare con la donna. Ma non appena egli fu partito, uno di loro chiamato “il
lodigiano”, giovane bruno e molto prestante/gagliardo, trovò la maniera di conoscere/diventare intimo (si
domesticò) della donna e avevano degli incontri amorosi. Allo stesso modo, un altro servitore milanese
divenne anche lui in poco tempo suo amante di quella e con lei si mise d’accordo che l’altro non se ne

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accorse per nulla. E malgrado non so che cosa si dicesse in giro (bucinasse) di lei, lei a cui piaceva troppo
muovere i pedali del telaio (menare le calcole) non si turbò affatto, purché il suo giardino fosse ben
innaffiato, e ora il milanese ora il lodigiano, a seconda di come era comodo, incontrava. E mentre costoro si
divertivano tantissimo con lei, avvenne/capitò che un prete della contrada a cui ella piaceva, cominciò
anche lui a frequentarla ed a incontrarla intimamente. Il prete aveva i capelli rossi, era giovane e
robusto/prestante nel servire le donne e piaceva molto alla donna, in questo modo ad ogni ora c’era chi
lavorava con la signora. E siccome tutti conoscevano e volevano bene al bresciano, praticavano
abitualmente casa sua, tanto più che i due servitori abitavano lo stesso edificio dove abitava la donna. Il
brescaino andava spesso a Milano per i suoi affari cosa che rendeva facile agli adulteri di farsi i propri
comodi. Un giorno il bresciano montò a cavallo con un suo fratello ed era molto tardi, la moglie gli chiese
dove andava e lui rispose: “moglie oi devo essere domattina a Milano e per questo cavalcheremo di notte”
“vai con Dio” rispose questa. Alla donna enne voglia di incontrarsi quella notte con il prete, perché era ben
prestante, e l’invitò a cena e al letto/al dopocena, e per mangiare meglio ella ordinò anche una buona torta.
Quella mattina il bresciano aveva dato da mangiare a certi soldati che conosceva e che erano passati di qui
e per mostrare che li trattava con particolare rispetto, aveva messo sulla tavola un grande tappeto dei
signori di casa e inoltre aveva fatto da mangiare molto bene, per cui era avanzata molta roba. Quando fu
sera diede la cena ai servi e ai figli presto e liberatasi da loro attese il prete che giunse all’ora dovuta e per
farsi venire un bell’appetito, si mise a fare una corsa (a cavallo) con la donna per due o tre miglia e
alleggerirsi lo stomaco prima di cena. Ma appena percorso un miglio abbondante, il milanese giunse alla
porta e bussando forte disse chi era. E allora fatto entrare il prete nella cantina lo fece nascondere
(appiattar)dietro a una botte e andò ad aprire il milanese dicendogli che era il benvenuto. “e voi siate la ben
trovata, anima mia” rispose lui. Chiusa la porta il milanese cominciò a divertirsi con lei sopra una panca, ed
appena ebbe conclusa la sua corsa, ecco che il lodigiano diede delle pedate all’uscio, era venuto per parlare
al marito della donna. Il milanese che non voleva essere visto dal lodigiano, disse: “ohimè come faremo?”
“lo faremo bene” disse la donna e lo fece nascondere dentro il cesso, (luogo del necessario) che stava in
camera. Poi aprì al lodigiano il quale subito chiese dove era il marito. “è andato a Milano” disse la donna.
“Dunque siete sola?” rispose lui “e come posso essere sola” disse lei “se voi siete con me?” “Poiché vostro
marito non c’è” disse il lodigiano, “io starò un po’ a divertirmi con voi e non avrò fatto un viaggio a vuoto,
perché forse non avrò di nuovo una così bella opportunità come ho adesso per molti altri giorni/ancora per
diversi giorni. E iniziato il ballo, con lei fece una danza. Terminata la danza i due amanti sentirono il rumore
di cavalli nel cortile. Era il bresciano che era tornato indietro che cominciò a chiamare la moglie. La donna
sentito il marito, disse: “Povera me, sono morta. Ecco mio marito, che Dio lo danni (faccia tristo) che è
tornato, e non so perché né so quello che lui debba dirmi.” Malgrado volesse nascondere il lodigiano e non
riuscendo a trovare (avendo accorgimento) dove mandarlo o farlo nascondere, gli fece trovare
riparo/protezione (ricoverare) sotto il tappeto della tavola che era così largo che arrivava fin per terra da
ogni lato. Dunque soccorsa da questa immediata decisione andò ad aprire al marito e gli disse: “Siate il ben
tornato, e che cosa significa questo? Almeno potevate tornare mezz’ora prima perché Morgante è venuto
fin qua dietro rincorrendo il nostro prete con la spada in mano e adesso non so dove egli sia finito.
