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Filosofia della scienza. Quando si chiede ad uno studente “cos’è la scienza?

” inizialmente le
discipline nominate sono fisica, chimica, astrologia, etc.. scienze che hanno tra loro in comune il
fatto di avvalersi di un metodo sperimentale; Per noi ciò che vale scientificamente è ciò che è stato
sottoposto a controllo. Tuttavia la matematica anche se non si avvale di un metodo sperimentale è
considerata una scienza, perché la matematica si avvale di un metodo deduttivo, dimostrativo. La
medicina è una scienza, come l’infermieristica e l’ostetricia. Affermazione coraggiosa dato che lo
statuto epistemologico di tali discipline non è così scontato perché colui il quale si prende cura di
una persona si avvale di conoscenze supportate dal metodo sperimentale, ma anche di altre
conoscenze che da tale metodo non sono supportate. Quando parliamo di medicina se abbiamo a
che fare con una scienza, una techne, che cos’è la medicina? (domanda di filosofia della scienza). Se
qualcuno poi ha scritto tra le scienze la storia, si è riportato al dibattito dell’’800 che cercava di
distinguere tra metodi scientifici diversi, quelli propri delle scienze della natura – i quali cercano di
spiegare un fenomeno riconducendolo ad una legge generale, cercano una regolarità – da quelli che
sono propri delle scienze dello spirito – che cercano di cogliere lo specifico di un’individualità,
un’unicità. Lo storico studia quell’evento che è irripetibile, e lo fa con un metodo scientifico senza
con ciò usare un metodo sperimentale. Se infine qualcuno ha inserito la filosofia come scienza è
stato veramente audace perché per la maggior parte di noi la filosofia non è una scienza. A parte il
fatto che la filosofia è la madre di tutte le scienze, potremmo sempre pensare che i suoi figli si siano
emancipati e non abbiamo più bisogno di essa. Tuttavia, la filosofia della scienza è quella sezione
della filosofia in cui la scienza viene fatta oggetto di riflessione senza necessariamente usare un
metodo che è proprio di quella disciplina in oggetto. Esempio: se io affronto un tema di filosofia
della matematica su cosa sono i numeri, non ho bisogno di fare una serie di calcoli complessi perché
devo fare una riflessione su cos’è il numero 2 etc. Se io trattassi un tema di filosofia della medicina,
potrei chiedermi che cosa è la salute, e per rispondere non devo necessariamente curare una
persona o guarirla; in anzitutto perché supporrei che essere guariti o sani sia la stessa cosa, che
invece non è scontato. Come vedete, la filosofia della scienza è quell’ambito della riflessione in cui
si riflette su alcune questioni fondamentali di alcune discipline. Storicamente la filosofia della
scienza è nata come dottrina della conoscenza, riflessioni su alcune questioni legate, ancor prima
della nascita del metodo sperimentale, all’origine della filosofia, quali cos’è la verità, cosa significa
conoscere, in che rapporto si trova il conoscere con la nostra certezza e verità, tutte domande che
in senso lato sono di filosofia della scienza. Noi affronteremo delle domande che sono pertinenti
alle vostre pratiche di cura perché in qualche modo ci consentono di riflettere su alcuni luoghi
comuni presenti in essa. Un luogo comune è una questione che viene data per scontata, ad esempio
che esistono i fatti. E’un pensiero che si ritiene non si deva approfondire ulteriormente, che si da
per scontato.

L’altra questione semantica concerne la distinzione tra etica pratica ed etica applicata. In inglese
sono talora sinonimi. In italiano, invece vorrei fare un distinguo. Il termine applicare porta con sé
una metafora importante ma dalla quale vorrei prendere le distanze: se l’etica fosse applicata
potremmo distinguere tra ciò che viene applicato e ciò su cui viene applicato. Ora, quest’idea di
un’etica la quale abbia degli “stampi” predefiniti (principi, norme, regole) che vadano
semplicemente applicate, è un’idea che porta con sé l’immagine di un’etica quasi ingegneristica.
L’idea di pratica invece ci porta a pensare ad un’idea di prassi, quella dell’agire interpersonale, quella
di un’etica che non si applica come qualcosa di esistente già all’esterno su un’azione, ma come
quella che sorge all’interno di una riflessività su quell’azione.

La lettura di un disagio. Ora, non c’è solo un disagio nella cura o nei luoghi di cura. Quando
utilizziamo questa parola disagio, non sentirsi del tutto sicuri di ciò che si sta facendo, dobbiamo
avere in mente un profondo iato tra le conoscenze che disponiamo, sottoposte a controllo
sperimentale (quindi tra i nostri saperi) e la nostra capacità di entrare in relazione con gli altri, quella
relazione peculiare che è la relazione clinica, che non è una relazione filiale né familiare né amicale,
legata dal tentativo di supportare le persone in condizioni di fragilità/vulnerabilità grazie anche al
ricorso di saperi e competenze di cui queste persone non dispongono. Oggi la cura è chiamata a
grandi sfide perché non si tratta solo di possedere un sapere o una tecnica da applicare ad un
paziente in modo tale da sanarlo o da permettergli di vivere una qualità di vita residua, ma si tratta
di saperlo fare all’interno di una relazione in cui il paziente è un soggetto sempre più attivo. E
dunque se noi siamo rigorosi e precisi in un dosaggio o in una indicazione, poi ci troviamo più in
imbarazzo di fronte ad un conflitto di valori nel quale i nostri e quelli altrui sono diversi e non
abbiamo lo strumento “scientifico” per poter farvi fronte. Perché tutto questo? Perché forse ci sono
alcuni luoghi comuni che abbiamo interiorizzato senza rendercene conto, grazie anche al supporto
del metodo sperimentale nelle pratiche di cura, che hanno portano con sé alcune difficoltà rispetto
all’esercizio concreto della cura: se durante un esperimento devo pormi in un modo distaccato per
poter esaminare obiettivamente i dati di cui dispongo, nel rapporto con una persona la capacità che
mi è richiesta è un'altra, ma sarà legata solo alle mie virtù caratteriali o potrà essere qualcosa che
potrà essere sviluppato e promosso a condizione di rendersi conto dell’influenza che alcuni luoghi
comuni hanno nell’esercizio concreto del prenderci cura? Dunque, per poter intendere questo
percorso dobbiamo metterci in sintonia con un esame critico rispetto alla nostra capacità o meno
di fare ciò che vorremmo fare.

Il corso è rappresentato graficamente da una struttura complessa. Al centro sta la CURA, la cura
intesa proprio come prendersi cura. Questa cura viene prima della sua declinazione scientifico
tecnica e si trova in difficoltà quando ad esempio, proprio per aiutare una persona, gli strumenti di
cui disponiamo rendono questa persona prigioniera delle sue cure (pensiamo ai trattamenti di
sostegno vitale). Al centro quindi c’è la cura e il desiderio di ragionare sulla cura. Il primo passaggio
sarà infatti andare alla cura che si trova prima delle cure e di farlo rileggendo alcuni miti: il mito di
cura, di prometeo e di babele. Vedere che cosa il mito ci dice di questo gesto originario. Una volta
compreso questo gesto, che poi alimenta la storia dell’umanità sino alla scoperta della medicina
ippocratica e poi della medicina attraverso il connubio con il metodo sperimentale, leggiamo un
disagio/imbarazzo perché troviamo uno iato/scarto tra alcune nostre conoscenze e competenze a
livello tecnico e le sfide che siamo chiamati ad affrontare a livello relazionale. Per vedere più in
profondità questo disagio, esplicitiamo alcuni luoghi comuni che sono dentro la nostra cura, ad
esempio quello per cui esisterebbero i fatti o quello per cui distinguiamo un discorso oggettivo, che
ha a che fare con i fatti, e un discorso soggettivo, che a che fare con i valori. Quando il discorso sui
fatti è intersoggettivo nella misura in cui abbiamo elementi oggettivi con i quali confrontarci, mentre
il discorso dei valori è legato ad una mera soggettività, come gestire il conflitto tra valori diversi? Sia
la convinzione secondo la quale esistono dei fatti e quella per cui fatti e valori siano tra loro opposti
(come ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo) influenzano tanto la capacità di prenderci cura.
Fatto questo percorso, nel quale sarà necessario inserire argomenti di logica come le tavole di verità
o sul sillogismo per capire alcune riflessioni che filosofi della scienza hanno fatto a partire dal
metodo adottato anche dalla medicina (metodo induttivo), torneremo all’origine, cioè alla cura
prima delle cure, e vedremo se, una volta esplicitati questi luoghi comuni, non sia possibile
immaginare una modalità di conoscenza e di interazione diversa supportata dal ricorso alla saggezza
(richiamo alla riflessione aristotelica). Del ricorso alla saggezza non ne tratteremo solo in termini
astratti, ma cercheremo di basarci sull’esperienze per capire come metterla in pratica, praticando
un metodo, che è il metodo deliberativo, il quale ci riporterà alla cura e all’esplicitazione del senso
dell’etica pratica. Strumenti: filosofia della scienza e la logica per decostruire i luoghi comuni e
comprenderli, ricorso alla saggezza con il metodo deliberativo. Cornice: nella quale l’etica si
presenta pratica (e non applicata). Riassumendo…

Pars destruens del corso: parte che decostruisce alcuni luoghi comuni che sono dentro il nostro
tempo, quello di una cura che pretende di essere legittimata scientificamente. Parte che affronta la
questione dei fatti, se esistono, la loro verificazione e con essa del metodo scientifico, la scissione
tra i fatti e i valori tipica dell’età moderna, e l’idea che l’unico modo di impiegare la ragione sia quello
strumentale, cioè utilizzarla per raggiungere un fine prefissato. Parte che affronta temi di logica e
distinguendo tra scienze della natura e dello spirito: le prime cercano di spiegare un fenomeno con
la ricerca di una regolarità, le seconde cercano di comprenderlo (come nel caso della storia che
tende a comprendere l’unicità di un evento). E come se la cura però avesse bisogno di entrambe,
sia di spiegare che di comprendere. Forse una delle figure più importanti nella storia del pensiero
che è riuscito a unire le virtù di colui il quale cerca di ricondurre l’incomprensibile ad un qualcosa di
noto e prevedibile, così come colui il quale si pone in ascolto dell’altro e della sua alterità, è stato
Freud, che si è aggrappato sia ad una teoria che ad una pratica di cura. Ora Freud non è considerato
un buon esempio per la scienza sperimentale perché per la maggior parte dei sostenitori del luogo
comune, secondo il quale è scientifico soltanto quello che è stato controllato sperimentalmente, la
psicoanalisi, metodo sperimentato da Freud, non sarebbe in grado di reggere a questo criterio. Ma
a noi interessa riflettere sul fatto che noi dobbiamo essere capaci di agire sia competenze legate
allo spiegare che al comprendere. Parlare del mito nel corso di filosofia della scienza non è superfluo,
perché il mito continua a parlare nella misura in cui noi siamo in grado di attualizzarlo, di
interpretarlo. Dunque non è tanto citare i miti di cura o di babele che dà la garanzia del valore di tali
miti, ma la loro garanzia sta nella capacità di rileggerli alla luce dell’esperienze. E questo legittima il
fatto che la cura sia il fulcro dell’intero discorso, partendo proprio dalla rilettura dei miti.

Pars costruens del corso: confronteremo la logica che è propria del prendersi cura con i modelli
tecnico scientifici con la ricerca della prudenza declinata da Aristotele e il tentativo di farne pratica
con il metodo deliberativo (oltre un attitudine dilemmatica). Per finire col chiarire l’etica pratica,
che altro non è che la pratica interpretativa legata al prendersi cura. La bioetica è un’espressione di
etica pratica.

2^ lez. - Spunti dal mito


Riflessione sul fulcro della cura, sul suo senso, partendo dal mito. Il mito è un mito proprio perché
continua a valere nel tempo, ad essere attuale e fonte di riflessione. I miti sono innanzitutto delle
forme narrative orali che ad un certo punto trovano una condensazione scritta.

Mito di Cura: può insegnarci qualcosa rispetto a quella cura prima del prendersi cura, prima di
diventare cura tecnico scientifica, che starebbe alla base della professione infermieristica.

