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All’interno della variegata produzione di Antonio Vivaldi, dalla musica strumentale alle
composizioni sacre alle opere teatrali, le serenate costituiscono il capitolo relativamente meno
conosciuto da appassionati, interpreti e studiosi soprattutto a causa della scarsità delle fonti
preservatesi, fenomeno consueto in tale genere dalla natura spiccatamente occasionale, la cui
esecuzione era spesso concepita affinché incarnasse un evento unico e irripetibile. Allo stato attuale
delle ricerche abbiamo infatti notizia esclusivamente di otto titoli attribuibili nella loro interezza al
compositore, dedicati a diversi committenti e rappresentati nell’arco di un trentennio in contesti
geografici e politici assai differenziati, dalla periferica Rovigo alle residenze veneziane degli
ambasciatori francese e imperiale, dalla corte mantovana del principe Filippo di Hesse-Darmstadt
fino alle recenti ipotesi di connessioni con la cerchia romana del cardinale Pietro Ottoboni.1
Differente è lo stato di conservazione dei testi: di tre serenate ci sono giunte le partiture (RV 687,
690, 693), testimoniate in manoscritto presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino,2 di
ulteriori tre possediamo solo i libretti a stampa (RV 688, 692, 694), recentemente pubblicati in
trascrizione,3 mentre delle due restanti (RV 689, 691) conosciamo esclusivamente il titolo (cfr.
Tabella 1); è nota infine la partecipazione di Vivaldi – con un’unica aria – all’Andromeda liberata,
una serenata-pasticcio alle cui musiche contribuirono almeno cinque autori, rappresentata a Venezia
il 18 settembre 1726 in onore della visita ufficiale di Pietro Ottoboni nella Serenissima.4
1
Cfr. ALESSANDRO BORIN, Vivaldi, Ottoboni e l’affaire Tourreil. Nuove ipotesi sulla Serenata à 3, RV 690, in Fulgeat
sol frontis decorae. Studi in onore di Michael Talbot, a cura di Alessandro Borin, Jasmin Melissa Cameron, Venezia,
Fondazione Giorgio Cini, 2016, pp. 41-62. Una prima formulazione di tale ipotesi era stata avanzata in ALESSANDRO
BORIN, Introduzione, in ANTONIO VIVALDI, Serenata a 3 RV 690, edizione critica a cura di Alessandro Borin, Milano,
Ricordi, 2010, pp. XV-XXXII; sono grata all’autore per le stimolanti conversazioni e segnalazioni riguardo agli
argomenti affrontati in queste pagine. Le mie ricerche per il presente contributo si sono avvalse del generoso supporto
pratico e scientifico dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi di Venezia, di cui ringrazio caldamente il direttore Francesco
Fanna e la segretaria Giovanna Clerici.
2
Le fonti, rilegate assieme all’interno dello stesso volume (I-Tn, Foà 27), tramandano RV 687 e 690 in autografo
(rispettivamente alle cc. 62-94 e 95-145), mentre RV 693 vi appare in una copia calligrafica contenente alcune porzioni
autografe (cc. 146-253). Di queste tre partiture, due sono state pubblicate in facsimile (ANTONIO VIVALDI, Due
serenate, partiture in facsimile, saggio introduttivo a cura di Michael Talbot, Paul Everett con l’edizione dei testi
poetici, Milano, Ricordi, 1995), l’altra in edizione critica (ANTONIO VIVALDI, Serenata a 3 RV 690, cit.)
3
ROBERT KINTZEL, Vivaldi’s Serenatas Revisited, I. The “French Serenatas” of 1725-1727. Gloria e Himeneo, La
Senna festeggiante and L’unione della Pace e di Marte, «Studi vivaldiani», IX, 2009, pp. 33-78; ROBERT KINTZEL,
Vivaldi’s Serenatas Revisited, II. The Mantuan Serenata a quattro, RV 692, «Studi vivaldiani», X, 2010, pp. 39-73;
ROBERT KINTZEL, Vivaldi’s Serenatas Revisited, III. Vivaldi’s First Serenata, Le gare del dovere, RV 688, «Studi
vivaldiani», XI, 2011, pp. 33-60.
4
VINCENZO CASSANI, Andromeda liberata, partitura della serenata in facsimile, edizione del testo letterario, saggio
introduttivo a cura di Michael Talbot, Milano, Ricordi, 2006; l’aria composta da Vivaldi («Sovente il sole», per il
personaggio di Perseo) compare nella seconda parte della serenata come sedicesimo numero musicale della partitura.