Morgante cedette alle mie preghiere/mi ebbe tanto rispetto che non lo infilzò. Ma siete venuto in tempo
per l’ora di cena e c’è anche una buona torta.” “Menomale!” disse il bresciano “mi dispiace di quel che è
successo al prete e non vorrei che Morgante l’avesse ucciso e tu avresti dovuto nasconderlo qui perché non
si imbattesse in quel pazzerone/quel grande matto. Ma sai cosa bisogna fare? Manda la serva (fante) a far
mettere a letto mio fratello che è caduto nell’Adda/fiume, e penso che abbia un po’ di febbre e non voglio
che mangi questa sera. “Sia con Dio” disse la donna, e chiamata la serva che imitando/come la sua
signora/padrona si divertiva quando c’era qualcuno che giacesse con lei, e le ordinò che portasse il cognato
a dormire. In questo frangente sentendo il bresciano il bisogno di andare in bagno se ne andò dritto al
cesso/latrina, dove era nascosto il milanese, il quale sentendo aprire la porta e udita la voce del marito
della donna, non sapeva che fare; e tuttavia stette in silenzio. Era tutto buio e il bresciano fece il suo
bisogno e lavò il volto al milanese di altro che acqua alle rose, ma non si accorse che vi fosse una persona
nascosta. Poi chiese alla moglie perché non aveva acceso la candela nella camera. “io son stata in cucina”
disse lei “Proprio poco fa quando arrivaste, io mi ero appena allontanata dal focolare e stavo facendo qui
non so cosa ma io subito l’accenderò.” E presa la lucerna che illuminava (ardeva, quindi dava luce) e messi

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dei pezzi di legno sul focolare, mostrando di accendere il fuoco, spense la lucerna con la massima
cautela/senza farsi vedere (a sommo studio) volendo riuscire (dar fine) nell’azione che aveva in
mente/pianificato/deciso di intraprendere. Il marito allora arrabbiato volle dare una pedata/calcio alla
moglie e la diede nel tappeto che copriva la tavola e nei fianchi del lodigiano, il quale fu sul punto di gridare
e manifestarsi/farsi scoprire; tuttavia si trattenne. E il bresciano credendo che fosse uno dei cani mastini dei
massari, lo sgridò; ed inoltre (altresì) la donna che era dall’altra parte della tavola, mise le mani sotto il
tappeto e afferrato il lodigiano gli gridò, fingendo di pigliarlo a calci: “vieni fuori! Vieni fuori mastinaccio!”. Il
lodigiano, avendo capito l’intenzione della donna, uscì fuori carponi, siccome nella stanza/il luogo era così
buio che non si poteva vedere niente, e se ne uscì fuori (da sotto il tavolo) in modo che di lui il bresciano
non si accorse per nulla, e il lodigiano si fermò in sala. Il marito bestemmiando e strillando (garrendo) alla
moglie e minacciando di picchiarla, continuava a dirle (teneva detto) che accendesse il fuoco. Ella uscì dalla
stanza e chiudendo subito la porta, chiuse a chiave dentro il marito. Il lodigiano prese in braccio la donna, e
sopra una panca le diede il suo amore (diede pasto al suo cavallo). Il marito gridava che aprisse e mentre lei
mostrava di aver paura (del marito), intratteneva anche il suo amante, il lodigiano (cavallo, nella metafora).
E non contenta di dargli una dose volle che ne avesse due, di modo che il suo buon compagno in poco
tempo si trovò ad aver messo tre volte il diavolo nell’inferno. Fatto questo la moglie disse al lodigiano: “Voi
adesso uscirete per la porta che dà sulla strada e da lì a poco tornerete con la scusa di parlare a mio marito,
e ceneremo insieme”. Il bresciano di pessimo umore/ molto adirato (pieno di mal talento) continuava a
gridare minacciando la moglie, e lei diceva che non voleva aprire a meno che lui giurasse di non picchiarla.
