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Vivaldi e la diffusione della sua musica

(Vivaldi and the Dissemination of His Music)

Attorno al 1730, un nobiluomo svedese in visita ad Amsterdam ebbe modo di assistere, suo
malgrado, a un episodio piuttosto curioso. Mentre si trovava all’interno di un collegium musicum
(vale a dire una di quelle strutture musicali private, assai diffuse in Olanda, che offrivano agli
esecutori dilettanti l’opportunità di suonare insieme sotto la guida di un professionista esperto), in
un momento di pausa durante le prove di un concerto, fra gli orchestrali si accese una animata
discussione. Una parte dei musicisti, infatti, sosteneva la superiorità di Corelli rispetto ai
compositori allora in voga, mentre l’altra parte gli preferiva Vivaldi e i maestri italiani suoi
contemporanei. I sostenitori di Corelli ritenevano che la sua musica fosse “piacevole” e
“aggraziata”, mentre quella del veneziano era criticata per il suo carattere “rude”, “irregolare” e
“stravagante”. Al termine della disputa, riportata in un volume recentemente scoperto da Michael
Talbot e intitolato De Hollandsche Waereld (Leida,1733), la maggior parte dei contendenti
convenne nel ritenere che, dopotutto, la novità fosse preferibile alla tradizione e che le critiche
precedentemente mosse nei confronti di Vivaldi potessero essere interpretate anche in una
accezione positiva. Curiosamente, gli stessi aggettivi utilizzati per sminuire Vivaldi dai suoi
detrattori olandesi furono ripresi quasi alla lettera, oltre quarant’anni dopo, da John Hawkins nella
sua A General History of the Science and Practice of Music (Londra,1776). Lo storiografo inglese,
riproponendo a sua volta il paragone fra Corelli e Vivaldi, non esitò infatti a schierarsi in favore del
primo, la cui musica era ritenuta “casta”, “sobria” ed “elegante”, mentre quella di Vivaldi alle sue
orecchie suonava “selvaggia” ed “irregolare”. Il punto di vista di Hawkins, che rispecchiava in tutto
e per tutto quello della maggior parte dei musicografi e degli uomini di cultura britannici dell’epoca,
era però assai diverso da quello dei loro dirimpettai francesi, che tendevano invece a riconoscere
nella musica vivaldiana i tratti di una esemplare “classicità”. Nelle sue Réflexions sur les Ouvrages
de Littérature (Parigi, 1737), ad esempio, il critico letterario François Granet non esitò a definire
Vivaldi «le Hindel [sic] de la France moderne».
Nonostante l’esistenza di giudizi e prese di posizione così contraddittorie, durante il primo
quarto del secolo la musica di Vivaldi, e in particolare quella strumentale, si era diffusa in maniera
capillare in tutta Europa, contribuendo in maniera decisiva a consolidare la reputazione
internazionale del compositore. I due canali principali attraverso cui avveniva la circolazione e il
consumo della musica strumentale all’inizio del Settecento erano la diffusione per mezzo della
stampa e la vendita sul libero mercato dei manoscritti. Come era consuetudine per un compositore
della sua generazione, Vivaldi aveva esordito consegnando alle stampe una raccolta di sonate a tre,
le dodici Suonate da camera Op. 1 dedicate al conte Annibale Gambara e pubblicate a Venezia, da
Giuseppe Sala, nel 1705. Quattro anni più tardi, egli colse con tempestività e opportunismo
l’occasione di una breve visita a Venezia del re Federico IV di Danimarca e Norvegia, giunto in
città in incognito per godere in forma privata dei piaceri del Carnevale, per dedicargli la sua
seconda raccolta strumentale a stampa, le Sonate per violino solo Op. 2, edite da Antonio Bortoli
all’inizio del 1709. Parallelamente, alcuni suoi concerti furono acquistati o copiati fra il 1708 e il
1713 per conto dei conti Johann Philipp Franz e Rudolf Franz Erwein von Scönborn di Wiesentheid
da un musicista a loro servizio, Franz Horneck, e dal rappresentante diplomatico del principe
elettore di Magonza, Mathias Ferdinand von Regaznig.