1
Per quanto riguarda questo settore della produzione vivaldiana, il quadro che siamo in grado
di tracciare è dunque connotato da ampie e inevitabili lacune, benché a partire dagli studi condotti
da Michael Talbot nei primi anni ’80 diverse ricerche si siano adoperate per stabilire le vicende
relative alla commissione, genesi ed esecuzione di ciascun lavoro. Oltre al fondamentale apporto in
termini di ricostruzione storica, simili indagini hanno permesso di elaborare molteplici chiavi
interpretative per i significati allegorici veicolati dalle singole serenate, elemento portante della loro
estetica nonché loro stessa ragione d’essere in quanto testi occasionali – di norma encomiastici –
connessi intrinsecamente a circostanze assai precise, in funzione delle quali venivano scritti e cui
rimandavano attraverso una densa rete di allusioni nella consapevolezza di poter contare sulla
corretta decifrazione da parte dei destinatari.5 Una minore attenzione è stata invece riservata alla
scrittura delle tre partiture superstiti e al funzionamento drammaturgico dei libretti, considerati sia
in sé, nell’impianto predisposto dal letterato, sia nel reciproco rapporto che viene a instaurarsi tra
parole e musica grazie all’oculato intervento del compositore: se ne hanno alcune panoramiche nei
saggi introduttivi alle relative edizioni e, in misura più marginale, nelle pubblicazioni preoccupate a
inquadrare in una visione globale il fenomeno della serenata vivaldiana, mentre una maggiore
focalizzazione su problematiche specifiche emerge nelle analisi di casi di riutilizzo di materiali
preesistenti.6 Sebbene, infine, sia ormai acquisito che la serenata della prima metà del Settecento
fosse tendenzialmente connotata da una drammaturgia diversa rispetto al coevo dramma per
musica,7 si è finora mancato di approfondire se l’autore veneziano avesse tenuto in considerazione
5
Cfr. MICHAEL TALBOT, Vivaldi and a French Ambassador, «Informazioni e studi vivaldiani», II, 1981, pp. 31-43;
MICHAEL TALBOT, PAUL EVERETT, Homage to a French King. Two Serenatas by Vivaldi (Venice, 1725 and ca. 1726),
in ANTONIO VIVALDI, Due serenate, cit., pp. IX-LXXXVI; MICHAEL TALBOT, Introduzione, in ANTONIO VIVALDI, Le
12 sonate «di Manchester», Firenze, SPES, 2004, pp. 9-55; MICHAEL TALBOT, Mythology in the Service of Eulogy. The
Serenata Andromeda liberata (1726), in Mediterranean Myths from Classical Antiquity to the Eighteenth Century, a
cura di Metoda Kokole, Barbara Murovec, Marjeta Šašel Kos, Michael Talbot, Lubiana, Slovenska Akademija Znanosti
in Umetnosti, 2006, pp. 131-161; MICHAEL TALBOT, “Andromeda liberata”. A Venetian Pasticcio-Serenata, in
VINCENZO CASSANI, Andromeda liberata, cit., pp. IX-XXXVIII; ROBERT KINTZEL, Vivaldi’s Serenatas Revisited, cit.;
EDWARD CORP, La Senna festeggiante Reconsidered. Some Possible Implications of its Literary Text, in Antonio
Vivaldi. Passato e futuro, a cura di Francesco Fanna, Michael Talbot, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 2009, pp. 231-
238; ALESSANDRO BORIN, Introduzione, cit.; GIULIA GIOVANI, Serenatas in the Service of Diplomacy in Baroque
Venice, in Music and Diplomacy from the Early Modern Era to the Present, a cura di Rebekah Ahrendt, Mark
Ferraguto, Damien Mahiet, New York, Palmgrave MacMillan, 2014, pp. 45-67; ALESSANDRO BORIN, Vivaldi, Ottoboni
e l’affaire Tourreil, cit.
6
Oltre ai saggi introduttivi alle edizioni di partiture e libretti, citati nella nota precedente, cfr. MICHAEL TALBOT,
Vivaldi’s Serenatas. Long Cantatas or Short Operas? in Antonio Vivaldi. Teatro musicale, cultura e società, I, a cura di
Lorenzo Bianconi, Giovanni Morelli, Firenze, Olschki, 1982, pp. 67-96; KEES VLAARDINGERBROEK, Vivaldi and Lotti.
Two Unknown Borrowings in Vivaldi's Music, in Vivaldi vero e falso. Problemi di attribuzione, a cura di Antonio
Fanna, Michael Talbot, Firenze, Olschki, 1992, pp. 91-108; JOACHIM STEINHEUER, Vermischter Geschmack all’italien.
Antonio Vivaldis La senna festeggiante, «Basler Jahrbuch für historische Musikpraxis», XXVIII, 2004, pp. 161-186;
MARTINA BURAN, L’aria e la pratica del riuso nella drammaturgia vivaldiana, «Musica e figura», I, 2011, pp. 143-171.
7
Per quanto riguarda Metastasio se ne è occupato in maniera sistematica ANDREA CHEGAI, Configurazione scenica e
assetto drammatico nelle feste teatrali del Metastasio, in La festa teatrale nel Settecento, a cura di Annarita Colturato,
Andrea Merlotti, Lucca, LIM, 2011, pp. 3-29; sullo stesso tema cfr. anche GIUDO NICASTRO, Temi e forme nelle
2
simile difformità nell’atto di conferire veste sonora ai libretti dell’una e dell’altra tipologia e, in
caso affermativo, con quali espedienti vi abbia reagito nel concreto.
Alla luce dell’odierno stato della ricerca, il presente intervento si prefigge pertanto di
indagare lo statuto rivestito dalla serenata nel contesto della produzione (semi)scenica di Vivaldi,
interrogandosi in particolare sulla posizione da essa assunta nei confronti dell’opera per quanto
concerne le strategie compositive utilizzate sia sul piano della strumentazione, potenzialmente
condizionata dalla diversa destinazione fruitiva dei due generi, sia nel trattamento della dialettica tra
azione e scrittura musicale, aspetto centrale del nostro discorso. Vista la natura dell’argomento,
incentrato in maniera specifica sull’ottica del compositore, nelle prossime pagine l’indagine si
concentrerà esclusivamente sui tre titoli trasmessi attraverso fonti musicali, nel cui contesto lo
studio comparativo della gestione della partitura in serenate e opere sarà svolto testando quanto
avviene nei momenti di massimo contatto tra i due generi, ossia negli esempi di trasferimento di
interi numeri chiusi tra lavori vivaldiani appartenenti a distinte categorie. Si offre nella Tabella 2
uno sguardo d’assieme dell’incidenza del fenomeno in RV 687, 690 e 693, dove, accanto alla
descrizione sintetica dei singoli brani, sono indicate le concordanze endogene ed esogene segnalate
nella letteratura scientifica attualmente disponibile;8 non vi si considerano le analogie circoscritte a
singoli frammenti melodici o a un numero minimo di battute, ampiamente registrate da Sardelli ma
da intendersi con maggiore verosimiglianza come delle costanti stilistiche non necessariamente
conscie, mentre in assenza di un riscontro sulla relativa realizzazione sonora i rimandi individuabili
tra libretti andrebbero valutati con cautela, poiché in Vivaldi l’identità del testo poetico non implica
in automatico il riutilizzo della medesima musica. Anche di fronte ad eventuali impulsi forniti dal
librettista, infatti, appare evidente come il compositore si riservasse di volta in volta di valutare se
rispondervi o meno, dunque la sua scelta era del tutto consapevole e finalizzata ad esaudire precise
esigenze o strategie artistiche: il caso più eclatante è rappresentato dall’aria «Care pupille», del cui
testo poetico si registrano ben tre ricorrenze all’interno della produzione di Vivaldi, ossia in RV 687
(n. 6), Tigrane (II, 4) e Candace (III, 10), ma solo tra i primi due emergono delle concordanze
parziali nella scrittura musicale, mentre il dettato del terzo ne differisce completamente. 9 Al
“serenate” di Pietro Metastasio, in La Serenata tra Seicento e Settecento. Musica, poesia, scenotecnica, I, a cura di
Nicolò Maccavino, Reggio Calabria, Laruffa Editore, 2007, pp. 237-246. Una prima sintesi delle caratteristiche della
serenata settecentesca era stata invece tratteggiata in MICHAEL TALBOT, The Serenata in Eighteenth-Century Venice,
«Royal Musical Association Research Chronicle», XVIII, 1982, pp. 1-50.