Egli che era tutto invelenito e incollerito contro la moglie e salito sopra una scaletta che andava al piano
superiore da dove poi si scendeva nel cortile, andava gridando ad alta voce “Io ti prenderò, per Dio”. Lei,
che era sicura che l’uscio che dava/ dava accesso al cortile fosse chiuso, come sentì che il marito era nel
solaio/piano superiore, aprì l’uscio della camera ed entrata dentro la stanza (la sala iniziale), chiuse a chiave
la porta attraverso cui quell’animale di suo marito (il bestione) era andato di sopra, di modo che signor
“testolina” si trovò confinato/imprigionato là su e non poteva né entrare nel cortile né tornare in camera.
Ora sarebbe tempo perduto/sprecato a voler raccontare tutte le minacce (braverie) che lanciava il
bresciano, che quella brava moglie lasciò minacciare e maledire quanto voleva, tolse il milanese dalla
prigione ed sebbene fosse ancora tutto inzuppato e ben fradicio (molle) di urina; lo prese e iniziò a
fornicare (macinare). Dopo che il milanese ebbe fornicato quanto voleva la moglie gli disse: “Tu adesso
andrai a casa attraverso la strada dell’orto/giardino e ti toglierai questo saione, perché puzzi terribilmente.
Poi fa in modo di ritornare a cenare con noi, perché io voglio che ci godiamo tutti quanti insieme/ di brigata
la buona torta che ho fatto fare e molte altre vivande che ci sono, alla faccia/in barba a quella
bestiaccia/quell’animale di mio marito (castronaccio) che parla come se con il suo giudizio/senno fosse
capace di governare tutta Italia”. Era appena partito il milanese, quando il lodigiano entrò nel cortile e disse
ad alta voce chiamando il bresciano: “Ho forse sentito dire che siete tornato?” Egli che era sul
balcone/ballatoio rispose: “tu sia il benvenuto: io sono qui a contare le stelle, per divenire astrologo”. In
quel momento giunse in cortile e disse: “Lodigiano voi siete giunto in tempo” “ e cosa vuol dire questa
commedia” disse allora il lodigiano “che lui è sul balcone e voi siete qui, mi par proprio di vedere una
rappresentazione di commedia” “Io vi dirò” rispose la donna “che io volevo accendere la luce/il fuoco
quando mio marito è ritornato a casa, ma purtroppo/per disgrazia/per sbaglio spensi la luce che avevo in
mano, così arrabbiatosi ferocemente contro di me voleva picchiarmi, ma per pietà di Dio fino a questo
momento sono riuscita a salvarmi perché l’ho chiuso a chiave in camera e volendo uscire da sopra/dal
solaio e andare in cortile, gli chiusi l’uscio dietro, di modo che egli ancora è la su e non fa altro che urlarmi e
minacciarmi di darmi tante botte che mi romperà l’osso del collo; dunque io voglio che mi perdoni e mi
prometta di non picchiarmi prima di farlo scendere giù, poiché giuro sulla croce di Dio, io non ho spento la
lucerna volontariamente. “per Dio” disse allora il bresciano “io un giorno ti darò così tante botte che tu ti
ricorderai per molti giorni e ti spettinerò (scarmignerò) senza il pettine in un modo tale che una volta
basterà a fartele pagare tutte.” “Suvvia messere” disse il lodigiano “questo è un errore da poco. Io voglio
che per amor mio/fatelo per me perdoniate la madonna/vostra moglie e che deponiate la vostra
collera/questa vostra ira e che la questione sia cosa chiusa/non si vada oltre nella questione. Dunque
madonna fate portare della luce perché io aprirò a vostro marito”. Arrivò in quel momento il milanese
cantando e sentendo quello che dicevano, e disse: “è ora di fare tanto rumore? Per il corpo del verme

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solitario! Non sarebbe meglio bere per un bel po’ e poi andare a dormire?” Nel frattempo la donna andò in
cucina e ordinò che la serva portasse il lume. Così il bresciano borbottando, venne giù e disse con rabbia:
“Moglie, ringrazia Dio e costoro che sono venuti qua, altrimenti ti avrei insegnato cosa vuol dire scherzare
con me. Affrettati/sbrigati ad accendere/attizzare il fuoco perché muoio di freddo, e prepara subito la
cena”. La donna accese il fuoco e mise a preparare la serva, e mentre stendeva la tovaglia, il bresciano