Il punto di svolta decisivo nella carriera di Vivaldi coincise tuttavia con la pubblicazione di
quella che può essere considerata la più importante ed influente raccolta strumentale di tutto il
Settecento, vale a dire i dodici concerti de L’Estro armonico Op. 3 editi ad Amsterdam, da Estienne
Roger, nel 1711. All’epoca il concerto italiano (o di stile italiano) era un genere che stava
muovendo i primi passi oltre i confini della penisola italiana e le edizioni di Roger, che poteva
contare su una rete capillare di distributori e rivenditori nelle maggiori città europee, dischiuse ai
musicisti di professione, come anche ai numerosi dilettanti, un inedito mondo musicale, imponendo
nuovi modelli stilistici e formali. I concerti vivaldiani furono accolti con maggior interesse e favore
soprattutto nei paesi di lingua tedesca, tanto che ben cinque composizioni dell’Estro armonico
furono adattate alla tastiera del cembalo e dell’organo da Johann Sebastian Bach durante gli anni
del suo servizio a Weimar. Nel 1714, a Pirna, il giovane Johann Joaquim Quantz resta letteralmente
impressionato dalla potenza retorica ed espressiva della forma col ritornello messa a punto da
Vivaldi in quel torno d’anni, mentre solo un anno prima il musicista dilettante Johann Friedrich
Armand von Uffenbach, originario di Francoforte sul Meno, fa conoscere alcuni concerti vivaldiani
ai membri di una società musicale di Strasburgo, suscitandone l’ammirazione entusiastica e
incondizionata. Un ruolo cruciale, nella diffusione della musica vivaldiana presso le corti tedesche
dell’epoca, lo ebbero i musicisti di passaggio a Venezia che ebbero occasione di incontrare
personalmente o di prendere lezioni direttamente dal compositore. Oltre a Johann David Heinichen,
Gottfried Heinrich Stölzel e Daniel Gottlob Treu, il più dotato e attivo di essi fu senza dubbio il
violinista Johann Georg Pisendel, musicista di formazione cosmopolita e Konzertmeister della
cappella di corte di Dresda, che soggiornò nella Serenissima fra il 1716 e il 1717, a capo di un
piccolo gruppo di musicisti al servizio del principe elettore di Sassonia. Al suo ritorno a Dresda, nel
settembre del 1717, Pisendel porta con sé una quarantina di manoscritti musicali del Prete rosso,
acquistati o copiati di suo pugno, destinati a formare il primo nucleo del repertorio vivaldiano
coltivato ed eseguito presso Hofkapelle.
Sulla scia dello straordinario successo ottenuto dall’Estro Armonico, nella seconda metà
degli anni Dieci Roger prosegue la pubblicazione di composizioni vivaldiane sia attraverso delle
stampe monografiche, autorizzate e non, sia all’interno di alcune fortunate antologie con musiche di
vari autori. Fra il 1716 e il 1720 vedono la luce, in rapida successione, i dodici concerti della
Stravaganza Op. 4, dedicati al patrizio veneziano Vettor Dolfin, le Sonate dell’Op. 5, i sei Concerti
dell’Op. 6 e i dodici dell’Op. 7. Le ultime tre raccolte citate, edite a cura della figlia minore di
Estienne, Jeanne Roger, furono stampate presumibilmente senza l’autorizzazione o persino
all’insaputa del compositore, approvvigionandosi, almeno in parte, dal libero mercato dei
manoscritti musicali. Evidentemente, all’epoca la musica di Vivaldi circolava (soprattutto nei paesi
di lingua tedesca) in quantità tale da permettere alla casa editrice olandese di confezionare i propri
prodotti con una relativa autonomia. Parallelamente, tra il 1714 e il 1717, s’iniziano a stampare
lavori vivaldiani anche a Londra, cavalcando il successo ottenuto dalle edizioni olandesi.
Negli anni venti del Settecento, il prestigio e il successo internazionale di Vivaldi
raggiungono il proprio apice. Alla fine del 1725 il successore di Roger, Michel Charles Le Cène,
pubblica ad Amsterdam Il cimento dell’armonia e dell’invenzione Op. 8, una raccolta di concerti
che si ricollega, nell’ambizione e nella concezione grandiosa dell’insieme, all’Estro armonico. La
raccolta è dedicata al conte boemo Wenzel von Morzin, signore di Hohenelbe e consigliere
imperiale, del quale Vivaldi si dichiara, nella lettera di dedica dei concerti, “maestro di musica in
Italia”. Per la successiva raccolta di concerti, La cetra Op. 9, pubblicata da Le Cène nel 1727,
Vivaldi sceglie come dedicatario nientedimeno che l’imperatore asburgico Carlo VI, che il
compositore incontrerà personalmente la sera del 9 settembre 1728 a Lipica (Lipizza), nell’attuale
Slovenia. Sempre nel corso degli anni venti, in cui Vivaldi è altresì molto impegnato come operista
anche al di fuori del circuito teatrale veneziano, ai committenti del compositore si aggiungono
personaggi di assoluto rilievo, come il cardinale Pietro Ottoboni e l’ambasciatore francese a
Venezia Jacques-Vincent Languet de Gergy, mentre le sue musiche sono oramai conosciute ed
eseguite nelle principali città europee. Nel 1723, ad esempio, il violinista irlandese John Clegg
suona un corto vivaldiano all’Haymarket Theatre di Londra; nel 1725, durante una messinscena
degli intermezzi comici Pimpinone oder Die ungleiche Heirat di Georg Philipp Telemann avvenuta
ad Amburgo fu eseguito il Concerto in Do maggiore RV 188; nel 1728, presso il Concert Spirituel
di Parigi, fu eseguito l’intero ciclo delle Quattro stagioni, dando origine alla fortuna delle musiche
vivaldiane nei programmi della prestigiosa istituzione musicale parigina. Il decennio si chiude con
la pubblicazione, avvenuta sempre ad Amsterdam nel 1729, delle ultime tre raccolte strumentali
vivaldiane: i Concerti a flauto traverso Op. 10 e i Concerti per violino dell’Op. 11 e 12, progettate e
realizzate secondo i canoni ormai acquisiti del concerto solistico vivaldiano maturo.