8
A tutt’oggi, la pubblicazione maggiormente esaustiva sull’argomento è FEDERICO MARIA SARDELLI, Catalogo delle
concordanze musicali vivaldiane, Firenze, Olschki, 2012, alle cui informazioni si sono incrociate quelle contenute in
REINHARD STROHM, The Operas of Antonio Vivaldi, Firenze, Olschki, 2008.
9
Secondo l’indagine effettuata da John Walter Hill sui libretti operistici del compositore ciò costituirebbe un’eccezione,
poiché in presenza di analogie testuali la musica sarebbe identica nel 90% dei casi. Le serenate tuttavia esulano da tale
3
contrario dell’opera, inoltre, dove gli autoimprestiti possono essere spesso ricondotti alla
partecipazione di uno stesso cantante o quantomeno all’utilizzo della medesima tipologia vocale,10
nelle serenate la prassi delle ‘arie di baule’ parrebbe poco attestata, cosicché il riutilizzo di materiali
preesistenti dipenderebbe piuttosto dalle tempistiche della composizione.11 Benché al momento
attuale non si conoscano gli interpreti delle serenate di Vivaldi, ciò troverebbe conferma in una
prima verifica incrociata sulle opere con cui esse condividono interi numeri chiusi, in quanto
nessuno tra i cantanti che vi ricorrono registra una preponderanza sugli altri, anzi la rosa dei nomi è
ampia e diversificata, con scarsi elementi di continuità da una partitura all’altra: al personaggio di
Gloria in RV 687, ad esempio, sono assegnate arie concordanti con pezzi interpretati, di volta in
volta, da Giacinto Fontana (Il Tigrane), Costanza Posterla (L’inganno trionfante in amore),
Giovanni Battista Minelli (Ercole sul Termodonte), Carlo Pera (Il Giustino), Anna Maria Fabbri
(Orlando finto pazzo); in maniera analoga, a Virtù in RV 693 possono essere associati i nomi di ben
sei diversi cantanti, mentre a Imeneo (RV 687), Età dell’Oro e Senna (RV 693) rispettivamente tre,
due e uno (cfr. Tabella 2). Ne possiamo inferire che, se per le riprese verbali non siamo sempre in
grado di stabilire a chi, tra musicista e letterato, fosse spettata l’iniziativa, né in quale fase genetica
– durante la stesura/adattamento del testo o a posteriori – tali espedienti giungessero ad attuazione,
a livello di partitura la responsabilità degli autoimprestiti è invece da ascriversi in misura
preponderante a Vivaldi, il quale era di fatto l’unico a decidere riguardo al riutilizzo di materiale
sonoro preesistente.
Ma scendiamo nei dettagli della questione. Osservando la Tabella 2 si nota innanzitutto un
tasso di concordanze diverso tra i tre lavori, molto elevato in RV 687, significativo in RV 693 e
modesto in RV 690, dove nella quasi totalità dei casi la provenienza si dimostra endogena (a
tutt’oggi sono stati indentificati unicamente l’adattamento di un testo da Lalli e la parafrasi di un
movimento strumentale da Lotti, entrambi in RV 693) e il trasferimento avviene a cavallo tra opere
e serenate, solo in misura secondaria tra serenate (tra RV 687 e 693), mentre ulteriori generi
musicali risultano coinvolti esclusivamente entro i confini delle sinfonie (RV 693, in parte
computo, non essendovi state considerate, né lo studioso ha individuato la suddetta discrepanza tra Candace e Tigrane,
per cui le sue statistiche andrebbero almeno in parte riviste (cfr. JOHN WALTER HILL, A computer-based analytical
concordance of Vivaldi's aria texts. First findings and puzzling new questions about self-borrowing, in Nuovi studi
vivaldiani. Edizione e cronologia critica delle opere, I, a cura di Antonio Fanna, Giovanni Morelli, Firenze, Olschki,
1988, pp. 511-534).
10
Lo segnala lo stesso Hill (ivi, pp. 515-517), ma per quanto riguarda Vivaldi manca a tutt’oggi uno studio sistematico
sulla questione. Cfr. anche JOHN WALTER HILL, Vivaldi’s Griselda, «Journal of the American Musicological Society»,
XXXI, 1, 1978, pp. 53-82; JOHN WALTER HILL, Vivaldi’s ‘Ottone in Villa’ (Vicenza, 1713). A Study in Musical Drama,
in DOMENICO LALLI, ANTONIO VIVALDI, Ottone in villa, Milano, Ricordi, 1983, pp. IX-XXXII; JOHN WALTER HILL,
Vivaldi's Orlando. Sources and contributing factors, in Opera & Vivaldi, a cura di Michael Collins, Elise K. Kirk,
Austin (TX), University of Texas, 1984, pp. 327-346.
11
Cfr. MICHAEL TALBOT, PAUL EVERETT, Homage to a French King, cit., pp. LII-LIV.
4
corrispondente al Concerto in Do maggiore per archi e basso continuo RV 117). Interessante è
l’oculata pianificazione degli autoimprestiti attuata da Vivaldi in RV 687, l’unica tra le tre partiture
tramandate di cui conosciamo con esattezza data e circostanze di scrittura, essendo stata
commissionata da Jacques-Vincent Languet, ambasciatore francese di stanza a Venezia, per onorare
il matrimonio di Luigi XV con la principessa Maria Leszczyńska: eseguita il 12 settembre 1725
durante i festeggiamenti presso la residenza del diplomatico alla Madonna dell’Orto, la serenata
recupera in preponderanza numeri chiusi desunti da opere risalenti agli anni subito precedenti però
composte per altre città e apparentemente mai riprese in laguna, riservandosi una sola eccezione con
L’Orlando finto pazzo, rappresentato a Venezia ma assente dalle scene da oltre un decennio.
