Sei sulla pagina 1di 7

La solitudine di Ligotti

di Lorenzo Marsili

L’impulso primario che mi ha portato a riflettere sul pensiero di Thomas Ligotti e a


voler scrivere qualcosa a riguardo è derivato dalla lettura di Cos’è il realismo depres-
sivo?, interessantissimo articolo di Gianluca Didino uscito recentemente per L’Indi-
screto. Le righe seguenti sono quindi concepite con l’intenzione di proseguire il per-
corso metodologico da lui tracciato, ovvero tentare di accostarsi alle pagine di Ligotti
per carpirne i presupposti, mostrare i punti fruttuosi e problematici dei suoi scritti. Per
fare questo mi servirò principalmente del libro Nato nella paura, raccolta di interviste
(di cui una pubblicata su Not) in cui l’autore risponde a svariate domande intorno a
La cospirazione contro la razza umana, a molti suoi racconti dell’orrore e a sue espe-
rienze personali. Essendo questo un articolo di risposta, che viaggia in parallelo a
quello di Didino sia per struttura che per argomenti, consiglio di considerare i discorsi
che seguono come una prosecuzione di quelli, qui solo in parte rapidamente sintetiz-
zati.
A differenza di Didino soffermerò la mia attenzione sui temi del sentire pessimista e
dell’orrore derivato dalla coscienza umana. Ritengo infatti che questi aspetti costitui-
scano il fulcro dell’opera di Ligotti. In aperto contrasto con Didino invece sosterrò
che Ligotti non ha alcuna intenzione di proporre una filosofia sistematica ma, anzi, il
suo apparato concettuale emerge dall’inestricabile intreccio di credenze individuali
sull’esistenza, un pesante portato di esperienze vissute e il contesto sociale di cui fa
parte: l’America contemporanea. Cercherò poi nelle conclusioni di abbozzare una via
di fuga dal pensiero di Ligotti tramite la rivalutazione delle relazioni umane.

Come sottolinea giustamente Didino, in vari passaggi Ligotti parla della depressione
con un evidente bias razionalista. In questa prospettiva le emozioni risulterebbero le
creatrici di un senso illusorio, il quale svanirebbe nelle fasi depressive, in cui invece
si vedrebbero le cose per “per quel che sono” (sulla problematicità del tema del senso
in Ligotti tornerò in seguito). Quello che però mi preme è cercare di mettere in luce
un altro tratto del discorso di Ligotti (da lui affrontato, per altro, con maggior fre-
quenza rispetto al concetto di depressione): ovvero l’insanabile scontro tra un sentire
di tipo pessimista e la sua controparte ottimista. A mio modo di vedere concentrarsi
su questa opposizione può servire a limitare la giusta critica rivolta da Didino a una
piccola porzione della sua produzione e anche a gettare una nuova luce sull’idea, per
me discutibile, secondo cui La Cospirazione andrebbe letta come un’opera sistemati-
ca che aspira a elevare il pessimismo filosofico a verità oggettiva, universale e incon-
futabile. Ligotti ribadisce in varie occasioni che esistono due tipi umani. Gli ottimisti,
ovvero le persone che pensano che vivere vada bene sempre e comunque, sono la
maggioranza e cospirano contro i pessimisti, ovvero coloro che invece vedono
nell’esistenza un’essenza straziante, orrorifica, perpetuando la specie umana e conse-
guentemente il dolore che strutturalmente essa porta con sé. Il punto interessante di
questa opposizione è che per Ligotti «nessuna conclusione tu tragga è dimostrabile.
Non esiste alcun modo di registrare che cosa rende la vita degna di essere vissuta e
confrontarlo con ciò che non la rende tale». E afferma ancora: «quello che uno crede
è un’opinione. […] “Opinione: non esistono incentivi lodevoli a riprodursi”. Pur-
troppo non posso dimostrare che non esistono incentivi lodevoli alla riproduzione.
[…] Nessuno può dimostrare che la vita sia desiderabile né indesiderabile». Non è
quindi sul piano dell’oggettività, della realtà descritta “per quel che è” che si consuma
la diatriba tra pessimisti e ottimisti. Da questo punto di vista il pessimismo non appa-
re in alcun modo più razionale dell’ottimismo: se il primo è definito inconfutabile da
Ligotti lo è allo stesso modo il secondo. Egli neanche spera di poter convincere razio-
nalmente chi non ha la sua stessa opinione sulla vita, basata su un’affinità di sentire.