“Mentre Cura…” iniziamo un mentre, cioè l’azione del prendersi cura avviene dentro un dinamismo,
dentro un movimento. Cosa sta facendo Cura? Cura che in questo caso è una divinità, sta
attraversando un certo fiume. Ora quando si guada un fiume di piccola o media portata che sia,
bisogna stare attenti; per cui Cura sta facendo qualcosa che richiede molta attenzione. Questo
attraversare ci dice anche il voler andare da un’altra parte, assumersi un determinato rischio per
poter raggiungere l’altra riva. Cosa fa Cura mentre attraversa il fiume? Vede. Ciò che vede si può
dire che è banale, vede del fango argilloso. Che interesse potrebbe destare la vista del fango
argilloso? Perché di fatti non solo lo vede, ma “lo raccolse pensosa”. Vede qualcosa che
generalmente sfugge alla nostra vista e non si limita a notarlo, ma lo raccoglie e nel mentre ci pensa.
E mentre pensa, comincia a dargli forma. Anche il concetto di forma qui è interessante, perché in
greco forma è idea o ideos che proprio Platone traduce in verità profonda. Quindi questo gesto
manuale del cominciare a dare una forma a qualcosa che è informa, è un gesto in cui prende
consistenza la realtà. Ora già solo queste prime due righe del mito ci dicono molto della cura: quali
sono i rischi nei quali si incappa mentre ci si prende cura. Il fango argilloso potrebbe essere quel
qualcosa che le persone notano proprio perché hanno un atteggiamento di sollecitudine e di
attenzione che altre persone, che non si trovano in quella disposizione, riescono a vedere. Queste
due righe pongono attenzione nel gesto del prendersi cura, a cosa dà forma la cura (a ciò che è
informe). Mentre Cura stava riflettendo si avvicinò Giove. Cura gli chiese di dargli lo spirito di vita
ed egli acconsentì volentieri, ma quando Cura pretendeva di dare lei il nome Giove si oppose perché
voleva essere lui a dargli il nome. Mentre questi discutevano, riscontriamo una pretesa “chi si
prende cura pretende qualcosa da dire”, che venga posto il suo nome, nome che attribuisce
un’identità ad un soggetto. Giove glielo proibisce, e pretende che venga imposto il nome scelto da
lui perché è lui che lo ha reso vivo. E ne nasce un conflitto, dove si introduce un terzo disputante:
Terra. Nella cura, nel prendersi cura il conflitto vi alberga spesso proprio perché ognuno pretende
di fare ciò che dovrebbe essere fatto, e di avere la tutela, e di dare il nome. Pensiamo infatti a
quando diciamo “questo è il mio paziente”, come vi è anche un desiderio di possesso che nasconde
il rischio di impossessarsi di colui il quale ci stiamo prendendo cura; rischio che non va dimenticato
perché chi è più impegnato in una relazione di cura – maestra, familiare, infermiera, medico – può
travalicare e questo per un eccesso di senso di responsabilità e finire di impossessarsi dell’altro e di
discutere con altri che pretendono la stessa cosa. Ciò che qui è in gioco, non è solo il diritto di dare
un nome ma anche la capacità di questa realtà informe di prendere una forma che tenga insieme la
forma (il fisico) e lo spirito (la psiche). “Elessero Saturno, il Tempo, a giudice”, cioè è il Tempo che
decide i “proprietari” del soggetto nato, mentre Cura non possiede ma custodisce. Il rischio della
Cura è quello che per un eccesso nel prendersi cura questa si trasformi in pretesa e in possesso; e il
rischio è che dia origine a delle dispute.
Come attualizziamo questo mito? Il mito ci dice che noi senza cura non esisteremmo. Perché ci sia
l’essere umano deve esserci qualcuno che se ne prenda cura, senza la cura l’essere umano non
esisterebbe. Il prendersi cura crea un legame con il rischio di trasformarsi in possesso.

Altra riflessione, l’elogio delle technai. Dal mito di Antigone, Sofocle celebra la natura umana. Il
mito di Cura ci aveva permesso ad attingere a quel prendersi cura che prima di ogni cura il quale è
così animato da un desiderio di custodia ma allo stesso tempo esposto a rovesciarsi al suo contrario.
Una sorta di mito delle origini, non c’è essere umano senza qualcuno che tenga insieme la
dimensione della terra e dello spirito di cui ciascuno è composto, senza nessuno che ci custodisce ci
perderemmo. In questo passo, che precede il mito di Prometeo, celebriamo la natura dell’uomo: la
capacità di poter navigare, arare la terra, domare gli animali, tutte capacità tecniche che hanno reso
l’uomo in grado di vivere in un mondo ostile. Qui addirittura si parla della tecnica della parola. “La
parola è il pensiero che va veloce come il vento” scrive Sofocle. Questi versi che seguono sono un
elogio alla capacità dell’uomo di possedere la techne. Tecnhe non si traduce tanto solo con arte o
con tecnica, ma con quella capacità di trasformare un oggetto, di produrre qualcosa sapendo il
perché.

Mito di Prometeo

Altro mito delle origini dell’essere umano, quello che dice che l’essere umano non è se non in
possesso delle technai. Prometeo è colui il quale vede in anticipo, prevede i problemi (tipico della
medicina, quando si parla di prognosi); Epimeteo invece è colui che si accorge in ritardo, che vede
dopo. A questi personaggi viene affidato il compito dagli dei di fornire agli esseri viventi le facoltà
per sopravvivere, ma quando arrivano all’uomo queste facoltà sono terminate. Allora Prometeo,
attraverso un furto agli dei, regala all’uomo la sapienza tecnica insieme al fuoco. Insieme al fuoco
perché esso rappresenta la madre di tutte le altre tecniche. Fuoco che è stato rubato, perché forse
richiedeva troppa responsabilità all’essere umano, tanto è vero che Prometeo pagherà questo
gesto. Ma perché arrivare ad un furto? Perché l’uomo senza la sapienza tecnica non sarebbe in grado
di sopravvivere, la tecnica è necessaria per la vita. Cioè dal punto di vista pratico l’uomo è
scarsissimo, ma con la sapienza tecnica riesce a sopravvivere. Questa però non è la sapienza politica,
perché non riguarda la costruzione di un oggetto, ma riguarda il saper stare con gli altri e nel
costruire una comunità giusta, che l’uomo specifica Platone non ha. La sapienza politica è quando
noi dobbiamo decidere le priorità su cui lavorare e accordarci.

Ora mettendo insieme il mito di Cura e di Prometeo, troviamo due istanze profonde: la prima “non
c’è essere umano senza prendersi cura”, la seconda “non c’è umano senza tecne perché senza la
tecne non sarebbe in grado di stare al mondo”.La tecne (sapere che ci permette di capire perché
riusciamo o non riusciamo a raggiungere un determinato scopo) si differenzia dalla tecnica.
Dovremmo riuscire dunque ad equilibrare i gesti del prendersi cura con la tecnica, ma a volte non ci
riusciamo perché la tecnica ci allontana dal prenderci cura e altre volte l’eccesso di cura ci allontana
da una pratica che sia supportata tecnicamente e scientificamente. Lo vediamo quotidianamente
che c’è uno sbilanciamento tra quello che siamo in grado di fare e ciò che vorremmo fare; perché se
favoriamo tanto la tecnica corriamo il rischio di tenere il paziente nelle nostre mani, così come la
cura se esagera corre il rischio di impossessarsi del paziente. Come unire le due anime in modo tale
da non perdere il senso della cura?

La cura comunque non è solo prendersi cura insieme alla declinazione tecnico-scientifica, ma a che
fare con la nostra capacità di stare gli uni con gli altri. Per questo ci soffermiamo sul mito di Babele.

Il mito ci parla di un momento in cui c’era una sola lingua, e le persone nomadi decisero di stabilirsi
in un posto dove costruire una citta (sedentari e muratori). Interessante è che vogliono spingersi
sempre più in alto, perché in questo modo, con una sola torre, non si disperderanno e saranno tutti
uniti con una sola lingua. Ma il Signore scese a constatare che erano diventati un solo popolo con
una sola lingua, allora volle dividerli e confonderli con lingue diverse. Generalmente
l’interpretazione data a questo mito vede nel gesto umano superbia nei confronti del quale Dio
opererebbe riportando l’essere umano alla sua dimensione. Ma perché Dio dovrebbe punire l’uomo
se è stato proprio lui a fornire all’uomo la tecnica per costruire la torre spinta verso il cielo?
Potremmo leggerla diversamente.

- Anche qui abbiamo il primato del saper fare, in questo caso una torre. Ma produrre per fare
cosa? Raggiungere il cielo. Ma è possibile raggiungerlo? Non c’è il rischio che questa azione
perda il proprio senso (quello di non disperdersi) e si sia avvitata su se stessa, quasi che la
tecnica abbia “divorato” i suoi soggetti? Da strumento per costruire qualcosa, la tecnica si è
trasformata in qualcosa che ingloba il costruttore (alienazione legata al saper fare). In questo
caso, se parliamo di tecniche mediche per aiutare l’essere umano potrei spingermi oltre e
finire per disumanizzare la relazione. Paradosso: per aiutare mi allontano (per non perdere
mi disperdo avendo perso il senso dell’azione, venendone divorato).
- La costruzione è fine a se stessa e non più occasione per unirsi, abitando insieme il mondo.
Paradosso: per stare insieme finisco per isolarmi (alienazione degli uni verso gli altri).

Questo vuol dire che se vogliamo ripensare alla cura prima delle cure, dobbiamo considerare
l’importanza che ha il nostro saper stare con l’altro nel percorso della vita. Quindi l’azione di
dispersione operata da Dio va vista come un invito a scoprire nuove modalità di stare insieme meno
alienanti. Dio permette all’essere umano di non abbandonare la tecnica ma viverla in modo tale da
costruire un ambiente di confronto e di rispetto. Mentre l’idea dell’avere una lingua sola potrebbe
essere seduttiva (una sola lingua tecnico-scientifica ci dà l’illusione che ci intendiamo, in realtà ci
isola, ci porta ad essere autoreferenziali), la dispersione è l’occasione per parlare più lingue e non
per considerare le lingue come un fattore di confusione. Anzi la differenza tra le lingue sarà
l’occasione per costruire una cura a più voci. Dunque questo mito ci dice che le tecniche possono
prendere il sopravvento e farci perdere il senso del loro utilizzo, che esse ci servono per stare
insieme e mantenere una certa relazione gli uni con gli altri, ma perché ciò sia possibile è necessaria
una pluralità di linguaggi, l’adozione di più lingue. La medicina di fatto ha scelto una lingua oggettiva
a danno degli operatori e pazienti coinvolti. Il mito di babele porta a galla il tema dell’alienazione
e della fatica di intendersi quando si ha a che fare con lingue diverse. Questo mito può essere letto
non solo come una sorta di punizione per l’essere umano, superbo, che ha preteso di costruire
una città che tocca il cielo ma anche come opportunità: Il dover fare lo sforzo di capire altre lingue
potrebbe essere un occasione per crescere e ricchezza data dal confronto con altri.
Ciascuno di questi miti rappresenta, come un asse cartesiano, l’asse del prendersi cura, l’asse del
saperlo fare attraverso una competenza tecnico scientifica, l’asse del saperlo fare costruendo delle
relazioni non alienanti e significative.

Cura e tecnica, un’alleanza sempre riuscita? Uno sguardo sulla storia.

I tre miti parlano delle dimensioni della cura. La medicina nasce come disciplina tecnica, cioè una
disciplina che cura non per fare del bene, ti curo perché so diagnosticare, prognosticare e darti una
terapia. La techne è una conoscenza che ci spiega il perché siamo capaci o meno di fare qualcosa. I
primi medici ippocratici dicevano “quando non puoi curare, non devi curare, perché se lo fai quando
non puoi perdi di credibilità, vuol dire che non sai quello che stai facendo. Quindi quando non puoi
fare, devi dichiararlo perché se prometti ciò che non puoi fare la medicina non è più credibile”.
Questo avviene a partire dal VI sec. a.C. e continua per diversi secoli; la medicina intesa come
diagnosticare, prognosticare e dare una terapia in senso sperimentale lo diventa solo nel XIX sec.,
prendendo alcune idee cruciali della rivoluzione scientifica dell’età moderna (Newton e Galilei
nell’ambito della fisica: cercare di leggere la natura con caratteri matematici sviluppando un
esperimento, controllo dell’ipotesi in esame). Da qui nasce la medicina sperimentale di Bernard e
nasce il Nursing, però nasce anche la scissione tra la cura e il prendersi cura. Nasce anche l’idea che
la scienza sia fondamentale per prendersi cura, che diventa quasi un elemento ideologico, di cui non
ci si rende conto dell’effettiva influenza che può avere su di noi. Nascono anche i primi interrogativi
di tale scissione perché se non si tengono insieme le due dimensioni anche la tecnica più sviluppata
viene meno. Tanto che ci si è trovati alienati (mito di Babele), cioè non ci si ritrova più in ciò che si
sta facendo (es. si cura la malattia, e non la persona). C’è stato un tentativo della medicina di
rispondere a questa eccessiva presenza della scienza nelle relazioni, attraverso le medical
humanities, cioè attraverso l’idea che un medico fosse formato anche umanisticamente perché è
una persona che cura altre persone (libro: “Il medico e il malato! Di Pedro Lain Entralgo). Altri
tentativi sono stati fatti negli anni ’60-’70 da parte del Nursing, rivendicando l’autonomia del caring,
e da parte della bioetica (diverso da biodiritto).

3^ lez. - Del primato dei fatti.

Per rendersi conto di come nel nostro tempo il linguaggio dei fatti sia presente, abbia avuto
un’influenza leggiamo prima un brano tratto da “L’uomo senza qualità” di R. Musil. (…) Curioso come
dal luogo di una descrizione meramente soggettiva “che bella giornata oggi” sia possibile ricostruire
in modo obiettivo quegli elementi che corrispondono al giudizio soggettivo. Un linguaggio di questo
genere, scientifico per esprimere semplicemente che è una bella giornata – dunque soggettiva, ci fa
vedere quanto iato ci sia tra il linguaggio degli specialisti – che sono chiamati a tradurre ciò che è
soggettivo in oggettivo per poterlo prevedere e conoscere - rispetto al linguaggio dei pazienti.
Tornando al mito di Babele, abbiamo parlato della necessità di non avere una sola lingua e del fatto
che forse parlando più lingue e possibile costruire relazioni più significative e non disperderci in una
lingua che sembra parla poi effettivamente ad una parte del tutto (autoreferenzialità). In fondo la
medicina ha dovuto adottare un linguaggio rigoroso, ma non per questo deve perdere la sua
capacità di entrare in relazione con chi questa lingua non la conosce.