Malgrado la cospicua presenza di materiali preesistenti, dovuta con ogni probabilità ai ritmi
pressanti della scrittura,12 emerge quindi palese la cura con cui Vivaldi ha effettuato la selezione dei
pezzi al fine di ridurne al minimo il rischio di riconoscibilità presso il suo specifico pubblico di
destinazione. Non si riesce invece a valutare se abbia perseguito un’analoga strategia in RV 693
poiché ne sono tuttora ignoti sia la data che il luogo d’esecuzione (non se ne conoscono nemmeno il
committente o l’occasione per la quale fu creata, né se da ultimo sia effettivamente giunta a una
realizzazione performativa),13 tuttavia si osserva la tendenza ad attingere in prevalenza a opere
veneziane non più recenti del 1716, da cui si discostano esclusivamente Il Giustino, allestito a
Roma nel 1724, e la stessa RV 687, contemporanea a RV 693 o di poco anteriore, sebbene la
reciproca posizione cronologica delle due serenate mostri ancora ampie zone d’ombra. Tutt’altro
che marginale risulta inoltre la casistica di concordanze con titoli sicuramente successivi alla
composizione di RV 693, dove pertanto il rapporto di derivazione si esplica nella direzione inversa,
dalla serenata all’opera, ma ciò in sostanza non altera la condotta di Vivaldi in quanto i riutilizzi,
seppure collocati a una distanza temporale relativamente ridotta, si differenziano tra diverse località
evitando la sede geografica originaria, se seguiamo l’ipotesi di una commissione romana, mentre
nell’eventualità di una destinazione veneziana il compositore potrebbe aver fatto affidamento sulla
mancata circolazione della partitura presso il pubblico dei teatri cittadini in virtù della natura privata
della sua prima fruizione. Una simile attenzione emerge pure nei due unici esempi di autoimprestiti
individuabili in RV 690, scritta forse per Roma, la quale condivide il proprio materiale
esclusivamente con opere di poco posteriori ma destinate alla scena mantovana, proponendo dunque
12
In RV 687 si possono individuare tracce di una certa fretta da un lato nello stile musicale generico, poco
caratterizzato nei confronti della circostanza, dall’altro nelle peculiarità notazionali, nonché nella scelta di Vivaldi di
scrivere i recitativi solo dopo aver completato i numeri chiusi; cfr. ivi, pp. XXVIII-XXIX.
13
Cfr. EDWARD CORP, La Senna festeggiante Reconsidered, cit.
5
una musica che, alla luce delle conoscenze attuali, all’epoca dell’esecuzione della serenata risultava
del tutto inedita.14
Se da un lato una gestione così accurata delle concordanze garantiva ai pezzi un sostanziale
carattere di novità ad ogni singola ripresa, dall’altro permetteva a Vivaldi di riproporre le proprie
musiche senza dovervi necessariamente apportare delle modifiche, come avviene nella maggioranza
dei casi segnalati nella Tabella 2, per i quali nel passaggio da un lavoro all’altro la scrittura tanto
vocale quanto strumentale risulta fondamentalmente immutata, prevedendo al limite minime
varianti determinate dal cambio di tonalità e dai conseguenti aggiustamenti d’ambito. Il trattamento
riservato in tali circostanze al testo verbale, già indagato nella letteratura scientifica, 15 comporta di
norma degli interventi assai circoscritti, finalizzati a rendere i contenuti aderenti al nuovo contesto
ottimizzando al massimo le sostituzioni di singoli lemmi, operazione agevolata dalla cura con cui i
numeri chiusi da riutilizzare erano scelti in virtù degli affetti e immagini da loro espressi,
corrispondenti con esattezza a quanto richiesto nella situazione dove dovevano trovare un secondo
impiego. Degno di nota è, tra tutti, il trasferimento del n. 7 di RV 690 al primo atto di Tito Manlio
(scena 5), in seguito al quale un’aria originariamente investita di un significato funesto, ossia la
persecuzione del giansenita Jean de Tourreil da parte dell’Inquisizione,16 si tramuta nel topos della
caccia amorosa grazie a una parziale riscrittura dei versi:
14
Se per quanto riguarda le serenate ci troviamo di fronte a una casistica circoscritta e, quindi, non necessariamente
rappresentativa, è interessante osservare come alla medesima tattica sottostia l’intero corpus delle opere di Vivaldi:
eccetto infatti i primissimi titoli, costretti per forza di cose a rimandare l’uno all’altro, a partire da Armida al campo
d’Egitto (1718) s’impone la tendenza ad attingere a partiture rappresentate in ulteriori città non solo in occasione del
primo allestimento, ma anche nelle riprese a noi note, cosicché le musiche riutilizzate risultavano di fatto inedite al
pubblico di destinazione del nuovo lavoro. Successivamente Vivaldi iniziò a recuperare pure materiali già proposti nella
stessa località, ma premurandosi quasi sempre di interporre un’opportuna distanza temporale tra gli autoimprestiti e i
relativi modelli, un fenomeno evidente soprattutto nelle opere veneziane dalla seconda metà degli anni ’20 in avanti,
mentre per le altre città avrebbe continuato a evitare di riprendere musiche che vi erano state eseguite in precedenza. Per
una prima ricostruzione del fenomeno ci si è basati sui dati relativi alle singole opere contenuti in I libretti vivaldiani.
Recensione e collazione dei testimoni a stampa, a cura di Anna Laura Bellina, Bruno Brizi, Maria Grazia Pensa,
Firenze, Olschki, 1982; PETER RYOM, Antonio Vivaldi. Thematisch-systematisches Verzeichnis seiner Werke (RV),
Wiesbaden, Breitkopf & Härtel, 2007; REINHARD STROHM, The Operas of Antonio Vivaldi, cit.; FEDERICO MARIA
SARDELLI, Catalogo delle concordanze musicali vivaldiane, cit. Su tale questione la letteratura scientifica non si è
ancora soffermata con uno sguardo complessivo, tuttavia nell’ultimo trentennio ne sono stati illustrati alcuni aspetti
focalizzando spesso il discorso su singoli titoli o problematiche: cfr. ERIC CROSS, Vivaldi's operatic borrowings,
«Music & Letters», LIX, 4, 1978, pp. 429-439; PETER RYOM, Antonio Vivaldi. Les relations entre les opéras et la
musique instrumentale, in: Venezia e il melodramma nel Settecento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze, Olschki,
1978, pp. 249-262; BRUNO BRIZI, Gli Orlandi di Vivaldi attraverso i libretti, in Antonio Vivaldi. Teatro musicale,
cultura e società, II, cit., pp. 315-330; KLAUS KROPFINGER, Vivaldi as self-borrower, in: Opera & Vivaldi, cit., pp. 308-
326; PETER RYOM, Les doubles dans les partitions d'opéra de Vivaldi, «Informazioni e studi vivaldiani», XV, 1994, pp.