A tal proposito afferma: «tanto tempo fa ho scoperto che è impossibile convincere
qualcuno che sarebbe stato meglio non nascere mai. Se non la vedi così, nulla ti farà
cambiare prospettiva, provarci è da sciocchi».
A un certo punto Matt Cardin ricorda che Ligotti una volta ha affermato che un suo
conoscente, dopo aver letto le bozze de La cospirazione, «non riusciva a cogliere che
in questa cupa e disperata diagnosi della vita [egli parla] di cosa sembra e deve sem-
brare il mondo [a lui] anziché elevare una tesi al rango di verità oggettiva». La se-
guente risposta data da Ligotti a mio modo di vedere elimina ogni dubbio sulla pre-
sunta universalità da attribuire alle considerazioni che egli compie ne La cospirazio-
ne:
«La cospirazione contro la razza umana non è affatto un’opera filosofica, tantomeno
un magnum opus. È una sintesi di idee altrui in sintonia con le mie. Lo stacco che
qualcuno potrebbe percepire tra ciò che penso e il modo in cui l’ho articolato è una
cosa di cui nessuno può sapere niente. Per me non esiste stacco. […] Quanto al met-
tere parole in bocca a qualcun altro, come se ciò che sembra vero a me fosse vero sul
serio, è solo un espediente comune quando si scrive un saggio personale».
Ligotti poi allarga a tutta la letteratura la sua idea che sia impossibile trovare “la ve-
rità” attraverso la scrittura: «la letteratura è uno svago come tanti […] non fa luce su
nessuna realtà ultima». È anche importante notare come nella sua visione la saggisti-
ca, la narrativa, il cinema ecc. siano tutte forme artistiche da mettere sullo stesso pia-
no, senza che nessuna possa vantare maggiori qualità esplicative rispetto alle altre.
Alla luce di quanto detto fin qui mi sento di poter affermare che vi siano più affinità
tra i racconti horror prodotti da Ligotti e La cospirazione di quanto si potrebbe pensa-
re a prima vista. Egli sostiene di essersi dedicato unicamente alla scrittura di narrativa
dell’orrore in quanto a suo modo di vedere essa costituisce il solo genere letterario a
permettergli di concentrare la propria attenzione su una singolare e molto limitata
esperienza, quella che però egli considera il fulcro di ogni altra, la sola degna di esse-
re affrontata: l’esperienza «strana, terribile, deprimente di essere vivo». Ligotti non
ha interesse nel descrivere il mondo esterno, ogni suo racconto consiste nella riscrittu-
ra in una veste differente della propria interiorità. «Scrivo quando nella mia vita c’è
qualcosa che mi spinge a farlo. In particolare l’odio e il dolore». Tutto questo si ri-
trova anche ne La cospirazione con un’unica differenza: in essa «quello che [manca
è] lo scenario fantastico. […] Scrivere La cospirazione è stato come scrivere una lun-
ghissima poesia» dove per poesia egli intende l’esposizione concettuale di un’idea (se
non si fosse ancora capito l’idea è “la vita umana è orrore”). Allo stesso tempo «scri-
vere La cospirazione contro la razza umana è stata una droga. […] Altrimenti non
l’avrei scritta». Per Ligotti infatti l’atto di scrivere, che si tratti di un racconto o de La
cospirazione fa poca differenza, consiste di un’«evasione provocatoria», ovvero della
peculiare possibilità di negare la vita, o quantomeno il suo valore, all’interno della vi-
ta stessa.
Arrivo adesso ai contenuti specifici trattati ne La cospirazione. Se mi sento da un lato
d’accordo con la lettura di Didino secondo cui il tema degli esseri umani/marionette
sviluppato da Ligotti nasconde un presupposto religioso senza il quale il terremoto
ontologico da egli invocato fallisce miseramente (questo tema mi sembra, nonostante
l’ampio spazio dedicatogli dall’autore, il punto più fragile del libro), credo invece che
un argomento in esso trattato che meriterebbe una maggiore attenzione riguardi la
questione della coscienza umana ripresa dal filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe.
Tra l’altro Ligotti afferma che la causa che lo ha portato a cimentarsi nella scrittura de
La cospirazione riguarda proprio la lettura del suo saggio L’ultimo messia. Ligotti so-
stiene anche di Zapffe: «ha posto una base al mio generico pessimismo che […] non
è concettualmente difendibile».