Il ricorso ai fatti nel linguaggio quotidiano.


E’ curioso che nel linguaggio quotidiano usiamo dire: “Questo è un fatto!”, “Stiamo ai fatti”, “E’ un
fatto che…”, “Fatti, non parole”, etc. Come se i fatti fossero qualcosa di indubitabile, un qualcosa
che a noi serve per fare riferimento ad una conoscenza priva di dubbio, che si impone per la sua
evidenza. Evidente vuol dire ciò che non ha bisogno di prove, ciò che si mostra da sé. In inglese il
significato è opposto: evidence è ciò che è supportato da prove. Ora i fatti non hanno bisogno di
prove e basta osservarli. I fatti non danno origine a dubbi, si presentano come qualcosa di
indipendente dalle nostre convinzioni, su cui possiamo esercitare un consenso, su cui essere
d’accordo, liberi da pregiudizi. Usiamo queste espressione “stiamo ai fatti” per dare un supporto
obiettivo al nostro discorso. Tuttavia il participio passato del verbo “fare” è “fatto”, il che ci porta a
ritenere che i fatti sono il risultato di un fare, cioè sono dei costrutti, delle interpretazioni; talora
queste interpretazioni sono talmente dimenticate che si considerano i fatti come se fossero
qualcosa di immediatamente presente per com’è perché rimangono implicite le interpretazioni
dietro ai fatti e non c’è bisogno di esplicitare. Ad esempio quello che è un fatto per un professionista
della salute, per una persona esterna non è un fatto e ha bisogno di esplicitazioni teoriche che
spieghino il perché di quegli elementi che assumono il ruolo di fatti. Ci sono delle teorie implicite:
ad esempio quando diciamo “questo è un tavolo” la parola tavolo assume senso all’interno di
un’interpretazione. Se noi chiedessimo ad un bambino piccolo “dov’è il tavolo” probabilmente non
saprebbe indicarcelo, perché non è ancora capace di distinguere il tavolo dalla sedia ad esempio
perché ancora non ha la concezione che tavolo e sedia siano oggetti diversi; così come per il neonato
la mamma è il seno stesso con cui si alimenta, piano piano imparerà che è seno, voce, odore, ma
tutto questo sarà il risultato di una costruzione nell’apprendimento. Noi però quando parliamo dei
fatti ci dimentichiamo che siano in qualche modo costruiti. Costruiti non vuol dire arbitrari “ognuno
può dire quello che vuole”, ma all’interno di cornici teoriche in cui acquistano un determinato
significato. Il linguaggio quotidiano nasconde le verità teoriche che stanno dietro ai così detti fatti.
Il Positivismo, la corrente filosofica in cui è stato sviluppato l’idea del sapere positivo e la nozione di
fatto, che più di altre ha dato spessore a questo richiamo ai fatti. In realtà ancor prima del
Positivismo noi possiamo risalire alla nascita del metodo sperimentale, dove si cercava già di limitare
il proprio sguardo a ciò che è oggettivo, quindi oggetto di consenso, indipendente dal nostro sentire
soggettivo (Galilei, Locke). Se andiamo alla fine del ‘700 con Comte, troviamo colui il quale più di
altri ha rafforzato questa convinzione di dover fondare un sapere positivo che prendesse le mosse
dai fatti. Per Comte un sapere positivo era che aveva per oggetto le cose tale come si presentano di
fatto, quindi un sapere dove l’osservazione è molto importante ma non limitata a sé stessa perché
questo sapere si occupa anche “della scoperta delle leggi che mostrano come i fatti funzionano”.
Ora nel Positivismo, come nelle scienze naturali, si rinuncia ad un perché metafisico di qualcosa
(perché accade o meno) per concentrarsi sulla scoperta di regolarità, di costanti, grazie alla quale
prevedere l’andamento di determinati fatti e rispondere a determinati problemi. Quindi un sapere
positivo è un sapere che muta in qualche modo il proprio interesse, non va al cuore, all’essenza della
realtà, ma cerca di leggere, interpretare, descrivere, controllare.

Del significato di “positivo” e di “fatto”. (Zubiri)

Ciò che viene qualificato come “positivo”, cioè oggettivo, significhi dentro questa corrente filosofica
ciò che è reale rispetto a ciò che è meramente oggetto di fantasia. Positivo perché è reale e non ciò
che è chimerico. Ma è positivo ciò che è utile rispetto a ciò che in qualche modo è inutile (ciò che è
reale è utile) ed è certo rispetto a ciò che si presenta come incerto. Positivo come non vago, preciso,
costruttivo che ci permette di costruire un’interpretazione di fenomeni. Positivo come constatabile;
in questo senso non è positivo la nozione di assoluto perché l’assoluto non è constatabile. Positivo
in quanto constatabile è anche sinonimo di relativo. Constatabile è ciò che si manifesta
(tecnicamente “ciò che è un fenomeno”), ciò che si manifesta davanti all’uomo, che incontra l’uomo,
ciò che è posto, quindi osservabile e verificabile, cioè chiunque si trovi in una determinata
condizione può accettare quel medesimo sapere. Il sapere delle scienze sperimentali poggi proprio
su questo aspetto, sulla controllabilità, perché se realizzo un esperimento questo deve essere
effettuato nella medesima modalità dando gli stessi risultati ovunque (in questo senso constatabile
ci dice anche verificabile). Constatabile è dunque un fatto, che è stato osservato e verificato con
precisione, obiettivo e quindi oggetto di un sapere positivo/scientifico. Nella medicina gioca un
ruolo molto importante la nozione di fatto perché la medicina cerca di legittimare sé stessa
scientificamente per essere credibile.

In che senso il sapere positivo è “relativo”? In contrapposizione al sapere assoluto, richiamato dalla
filosofia idealista del fine ‘800, il sapere positivo è relativo perché dipende dall’osservazione, quindi
da come è fatto l’uomo e i suoi sensi, e poi perché ha bisogno di organizzare. I fatto di per sé sono
dentro delle cornici teoriche in cui diventano intellegibili e soprattutto perché un fatto si spiega
insieme ad altri fatti. La riflessione positivista non è banale. Per Comte il sapere “positivo” è un
sapere che ha per oggetto le cose tali come si presentano di fatto (osservazione); un sapere che si
occupa della scoperta delle leggi che mostrano come di fatto i fatti funzionano (rinuncia al perché
accadono, per concentrarsi sul come accadono, per esprimerne una Legge); un sapere che si
propone di prevedere per provvedere/rispondere a dei problemi. Distinzione necessaria da fare tra
il positivismo approfondito sviluppato da Comte, che si pone il problema della legittimità della
conoscenza e cerca di costruire un sapere positivo in ambiti diversi (es. sociologia) e un positivismo
ingenuo, amaramente ereditato, che si è cristallizzato nella nostra mente, il quale è più semplicistico
rispetto all’originario pensato da Comte.

I presupposti del Positivismo

Secondo la visione “semplificata”, usata correntemente in medicina, la scienza è ciò che ci offre
l’unica conoscenza possibile e valida della realtà fenomenica. Questa affermazione verrebbe subito
sottoscritta da molte persone, unendola a “il metodo della scienza è l’unico metodo valido di
conoscenza”, precisando che il metodo è il metodo sperimentale. Pensare che l’unico metodo valido
sia quello sperimentale equivale a circoscrivere di molto l’ambito delle nostre conoscenze e legare
alla mera passione l’esercizio di altre. Hegel: critica alla speculazione idealista, fiducia nel sapere
scientifico. Si tratta di un sapere in grado di prevedere, di spiegare, di un sapere che mira a collegare
fenomeni diversi tra loro aspirando ad un tempo e ad una conoscenza che sia in grado di unificare
fenomeni tra loro diversi ed essere coerente e sistematico. L’osservazione dei fatti fa riferimento
alla esperienza, ma non sono la stessa cosa. L’esperimento è un’esperienza che ha già subito una
modifica (es. Piano inclinato esperimento Galilei: crea ciò che nell’esperienza quotidiana non
osserverebbe). L’osservazione ricerca connessioni (relazioni invariabili di successioni e somiglianze
tra fenomeni) in luogo di cause finali (cioè per cui accade qualcosa, lo scopo, es. non cerchiamo lo
scopo della gravità ma cerchiamo di spiegare la gravità) e formali (che ha a che fare con l’essenza).
L’osservazione porta alla formulazione di leggi generali universali e necessarie per quanto non in
grado di garantire una conoscenza assoluta, ma relativa al campo del fenomeno (che dipende dalla
nostra struttura conoscitiva e dal nostro trovarci in una determinata situazione). Questi presupposti
hanno una notevole influenza nel fare o meno una determinata medicina perché retti dal dogma
del positivismo: tutti i fenomeni sono retti da leggi (determinismo). La scienza ha una funzione
sociale emancipatrice: contribuisce al “progresso” sociale, in stretta connessione con la tecnologia
e l’industria (gli scienziati diventano i ministri della società). E’ pertanto necessario ridare “ordine”
alla società e garantire il progresso di esso (concepito però nei termini di uno sviluppo indefinito e
necessario che esclude l´idea di un punto di arrivo) tramite il ricorso alla conoscenza e al metodo
scientifico.

Secondo i Positivisti, la scienza si manifesta in uno sviluppo storico ed è conforme ad una legge del
progresso. Comte parla dei così detti tre stadi. Lo stadio teologico è quello stadio in cui l’essere
umano si limita a spiegare i fenomeni attraverso l’immaginazione (stadio infantile). Lo stadio
metafisico è quello stadio in cui l’essere umano cerca di spiegare il fenomeno adducendo delle cause
comunque astratte (stadio adolescenziale). Lo stadio positivo è quello in cui l’essere umano vuole
unire i concetti astratti con l’esperienza (stadio della persona matura).

Riassunto presupposti positivismo in medicina.

- Il determinismo (quale convinzione diffusa).


- Il meccanicismo quale modello esplicativo del reale e di alcune patologie.
- Il dualismo (quale modalità di scindere oggettivo, cioè il fatto, da soggettivo, cioè il valore).
- Il primato del metodo sperimentale e della matematica (osservazione dei fatti, riscontro di
leggi e regolarità esprimibili in termini matematici).
- L’idea di progresso scientifico (la convinzione di poter risolvere i problemi con l’ausilio di
nuove tecniche e saperi)

Il Positivismo entra nelle scienze della salute non solo con queste convinzioni, forse la terza è la più
potente, ma anche nei modi di agire.

4^ lez. – Il sillogismo.

Logica deduttiva utile per comprendere il percorso di decostruzione di alcuni luoghi comuni presenti
nei luoghi della salute. La logica ci fornisce alcuni strumenti per comprendere passaggi cruciali, ciò
vale sia per la logica deduttiva sia per la logica induttiva. Oggi parleremo della logica deduttiva: si
tratta di un ragionamento, di un processo inferenziale, nel quale si procede dall’universale al
particolare (dall’altro al basso). Nel caso del sillogismo, che è uno degli esempi più nitidi di
ragionamento deduttivo, le premesse del ragionamento, grazie alle quali si giungerà alla
conclusione, contengono già tutto quello che serve per ottenere una conclusione. La conclusione
deriva necessariamente dalle premesse. Il che vuol dire che le informazioni contenute nella
conclusione del ragionamento sono già presenti in modo implicito o esplicito nelle premesse. Gli
enunciati, cioè le proposizioni che sono presenti in questo tipo di ragionamento che date delle
premesse si perviene a delle conclusioni, possono essere di diverso tipo.
Quadrato logico o quadrato dell’opposizione.

Enunciato: Tutti gli uomini sono bisognosi di Enunciato: Nessun uomo è bisognoso di cure.
cure. (equivalente a “Tutti gli uomini non sono
bisognosi di cure”)

Enunciato: Qualche uomo è bisogno di cure. Enunciato: Qualche uomo non è bisognoso di
cure.

In questo modo ci troviamo di fronte a quattro possibilità, dove S soggetto e P predicato.

Tutti gli S sono P = A Nessun S è P = E


UNIVERSALE AFFERMATIVA UNIVERSALE NEGATIVA
Qualche S è P = I Qualche S non è P =O
PARTICOLARE AFFERMATIVA PARTICOLARE NEGATIVA

Tra queste proposizioni esistono dei rapporti che Aristotele ha esaminato in alcune sue opere.
Questi rapporti sono:

A-O ed E-I contradditori

A-E contrari

I-O subcontrari

A-I ed E-O opposizione

Perché sono state chiamate con le lettere A-E-I-O? Perché la proposizione universale affermativa e
la particolare affermativa possono essere ricondotte all’espressione latina ad-firmo, sicchè io
prendo la lettere A di ad firmo per dire affermo universalmente, e la I per ricordami che è una
particolare affermativa. E ed O invece ricordano nego, E universale negativa e O particolare
negativa.

Quindi tra queste proposizioni possiamo costruire dei rapporti. Esistono poi delle proprietà che
contraddistinguono questi enunciati.