5-50; FRÉDÉRIC DELAMÉA, La Silvia, RV 734. Ombres et lumieres sur l'opera milanais de Vivaldi, «Studi vivaldiani», I,
2001, pp. 27-117.
15
MICHAEL TALBOT, PAUL EVERETT, Homage to a French King, cit.; MARTINA BURAN, L’aria e la pratica del riuso
nella drammaturgia vivaldiana, cit.
16
L’intera vicenda sulla quale si basa la lettura allegorica della serenata è ricostruita in ALESSANDRO BORIN,
Introduzione, cit.; cfr. anche ALESSANDRO BORIN, Vivaldi, Ottoboni e l’affaire Tourreil, cit.
6
Serenata a tre RV 690 (n. 7) Tito Manlio (I, 5)
Alla caccia d’un core spietato Alla caccia d’un ben adorato
Teso ho l’arco nel riso, nel vezzo. Tendo l’arco del mezzo e del pianto.
Quando poi sarà preda l’ingrato Ché se rendo quel seno infiammato,
Vuò punirlo con odio, con sprezzo. Del mio cuor, del mio amor, sarà vanto.
Alterazioni più consistenti ai testi verbali o la loro complessiva sostituzione tendono invece a
verificarsi in concomitanza con interventi altrettanto invasivi sul piano musicale, ossia in quella
percentuale decisamente minoritaria di numeri chiusi, localizzati soprattutto in RV 693, in cui si
assiste a una riformulazione più o meno radicale della partitura dove rispetto al modello sono
mantenute esclusivamente alcune analogie nella condotta melodica, orchestrazione, metro e
articolazione formale, cosicché hanno origine brani di fatto nuovi, seppure imparentati con quelli di
riferimento. Ai nn. 7, 12, 15, 17 di RV 693 ciò accade in entrambi i sensi di derivazione, sia dalla
serenata all’opera che dall’opera alla serenata, tuttavia la distanza tra i pezzi è tale da esulare da un
reale rapporto di mutuazione di materiali per identificarsi piuttosto come degli esempi di riscrittura,
collocandosi pertanto al di fuori dei nostri interessi in queste pagine.
Tornando dunque a focalizzare l’attenzione sugli episodi di effettivo riutilizzo di musiche
preesistenti, degno di nota è, in particolare, il modo in cui è stato risolto il problema
dell’orchestrazione, elemento di potenziale divergenza tra il genere dell’opera e quello della
serenata a causa della destinazione dell’una al circuito del teatro (semi)impresariale, governato in
misura non irrilevante da leggi di mercato, dell’altra alle celebrazioni di una committenza privata
della più elevata estrazione sociale, solita fare sfoggio in simili circostanze dei propri ingenti mezzi
economici e artistico-culturali: per gli ensemble attestati nella cerchia romana tra la fine del
Seicento e la prima metà del Settecento, ad esempio, il numero degli elementi impiegati in feste
teatrali e serenate poteva giungere a toccare le 150 unità, con una cura specifica non solo per il
volume sonoro, ma anche per la ricchezza timbrica dell’organico, in cui la scelta e la combinazione
degli strumenti denota spesso una voluta ricercatezza.17 Ciò tuttavia è ben lungi da quanto si
verifica nelle tre partiture vivaldiane a noi pervenute, connotate da una netta preponderanza degli
archi, unici protagonisti – assieme al basso continuo – della serenata RV 687, non a caso composta
per Venezia, dove a causa delle peculiarità urbanistiche i palazzi nobiliari non disponevano di spazi
sufficientemente ampi per ospitare complessi superiori alla trentina di musicisti,18 mentre in RV 690
e 693 tale base è arricchita da una coppia di oboi, una di corni da caccia e un fagotto, usati a
17
Il frequente uso di organici orchestrali sontuosi emerge in particolare dai registri dei conti di casa Ottoboni, studiati
nel dettaglio da TERESA CHIRICO, L’inedita serenata alla regina Maria Casimira di Polonia. Pietro Ottoboni
committente di cantate e serenate (1689-1708), ìn La Serenata tra Seicento e Settecento, II, cit., pp. 397-449.
18
MICHAEL TALBOT, The Serenata in Eighteenth-Century Venice, cit., p. 4.
7
seconda dei casi per raddoppiare gli archi o come parti autonome. Paragonando l’orchestrazione
delle tre serenate con le soluzioni adottate da Vivaldi nell’arco della sua produzione operistica si
nota inoltre, del tutto a vantaggio di quest’ultima, una significativa differenza nelle dimensioni e
varietà degli organici con un incessante rinnovamento nella scelta dei fiati e degli strumenti
concertanti, caratteristica evidente soprattutto nei titoli concepiti per il teatro veneziano di
Sant’Angelo, pertanto nel trasferimento di musica da opere a serenate il materiale possiede già
all’origine una massa fonica uguale o maggiore a quella necessaria nel nuovo contesto di
riutilizzo.19 È quanto emerge con chiarezza ponendo a diretto confronto RV 687, 690 e 693 con le
partiture con cui esse condividono dei numeri chiusi (cfr. Tabella 3): tutti gli strumenti contemplati
nei tre lavori, dove il ruolo portante è affidato in misura decisiva agli archi, non solo sono
ampiamente previsti nel repertorio operistico di riferimento, ma non giungono nemmeno a sfruttare
l’intera gamma timbrica esplorata in quest’ultimo, anzi a livello dei singoli autoimprestiti Vivaldi
sceglie in prevalenza pezzi privi di strumenti concertanti o addirittura riduce la trama sonora
eliminando i fiati presenti nell’orchestrazione originaria. Lo si osserva al n. 11 di RV 687, nel quale
i due oboi previsti nel corrispettivo duetto de Il Giustino (III, 10), lì all’unisono con i violini,
vengono facilmente tralasciati per conformarsi all’organico di soli archi della serenata, tuttavia di
gran lunga predominante nei tre lavori è la tendenza a riutilizzare musiche preesistenti senza
apportare alcuna modifica all’orchestrazione, di norma poco corposa già in partenza. Tale
comportamento risulta egemone pure in RV 693, dove, nonostante l’organico maggiormente
variegato tanto in essa, quanto delle opere di riferimento, il compositore ha riutilizzato quasi
esclusivamente arie che impiegano solo gli archi, mentre gli unici esempi di riorchestrazione
emergono ai nn. 13 e 17, ancora una volta tratti da Il Giustino (rispettivamente III, 10 e 12), la cui
coppia di oboi è stata semplicemente sostituita con altrettanti flauti.