La tesi di Zapffe può essere riassunta come segue: la coscienza umana ha trasformato
l’esistenza in un paradosso che rende quest’ultima invivibile. Se infatti gli altri ani-
mali soffrono ma sono pienamente inseriti nel loro ciclo naturale, rispondono unica-
mente al richiamo dei bisogni immediati che cercano di soddisfare come riescono, la
coscienza umana assume i tratti di una facoltà soprannaturale. Essa ci rende consape-
voli che la vita è essenzialmente dolore, che siamo destinati a morire e a veder perire
tutto ciò che ci è caro. Se portassimo alle estreme conseguenze questa consapevolez-
za, se fossimo coscienti in ogni istante delle sconcertanti verità che essa ci rivela, non
potremmo che impazzire dal dolore. È per questo motivo che gli esseri umani devono
escogitare diverse tattiche per offuscare la propria coscienza: possiamo evitare di pen-
sarci dedicandoci alla ricerca del piacere, possiamo sperare di essere risarciti delle
sofferenze patite in un al di là, oppure trasformare il nostro dolore in filosofie e opere
d’arte che ci distanziano dalla vera sofferenza che proviamo e la trasformano in una
fonte di svago. Queste tattiche per Zapffe però non possono che essere fallimentari: la
coscienza non può essere ignorata fino in fondo, l’unico modo per fuggire dalle sue
grinfie è scegliere di non generare più per procedere verso una lenta e dolce estinzio-
ne.
Peter Wessel Zapffe

Ligotti, mettendo a paragone Zapffe e Schopenhauer, non può che preferire il primo
all’ultimo. Per Ligotti infatti erigere la volontà a principio ultimo del mondo sembra
in apparenza spiegare ogni cosa, dare un senso definito e comprensibile a tutto. Il pro-
blema che però egli rintraccia nella filosofia di Schopenhauer «è che il [suo] sistema
funziona soltanto sulla carta e non si può individuare nell’esistenza concreta più di
quanto non si trovi un Dio-creatore. Il pensiero di Zapffe invece è molto terra terra.
È facile sperimentare che la coscienza rovina la vita umana isolandola dalla natura,
dove l’unico imperativo di ogni essere vivente è sopravvivere e riprodursi».
Sebbene la visione degli animali proposta da Zapffe sia evidentemente limitata, se
non apertamente errata, (in parte ciò può essere anche ricondotto alla “vecchiaia”
dell’opera, pubblicata nel ’33) penso che invece il discorso sulla coscienza umana co-
stituisca il cuore del pensiero “teorico” di Ligotti, un punto da prendere seriamente in
considerazione per cercare di mostrare i presupposti su cui esso si fonda. Prima e al
fine di tentare di compiere quest’operazione mi sembra utile sottolineare altri due
aspetti che emergono dalle interviste contenute in Nato nella paura.
Il primo riguarda il racconto che Ligotti fa della propria vita. Egli afferma: «da adole-
scente tendevo alla depressione. Per me il mondo era soltanto qualcosa da cui scap-
pare». A seguito di un periodo in cui aveva fatto uso massiccio di droghe e alcol,
combinato allo stress generato da studio e lavoro, Ligotti riporta di aver avuto un
esaurimento negli anni ’70 dopo il quale iniziò a soffrire di attacchi di panico. In que-
sto contesto egli si definisce agorafobico. Successivamente, agli attacchi di panico
che con il passare del tempo diventano sempre più frequenti, si aggiunge la sindrome
del colon irritabile, causata dallo stress. Nel 2001 Ligotti inizia a essere seguito da
uno psichiatra, il quale gli diagnostica un disturbo bipolare. In questo periodo riferi-
sce di riuscire a scrivere solo nelle fasi ipomaniache. Nei tempi più recenti invece af-
ferma di soffrire di anedonia, la forma più grave di depressione. Ligotti è una persona
che soffre. E il dolore che prova è pienamente di natura esperienziale, non ha niente a
che vedere con alcuna “teoria”.
