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SFBC057 - Remo Guerrini - Pelle D'ombra
SFBC057 - Remo Guerrini - Pelle D'ombra
PELLE D'OMBRA
Romanzo di fantascienza
Proprietà riservata
Presentazione
Pelle d'ombra
Sori
BIBLIOGRAFIA ITALIANA:
racconti:
— Ecco fatto (Urania n. 316, Mondadori 1963);
— Il rifugio (Urania n. 325/bis, Mondadori 1964);
— L'ultimo (Galassia n. 46, CELT 1964);
— La fine di tutto (Oltre il Cielo n. 132, Gruppo Editoriale Esse
1965);
— Tutta una vita (Galassia n. 59, CELT 1965);
— Il tempo dell'oro (Galassia n. 89, CELT 1968);
— Zucchero (Galassia n. 91, CELT 1968);
— Ombre in uno specchio (Galassia n. 96, CELT 1968);
— Progetto S. Stefano (Oltre il Cielo n. 149, Gruppo Editoriale
Esse 1969);
— Carnevale (Galassia n. 137, CELT 1971);
— L'ultima giga (Galassia n. 165, CELT 1972);
— Cavaliere (Robot Speciale n. 4, Armenia 1977);
— Fiori di cartapesta ho ancora da quell'ultimo carnevale
(nell'antologia Universo e dintorni, Garzanti 1978).
A mio padre, prima di tutto,
poi a Lino Aldani, che è il più bravo di tutti,
poi a Vittorio Curtoni, che m'ha dato consigli essenziali, fin dal
principio,
poi a Gianni Montanari, naturalmente,
poi a Ismaele, Queequeg, Achab, Bildad, Peleg e Starbuck,
all'ammiraglio Benbow, John Silver & C.,
a Jonathan Harker e a sua moglie Mina,
a Hamlet, Ophelia, Horatio, Polonius, Rosencrantz & Guildestern,
a Leo Percepied, Sal Paradise e Ray Smith,
a Leopold Bloom, Stephen Dedalus e Molly,
a Aureliano Buendia, Melquiades, José Arcadio e Ursula,
e a Paperino.
Parte Prima
"È un bel cielo. Non l'avevo mai visto così da vicino. Che ore
sono?" disse Omar, guardando l'orologio che brillava al sottile polso
di lady Mamoudy.
"Mezz'ora, o forse meno, alla mezzanotte."
I fuochi erano accesi sulle rupi e sui colli che circondavano la
città, lunga sulla sabbia: dalle finestre sul picco essa appariva come
una gran tela di ragno, tessuta di strade convergenti verso il circo.
"È difficile decidere, adesso è davvero difficile."
"È proprio il più bel cielo del mondo," ripeté lady Mamoudy, tesa
sul davanzale alto sul gran buio scintillante. Sopra di lei, a meno di
cento metri, la volta di cristallo si curvava sulla città: e le stelle non
erano che i riflessi pallidi dei fuochi al suolo.
"Temo che non sarà mai più così. Mi fa paura il tempo che passa.
È come una bestia feroce che ti morde continuamente, mentre tu non
sai dove colpirla."
La donna reclinò il capo, come stupita. "Davvero hai paura?"
"No. Credo di no." La città gli apparve all'improvviso come un
cimitero ricamato di candele. Posso fare quello che voglio, adesso.
Scegliere le armi e il momento, negare o concedere la grazia come un
dio d'altri tempi, crudele e misericordioso a seconda delle lune.
"Ci sono dentro, ormai," sussurrò chino all'orecchio di lady
Mamoudy. Il corpo di lei era morbido, quando gli si strinse addosso:
Omar sentiva il suo cuore battere dietro ai seni minuti. L'accarezzò.
"Sarà come a teatro, un copione con le parti stabilite e le battute
pronte." Guardò in alto: "Dopo quell'attimo, un attimo solo, le
chiacchiere di oggi non saranno che ricordi stupidi d'una fine di
Carnevale."
Rientrarono, e sedettero con gli altri, intorno a una tavola d'oro.
"Hai una bella casa Valdemaro, e una bella donna," disse Omar.
"Dovresti essere un uomo felice. Perché non lo sei?"
Valdemaro s'incupì, d'improvviso. "Perché dici che non sono
felice?"