Quando Vivaldi decide di trasferire in blocco un numero chiuso da un’opera a una serenata o
viceversa, dunque, gli interventi effettuati all’interno dei confini formali del brano risultano sempre
mantenuti al minimo sia sul piano del testo poetico, sia per quanto riguarda la partitura, attenendosi
rigorosamente a una logica di massima ottimizzazione del materiale preesistente, un modus
operandi reso possibile grazie all’attenzione con cui i pezzi sono selezionati affinché già nella loro
formulazione originaria le immagini, gli affetti, i procedimenti retorici e musicali in essi sviluppati
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Gli organici delle opere di Vivaldi sono stati appurati sulle fonti, ove conservatesi, intersecando i dati con quelli
riportati in PETER RYOM, Antonio Vivaldi, cit., ad vocem. Sull’orchestrazione delle opere vivaldiane cfr. MICHAEL
COLLINS, L'orchestra nelle opere teatrali di Vivaldi, in Nuovi studi vivaldiani, cit., pp. 285-312; CARRER PINUCCIA,
Single-Reed Instruments in the Music of Vivaldi, «Chigiana. Rassegna annuale di studi musicologici», XLI, 1989, pp.
185-196; ELLEN ROSAND, Vivaldi’s Stage, «The Journal of Musicology», XVIII, 1, 2001, pp. 8-30.
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esaudiscano compiutamente le esigenze del nuovo contesto. Se nel passaggio da un lavoro all’altro
le arie rimangono pressoché invariate, salvo i leggeri interventi di adattamento poetico e musicale
dei quali si è dato conto nelle pagine precedenti, inserite nello specifico sistema drammaturgico
delle serenate esse acquistano però una connotazione differente, poiché non fungono più da
momento in cui l’affetto principale originato dagli sviluppi precedenti trova uno sfogo espressivo,
«ma piuttosto formalizzano il discorso intrapreso in vista o del suo proseguimento o di un
argomento alternativo da parte di altro personaggio».20 Come ha esaurientemente illustrato Andrea
Chegai attraverso la sua indagine sulle feste teatrali di Metastasio, tale tipologia di componimenti è
infatti regolata da principi drammaturgici di natura dissimile rispetto alla coeva produzione
operistica, in seguito ai quali si delinea di preferenza «una struttura paratattica determinata
dall’avvicendamento lineare negli interventi di personaggi collocati perlopiù in un medesimo spazio
scenico»: nella peculiare assenza di peripezie o di un reale progresso delle situazioni,
«l’avanzamento del testo è allora garantito dalla successione lineare degli interventi di divinità e
figure allegoriche che immancabilmente si intrattengono su una medesima questione dai diversi loro
punti di vista, sostanziati dalle rispettive proprietà divine o allegoriche».21 Tra le stesse serenate di
Vivaldi, le sei pervenuteci in libretto o in partitura aderiscono a questa impostazione, distribuendosi
in proporzioni omogenee tra due strategie di gestione dell’intreccio ricondotte da Michael Talbot ai
modelli da un lato della «contesa» (RV 687, 690, 694), dove personificazioni di qualità, entità
astratte o geografiche disputano attorno all’argomento portante del componimento per concludere
con una sintesi o un compromesso delle varie posizioni, dall’altro dell’«inchiesta» (RV 688, 692,
693), connotato da un graduale disvelamento delle circostanze della celebrazione e dell’identità dei
dedicatari.22
Se le arie, pur rimanendo immutate, cambiano connotazione a seconda del contesto nel quale
sono impiegate, la differenza esistente tra opera e serenata trova la propria massima manifestazione
20
ANDREA CHEGAI, Configurazione scenica e assetto drammatico nelle feste teatrali del Metastasio, cit., p. 14.
21
Ivi, rispettivamente pp. 6 e 13.
22
Cfr. MICHAEL TALBOT, PAUL EVERETT, Homage to a French King, cit., pp. XL-XLI. In tale quadro, RV 690
costituisce in realtà un caso particolare già per via dell’epilogo tragico, elemento anomalo per quanto non del tutto
estraneo al genere della serenata, qui giustificato dall’assenza della funzione encomiastica, al cui posto subentra
un’allegoria moraleggiante riferita alle tristi vicende del giansenita Jean de Tourreil. Riprendendo la classificazione
formulata da Chegai (cfr. ANDREA CHEGAI, Configurazione scenica e assetto drammatico nelle feste teatrali del
Metastasio, cit., pp. 23-26), l’azione vi è condotta secondo una struttura «centripeta», nella quale gli interventi dei vari
personaggi ruotano attorno alla presenza costante di Eurilla, mentre le altre serenate di Vivaldi assumono piuttosto una
condotta «lineare» basata sul regolare avvicendamento degli interpreti. Il testo, organizzato sul modello della contesa,
rappresenta un’apparente disputa attorno alla dicotomia amore / libertà, tuttavia si assiste a una certa evoluzione
dinamica nella situazione, nei rapporti tra i personaggi e nei loro intimi moti dell’anima dove ogni sviluppo nasce come
una coerente conseguenza delle argomentazioni dibattute, cosicché la natura statica della drammaturgia ne risulta
parzialmente mitigata.
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nei recitativi, non a caso il luogo che nel dramma per musica era deputato allo sviluppo dell’azione
o dell’interiorità dei personaggi, mentre nella serenata la funzione primariamente encomiastica dello
spettacolo non richiedeva un’evoluzione dinamica dei contenuti, bensì la loro espressione lirica,
basata su ripetizioni variate dei medesimi concetti statici e di fatto condivisi tra gli interlocutori. I
sintomi di una simile discordanza emergono già nei libretti in termini sia quantitativi che qualitativi:
da un lato, laddove il progredire delle situazioni necessita di spazio per dipanarsi, la loro sostanziale
immobilità comporta in automatico una riduzione nelle estensioni del testo, di conseguenza i
recitativi partecipano alle serenate in percentuali decisamente inferiori, ovvero il rapporto tra versi
sciolti e versi lirici è più basso di quanto si registri nell’opera coeva; dall’altro, la natura statica
definita dai contenuti si ripercuote sul piano formale nella minore interazione tra gli interlocutori, di
cui sono indicative le dimensioni relativamente ampie dei singoli interventi, l’esigua presenza di
versi spezzati tra i personaggi nonché l’estrema sporadicità del ricorso alla sticomitia. Di fronte alla
maniera differenziata di impostare i recitativi da parte dei librettisti, Vivaldi a sua volta reagisce con
un trattamento musicale che si distanzia visibilmente dalle consuetudini compositive da lui stesso
osservate all’interno della produzione operistica, denotando così una piena consapevolezza della
distinta specificità di genere esistente tra dramma per musica e serenata.