disse: “Amici miei, voi cenerete con me e mangerete la torta”. Il milanese rispose che aveva cenato, ma
avrebbe comunque mangiato due bocconi.” “che sia come Dio vuole” disse il bresciano “che se questa
pazza non mi faceva arrabbiare, io avrei cenato e voi non avreste mangiato la torta”. Moglie vai a prendere
il vino e spilla (cava) del raspato/fondo di San Pietro, perché a dire il vero, la maggiore paura che io avessi
(mentre ero richiuso) era che tu non mangiassi la torta senza di me”. Lei facendo finta (facendo vista) di
prendere coraggio (animo) per parlare, gli rispose: “E era giusto che io lo facessi (mangiare la torta senza di
lui) visto che avete fatto tanto rumore solo perché ho spento il lume” detto questo, ella andò a prendere il
vino e trovò in cantina il prete che aspettava di uscire; ma ella volle che invece entrasse e che abbeverasse
il suo cavallo. Gli disse poi cosa voleva che facesse/il piano che aveva pensato. Quindi dopo aver fatto un
gradissimo urlo e avendo lanciato il vaso a terra, corse via dalla cantina verso il marito, il quale avendola
sentita gridare, con i due che erano con lui le andavano incontro. Ella tutta tremando disse loro che dentro
la cantina aveva visto uno/una persona e che non sapeva chi fosse. Il bresciano scuotendo la testa disse: “io
vedo bene che tu hai bevuto.” Aveva la donna la virtù, oltre che di essere molto puttana, di ubriacarsi
spesso.” “Mai e poi mai” rispose lei “ho bevuto. Andate voi che io non sono nello stato d’animo di venirci.”
Quindi andarono tutti e tre e trovarono il prete che faceva la “commedia”/messa in scena (gatta morta,
ossia faceva lo spaventato) il quale disse loro come li vide: “Grazie a Dio che qui vedo tre miei amici” “e
cos’è questa cosa?” chiese il bresciano. “io vi dirò” disse il prete “che stasera ero partito da casa da
Mondarello e qui vicino fui aggredito da uno sconosciuto, che sfoderata la spada mi disse: “Ah traditore tu
sei morto” e mi corse addosso e io scappando venni a nascondermi qui in casa dove la madonna/signora
gridò contro colui che mi inseguiva. Ora venendo qui non so chi per spillar e del vino, io volli uscire perché
ero dietro ad una botte, ma la donna che era venuta fuggi gridando e capì/seppi che era una donna dalla
voce. “Dunque, siate il benvenuto, domine” disse il bresciano “Andiamo a cena. Ma ditemi cosa avete voi a
che fare con quell’animale di Morgante? Poiché mia moglie mi disse che Morgante era colui che vi assaliva
con la spada in mano?”. “Nulla ho a che vedere con Morgante, infatti non era lui ad assalirmi, dato che
come sapete, Morgante è grande e grosso e per questo gli hanno dato questo nome, colui che mi voleva
uccidere è piccolo, proprio della vostra statura”. E così parlando il gruppo dei quattro giunse alla stanza
dove la cena era preparata e come la donna vide il prete disse: “Ecco! Vedi che non ero ubriaca”. Si
scaldarono e poi si lavarono le mani e tutti cenarono lietamente in compagnia. La donna, malgrado fosse
stata ben satolla/piena di soavità (atti sessuali) non di meno mangiò di gusto e bevette anche di più del suo
solito. E ser castronaccio (il marito) dopo aver detto molte chiacchiere, ringraziò il Signore/Dio che gli aveva
dato a cena una compagnia così bella e buona. Dopo cena tutti accompagnarono il prete alla chiesa. I tre
compagni quando erano comodi, si prendevano cura/si applicavano a consolare la donna, la quale fu così
abile da metterli d’accordo tutti e tre insieme e con loro trascorreva ore liete (buon tempo), i quali si
davano amorevolmente/con accordo perfetto il turno l’un l’altro. Ella poi non contenta di questi, a molti
altri ancora diede abbondanza (copia) del proprio corpo sembrandole che niente fosse importante se non
seguire la vita amorosa, e cambiava gusto/pasto (amanti) più che poteva. Né mai ser Beccone se ne
accorse, o se mai se ne accorse, ne mandò giù talmente tante che si fece lo stomaco duro/si dovette
rassegnare. E da quel che so lei fa lo stesso ora a Verona dove abita. Ditemi un po’ voi se ella è una brava
donna, ma non c’è da meravigliarsi perché allevata e nutrita in un bordello, credo io che lei vi voglia vivere
e morire dentro.