L’enunciato A ed O, così come E ed I, sono contradditori, ovvero vi è una distanza massima tra di
loro (Aristotele infatti distingue l’opposizione per contrarietà da quella per contradditorietà).
L’opposizione per contradditorietà significa che non possono essere né entrambe vere, né entrambe
false. Se è vera A, sarà falsa O. Se è falsa A, sarà vera O. Se è vera E, sarà falsa I. Se è falsa E, sarà
vera I. Di per sé di fronte ad una proposizione universale affermativa, qualora noi sapessimo se sia
vera o falsa, potremmo già concludere per il rapporto contradditorio che l’altro enunciato è
l’opposto di quest’ultima.
Le proposizioni contrarie A-E hanno un’opposizione meno marcata perché non possono essere
entrambe vere (come le contradditorie) però potrebbero essere entrambe false (potrebbe essere
falso dire “tutti gli uomini sono bisognosi di cure” e che “nessun uomo è bisognoso di cure”). Quindi
se una delle due è vera, se A è vera, posso dire che O è falsa, e posso sapere anche che se A è vera
E è falsa. Se E è falsa, I è vera.

Le subcontrarie, a differenza delle contrarie, non possono essere entrambe false, però potrebbero
essere entrambe vere.

Per quanto riguarda l’opposizione di A-I ed E-O si parla di mera opposizione, mentre le altre
differiscono per la quantità.

Con queste indicazioni, partendo dalla conoscenza della verità dell’universale affermativa o
negativa, io posso risolvere il valore di verità, il così detto quadrato delle opposizioni.

Perché questo ragionamento è importante per analizzare il sillogismo? Perché abbiamo detto che il
sillogismo è un ragionamento in cui l’universale si perviene ad una conclusione più particolare, la
quale conclusione deriva del tutto dalle premesse, ma le premesse sono delle affermazioni che
possono essere A-E-I-O. Notiamo subito che nel sillogismo abbiamo due premesse, una maggiore e
una minore, e una conclusione. Abbiamo poi il termine minore soggetto (S) e il termine maggiore
predicato (P), che verranno utilizzati nella conclusione, mentre il termine medio (M), perché fa
media tra le due premesse in modo da pervenire alla conclusione, scompare in quest’ultima.

Esempio: Tutti gli animali sono mortali (premessa maggiore). Tutti gli uomini sono animali (premessa
minore). Tutti gli uomini sono mortali (conclusione).

Termine maggiore (occorre come P nella conclusione) = mortali.

Termine minore (occorre come S nella conclusione) = uomini.

Termine medio (connette gli altri due termini presenti nelle due premesse e assente nella
conclusione) = animali.

N.B. S e P non occorrono necessariamente nelle premesse come soggetto e predicato nelle rispettive
proposizioni. E’ la conclusione che determina se il termine sia maggiore o minore. Vedi figure
seguenti.

Fig. 1 Fig. 2
MP PM
SM SM
SP SP

Fig. 3 Fig. 4
MP PM
MS MS
SP SP
Adesso analizziamo quando i soggetti o i predicati possono essere presi parzialmente o
universalmente distribuiti, per risolvere il sillogismo. In logica non è importante il contenuto
veritativo di ciò che si sta dicendo. Ad esempio: dove S soggetto e Q predicato, e negli insiemi il
primo cerchio è s e il secondo è q.

Qualche s è q.

S è distribuito parzialmente.

P è distribuito parzialmente.

Ci muoviamo nell’intersezione dei due insiemi.

In questo caso si può dire anche che qualche q è s (vale la conversione semplice).

Nessun s è q.

S è distribuito universalmente.

P è distribuito universalmente.

I due insiemi, cioè i due termini, non si intersecano.

In questo caso si può dire anche che nessun q è s (vale la conversione semplice).

Qualche s non è q.

S è distribuito parzialmente.

P è distribuito universalmente.

I due insiemi si intersecano, ma prendiamo in considerazione parzialmente l’S, cioè gli s che non
possono essere q (quindi non l’intersezione, ma il restante degli s); mentre P, cioè q, lo prendo
universalmente.

In questo caso si può dire anche che qualche q non è s (vale la conversione semplice).

A
Animali Uomini
Tutti gli s sono q.
Tutti gli uomini (S) sono animali (P).

L’insieme maggiore (gli animali) contiene il minore (uomini). E vuol dire che tutti gli uomini sono
animali ma non tutti gli animali sono uomini.

S è distribuito universalmente.

P è distribuito parzialmente (perché a noi interessano solo gli animali che sono anche uomini).

Riassunto:

Di un termine in una proposizione categorica si dice che è preso universalmente quando, essendo
soggetto, gli è applicata l’espressione “tutti” o “nessuno”, oppure quando essendo predicato si fa
riferimento alla totalità degli individui compresi nella classe (insieme di individui) che esso designa.

• A, E il soggetto è preso universalmente

• E, O il predicato è preso universalmente

• I né il soggetto, né il predicato sono presi universalmente

Regole di riferimento perché il sillogismo sia logicamente corretto (valido)

• Sui termini

- Il termine medio deve essere preso universalmente almeno in una premessa (nella maggiore
o nella minore); come faccio? Vedo se una premessa è una A-E-O-I e vedo se il S e il P sono
presi universalmente o no.
- Nessun termine può essere preso universalmente nella conclusione senza che sia stato preso
universalmente anche in una delle premesse.

• Sulle proposizioni

- Da premesse negative non segue alcuna conclusione (perché non abbiamo nulla che ci
permette di mediare ad una conclusione logicamente affidabile).
- Se una premessa è negativa, la conclusione deve essere negativa; se una premessa è
particolare, la conclusione deve essere particolare.

Nel sillogismo aristotelico interessa la forma più che il contenuto, cioè come i termini sono
combinati per giustificare una conclusione. Esempio:

Tutti gli M sono P (questa è una A, universale affermativa)

Qualche S non è M (questa è una O, particolare negativa)

---------------------------

Qualche S non è P (questa è una O, particolare negativa)

Abbiamo una A, una O e una O e ci chiediamo se rispettano le regole del sillogismo.

Il termine medio deve essere preso universalmente almeno in una premessa? si


Nessun termine può essere preso universalmente nella conclusione senza che sia stato preso
universalmente in una delle premesse? no

Da premesse negative non segue alcuna conclusione? si

Se una premessa è negativa, la conclusione deve essere negativa; se una premessa è particolare, la
conclusione deve essere particolare? si

Ad una domanda abbiamo risposto di no, quindi questo sillogismo non è valido.

5^ lez. – le tavole di verità e le fallacie.

Classificazione medievale dei modi dei sillogismi validi.

Figura 1 Modo 1 Figura 2 Modo 2


MP Barbara (AAA), PM Cesare (EAE),
SM Celarent (EAE), Darii SM Camestres, (AEE)
SP (AII), Ferio (EIO) SP Festino (EIO), Baroco
(AOO)
Figura 3 Modo 3 Figura 4 Modo 4
MP Darapti (AAI), Disamis PM Bramantip (AAI),
MS (IAI), Datisi (AII), MS Camenes (AEE),
SP Felapton (EAO), SP Dimaris (IAI), Fesapo
Bocardo (OAO), (EAO), Fresison (EIO)
Ferison (EIO)

Vedi le tavole di Wittgenstein.

6^ lez. – Ripresa e storia dell’induzione

Induzione: processo inferenziale grazie al quale dal particolare si giunge al generale (ad esempio per
generalizzazioni di esperienze). Metodo Bottom/Up. Origina da premesse che nascono da una base
osservativa. Le conclusione a cui perviene non sono certe, ma soltanto probabili. Le conclusioni sono
più ampie delle premesse.

L’induttivismo è quella teoria di filosofia della scienza che ritiene che la conoscenza scientifica poggi
sull’induzione. L’idea di fondo è che la scienza parta dalle osservazioni e da queste muove a
generalizzazioni (leggi e teorie) e a predizioni. Perché è importante l’induttivismo? Perché la
medicina diventa sperimentale applicando il metodo induttivo. Quindi se noi ragioniamo sulle
caratteristiche del metodo induttivo, sia a livello logico che a livello storico-filosofico, siamo n grado
di comprenderne meglio le potenzialità e i limiti.

Bacone rappresenta il progenitore di un progetto di un sapere che fosse capace di dominare la


natura. Per avere questo sapere, Bacone scrisse “novum organum” (da un’opera di Aristotele) sulla
logica. Alla logica interessa la forma del ragionamento, non il contenuto. La logica è interessata alle
leggi del nostro pensiero, alla validità delle connessioni. Alla logica interessa la forma di un corretto
pensare. L’induzione però non è soltanto generalizzazione che procede per enumerazione semplice.
Essa è “interpretatio”: scoperta di un principio reale per organizzare i dati dall’esperienza. Per fare
ciò, bisogna scegliere gli elementi essenziali da quelli che non sono tali, procedendo per esclusione.
Sviluppare una pratica filosofica rigorosa. Le tabulae ne sono l’esplicitazione e la dottrina degli idola
la sua preparazione (la dottrina dei pregiudizi che impediscono la conoscenza, quindi sono negativi).
Importante ricordare che Bacone ha intrapreso un progetto di dominio della natura sulla base di
una logica induttiva, superata dal pensiero dell’induzione sviluppato dal metodo sperimentale, ma
ancora attuale nel mondo della salute. 1. Noi non conosciamo per contemplare la natura, ma per
controllarla e prevedere la natura in modo da agire su di essa (così fanno i medici). 2. Bacone è
importante perché ritiene il pregiudizio un qualcosa di negativo; quindi ritiene che il processo di
conoscenza sia un processo di emancipazione dai pregiudizi. 3. Bacone è importante perché
valorizza tutto quel patrimonio esperienziale che potrebbe essere a sostegno della nostra
conoscenza.

Galilei invece fa un passo ulteriore verso il metodo sperimentale avvalendosi sempre dell’induzione.
Per citare Kant “Galilei ha compiuto una rivoluzione copernicana” (dal geocentrismo
all’eliocentrismo) perché per conoscere la natura ha dovuto cambiare la natura, cioè ha dovuto
costruire un esperimento perché non basta l’osservazione della natura e l’esperienza per
conoscerla. Nell’esperimento “costringo” un certo accadere. Il paradosso è che conoscere com’è la
natura la devo modificare. Quindi l’esperimento è la base per poi effettuare quei processi induttivi
che sono propri della scienza sperimentale. Però non sono induttivi per Galilei perché egli parla
anche di necessarie dimostrazioni, cioè non basta solo il processo induttivo che porta
all’esperimento, ma prima dell’esperimento è necessario fare dei calcoli, delle dimostrazioni di
quanto è avvenuto, le quali ci fanno prevedere cosa dovrebbe accadere per poi vedere se con
l’esperimento le mie ipotesi sono confermate o no. Nesso profondo quindi tra ipotesi da testare,
esperimento che si costruisce per testarle e la aistesis (la nostra osservazione di ciò che accade
nell’esperimento sullo sfondo dell’ipotesi).

Questo metodo ebbe successo in medicina perché questa scienza si propone di descrivere
fattualmente ciò che accade pretendendo di essere vero, obiettivo per tutti e giungendo a delle
leggi (regolarità) che mi permettono di fare previsioni, grazie anche alle nostre capacità di
trasformare l’evento osservato in qualcosa di misurabile. Questo secondo Galilei è il compito della
scienza.

C’è un metodo comunque razionale che senza usare il metodo sperimentale misuri gli eventi? Cioè
c’è modo di misurare la soggettività in maniera oggettiva?

Distinguiamo tra l’induzione e la deduzione. Sono due processi con i quali noi ragioniamo, processi
inferenziali. Abbiamo visto che nel metodo sperimentale vale il metodo induttivo. Per capire quali
sono i limiti dell’induzione parliamo di Hume. Hume ha destato Kant dal suo sonno dogmatico,
mostrando che la scienza è una disciplina che non procede per deduzioni. La scienza non procede
deduttivamente: le predizioni e le leggi non possono essere ottenute deduttivamente; le conclusioni
infatti non dipendono necessariamente dalle premesse. Quando si procede per deduzioni, se si
arriva ad una conclusione questa deve essere valida necessariamente e universalmente. Hume si
pone la domanda di come fare a sapere se la conclusione sia valida necessariamente e
universalmente. Ad esempio se io affermo che “tutti i corvi sono neri” ma poi scopro che esiste un
corvo bianco, non posso dire che la conclusione di prima sia necessaria e universale, quindi se la
continuo a sostenere generalizzo e ragiono deduttivamente. Ma la scienza così ha dimostrato di non
poter arrivare alla verità deduttivamente perché sbaglierebbe. La scienza ragiona induttivamente:
vuol dire che noi non arriviamo alla parola ultima su come sia la natura, ma ci avviciniamo molto;
oggi diremmo qualcosa di probabilisticamente vero ma non di assolutamente vero. Hume infatti è
il maestro dello scetticismo. Hume dice che le scienze poggiano su un presupposto che dice che
“tutto ciò che ha un inizio debba avere una causa”, cioè che non è una relazione di idee. Se non
fosse così, certe cose nemmeno le inizierei a cercare, perché se pensassi che le cose capitino per
caso perché dovrei chiedermi la loro causa? La scienza dunque si basa su un principio metafisico di
causalità, tenendo conto della distinzione fra relazioni di idee e le questioni di fatto, cioè che “da
certe cause determinate scaturiscono determinati effetti”.