"Perché ho visto come ti guardavi intorno, questa sera. Hai paura
di perdere Pat?"
La donna lo guardò, incuriosita e impaurita. Mancava ormai poco
a mezzanotte, e le rughe sul viso da Assassino di Omar s'erano fatte
più profonde. Lei fremette: "Non essere sciocco, Omar," disse.
Valdemaro aveva sorriso, invece. "Considero tutto ciò uno scherzo
poco riuscito," disse. E aggiunse, accennando al costume dell'altro:
"Come quel costume, d'altra parte, è poco felice."
Omar sorrise, a sua volta. Piano, portò la mano destra lungo il
fianco, e sganciò il pugnale dal fodero ricamato. "Sbagli," disse, con
un improvviso gelo nella voce. "Sono vestito da Assassino perché
questa notte sono un Assassino."
"Sciocco,"ripeté Pat N'goa, e batté le mani, uno schiocco soltanto.
I valletti-squalo versarono vino rosato e psicodin in vasi di peltro.
"Brindiamo all'Assassino, allora," disse Valdemaro. Tese le coppe,
scuotendo gli steli sottili. "Pago per questo vino buona parte del mio
reddito, e il prezzo aumenta di giorno in giorno. Forse al Carnevale
dell'anno prossimo brinderemo con lo champagne di alghe." Guardò
negli occhi Omar, poi Pat e lady Mamoudy. "Quelli di noi che
sfuggiranno all'Assassino, naturalmente," e rise.
"C'è tempo per bere," disse Omar. "C'è tempo fino a mezzanotte."
S'allungò in poltrona. "Giochiamo, invece."
C'era un rondò di bambini di moda in città, un antico
divertimento, tutta l'anticaglia del Novecento era di moda in città, in
quei giorni. Un giocatore viene bendato e gira a tentoni, finto cieco, e
cerca nella sua oscurità di arrivare agli altri che lo deridono. Omar
sfilò il pugnale, e ne immerse la lama nella brocca dello psicodin.
Punse il palmo della propria mano. "Nessuno dovrà barare," scherzò,
e porse la lama a lady Mamoudy, quieta accanto a lui. La donna
trafisse piano il proprio polso sinistro: le labbra tinte dell'Assassino
le inviarono un bacio silenzioso. Tese il pugnale a Pat, vestita come
Biancaneve, un'altra maschera vecchia trovata in soffitta.
"Sorteggiamo la mosca cieca," disse.
Pat lo guardò incuriosita. "È il cardine del gioco, un insetto
scomparso. La persona che non vedrà," spiegò Valdemaro. Alzò lo
sguardo a una pendola di cristallo, e disse: "Nove minuti a
mezzanotte. Conta a nove."
"Uno, due, tre, quattro, cinque…"
La sorte indicò lady Mamoudy. "Non ci sarà bisogno di sciarpe, né
di maschere," gridò Valdemaro e si alzò di scatto, traendo dalla
cintura un minuscolo laser d'argento.
Biancaneve si mosse. "Rimani seduta," ordinò l'Assassino, a bassa
voce.
Il raggio di fuoco bruciò le pupille di lady Mamoudy: la donna
urlò, portando le mani al viso. Le iridi cangianti erano due piaghe di
fiamma, adesso. Valdemaro le spinse il tubo d'argento fra le dita, poi
si fece da parte. La donna restò ritta nella sala, accanto alla tavola.
"Questo non rientrava nel copione," mormorò quieto l'Assassino.
"Non nel mio, almeno." Valdemaro rise forte, un riso sonoro. "Gioca,
signora. Manca pochissimo, ormai, a mezzanotte, e dopo dovremo
essere di nuovo saggi e normali, tutti." La donna si volse in direzione
della voce. Sparò: il filo di fiamma sfrigolò e arse l'architrave, sulla
porta del salone.
Valdemaro si girò verso le terrazze. Poi, all'improvviso,
incominciò a correre alla porta-finestra. L'Assassino lanciò il
pugnale: la lama vibrò e andò a piantarsi nella schiena dell'uomo,
all'altezza del cuore. La maschera di rame rotolò al suolo. Portato
dallo slancio l'uomo sì abbatté sulla balaustra e rimase in equilibrio
un solo istante. Precipitò nel vuoto.