*Francesco Sforza: non è lo stesso della novella di Porcellio Pandoni, ma un suo discendente.
*nazioni: indicava all’epoca la comunità straniera all’interno di una città o una zona/area geografica. Nelle
grandi città storiche italiane come Roma troviamo ad esempio la Chiesa di San Luigi dei Francesi, chiesa
dove la ‘nazione’ francese a Roma ossia la comunità francese a Roma usava riunirsi. Vale ‘comunità
forestiere’.

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*Ghiribizzo: viene da un termine o tedesco o olandese ‘Kravitz’ ed era un termine con cui si indicavano sia il
granchio che il grillo. A noi interessa il secondo, c’è nell’immaginario comune l’idea del grillo che fa venire le
idee (vedi in epoca più tarda pinocchio) spesso queste idee sono capricci. Vedi l’espressione ‘avere grilli per
la testa’.
*morti: aveva valore attivo all’epoca, valeva uccidere.
*per sette: modo di dire che vale ‘molto caro’
*chiazzo: vale ‘chiasso’ che all’epoca significava vicolo ma anche postribolo/bordello che erano
generalmente siti appunti in stretti e piccoli vicoli e in zone della città un po’ più riparate. Erano luoghi di
svago generale in cui si beveva, mangiava, suonava, cantava, anche nelle ore notturne, da cui l’accezione
moderna di forte rumore caotico/confusione.
*dar da beccare a chi ne voleva: solita perifrasi elegante per dire che faceva un sacco di bocchini a
chiunque pagasse una cifra irrisoria (marchetto). Infatti notiamo beccare che deriva da becco, e si riferisce
all’atto.
*liberale: per secoli ebbe un elevato significato una generosità sconfinata, senza condizioni, in questo
contesto indica la disinvoltura della donna nel concedersi.
*diece: all’epoca il numero concordava col nome cui si riferiva per genere e numero
*tresca: aveva allora come oggi il significato metaforico di relazione breve e di natura prevalentemente
sessuale. Il nome deriva dal nome di una danza la ‘tresca’ o il ‘trescone’ che consistevano nello scambiarsi
frequente di partner femminili e maschili durante la danza
*pascer il cavallo: metafora del nutrire il cavallo indica un atto sessuale. Rappresenta benissimo la
sfrontatezza ed il carattere baldanzoso della signora, che si riconferma.
*saione: all’epoca si indicava con ‘saio’ in generale la veste pesante, saione ancora più pesante dunque. Il
nome deriva dalla fibra vegetale con cui vengono prodotti il saio appunto.
*al corpo del vermocan: il vermocan è il verme solitario, siamo davanti ad un’imprecazione. Questo
animale veniva spesso usato nelle espressioni gergali milanesi per esempio si diceva ‘che ti venga il
vermocan’ per mandare a quel paese.
* Il milanese rispose che cenato aveva: fa lo spiritoso, riprende la metafora del cavallo che viene nutrito,
ha già “mangiato” ma non la cena, la moglie.
*raspato: vino fatto con la parte di scarto della pigiatura, estremamente poco nobile, era un prodotto
consumato dai più poveri, si sottolinea dunque la condizione economica in crisi in cui vessano.
* ella volle che entrasse dentro e desse ber al suo stallone: ancora una volta la metafora del cavallo indica
l’atto sessuale fra la moglie e il padre. Notiamo che ella è incontentabile.
* Mai sí: espressione usata anche da Boccaccio, composta da due parole in antitesi ‘si che no’ potremmo
tradurlo, in senso è “ma quando mai?” “mai e poi mai è successo”
*domine: termine all’epoca usato per indicare ‘signore’ ma riferito soltanto agli uomini di chiesa. Da questo
termine deriva ‘don’.
*vostra statura: il padre da dell’omuncolo al bresciano, oltre al danno la beffa.
*castronaccio: montone dotato di corna, non a caso, e castrato, anche questo non a caso, a cui il marito
viene paragonato.
*beccone: il ‘caprone’ altro animale maschio, dalle corna importanti, non a caso.

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