Ricapitolando. Per capire da dove arriva questo principio di causalità, Hume distingue solo due
presupposti:

1. Relazioni tra idee,


2. Questioni di fatto.

Le relazioni tra idee sono quei giudizi in cui il predicato si limita ad esplicitare il contenuto che è
presente nel concetto del soggetto. Il giudizio ha un soggetto e un predicato; qui il predicato esplicita
ciò che dice il soggetto. Se io dico “il tutto è maggiore della parte”, il soggetto è “il tutto”, il predicato
è “l’essere maggiore della parte”, il predicato “essere maggiore della parte” si dice del “tutto” come
sua esplicitazione, non aggiunge nulla al concetto di tutto; se pensiamo al “tutto” troviamo che è
“maggiore della parte”, perché se fosse inferiore non sarebbe il tutto. I giudizi quindi in cui il
predicato si può legare al soggetto in modo tale da esplicitarne il contenuto sono le relazioni tra
idee. Quindi, le relazioni tra idee sono quei giudizi in cui il predicato si aggiunge al soggetto perché
lo spiega. Dunque hanno una validità universale e necessaria perché il contenuto di questi giudizi è
già contenuto nella nozione del soggetto (il predicato altro non fa che spiegare quello che già
contiene il soggetto).

Invece i giudizi come “tutti i corvi sono neri”, in cui il predicato “l’essere nero” si aggiunge al soggetto
“l’essere corvo” non perché “l’essere nero” espliciti il contenuto di “essere un corvo” ma perché
“l’essere nero” attribuito “all’essere corvo” attribuito sulla base dell’esperienza, si chiamano
questioni di fatto. Perché non sono validi necessariamente e universalmente? Perché l’esperienza
può essere smentita.

Allora i giudizi scientifici della scienza induttiva (scienza della natura) possono valere universalmente
e necessariamente? No, perché sono questioni di fatto. Diversamente dai giudizi delle scienze
deduttive (la matematica) che sono relazioni tra idee e così validi universamente e necessariamente
(es. teorema di Euclide).

Ecco i limiti dell’induzione: noi in medicina lavoriamo con le probabilità (range statistico), ma la
scambiamo per necessità per una questione di sicurezza “psicologica”.
La questione è: il presupposto “tutto ciò che ha un inizio debba avere una causa” che è l’impalcatura
della ricerca scientifica è valido universalmente e necessariamente o no? Questo presupposto è una
relazione tra idee o una questione di fatto? “Tutto ciò che accade ha una causa” dice la stessa cosa
del presupposto di prima, ma è una relazione tra idee? No. Perché? Perché nel concetto di
accadimento, di inizio, non c’è la causa. Che cos’è un inizio? Deve essere per forza “causata”? E
questo concetto di inizio l’abbiamo ricavato dall’esperienza di un inizio? Quindi se tratto
dall’esperienza, questo presupposto non è una relazione di idee perché non può valere
universalmente e necessariamente. Io potrei anche aver visto tutti gli esempi nella realtà in cui
effettivamente gli inizi sono stati causati, ma concluso per generalizzazione di un’esperienza. Quindi
“tutto ciò che ha un inizio ha una causa” è una questione di fatto. Se fosse una relazione di idee,
invece, i concetto di causa dovrebbe essere dentro il concetto di inizio ma non perché io ho penso
ad un inizio che ho visto, ma perché penso all’idea di inizio. L’idea di inizio è “la prima cosa”, e per
pensare ad una cosa non necessariamente devo esserne spinto. Un’altra definizione di inizio
potrebbe essere “ciò che prima non c’era”, vuol dire che la causa la inserisco dopo e perché? Perché
nell’esperienza ho visto che è andata sempre così, ma allora se ho osservato che è andata sempre
così, quell’affermazione non è una relazione tra idee ma una questione di fatto. Hume infatti dice
che “certe cause producono certi effetti”.

Allora il giudizio “tutto ciò che accade dev’essere causato” non è una relazione di idee e neppure
una questione di fatto perché questa non è in grado di legittimare il “tutto ciò che accade” (non è
una questione di fatto se pretendiamo che valga universalmente e necessariamente, perché esse di
per sé non sono così). Si deve aggiungere che “certe cause producono certi effetti”, entrando in un
ambito più particolare. Allora, l’ho resa universale e necessaria perché ho precisato che certe cause
producono certi effetti.

Hume conclude che questo presupposto (“tutto ciò che accade dev’essere causato”) deriva da
“come siamo fatti”, cioè dalla nostra abitudine nel dedurre che il primo evento sia la causa del
secondo evento al quale abbiamo assistito. Vediamo la ripetizione costante di una certa sequenza,
e ne concludiamo il nesso di causalità: in realtà dovremmo solo constatare che alla prima segue la
seconda con costanza. Quindi la sua validità è legata alle probabilità.

Quindi questo presupposto su cui si basa tutta la scienza in realtà è una mera abitudine della nostra
mente. Abitudine, legge della nostra mente, legge dell’associazione. Noi siamo così fatti da cercare
le cause degli eventi, è una convinzione. Secondo Hume ciò di cui abbiamo conoscenza sono solo
tutti i fasci esperienziali che adesso mi stanno attraversando. Così non abbiamo conoscenza delle
cause, ma per abitudine conosciamo che ad una cosa ne segue un’altra. Ovviamente si abbassano
di molto le nostre pretese conoscitive sullo sfondo della teoria dell’induzione, colta nell’incapacità
di giungere a conclusioni universali e necessarie.

Russel, “perché non supporre un principio di uniformità della natura?” Se io faccio delle induzioni,
devo perlomeno supporre che la natura agisca in modo uniforme; perché se io riscontrassi che la
natura agisce difformemente, mi stupirei. Per fare un’induzione devo supporre non tanto la validità
del principio di causalità, ma perlomeno la validità del principio di uniformità. L’induzione poggia su
questo principio. Non solo ha dei limiti, perché può giungere solo a conclusioni probabilistiche,
anche se non ce ne rendiamo conto perché usiamo queste conclusioni come se fossero delle
evidenze. Evidenza vuol dire “ciò che non ha bisogno di essere provato” (mentre in inglese evidence
vuol dire l’esatto opposto, ciò che ha bisogno di essere provato). L’uniformità deriva dal fatto che io
ho osservato che le cose avvengono regolarmente. Questo principio così legittima l’induzione, e
l’induzione legittima a sua volta l‘uniformità (circolarità viziosa o regressus ad infinitum). E questo è
un altro limite dell’induzione. Un limite che ha fatto sì che alcuni filosofi non usassero l’induzione
per spiegare la conoscenza scientifica. Proprio per questo motivo Popper dirà “la scienza non è
scienza per il metodo induttivo, perché esso non è in grado di spiegare come procede la scienza”
(es. Il tacchino induttivista). Per conoscere, non si può usare un metodo che legittima un principio
perché ne ha bisogno. Infatti Popper, a differenza di Russel che rimane induttivista, svilupperà la
dottrina falsificazionista.

Reichenbach (neopositivista). Eliminare il principio dell’uniformità dalla scienza significherebbe


annullarne il potere, cioè quello di distinguere ciò che è vero da ciò è falso per leggere la natura.
L’induttivismo è supportato dalle conoscenze della probabilità, che circoscrive attraverso la
statistica le nostre ipotesi. L’induttivismo poggia sull’esistenza dei dati oggettivi (necessario diventa
distinguere tra dati e fatti), sull’importanza delle osservazioni e sul fatto che il procedimento
scientifico sia un procedimento di verificazione. Popper infatti parlerà di verificazione nel senso di
controllo, proprio perché vuole fare a meno dell’induzione.

7^ lez. – la logica induttiva.

Critica all’esperimentum crucis. Nella filosofia della scienza la tesi di Duhem aveva messo in crisi la
possibilità di avvalersi di una asserzione osservativa per poter negare la validità di un’ipotesi, sullo
sfondo della relazione logica della condizione sufficiente ma non necessaria. Negli studi della fisica,
Duhem ritiene che l’ipotesi può essere in realtà la somma di un conglomerato di ipotesi ausiliarie.
Duhem teorizza che almeno una tesi ausiliaria è falsa, ma non è in grado di sapere quale. Questo
limita fortemente il valore decisivo della principale ipotesi. Questa tesi viene ripresa da Quine e
venne estesa a qualunque asserzione dei procedimenti conoscitivi umani (non solo alla natura).
Esempio di come nella scienza non sia decisiva la non conferma osservativa, perché l’osservazione
non è sufficiente per poter decidere quale delle ipotesi debbono essere cambiate. Fu Mill a dedicarsi
nella prima metà dell’800 nel suo “System of logic” alle inferenze di tipo induttivo. Le inferenze di
tipo deduttivo erano già state esaminate da Aristotele. Mill declina i metodi e i canoni del metodo
induttivo: metodo dell’accordo, della differenza, congiunto dell’accordo e della differenza o dei
residui, delle variazioni concomitanti. Federspil (2004) declina delle regole critiche verso il metodo
induttivo nel ragionamento clinico. La prima: la probabilità di una ipotesi aumenta se le sue
conseguenze sono verificate. Esempio: se il paziente P è affetto da una polmonite, allora deve avere
una leucocitosi (se vale P allora Q). Il paziente P ha una leucocitosi (vale Q). E’ divenuto più probabile
che P sia affetto da una polmonite (dunque vale P). Se noi ragioniamo in questi termini stiamo
facendo una deduzione che però contravviene alle regole della deduzione (fallacia del modus
ponens del conseguente, fallacia causale). In questo caso però la conclusione ci salva usando il
termine probabile, perché è una conclusione che non pretende di valere necessariamente. La
seconda: l’incremento di probabilità di una ipotesi varia inversamente alla probabilità delle sue
conseguenze verificate. Esempio: se il paziente P che lamenta odinofagia è affetto da scarlattina,
allora avrà la febbre (se P allora Q). La febbre è un fenomeno molto probabile nei soggetti che
lamentano odinofagia (febbre probabile, ma non di per sé sufficiente). Il paziente P presenta febbre.
L’ipotesi che il paziente P soffra di scarlattina è divenuta poco più probabile. Tanto è più probabile
che si verifichi, tanto è più probabile che dipenda da altri fattori. Esempio parallelo: se il paziente P
che lamenta odinofagia è affetto da scarlattina, allora presenterà un esantema cutaneo. L’ esantema
cutaneo nei soggetti che lamentano odinofagia è un fenomeno poco probabile. Il paziente P
presenta un esantema cutaneo. L’ipotesi che il paziente P soffra di scarlattina è divenuta molto più
probabile. Aumenta la probabilità perché minore è il rischio cha la conseguenza dipenda da altri
antecedenti che sono diversi dalle ipotesi in questione. Terza regola: l’incremento di probabilità di
una ipotesi varia inversamente alla somiglianza alle precedenti delle sue conseguenze verificate.
Esempio: se il paziente P che ha una riduzione di T3 circolante, è ipotiroideo, allora avrà una
diminuzione del T4 circolante. Il metabolismo del T4 circolante è molto simile al metabolismo del
T3 circolante. Il paziente P ha una diminuzione del T4. L’ipotesi che il paziente P sia ipotiroideo è
divenuta poco più probabile. Esempio parallelo: se il paziente P che presenta freddolosità,
bradicardia e sonnolenza, è ipotiroideo, allora presenterà un’ipercolesterolemia.
L’ipercolesterolemia è un fenomeno fisiologicamente diverso dalla freddolosità, bradicardia e
sonnolenza. Il paziente P ha un’ipercolesterolemia. L’ipotesi che il paziente P sia ipotiroideo è
divenuta molto più probabile. La non verosomiglianza della conseguenza attestata acquista valore
come campanello di allarme, test che segnala una maggiore probabilità della ipotesi. In questo caso
non è la sua improbabilità, ma il suo essere dissimile da altri fattori con cui potrebbe essere confusa
a essere decisivo.

Ricapitolando: al ragionamento induttivo viene richiesto il rigore della deduzione, quando ciò non è
possibile.

8^ lez. – Sullo iato fra fatti e valori.

Perché è difficile confrontarsi sui valori degli altri? Si possono separare i fatti dai valori? La questione
di una razionalità non solo strategica.

Da una parte abbiamo i fatti, che sono oggettivi, sui fatti decidono gli esperti, decide chi è in grado
di conoscere questi fatti. Tra l’altro gli esperti hanno bisogno di confrontarsi tra loro. Esiste una
comunità scientifica di ricercatori che aggiorna la conoscenza sullo stato dei fatti ed è un discorso
oggettivo proprio perché intersoggettivo con uno stesso linguaggio e metodo scientifico. Dall’altra
parte ci sono i valori che sono soggettivi. Questo è il nostro luogo comune perché se i fatti sono
oggettivi e i valori soggettivi quando c’è un problema sui fatti c’è un modo razionale – ragionare
sullo state dell’arte, su ciò che ci mette a disposizione la scienza - per affrontare il problema (anche
se non è così semplice come sembra, es. Covid), mentre quando c’è un problema con i valori
possiamo solo prenderne atto. La relazione di cura è diventata questo: c’è il tecnico professionista
che è in possesso dei fatti e di valori propri e c’è il paziente che sente i propri valori che possono
non coincidere con i nostri ma che noi rispettiamo. Chi più di altri ha rappresentato ciò è Weber
(sociologo e filosofo), perché ci fa vedere bene il luogo comune nel quale siamo per cui i valori sono
soggettivi e i fatti sono oggettivi, convinzione che caratterizza e orienta le pratiche di cura. Weber
dice che le scienze empiriche si legano al piano dell’essere, con ciò non vuole dire che non ci possa
essere alcuna discussione scientifica che tocchi la sfera deontologica. Deontologia è il discorso
intorno al dovere, cioè all’essere come dovere morale (sollen in tedesco). Cioè la ragione quando si
imbatte in un dovere morale e lo vuole discutere razionalmente che cosa può fare? Secondo Weber
può fare solo tre cose. La prima è la scomposizione del giudizio. La seconda è il rendersi conto se è
disposta ad accettare i mezzi che servono per il conseguimento dello scopo che si è prefissata. La
terza se è disposta ad accettare gli effetti collaterali o le conseguenze. Sull’esempio dell’acquisto di
una macchina elettrica…

Scomposizione del giudizio. Quando una persona è chiamata a prendere una scelta morale lo fa sulla
base di alcuni principi/presupposti direbbe Weber. La ragione riconduce la scelta ai principi ma non
mi dice se siano giusti o sbagliati; questi principi conducono ad un bivio che rappresenta due
tipologie di scelte non conciliabili tra loro. La scelta la compie il sentire soggettivo. La ragione ti
chiede se sei coerenti con i tuoi principi?