Il secondo punto riguarda l’interessante discussione nata nelle interviste intorno alla
raccolta di racconti, definiti significativamente da Ligotti di “horror aziendale”, Il
mio lavoro non è ancora finito (sulla quale si è già soffermata Sara Mazzoni scriven-
do riguardo a Nato nella paura). In particolare il racconto lungo che dà il proprio no-
me alla raccolta è l’unico in cui si possono leggere dei riferimenti diretti alla biografia
di Ligotti. L’ambientazione, diversamente dalla sua ordinaria impostazione narrativa,
è realistica: un dipendente stanco di essere sfruttato e umiliato dalla propria azienda
decide di vendicarsi e di uccidere i propri capi. Ligotti afferma: «la storia del perso-
naggio principale era più o meno la storia dei guai che stavo patendo all’epoca sul
posto di lavoro. […] quando l’ho scritto non ero in me, ero Frank Dominio, il prota-
gonista della storia». Ciò che però trovo più interessante di questo tema è il cortocir-
cuito che si presenta nei seguenti passi di Ligotti:
«il motivo per cui [ho scritto questa storia] è molto simile a quello per cui ho scritto
le altre: l’odio verso il sistema nella sua più ampia accezione possibile. In questo ca-
so, il sistema dell’ambiente aziendale mi è servito da microcosmo del più grande si-
stema dell’esistenza, che emerge in modo esplicito come supremo oggetto di ripu-
gnanza […] Il mio lavoro non è ancora finito sfrutta il sistema aziendale soltanto co-
me punto di partenza per descrivere l’onnicomprensivo sistema dell’esistenza umana
– anzi, di tutta l’esistenza organica – in quanto fondamentalmente e inevitabilmente
maligno. […] Per me l’unica via di fuga è la morte».
Da questi passi sembra che per Ligotti non vi sia alcuna contingenza: il dolore provo-
cato dal sistema capitalistico in cui vive non è qualcosa che potrebbe non darsi in un
altro assetto sociale, è invece un risultato immodificabile del più generale orrore
dell’esistere. Il mondo sembra qualcosa di definitivo, su cui non si può agire: «quello
che non sopporto è l’idea stessa che il mondo, qualsiasi mondo, esista. […] Se vivi
anche dopo la morte, vivrai comunque in un altro mondo… e in fin dei conti un mon-
do vale l’altro».
In altri passi delle interviste invece Ligotti sembra smorzare questa posizione prece-
dente, forse c’è ancora qualcosa che si può fare per cambiare il mondo:
«in politica mi identifico nel socialismo. Vorrei che tutti stessero il più comodi possi-
bile mentre aspettano di morire. Purtroppo la maggioranza della civiltà occidentale è
fatta di capitalisti, che considero selvaggi fatti e finiti. Visto che ci tocca vivere in
questo mondo, desiderare la minor sofferenza possibile per noi stessi e per gli altri è
naturale, no? Ma non succederà mai.
Mi impressionava […] che non soltanto poteva capitare qualcosa di terribile, ma che
a conti fatti stava già capitando. […] Capitava da sempre e, a meno di cambiamenti
radicali nell’esistenza materiale, sarebbe continuato fino al giorno del giudizio».
Su questa possibilità di effettuare cambiamenti radicali tornerò nelle conclusioni.
Adesso vorrei riprendere ancora Didino riguardo alle sue considerazioni sul fatto che
il pensiero di Ligotti abbia una profonda radice maschile, bianca e occidentale. Sono
pienamente d’accordo, e anzi le parti di Nato nella paura sopracitate mostrano come
a questi tre aspetti se ne possano aggiungere altri due: nell’analizzare la sua opera non
si può non prendere in considerazione il fatto che Ligotti è una persona che soffre e
che vive nella società tardo-capitalista americana. Credo che a questa rassegna man-
chi ancora un aspetto, forse il più importante: Ligotti è una persona sola. Egli scrive:
«Certe persone, per vari motivi, preferiscono la compagnia di sé stessi a quella degli
altri. […] Nulla è più comprensibile del desiderio di ricevere il conforto e il sostegno
del prossimo, anche se si tratta di un ideale, e il prossimo può rendere la tua vita un
inferno con la stessa facilità con cui può renderla intollerabile, figuriamoci qualcosa
che si avvicina alla felicità. Comunque sia, la vita da reclusi non è necessariamente
la condizione ottimale per la moltitudine. E aggiungerei che la maggior parte dei re-
clusi non ha scelto di esserlo. Di sicuro non io, che ho soltanto cercato di trarre il
meglio dalle circostanze in cui sono capitato. Devo dire, però, che prima ancora di
condurre un’esistenza da recluso avevo cominciato a percepire che il tempo trascorso
insieme agli altri era un ostacolo a fare ciò che desideravo davvero, ossia diventare il
miglior scrittore horror che potevo».