Esaminiamo dunque nel dettaglio cosa avviene nelle partiture. Al fine di facilitare il
confronto assumiamo come casi esemplificativi i recitativi antecedenti i numeri chiusi riutilizzati a
cavallo tra le due tipologie di lavori, benché né il loro testo né la partitura siano interessati in alcuna
misura dal fenomeno dell’autoimprestito, essendo sempre scritti ex novo per la situazione concreta
in cui agiscono (cfr. Tabella 4): il primo dato ad emergere con chiarezza è una sensibile differenza
di lunghezza a svantaggio delle serenate, dove il numero di battute riservato ai recitativi è ogni volta
minore rispetto ai corrispettivi operistici, con un divario che può raggiungere proporzioni prossime
a 1:5 (si vedano, tra tutti, le diciassette battute di recitativo prima del n. 11 di RV 687 contro le
ottantaquattro previste davanti al medesimo duetto ne Il Giustino III, 10). Alla maggiore brevità si
accompagna una netta semplificazione dei percorsi armonici, connotati dalla tendenza a
intraprendere modulazioni a tonalità vicine confermandole attraverso cadenze ben definite, mentre
la tonalità di partenza viene di norma fissata con risolutezza nel giro delle prime battute. Una simile
scrittura si distanzia notevolmente dall’instabilità tonale e dalle modulazioni relativamente ardite
alle quali si assiste invece nelle opere di Vivaldi, nei cui recitativi il ritmo armonico è di norma più
rapido, costretto a un continuo rilancio del discorso grazie all’uso preferenziale di accordi in rivolto
e all’attenta elusione di moti realmente cadenzali in maniera da alimentare una tensione che giunge
a scaricarsi solo nell’aria.
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La differenza di trattamento risulta evidente pure tra le coppie di recitativi il cui numero di
battute è comparabile, a controprova del fatto che il grado di complessità della scrittura armonica
non dipende dalla lunghezza di tali sezioni, bensì da ragioni drammatiche, ovvero dalla specifica
natura da esse assunta a seconda del genere di appartenenza del lavoro. Lo si osserva al n. 7 di RV
687 (cfr. Esempio 1), dove l’aria di Gloria, ripresa pressoché alla lettera da quella per Cleopatra ne
Il Tigrane (II, 11), è preceduta da un recitativo di diciassette battute contro le diciannove previste
nel suo modello, quindi con un divario tra i due assolutamente irrilevante: per le consuetudini
riscontrate nelle serenate vivaldiane questo esempio, in realtà, si colloca tra i più complessi a causa
non solo delle estensioni, elevate per gli standard del genere, ma anche per il differimento della
conferma della tonalità di partenza a dieci battute dall’inizio del recitativo, mentre nei casi
esaminati ciò avviene in media già tra la quarta e la quinta. Malgrado i percorsi maggiormente
articolati, evidenti soprattutto nei continui slittamenti – attraverso Re minore, Sol maggiore e Do
maggiore – compiuti nelle prime dieci battute prima di arrivare alla conferma del Fa maggiore
mediante cadenza perfetta, la scrittura armonica mantiene comunque un carattere lineare improntato
su una sostanziale stabilità tonale, facendo tappa in regioni vicine al Fa maggiore iniziale (Do
maggiore, Si bemolle maggiore, La minore) che ad ogni modulazione sono confermate da forti
movimenti cadenzali (V-I).
Se andiamo invece ad analizzare ne Il Tigrane il recitativo incaricato di introdurre la
medesima aria (Esempio 2), un caso lontano dalla lunghezza e complessità raggiunti in altri passi
del repertorio operistico vivaldiano, rileviamo fin dalla primissima battuta un’atmosfera di
pronunciata instabilità determinata dai reiterati cambi di rotta verso aree tonali sempre nuove,
sfiorate senza mai indugiare in conferme, alle quali di volta in volta viene fatta semplice allusione
per poi deviare prontamente in altre direzioni. A differenza di quanto solitamente avviene nei
recitativi delle serenate, non trova qui alcun consolidamento cadenzale nemmeno il Mi minore
dell’esordio, la cui triade gioca fin dall’inizio con l’ambiguità esistente tra la funzione di tonica in
tale tonalità e quella di dominante di La minore, dove il Sol diesis alla seconda battuta parrebbe
voler condurre se non virasse presto a Re minore mediante la discesa del basso al Sol naturale e
l’introduzione al canto della sensibile Do diesis. Dopo aver sostato quattro quarti sul primo grado di
Re minore, alla sesta battuta il contesto è reso di nuovo ambivalente tramite l’immissione della
settima di sensibile sul Fa diesis, atta a rimandare all’area di Sol minore, tuttavia quest’ultimo
rientra immediatamente nella sua funzione di sottodominante e porta quindi alla conferma del Re
minore, dando luogo alla prima effettiva cadenza dall’inizio del recitativo. A partire da qui prende
subito avvio un lungo passaggio che grazie agli stessi espedienti – slittamenti armonici, alterazioni
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cromatiche, reinterpretazione funzionale degli accordi, introduzione di settime di dominante e di
sensibile – lambisce diverse aree tonali senza mai soffermarvisi (Do minore, Fa minore, Si bemolle
maggiore, Sol minore, Do minore, Re minore), per giungere alla seconda e ultima cadenza del
recitativo solo nella seconda metà della battuta finale, alla cui altezza il discorso si chiude con la
concatenazione quinto-primo in Do maggiore.