Rendersi conto se si è disposti ad accettare i mezzi. La ragione mi dice che per raggiungere lo scopo
mi servono determinati mezzi. La scienza ci dice quali mezzi adoperare, se questi non vanno bene
devi decidere tra loro o lo scopo prefissato. La ragione ti chiede conosci i mezzi a tua disposizione?

Accettare gli effetti collaterali. Conoscere prima della scelta le conseguenze. Ma le conosciamo
veramente tutte? Concetto della probabilità. La ragione ti chiede se sei disposto ad accettare le
conseguenze?

L’ultima parola secondo Weber non riguarda la scienza, ma la coscienza in base alle preferenze
soggettive. Tanto è vero che esiste un aforisma che dice che un operatore sanitario agisce in “scienza
e coscienza”. Cioè la scienza non si sostituisce agli scopi che uno vuole seguire. La razionalità, l’uso
della ragione, si può definire in ambito logico (cioè la ragione ricostruisce i principi a partire dai quali
scaturiscono le nostre scelte), in ambito tecnico (la ragione ci aiuta a conoscere i mezzi che ci
servono per raggiungere uno scopo), in ambito strategico (se sei disposto ad accettare le
conseguenze). La ragione non è capace di dare perso e validità alle scelte ultime, che invece sono
scelte di coscienza. La critica alla razionalità meramente tecnica e strategica è stata piuttosto
frequentemente mossa dalla filosofia del ‘900 (es. dopo la bomba atomica). Si è cercato di
recuperare un utilizzo della ragione dialogico.

Alcuni assunti.

- Lo scienziato non può farsi condizionare dai propri valori (preferenze) nel fare ricerca.
- La ragione resta muta dinnanzi alle questioni di valore.
- La ragione non determina le nostre scelte.
- Bisogna distinguere tra il mondo dei fatti e il mondo dei valori, l’uno oggettivo l’altro
soggettivo, l’uno pubblico l’altro privato, l’uno oggetto della scienza e l’altro della coscienza.
(nascita del conflitto tra l’essere professionista e una persona a sé)

Sui valori siamo quasi afoni, facciamo fatica a ragionarci. Lo dimostrano gli scontri tra la bioetica
laica e la bioetica cattolica, due semplificazioni di ragionamenti molto complessi. Forse
dovremmo cambiare il nostro modo di pensare alla ragione? Perché siamo arrivati a pensare che
sia inutile ragionare sui valori quando essi sono molto importanti? La saggezza è una delle
modalità con la quale si può recuperare un discorso sui valori. Un discorso che è un confronto
che non sappiamo apriori dove arriverà, ma ci si mette in dialogo. Per fare ciò dobbiamo
accantonare la convinzione che la ragione resta muta dinnanzi alle questioni di valore. La ragione
nello spazio della saggezza non si limita a fornire i mezzi o ad identificare contraddizioni ma cerca
di confrontarsi nel merito sulle questioni di fondo.

Lez. 9 – Etica pratica: genealogia dei valori e dicotomia tra fatti e valori.

Ripercorriamo il percorso storico filosofico che ci ha portato a distinguere nettamente i fatti dai
valori. Weber ha mostrato come l’uomo potesse “usare” i valori quando questi avrebbe cercato
di discuterne razionalmente. I valori nel corso della storia della filosofia sono stati considerati
prima oggettivamente, poi soggettivamente ed infine sotto una visione di intersoggettività.

Luogo comune: i valori in quanto soggettivi dipenderebbero in ultima istanza da una scelta di
coscienza e non sarebbe possibile discuterne razionalmente. La riflessione razionale
riguarderebbe (Weber):

- La contraddittorietà o meno delle nostre scelte con i principi da cui esse dipenderebbero
(conflitto tra valore interno);
- La conoscenza dei mezzi necessari per realizzarli;
- L’accettazione delle conseguenze che dalla loro accettazione dipenderebbero.

La scelta in ultima istanza sarebbe una questione di coscienza (es. dell’acquisto di


un’automobile). La pratica etica professionale è difatto imbevuta di questa convinzione (es.
firma al consenso informato).

Nel corso della storia della filosofia è cambiata la modalità con la quale concepire quello che noi
chiamiamo valore. In anzitutto dalla filosofia greca, soprattutto per Platone, il valore si è imposto
come un qualcosa che vale oggettivamente. Concezione che permane anche nella filosofia
medievale, fin tanto che non si giunge all’età moderna che vede il valore come qualcosa di
soggettivo. Il valore viene colto come sentimento, quindi sempre soggettivo, ma viene accolto
in calcoli logici in modo tale da renderlo razionale (il più oggettivo possibile). Gli spunti per una
ragione dialogica sono quelli che aprono ad una concezione intersoggettiva del valore che si
inserisce dentro lo spazio dell’etica pratica, quindi di quel modo di concepire l’etica non in senso
applicativo ma in senso pratico (architrave di questo corso insieme al concetto di saggezza). Nel
dettaglio…

La questione del valore all’interno della filosofia greca. La proposta platonica che vede nei valori
qualcosa di oggettivo è connessa alla critica che Socrate chiama “relativismo etico” (posizione di
Protagora) e “nichilismo” (posizione di Gorgia). Protagora, che è considerato un sofista e che
rappresenta l’ambiente culturale nel quale Socrate venne condannato a morte nel 399 a.C., è
stato un filosofo importante non solo perché ha fondato la democrazia ma perché ha avuto
un’intuizione e duratura nel corso della storia: conoscere vuol dire sentire. Esempio del dolore
nella pratica clinica. Se io sento che qualcosa è giusto, e il giusto non altro che il risultato del mio
sentire, ciò che io sento è innegabile (relativismo etico). In questo modo però è impossibile
vivere insieme in modo pacifico qualora insorgessero conflitti di valore tali da portarci a scegliere
strade differenti (es. pagare o meno le tasse). Come disbrigare questi conflitti? Protagora,
avendo reso i valori soggettivi, dice che non c’è modo di superarli senza dimostrare chi è più
forte o attraverso strategie, a meno che non ci si accordi non tanto su cosa sia giusto ma su cosa
sia utile, spostando il discorso ad un valore (l’utilità) che ci consente razionalmente di trovare
un vantaggio. Il relativismo etico poggiava su questa equiparazione tra la conoscenza e il sentire.
Gorgia addirittura sostenne tesi ancora più radicali: nulla è, ma anche se l’essere fosse, non
sarebbe conoscibile; se poi l’essere fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Gorgia così
apre al nichilismo, cioè all’impossibilità di pretendere non solo dire che qualcosa è significativo
ma anche di poterlo comunicare. Se per Protagora l’uomo veniva concepito come la misura delle
cose (perché è il sentire dell’uomo che esprime la misura delle cose), Socrate invece non può
accettare la relatività dei valori o addirittura che nulla si possa comunicare sui valori perché
questo vorrebbe dare spazio alla violenza (anche la democrazia protagorea risulterebbe un mero
accordo strategico). Socrate affronta in modo diverso la conoscenza: il cosidetto dialogo
socratico. In questo dialogo egli cercava quello che il suo discepolo Platone avrebbe chiamato
“idea”. L’oracolo di Delfi definì Socrate come “l’uomo più sapiente” e questo turbò molto
Socrate perché sapeva che non era vero. Così cerco di portare all’oracolo un contro fatto, una
persona più sapiente di lui, di modo che potesse rivelargli il senso dell’affermazione. Trovò che
tutti parlavano un po’ di tutto ma senza sapere un gran chè, questo per sconfermare la tesi di
Gorgia: egli tira fuori (concezione maieutica) con domande la conoscenza dietro ad ogni
affermazione altrui (maieuta: colui che fa nascere delle idee dalle parole); qualora non ci fossero
conoscenze da tirar fuori, è di fatto un sapere di non sapere. Quindi Socrate capì che le parole
dell’oracolo si riferivano al fatto che lui è il più sapiente proprio perché non ha la presunzione di
sapere ciò che non sa. Socrate cercava i concetti, cercava i valori “il che cosa essi fossero”,
cercava il criterio che rendeva tali i concetti. Platone diede il nome a questo oggetto di ricerca:
idea. Platone cercava di spiegare come le idee, cioè i valori, siano oggettivi, autoevidenti e
assoluti. Differenza tra parole, immagini, schemi, concetti e idee: la parola ha una dimensione
fisica (segni scritti o fonetici), ma non corrisponde al concetto della parola (es. giustizia, tavolo).
Quello che cercava Socrate era il concetto (livello del pensiero), cioè quello che permette alla
parola (livello del linguaggio) di parlare dell’oggetto (livello della realtà). Platone dice: linguaggio
si riferisce alla realtà per mezzo del pensiero. Attenzione però il concetto di tavolo non è
l’immagine che ho del tavolo (esso può essere tondo, quadrato, bianco, etc), perché se
combaciassero sarebbe difficile comunicare (immagine diversa in ciascuno parola individuale).
Il concetto invece è ciò che unisce intorno al significato: il concetto dunque è universale.
Distinguiamo il concetto da uno schema nella misura in cui lo schema non è l’immagine concreta
del tavolo ma la composizione grafica del tavolo (gambe e ripiano). Ed è possibile anche
distinguere il concetto dall’idea nella misura in cui le idee si esprimono grazie ai concetti, ma
sono quel modello al quale il concetto tende. Esempio del bene: noi potremmo avere concetti
diversi sul bene, ma l’idea rimane quella che è, rimane nella sua oggettività. Per noi moderni (a
partire da Cartesio) l’idea non è qualcosa di oggettivo, di esemplare, ma ci riferiamo ad un
qualcosa che è nella nostra mente, talora anche di opinioni (idea: mero contenuto della mente,
quasi un’immagine). Invece, Platone quando parla di idea parla di una sorte di modello, di un
riferimento che ci permette di definire qualcosa. Tra l’altro Platone ammette che l’idea non si fa
tradurre sempre. Ad esempio l’idea di bello, come un valore estetico, (vs bene valore etico vs
utile valore economico vs la salute valore vitale) non ci si presenta come la porta di casa, ma la
definiamo attraverso diversi concetti. Platone era convinto che con il nostro intelletto fossimo
in grado di vedere il significato della bellezza, della verità, della giustizia, etc.. di tanti altri valori.
Ma lo stesso Platone non arriva ad un’univoca definizione del bene, perché per definirlo sono
necessari diversi concetti; l’idea diventa quel modello irraggiungibile che sappiamo che esiste
per cui proviamo ad afferrarlo attraverso i concetti che però non sono mai così precisi e
sufficienti per poter afferrare quell’idea una volta per tutte. Ora il Platonismo ci ha portato a
credere che l’idea sia un qualcosa di reale (perché la si può afferrare razionalmente, intuendola
oppure ragionandoci) e immutabile nel tempo. Da qui nasce l’intuizionismo assiologico
(assiologico=discorso sui valori) che ritiene che i valori siano oggettivi, auto evidenti (dovremmo
afferrare i valori per evidenza, cioè non bisognosi di dimostrazione per rendersi conto che
valgono) e assoluti.