Ligotti sostiene anche di non aver avuto rispetto per sé stesso finché non è diventato
uno scrittore conosciuto: questo ruolo gli consente quantomeno di instaurare un pre-
zioso rapporto di vicinanza ideale con i suoi appassionati lettori. In un passo di un’in-
tervista sottolinea infatti la fondamentale relazione di fratellanza nell’orrore che in-
trattiene con essi, i quali condividono con lui le stesse idee sulla vita: «più lontani so-
no i tuoi pensieri ed emozioni da quelli della maggioranza, più ti affezionerai allo
scrittore che parla in questo modo per te. Ti sembrerà una fortuna averlo trovato. E
allo scrittore sembrerà una fortuna ancora più grande aver trovato te». In un altro
punto Ligotti tradisce addirittura un desiderio di una prossimità meno virtuale, più
concreta con i propri lettori: «il protagonista del Giovane Holden parla di libri che
fanno venire voglia di conoscere i loro autori, chiacchierarci al telefono e via dicen-
do. Se un’opera letteraria riesce in questo lo considero un successo. Anzi, è l’unico
tipo di successo letterario che abbia senso, per me».
Io mi sento affine al sentire di Ligotti. Se lui si è drogato della sua scrittura, io l’ho
fatto della lettura delle sue opere. Negli ultimi anni è stato l’autore che mi ha scosso
più di ogni altro, quello di cui ho parlato più volte con altre persone e certamente con
più fervore (spesso sentendomi completamente ignorato, frainteso, commiserato). Se
fosse qui lo abbraccerei, con o senza la sua volontà.
Credo però che la questione fondamentale del suo pensiero, ovvero il paradosso della
coscienza umana ripreso da Zapffe, crolli inevitabilmente se troviamo il modo di to-
gliere il presupposto della solitudine. Perché il dolore derivato dalla consapevolezza
della morte assume tutta questa rilevanza in Ligotti? Perché siamo soli. Quelle che
Zapffe definisce tattiche di distrazione dalla coscienza sono delle pie illusioni solo se
non valgono la pena per giustificare il nostro esistere, solo se il gioco non vale la can-
dela, eppure potrebbe valerla! Dare per scontato che queste modalità siano intrinseca-
mente fallimentari e non possano rivelarsi vere e proprie vie di fuga dal dolore vuol
dire accettare il presupposto per nulla neutrale di non poter essere felici insieme: vive-
re pienamente con gli altri, trovare un senso comune all’esistere che, seppur contin-
gente, da costruire e tenere vivo insieme, non può essere considerato un’illusione.
Zapffe paragona gli esseri umani a dei cervi preistorici con delle imponenti corna.
Queste corna erano inizialmente molto utili al cervo, che le usava per lottare e per
procacciarsi del cibo. A un certo punto però esse si sono sviluppate a tal punto da co-
stringere i cervi a terra, schiacciati dal loro insostenibile peso, fino alla loro estinzio-
ne. Per Zapffe le corna sono per il cervo ciò che la coscienza è per gli esseri umani. E
se quei cervi avessero incastrato le loro possenti corna tra loro? Se avessero trovato il
modo di procedere insieme in questo delicato gioco di equilibri, regolazione e distri-
buzione del peso non più su un singolo individuo ma su un corpo collettivo?
A tal proposito mi torna in mente una frase di Franco Berardi Bifo contenuta nel libro
Quarant’anni contro il lavoro che secondo me può chiarire la contraddizione interna
al pensiero di Ligotti riguardo alle contingenze del tempo in cui viviamo:
«L’uomo libero (il ribelle, l’autonomo) non è colui che odia di più l’oppressore, ma
colui che ama di più la propria vita, il proprio evento, la propria singolarità, indipen-
dentemente dalle contingenze mondane, sociali, entro cui essa si determina. La diffe-
renza tra oggi e il ‘68 consiste essenzialmente in questo: non nel fatto che odiamo di
meno il fascismo, la mafia, l’oppressione salariata, la burocrazia o l’imperialismo.
Ma nel fatto che non abbiamo alcuna vita da amare, che non amiamo la nostra comu-
nità e noi stessi. Non c’è nessuna via di uscita politica, sindacale, rivendicativa da
questo. La via di uscita consiste unicamente nella concentrazione, nell’energia rivol-
ta verso il proprio oggetto, verso il proprio tempo, verso la propria opera, verso la
propria azione».
Solo ricostruendo una vita degna di essere vissuta potremo avere la forza di tornare a
lottare contro le sofferenze generate dallo stato di cose vigenti. Certo, al momento
probabilmente l’antinatalismo è la soluzione più razionale viste le condizioni materia-
li e di sentire in cui versano gli esseri umani in questo mondo. Questo però non è
l’unico mondo possibile.

Potrebbero piacerti anche