Anche scegliendo una coppia di esempi connotata da un grado di omogeneità
eccezionalmente elevato, essendo il recitativo della serenata maggiormente complesso rispetto alla
norma riscontrata in tale repertorio, mentre quello operistico si colloca tra i più lineari nel suo
genere, appare dunque evidente come il carattere della drammaturgia, statico nel primo caso,
dinamico nel secondo, trovi un perfetto rispecchiamento nel linguaggio armonico, il quale rende
con i propri mezzi la medesima staticità o dinamicità degli accadimenti. Altrettanto sintomatiche
della diversa impostazione drammaturgico-musicale dei lavori a seconda del relativo genere di
appartenenza risultano le modalità d’impiego dei recitativi accompagnati, funzionali in opere e
serenate a finalità dissimili, espressive e affettive nelle une, retoriche nelle altre: in quest’ultime,
quando presenti, essi non sono chiamati a porre in risalto i nodi cruciali della vicenda o momenti di
particolare intensità emozionale, bensì tendono a sottolineare i passaggi in cui si addensa l’intento
encomiastico e celebrativo, divenendo in una certa misura emblematici del concetto di maestà.
All’interno della produzione vivaldiana la mancata partecipazione del recitativo accompagnato ai
meccanismi drammaturgici delle serenate trova attestazione nell’assenza di una strategia condivisa
tra le tre partiture a noi pervenute, giacché in RV 687 e 690 si riscontra un utilizzo esclusivo di
recitativi secchi, mentre in RV 693 gli accompagnati costituiscono all’incirca i due terzi dei
recitativi, stravolgendo in maniera radicale le percentuali consuete per l’opera, dove l’efficacia di
tale scrittura si basa invece sul suo carattere eccezionale.23 In questo lavoro l’estraneità dei recitativi
accompagnati a principi drammaturgici si esplica pure nella sostanziale uniformità della loro
distribuzione tra i personaggi, nonché dal curioso espediente di interporre tra di essi e l’aria alcune
battute in recitativo secco, come avviene nelle sezioni di versi sciolti antecedenti i nn. 8 e 13,
mentre la successione inversa, ben più consueta nel repertorio operistico in virtù del suo effetto di
climax, ricorre esclusivamente in un caso (n. 11). La mancata differenziazione funzionale tra le due
23
Per una panoramica sull’uso dei recitativi accompagnati in RV 693 cfr. MICHAEL TALBOT, PAUL EVERETT, Homage
to a French King, cit., pp. XLVI-XLVII, dove il rapporto tra recitativi accompagnati e secchi è calcolata sulla base della
quantità dei versi interessati dai due diversi tipi di trattamento, ottenendo rispettivamente 42% e 58%, mentre io
sottopongo a conteggio le sezioni della partitura, cosicché nelle mie considerazioni le proporzioni si invertono e il
divario si accentua. Tale discrepanza, tuttavia, non ci impedisce di giungere alle medesime conclusioni, poiché il dato
rilevante posto in luce con entrambi gli approcci è la pervasività del recitativo accompagnato in RV 693, qui presente in
concentrazioni eccezionali rispetto alle consuetudini osservabili nel repertorio operistico, un fenomeno che i due autori
riconducono con grande verosimiglianza alla volontà, da parte di Vivaldi, di rimandare allo stile francese.
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forme di recitativo risulta inoltre palese nella loro condivisione del medesimo linguaggio
compositivo, connotato, come abbiamo visto, da un carattere ‘statico’, privo di una spinta
propulsiva in direzione del numero chiuso a seguire: se andiamo ad analizzare uno tra i numerosi
esempi disponibili in RV 693 (Esempio 3), osserviamo infatti che gli accadimenti armonici si
attengono a un ritmo lento, prediligendo sviluppi semplici e graduali dove la tensione viene più
volte scaricata mediante cadenze perfette. La tonalità di partenza (Sol minore) trova in tal modo
conferma già alla terza battuta, quindi il discorso vira a La minore per poi fissare su base cadenzale
la relativa maggiore, chiudendo infine con un Si minore raggiunto dopo aver accennato brevemente
a Mi minore. Poche sono dunque le tonalità toccate, e ancora più ristretta la gamma delle funzioni
armoniche cui Vivaldi fa ricorso (quasi esclusivamente tonica, settima di dominante, settima di
sensibile, mentre l’unica sottodominante, introdotta alla penultima battuta, è subito reinterpretata
come terzo rivolto della settima di dominante); gli accordi risultano pertanto protratti per diversi
tempi, spesso a cavallo di due o più battute, sfruttando il legato degli archi cui è assegnata una
scrittura a valori lunghi in maniera da creare un tessuto fonico continuo e omogeneo, lontano dagli
interventi incisivi che di norma punteggiano i recitativi accompagnati dei drammi per musica.
Il diffuso fenomeno degli autoimprestiti nelle serenate vivaldiane attesta dunque un rapporto
di osmosi nei confronti del repertorio operistico, con il quale la condivisione dei materiali è
esclusiva e bidirezionale, ossia i numeri chiusi si trasferiscono pressoché immutati da un lavoro
all’altro senza coinvolgere ulteriori generi musicali, se non in misura marginale e sempre in brani
d’organico meramente strumentale. Benché nell’ambito del presente studio non si abbia avuto modo
di contestualizzare le scelte stilistiche di Vivaldi rispetto alla coeva prassi compositiva, emerge
comunque chiara la sua piena coscienza della difformità d’impianto drammaturgico esistente tra
opera e serenata, una consapevolezza manifesta nell’accurata e sistematica differenziazione della
scrittura dei recitativi affinché rispecchino fedelmente la distinta funzione da essi assunta
nell’economia dei libretti. Ciò conferisce una connotazione diversa anche al numero chiuso posto di
volta in volta a seguire, poiché, persino a fronte del riutilizzo del medesimo brano a cavallo di
partiture dell’uno e dell’altro genere, nell’opera vi si giunge dopo un percorso armonico instabile e
accidentato, dove le tensioni si accumulano per trovare l’unico sfogo nell’aria, mentre nella serenata
i percorsi maggiormente lineari e le periodiche soste del flusso modulante nelle cadenze mitigano la
forza propulsiva del discorso e, di conseguenza, pure l’effetto risolutore esercitato dall’ingresso del
numero chiuso. In tal modo Vivaldi non solo rispetta con coerenza le specifiche peculiarità dei due
generi, nei cui meccanismi drammaturgici sia l’aria che il recitativo rivestono valenze dissimili, ma
sfrutta inoltre al massimo le potenzialità insite nel materiale sottoposto ad autoimprestito, in quanto
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ogni volta lo riattualizza in funzione del contesto mantenendo però rigorosamente al minimo gli
interventi di modifica, cosicché riesce a instaurare un fecondo equilibrio tra le esigenze pratiche di
economizzare l’atto compositivo e la piena salvaguardia dell’efficacia artistica delle proprie
partiture.
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