Nell’età greca-medievale generalmente si distingue tra la facoltà dell’intelletto, della volontà e


della passione (la così detta tripartizione della facoltà in età antica e medievale). Questa
tripartizione risente di un’influenza di una visione negativa del desiderio. Il desiderio quando è
razionale, è volontà, quando è irrazionale è passione. In questa cornice storica la passione (detta
appetito irrazionale) va combattuta, e l’unico desiderio accettabile è quello retto dalla ragione,
quindi la volontà (detta appetito razionale). Nella filosofia moderna c’è invece un ripensamento
sul desiderio. Viene riscoperto come sorgente di conoscenza: ad esempio la scoperta del senso
per il bello, del senso morale (il senso, quale analogo della percezione). Il senso, chiamato
sentimento, è inteso come facoltà autonoma capace di scoprire le proprietà ultime delle cose,
in questo caso i valori delle cose. Allora la tripartizione diventa intelletto, volontà, sentimento
(continua ad usare “passione” al posto di sentimento). Il messaggio è che abbiamo tre fonti di
conoscenza diverse: l’intelletto, il sentimento (gli affetti) e la volontà (dimensione dell’agire).
Ecco perché l’uomo è misura delle cose, perché le cose riusciamo a definirle grazie al sentire
dell’uomo. E mentre nasce la teoria dei fatti (metodo sperimentale), nel ‘600 nasce anche la
teoria dei sentimenti morali (corrente del “emotivismo britannico”, scuola scozzese), che parla
di sentimenti estetici ed etici come sorgente soggettiva dei valori oggettivi (es. il senso del bello,
con una spiccata sensibilità si può raggiungere il valore della bellezza). Diversamente, per Hume
il sentimento è una fonte soggettiva del carattere soggettivo dei valori. Soggettivo perché legato
al nostro sentire, cioè noi non riusciamo a considerare la totalità delle sfumature delle cose col
sentire perciò rimane soggettivo (esposizione delle cose, dei fatti ai soggetti: l’uomo reagisce
diversamente). E’ dunque un’età che fa prevalere i sentimenti sulla ragione: prima sentiamo e
poi giudichiamo. La qualità percepita è inseparabile dal soggetto percipiente. Proprio perché il
valore si presenta non solo come scoperto dal sentimento ma come soggettivo e relativo al
giudizio di ciascuno, si cerca di tornare a quel valore che già Protagora aveva cercato: il valore
dell’utile, considerando che almeno questo valore ci permette di vivere insieme. Questo sullo
sfondo di un presupposto: che l’umano cerca di essere felice e che valuti ciò che gli accade in
base alla capacità provocare o meno questo piacere (filosofia utilitarista). Se prevale il discorso
economico/utile sui valori, stiamo parlando di qualcosa che vale sempre in vista di qualcos’altro,
non vale per sé (valori strumentali). Si riprende così un discorso razionale sui valori inteso nei
termini di un calcolo. Siamo tornati al discorso che quando nella pratica clinica si cerca di
includere i valori del paziente per un processo decisionale, la teoria decisionale (decision making,
decisione razionale) cerca di inserirli come oggetti in un calcolo.

Riassumendo:

modello dell’intuitismo modello dell’emotivismo modello dell’uso della


assioliogico britannico saggezza
Oggettivi (nous) Soggettivi (emozioni) Intersoggettività dei valori
Evidenti (razionali) Irrazionali
Assoluti (intrinseci) Relativi (strumentali)

Lez. 10 – Positivismo e medicina, spunti dalla filosofia della scienza.

Cenni sul neopositivismo. Si snoda nei primi anni del ‘900. Il neopositivismo rafforza alcune posizioni
sancite al positivismo con un interesse allo studio del linguaggio della logica. Il neopositivismo
escluderà dal dominio della scienza (attività conoscitiva) una serie di enunciati caratterizzati come
privi di senso o insensati in considerazione del “criterio di significanza” (enunciati filosofici,
metafisici, etici e religiosi, enunciati nei quali esprimiamo bisogni o emozioni). Tra gli enunciati
significanti ne troviamo di due tipi: relazioni tra idee o questioni di fatto. Gli enunciati basati sulle
relazioni tra idee costruiscono rapporti formali fra i concetti, mentre quelli basati sulle questioni di
fatto attestano osservazioni che consentono al predicato di potersi dire del soggetto. La ricerca del
neopositivismo è quella di formulare un linguaggio che sia preciso, descrittivo, scommettendo molto
sulla possibilità della verificazione. Il neopositivismo in questo senso intensifica il positivismo nella
ricerca di una visione di un sapere unificato, capace di abbracciare le scienze della natura e le scienze
sociali. Il discorso scientifico è esclusivamente logico formale (rende affidabile la conoscenza).

Quando un enunciato ha senso? Secondo i neopositivisti ha senso solo se può essere verificato.
Quest’affermazione trova senso quando il curante non dà importanza a certi giudizi del paziente
perché non rientrano nella sua cornice teorica perciò non verificabili. E quindi classifica questi giudizi
in soggettivi. Il problema della verificabilità/falsificabilità in merito al senso degli enunciati (criterio
di significanza) e il problema di distinguere ciò che è scientifico da ciò che non lo è (questione della
demarcazione).

Il criterio di significanza: per Wittgenstein (che non fa parte dei neopositivisti logici ma ne influenzò
il pensiero) “ha senso – è comprensibile – solo ciò di cui si conoscono le condizioni secondo cui esso
può essere vero”. Questa tesi venne riletta dai neopositivisti: “ha senso solo ciò che può essere
verificato” (restrizione del campo della significanza attraverso l’uso di un metodo). Schlick (uno degli
esponenti maggiori del neopositivismo) sancisce che il “significato di una proposizione è il metodo
della sua verificazione” per un progetto di riduzione degli enunciati scientifici ad enunciati di
osservazione diretta o a formule di logica (teoria verificazione del significato). Le conseguenze sono
che molti degli enunciati che noi pensiamo essere sensati risultano essere non verificabili e quindi
non sensati (es. enunciati della filosofia, della metafisica, etici e religiosi). Se non sono sensati,
esprimono solo stati d’animo ma della realtà non dicono nulla. Questa conoscenza toglie di fatto
spazio e legittimazione ad altre conoscenze.

Popper criticò il principio di verificabilità considerando che il principio di verificabilità e di


falsificabilità non sono discriminanti per la determinazione del senso/non senso degli enunciati.

Se un asserto S è dotato di senso, lo è anche la sua negazione non S. Ora se S è un asserto universale,
la sua negazione non S è un asserto esistenziale. S “tutti i corvi sono neri”, non S “non tutti i corvi
sono neri”, ovvero “c’è un corvo non nero” (non falsificabile). Se il principio di falsificabilità fosse
criterio di senso degli enunciati, l’enunciato non S, in quanto non falsificabile per forma logica degli
enunciati esistenziali, non avrebbe senso. Lo stesso potrebbe dirsi per l’enunciato non S rispetto al
principio di verificabilità, in quanto per forma logica ad esso peculiare non sarebbe verificabile. (per
chiarimento vedi quadrato delle opposizioni)

Altra considerazione di Popper sul principio di verificabilità/falsificabilità è che non sia in grado di
fornite un criterio di demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è. Primo perché non è in
grado di rendere ragioni delle leggi universali scientifiche, che è ciò che vuole la scienza (cioè di
quelle proposizioni universali che non si lasciano verificare, ma possono essere falsificate = primato
della falsificabilità sulla verificabilità, che quindi ha come limite l’impossibilità di fondare una
conoscenza universale - ciò che viene smentito è la loro pretesa di valere per tutti). Secondo non è
in grado di escludere asserti metafisici ovvii: è il caso degli asserti esistenziali, che non potendo
essere falsificati, l’esperienza li può solo verificare.

Come si può si può distinguere una conoscenza scientifica da una non scientifica? Ciò che separa la
scienza da ciò che non lo è, la metafisica. Il problema del primato della verificabilità/falsificabilità in
merito al senso degli enunciati e la questione della demarcazione. (Popper)

Quindi Popper abbandona la verificabilità e si concentra sulla falsificabilità. Il falsificazionismo di


Popper cerca di spiegare la scienza a prescindere dall’induttivismo. La scienza non inizia con
osservazioni, ma con ipotesi e congetture. Lo scienziato cerca poi di confutare tali ipotesi attraverso
la critica all’osservazione e il controllo dell’esperimento. Tale controllo è reso possibile dalle
deduzioni realizzate sulla scorta delle ipotesi, le quali ci consentono di stabilire se quanto osservato
abbia o meno falsificato l’ipotesi. Non arriveremo ad una posizione definitiva, tanto che Popper
afferma che la nostra conoscenza, usando una metafora, poggia su delle palafitte piuttosto che su
costruzioni di cemento. Popper sostiene dunque il metodo deduttivo dei controlli: un’ipotesi può
essere controllata empiricamente solo dopo che è stata proposta. Si parla in questo senso di
fallibilismo e di legittimazione della conoscenza scientifica per congetture e confutazioni attraverso
il metodo ipotetico-deduttivo.

Esistono nudi fatti?


Il problema del rapporto tra osservazione e teoria e il passaggio al falsificazionismo.
Duhem e Popper dicono che è impossibile osservare un fenomeno senza avere uno schema teorico
alle spalle (teoria che l’osservazione sia supportata dalla teoria – theory-laden). Qui il pregiudizio
non è più qualcosa di negativo ma di necessario all’osservazione (vs Bacone. Positivismo e Bernard
in medicina). Quindi i “fatti” sono già dei costrutti, non li constatiamo dal nulla, ma possono essere
ricondotti già ad una teoria. Nasce però la problematicità del ricorso ai nudi fatti. Quine e Duhem
con la loro tesi contraria a quella popperiana si resero conto che un’ipotesi è un conglomerato di
ipotesi ausiliare (teoria dell’olismo).

Gli enunciati protocollari per i neopositivisti sono quegli enunciati sui quali può essere edificata la
scienza. Questi hanno generato una discussione tra Schlick e Neurath, dove si è inserito Popper.
L’enunciato osservativo invece è un’asserzione che ci restituisce il risultato di ciò che abbiamo
osservato o di un esperimento. Quindi la scienza poggia su questi enunciati, che poi seguono dei
protocolli, cioè degli schemi, delle modalità operative. Dunque la questione di fondo è vedere se
l’enunciato di base restituisca un’osservazione di dati di senso o impressioni sensibili (teoria dello
psicologismo, Schlick) o un’osservazione di un qualcosa di fisico, di oggettivamente tangibile (teoria
del fisicalismo, Neurathn e Carnap).

Ricapitolando: siamo partiti dall’induttivismo, il quale sulla base dell’osservazione attraverso


l’induzione giunge a predire delle generalizzazioni, le quali presentano già delle obiezioni sul
principio di causalità e di uniformità della natura. Obiezioni riprese dal falsificazionismo (Popper),
che aggiunge la critica all’imperismo logico dell’induttivismo (Neopositivismo) e al criterio di
significanza e di verificazione e alla demarcazione. Le obiezioni invece poste al falsificazionismo sono
di Duhen e Quine (Olismo) che dicono che non si sa con certezza cosa falsificare.

Etica pratica – del nesso tra saggezza e responsabilità. Pars costruens percorso.