Gli anni Trenta segnano una svolta radicale nelle modalità e nelle strategie della
commercializzazione della musica vivaldiana. Dopo il 1729, infatti, il compositore rinuncia in
maniera definitiva a diffondere la sua musica per mezzo della stampa, considerando evidentemente
ormai poco redditizia la mediazione di un editore rispetto alla vendita diretta dei propri manoscritti.
Con indubbia sagacia e spirito mercantile, Vivaldi diversifica i prezzi delle composizioni messe in
vendita a seconda del tipo di acquirente, saltuario o abituale, chiedendo fino a una ghinea inglese
(48 lire veneziane) per ogni concerto venduto a un viaggiatore straniero di passaggio a Venezia,
vale a dire più del doppio rispetto al valore di uno zecchino (22 lire) pattuito con l’Ospedale della
Pietà. D’altro canto, anche se Vivaldi cessa di dare alle stampe nuove raccolte musicali, le sue opere
precedenti continuano ad essere vendute e stampate, consolidandone la fortuna editoriale non
soltanto ad Amsterdam e a Londra, ma anche e soprattutto a Parigi. Attorno al 1740, nella capitale
francese, Charles-Nicolas Le Clerc pubblica una raccolta di Sonate vivaldiane per violoncello e
basso continuo, mentre Nicolas Chédeville si spingerà fino a pubblicare, nel 1737, una falsa Op. 13,
Il pastor fido, che contiene svariate elaborazioni di musiche genuinamente vivaldiane.
Da quel momento e fino alla morte del compositore, la musica (soprattutto strumentale) di Vivaldi
continua a riscuotere un indubbio successo in Europa, anche se deve misurarsi con una concorrenza
sempre più agguerrita. Nel corso dei mesi trascorsi a Vienna prima della morte, avvenuta nella notte
fra il 27 e il 28 luglio 1741, Vivaldi – indotto probabilmente dalla chiusura dei teatri in seguito al
lutto per la morte dell’imperatore Carlo VI e dalla conseguente impossibilità di realizzare i progetti
operistici che lo avevano condotto nella capitale austriaca – continuò a vendere le proprie
composizioni manoscritte. Una traccia di questa attività è ad esempio una lettera, recentemente
scoperta e inviata al conte Johann Friedrich di Oettingen-Wallerstein, un flautista dilettante e
appassionato cultore dell’arte vivaldiana, a cui il compositore allego una copia manoscritta di un
suo concerto intitolato La Francia. Quando fu sepolto in una fossa comune, nell’estate del 1741,
quello che in un non lontano passato era stato un pioniere e un innovatore s’avviava a un rapido e
inesorabile oblio.
La riscoperta di Vivaldi, avvenuta negli ultimi settant’anni, ha avuto origine dalla
storiografia bachiana ottocentesca e dalla curiosità di illuminare il suo interesse nei confronti di un
compositore italiano all’epoca caduto nell’oblio. Oggigiorno, grazie soprattutto a una mole enorme
di lavoro portato avanti da musicologi, musicisti, bibliofili o semplici appassionati, Vivaldi è di
gran lunga il compositore italiano più ed eseguito ed apprezzato al mondo, tanto da essere
considerato un emblema della musica barocca tout court. Le sue composizioni, infatti, non sono
solamente una presenza fissa nelle sale da concerto e nelle tracklist delle più svariate produzioni
discografiche disponibili in commercio, ma hanno ormai invaso quasi ogni ambito della nostra vita
quotidiana, fino ad alimentare dei veri e propri fenomeni di massa, come la nascita, a partire dalla
fine degli anni Settanta del secolo appena trascorso, da gruppi strumentali ispirati ai modelli
stilistici della musica barocca veneziana (in particolare a Vivaldi e Albinoni), sposati alle nuove
sonorità della nascente disco music. Le spiegazioni addotte per giustificare l’attuale straordinario
favore nei confronti della musica vivaldiana, ormai refrattario ai giudizi estremistici citati all’inizio
di questo contributo, spaziano dalla psicologia, che enfatizza una presunta maggiore consonanza del
suo linguaggio musicale così dinamico ed estroverso rispetto ai ritmi e ai gusti della società
contemporanea, alla sociologia, che sottolinea come la concomitante ripresa di alcune tradizioni
storiche veneziane, prima fra tutte il suo celeberrimo Carnevale storico, avrebbe contribuito a
diffondere e a consolidare lo stereotipo del mito della città lagunare, cui la musica di Vivaldi
costituirebbe il sostrato artistico ideale. Anche se contiene una parte di verità, ciascuna di queste
spiegazioni è però di per sé insufficiente allo scopo. Probabilmente, parafrasando la filosofa Hanna
Arendt, potremmo dire che il vero motivo risiede nel valore intrinseco di una musica la cui
durevolezza sfida il tempo, offrendo un’immagine tangibile della sua permanenza nel mondo e nella
storia che si attualizza nell’esperienza estetica, quasi come premonizione di quella immortalità di
cui l’opera d’arte è metafora.
© 2016 Alessandro Borin

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