Qui la cura la dobbiamo intendere come una praxis, un’esperienza, piuttosto che nella sua accezione
più ampia o come una mera tecnica. Per parlare di praxis, torniamo alle forme di sapere in Aristotele.
Aristotele fa una riflessione epistemiologica sul sapere e distingue un sapere teoretico da un sapere
pratico in base all’oggetto di tale sapere. Un sapere teoretico tratta oggetti che non possono essere
diversi da quelli che sono, mentre il sapere pratico tratta oggetti che potrebbero essere diversi da
ciò che sono. Entrambi questi saperi sono caratterizzati da virtù, che sono da tradurre con
l’espressione “aretè” che significa “eccellenza. Quando Aristotele riflette sui modi con i quali
conosciamo, e li chiama “nous”, “episteme”,“sofia”, “techne” e “phronesis”, riflette sull’eccellenza di
questi modi e lega le prime tre virtù al sapere teoretico e le ultime due al sapere pratico. “Nous” è
quella virtù che noi abbiamo della conoscenza dei principi primi (che non dipendono da altri), di
solito viene tradotto con intuizione. Ad esempio il tutto è maggiore della parte o l’essere non può
non essere (non è un caso che si faccia riferimento ad affermazioni di logica o di matematica). Con
“Episteme” si rifà alla conoscenza “scientifica” che per Aristotele è la scienza supportata dal metodo
della deduzione (diverso dal concetto attuale di scienza, cioè di una scienza sperimentale supportata
al metodo induttivo entro una limitazione probabilistico-statistica). Il modello principe della
deduzione è la geometria, che sulla base di assiomi che sono colti col nous deduce ciò che da essi
possono essere mostrati con una logica sillogistica. Esistono dunque coloro che possiedono l’abilità
di dedurre e/o di intuire, e chi possiede la sofia, cioè la sapienza, ovvero l’unione di entrambe le virtù
precedenti. Il sapere pratico invece è di due tipi: “tecne” e “phronesis”. In modo improprio queste
virtù vengono tradotte con arte (tecne) e prudenza (phronesis); forse più che prudenza sarebbe
corretto usare saggezza. Questo sapere viene distinto in base a due tipi di azioni: la produzione
(poiesis per la tecne) e l’attività in sé (praxis per la phronesis). Nella produzione il fine dell’azione è
esterno all’azione stessa (si tratta del prodotto, ergon), il principio della produzione è l’arte (azione
poietica). Nella prassi invece il fine dell’azione è entro l’azione stessa, la costituisce, il fine dell’azione
è la stessa perfezione di quell’azione (l’ergon ha dentro il fine, da cui “energeia” energia) e il principio
di tale azione non è l’arte ma la scelta. La tecne sembra essere più vicina ad un sapere ingegneristico
che ci permette di sapere anche il perché e il come della produzione. Così venne concepita la
medicina: la tecne non è abilità di saper fare le cose, ma è un saper fare le cose di cui si conosce il
perché riescono o no (bene salute visto come un prodotto). La prassi invece è la virtù dell’agire
morale. Esempio per distinguere il fine delle due virtù: nell’agire bene, noi diventiamo buoni; nel
costruire un ponte noi non diventiamo un ponte. La cura tiene in sé entrambe queste virtù: è sia
un’attività orientata a perfezionarsi (tecne) ma è soprattutto un’arte orientata al bene del paziente
(phronesis). Nell’etica Nicomachea Aristotele definisce così la scelta: “..l’azione morale è fine in se
stessa, giacchè l’agire moralmente buono è un fine, ed il desiderio è desiderio di questo fine. Perciò
la scelta è l’intelletto che desidera o desiderio che ragiona e tale principio è l’uomo. Ma non può
essere mai oggetto il passato (ad esempio, nessuno può aver scelto di aver saccheggiato Troia),
giacchè non si delibera sul passato, ma sul futuro e sul contingente, mentre il passato non può non
essere stato.” Nella pratica della cura il desiderio è il bene del paziente, per cui la pratica non è solo
calcolo, come non è solo desiderio. Aristotele afferma che la scelta non è solo questione di testa
calcolatrice ma anche di volontà. Spesso succede però che nelle questioni morali ci si affidi ad un
intelletto che non desidera, astratto, o ad un desiderio impulsivo; così non riusciamo a scegliere
moralmente. Aristotele ci ricorda che per essere una persona saggia dobbiamo tenere insieme la
dimensione cognitiva e quella affettiva. Inoltre Aristotele ricorda che quando noi dobbiamo scegliere
ci troviamo in una situazione di incertezza, che se dominata dal mero sentire ci fa sentire angosciati
e quindi ci spinge ad azioni impulsive o alla ricerca di calcoli rassicuranti. L’incertezza è costitutiva la
scelta, altrimenti si tratterebbe di dedurre sulla base di principi noti. Nel campo del sapere pratico
parliamo di un sapere ragionevole, probabile, non necessario, per cui quando sono in gioco questioni
di valore importanti talora il sentire (compassione e terrore) se non è accompagnato da un
ragionamento può far perdere la strada. La cura dunque è un’attività morale in cui si deve praticare
un sapere peculiare: la prudenza. Aristotele definisce così la prudenza: “poiché la virtù etica è una
disposizione alla scelta, e la scelta è un desiderio assunto dalla deliberazione, bisogna per questo
che il ragionamento sia vero e il desiderio sia retto, se la scelta deve essere moralmente buona, e
che ciò che il ragionamento afferma e che ciò che il desiderio persegue siano la stessa cosa. Principio
dell’azione è la scelta (che è ciò da cui procede il movimento, ma non il fine al quale il movimento
tende) e principi della scelta sono il desiderio e il calcolo dei mezzi per raggiungere il fine.” Limite
del ragionamento pratico è la precisione, perché se stiamo facendo un ragionamento etico non
possiamo aspettarci la stessa precisione di un ragionamento sulla geometria perché sono saperi
differenti, uno pratico e uno teoretico. Perché? Perché l’oggetto della prassi è un oggetto
contingente, che cioè può essere diverso da quello che è. Aristotele infatti ammonisce di non
pretendere dall’etica ciò che l’etica non può fare, perché cercare l’assoluto razionale vuol dire non
cercare ciò che va cercato; la deliberazione è strutturata dall’incertezza che l’accompagna.
Fenomenologia del ragionamento morale. Il come effettivamente si dispiega il ragionamento morale.
I componenti di tale ragionamento sono: il desiderio, la buona volontà e la fermezza nella scelta del
fine, la disposizione e l’attitudine d’animo, il tempo opportuno per il discernimento, la concretezza
dell’esperienza e delle emozioni, il contesto, la situazione attuale e i canoni di riferimento nel quale
si delibera. Per agire moralmente e rispondere alla domanda “Che cosa devo fare?”, Aristotele dice
che per praticare la saggezza nel momento della deliberazione è necessaria una certa
predisposizione e un esercizio ad essa. Il desiderio accompagna il ragionamento, insieme alla volontà
che mette a fuoco il fine. Quindi per fare una scelta, devo essere allenato, sforzarmi con tutto me
stesso di volere il fine. Con ciò posso iniziare a deliberare, che talune volte è anche un calcolo, e
l’insieme della parte razionale e di quella desiderativa mi permette di giungere ad una scelta (intesa
come intelletto che desidera o desiderio che ragiona). La scelta che mi porterà a stabilire quell’azione
che mi permette di raggiungere il fine, dunque scelta dei mezzi. Scelta che dopo essersi esercitati
assomiglierà ad un’intuizione. Per fare una scelta c’è bisogno di un confronto con chi gioverà della
nostra scelta ad esempio il paziente, di un incontro con l’altro nella precisazione dei fini (canone di
orientamento all’azione), e la scelta dei mezzi non è solo strumentale ma già la sua scelta è un modo
per precisare il fine stesso. Nel pervenire ad una scelta il saggio fugge dagli estremi, cercando il giusto
mezzo. Ora la scelta di far desiderare l’intelletto porta la novità rispetto al paternalismo di includere
l’altro, confrontandosi con i valori dell’altro in modo da non ridurli ad una questione meramente
soggettiva (vedi etica pratica).

Etica della responsabilità.


La saggezza e la prudenza è quel tipico ragionamento richiesto da chi si prende cura di qualcuno, in
quanto questo prendersi cura non è una semplice tecne (saper fare) ma è uno stare in relazione, una
prassi (agire che si realizza in una relazione). E la virtù che è riferita alla prassi è la saggezza o
prudenza. Aristotele mostra come sia un modo raffinato di utilizzare la ragione che non pretende di
affermare qualcosa in modo assoluto e necessario (secondo il metodo deduttivo o secondo il
metodo del mero calcolo imposto dal modello della decisione razionale), ma che si accontenta
dell’ambito della ragionevolezza in un contesto di mediazione. Alcune considerazioni critiche:
- L’indeterminatezza del fine (esempio della salute): il fine non è già dato ma da specificare
nel singolo soggetto e nel contesto. Per fare ciò serve…
- La determinazione del fine: l’intersoggettività. Chi decide di essa e con quali criteri? Chi
assume il ruolo del “saggio”? il professionista, la comunità, il paziente? In che cosa il paziente
può essere portatore di conoscenze e queste come possono aiutarci a prendere scelte
ragionevoli?
- Oltre una mera ragione strumentale e scientifica: per una ragione dialogica, intersoggettiva.
Questa “nuova” ragione chiede di integrare quella scientifica con la saggezza.

La dimensione etica della cura: etica dell’intenzione vs etica dei risultati (Weber).

Riflessione sul mestiere del politico e dello scienziato, laddovè mestiere viene tradotto in
professione perché è molto di più di un lavoro, ma è professare un credo, che ci vincola e ci impegna;
i rischi e gli impegni che ci si assume in una professione sono accolti con responsabilità.
L’etica dell’intenzione è guidata dalla nostra buona volontà, cioè l’azione sarebbe buona perché già
la nostra volontà è buona. E come decidere della buona volontà della nostra azione? Andando a
notare i principi etici ai quali si riferisce e che rendono giusta di per sé l’azione in oggetto.
Presupposti: una morale condivisa basata su verità valide incondizionatamente per tutti. E l’uomo
che pratica questa morale è irremovibile e giusto (stoico). Dogmatismo

L’etica dei risultati è guidata dal raggiungimento di certi risultati prefissati, quindi fa riferimento alle
conseguenze dei nostri atti. Pone attenzione all’adeguatezza dei mezzi impiegati sempre per essere
efficaci (legame con le nostre abilità) nel raggiungere un obiettivo (pragmatismo). Presupposto:
pluralità di morali, relativismo etico. E l’uomo che pratica questa morale è esperto ed efficiente che
rende la relazione impersonale e contestuale. Relativismo

Se nella cura applichiamo l’etica dell’intenzione promuoviamo il bene del paziente attraverso un
modello paternalista nel quale in presenza di una forte asimmetria di bisogni e di conoscenze deve
decidere chi è capace, chi ha una capacità morale (il paziente è addirittura amorale perché malato).
Interrogativi dell’etica dell’intenzione: la situazione di vulnerabilità del paziente ne limita sempre la
competenza? Bene “clinico” e bene del paziente coincidono sempre? (conflitti tra pazienti e
professionisti) E’ sempre possibile promuovere il bene del paziente? (conflitti tra diversi
professionisti).

Interrogativi dell’etica dei risultati: si può prescindere dalla vulnerabilità del paziente? La pratica
clinica si esaurisce in una prestazione di servizi? Si può fare a meno di promuovere il bene del
paziente?

Il primo modello dell’intenzione lo sposiamo quando favoriamo un principio a svantaggio di un altro,


il secondo per misurare gli obiettivi raggiunti, a prescindere dai principi. Ci si può accontentare di
uno piuttosto che dell’altro? L’etica della responsabilità vuole superare questa dicotomia. Prima è
necessario chiarire due concetti. Deontologico vs teleologico. Deontologico sono quelle teorie
etiche che credono nell’esistenza di principi etici assoluti, i quali sarebbe capaci di determinare la
moralità degli atti senza che le conseguenze delle azioni possano influenzare tale determinazione.
Ad esempio se io penso che mentire sia immorale, indipendentemente dalle conseguenze che
scaturirebbero dal mio mentire, io non dovrei morire. Teleologiche sono quelle teorie etiche
secondo le quali i principi etici sono vincolanti a meno che le conseguenze non giustifichino
un’eccezione. L’etica della responsabilità cerca di tenere in considerazione sia i principi che le
conseguenze, cioè quando dobbiamo scegliere moralmente non possiamo limitarci ad una
dichiarazione di principio né essere così cinici da vedere solo le conseguenze, ma dobbiamo
considerare le intenzioni e il fine e i risultati effettivamente ottenuti. In un’etica della responsabilità
nel nostre motivazioni pretendono di valere (prima facie assoluta) – es. allocazione equa delle
risorse - a meno che non ci siano altri principi che contestualmente fanno sì che di volta in volta
l’uno abbia la prevalenza sull’altro. In quest’etica è fondamentale l’esercizio alla prudenza,
soprattutto nell’ambito nella cura.

Carol Guilligan, da Voce di donna, scrisse riflessioni di un’etica della cura.

Antigone di Sofocle.
Discussione su Covid

In fatto di comunicazione, l’epidemia ha mostrato una sfiducia negli utenti verso gli operatori
sanitari, in seguito ad una crisi del paternalismo medico esploso negli anni ’70 nel quale ci troviamo
ancora oggi. Importante questa crisi perché ha apportato un cambiamento rivoluzionario. Si deve
pensare che per più di 2500 anni il paziente è stato considerato una persona incapace di decidere,
in virtù dell’asimmetria informativa dovuta ai ruoli. Il paziente non può decidere perché non può
sapere cos’è meglio per lui dal punto di vista medico. Inoltre non può decidere perché è malato,
quindi fragile, preoccupato, vulnerabile. Il paziente è stato considerato amorale, privo della capacità
morale che noi troviamo nell’essere in grado di fare una scelta libera e consapevole. Talora i pazienti
sono stati considerati anche immorali, conseguentemente alla patologia (es. Hiv); così come
possiamo essere critici nei confronti dei fumatori, degli obesi, perché pensiamo che il loro stile di
vita non sia corretto, e dunque su di loro si erige lo stigma morale del loro comportamento. Il
paziente è stato sempre considerato amorale o immorale. A partire dagli anni ’70 il paziente ha
cominciato a dire no: io sono capace di decidere non perché io sia un piccolo medico ma perché le
scelte che vengono fatte su di me influenzano così profondamente la mia vita che io ritengo di avere
il diritto di dire mi sta bene o non mi sta bene. (Infermiere codice deontologico: stare accanto) Il
medico mi dà delle indicazioni, prescrizione sulla base di ciò che ha studiato, ma è il paziente che
decide, perché a valori diversi oltre a quello della sua salute. Il bene clinico non è più identificato
automaticamente con il bene etico. Il professionista sa entro i limiti della probabilità cos’è meglio
clinicamente per il paziente. Se poi ciò che è bene clinicamente è bene anche eticamente per il
paziente è una soluzione completa. Se prima eravamo propensi ad accettare i consigli e le scelte di
un professionista della salute che agiva per il nostro bene, come ci aspettiamo che un bambino se
lo aspetti dai propri genitori, adesso il paziente decide di tenere in considerazione altre sue priorità.
Quindi risulta decisivo per ricostruire la fiducia nei luoghi di cura la capacità di mettersi in dialogo
gli uni con gli altri. Non nel senso che il paziente insegna al medico come si fa il medico o
all’infermiere, ma nel senso che si dà al paziente la possibilità di confrontarsi nelle cose che per lui
contano. E di confrontarsi non solo con un linguaggio scientifico sulla questione clinica, ma di
confrontarsi su ciò che gli sta a cuore. Attraverso il recupero della saggezza, si cerca di dare spessore
a questo confronto. I pazienti non sono delle relazioni amicali né filiali, sono soggetti liberi che hanno
bisogno di una mano, hanno un problema e hanno bisogno per questo di confrontarsi sia
tecnicamente sia umanamente. Il professionista era abituato a mettersi al posto di, a scegliere per
il bene di, ora è passato all’altro estremo: il problema è tuo, le decisioni pure ed io le rispetto. Siamo
passati da io decido al posto tuo, fidati di me perché ho studiato tanto e per questo ho rinunciato e
rinuncio ancora a tanto, a dire che questo dice la scienza adesso scegli tu. Io mi fermo qui, ora scegli
tu. Il problema è che a volte non si sa ciò che si vuole. Al paziente si danno le opzioni in percentuale,
la scelta spetta solo al paziente. La sfida è recuperare lo spazio in cui realisticamente ci si possa
confrontare su questioni difficili senza sostituirsi alle responsabilità altrui, parlando insieme
entrambi possono capire ciò che vogliono e ciò che più adatto.

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