L'Assassino si avvicinò a Biancaneve. "Forse ti amo ancora, sai,"
disse, e con la punta delle dita le scompigliò i capelli. Si strinsero
uno all'altra. "Non piangerò, sai, ora che l'hai ucciso. Era lui, dunque,
la vittima scelta per Carnevale… ho avuto paura, prima," mormorò la
donna.
L'Assassino la baciò, poi si volse piano verso lady Mamoudy,
cieca dolente nella sala, stringendo Biancaneve, forte come uno
scudo. "Ti amo!" gridò, e lady Mamoudy sparò verso quell'urlo, nel
suo buio. Il corpo di Biancaneve ebbe un fremito leggero, e ricadde
con un sospiro nelle braccia dell'Assassino. L'uomo la lasciò
scivolare sul pavimento. Uscì dalla stanza.
Sui muri erosi corre una luce purpurea e strana. Lorna non ha mai
visto quella luce, contro i muri della casbah. Guarda in alto, nella
notte: nemmeno quel cielo pieno di punti illuminati l'ha mai visto, né
il pallone bianco e butterato, disegnato sopra i contorni dei
grattacieli, verso l'orizzonte. Prova un'angoscia lieve, come se un dio
sconosciuto l'avesse precipitato attraverso una porta invisibile, dentro
una casbah che somiglia in tutto e per tutto alla sua, ma che —
diavolo — non lo è!
Ricaccia in gola l'inquietudine, e s'affretta: non c'è tempo per
concedersi all'angoscia, nel vicolo, né per gli spilli di luce puntati nel
cielo. Poi il vicolo si apre su una piazza tonda e buia. Lorna va dritto
alla porta che sta di fronte, affondata nel muschio che s'arrampica su
tutta la facciata della casa. Scivola sui lastroni di granito… anche
scivolare a quel modo è una sensazione insolita e strana, per lui. Sale
i gradini, la sua mano destra si alza, preme sulla piastra della
serratura, il computer riconosce la ragnatela delle sue dita e
l'ingranaggio scatta: succede tutto così in fretta che Lorna ne è
stupito.
Entra nella stanza buia, e subito avverte un odore insolito, forse
sandalo, o alghe bruciate, un fumo sottile e aspro contro il palato.
"Ehi. C'è anche lui," squittisce una voce da nano. No, è un nano
davvero, il buio si scioglie in una penombra piena di profumi, il nano
sorride. "Siediti," dice, e indica una panchina lunga e coperta di
cuscini tinti con la porpora, vicina al muro.
Il nano veste da maggiordomo, come i maggiordomi vestivano
una volta, con marsina e sparato bianco d'amido, e somiglia a un
pinguino con le gambe tagliate a metà. Gli porge una coppa di vetro,
piena di liquore latteo, e lo spinge a sedere. "Pazienta ancora un
poco, per favore, altri ospiti devono ancora arrivare…"
E infatti non trascorre che un minuto, poi una lama di luce rosa —
ancora quella luce — si apre nel muro: è la porta che si socchiude, e
un altro ospite entra. "Oh Ismaele, vieni. Ti aspettavamo," dice il
nano, e scivola in quel fumo a colori, verso l'uomo. Ismaele ha l'aria
di un uomo di mare, poggia in terra un sacco da viaggio di canapa
grezza, e sbottona il colletto bianco e tondo della camicia
stropicciata. Ride a bocca aperta, un riso franco, e chiude la porta alle
proprie spalle.
"Quell'uomo mi piace," sussurra una donna. Sta accanto a Lorna,
seduta scomposta, a gambe larghe, scoperte fino a metà coscia, il
seno piccolo e rotondo quasi fuori dall'abito, la faccia di gesso e i
boccoli rossi sciolti sulle spalle e sulla fronte, imperlata di piccole
gocce di sudore.
Lorna vorrebbe — chissà da dove gli viene quell'idea, e perché —
che la donna s'alzasse e andasse a gettarsi fra le braccia di Ismaele.
Tutto ciò che al mondo è proibito, diventa lecito sui tappeti dello
speakeasy, e i desideri si avverano. "Oh, avanti amici miei, facciamo
festa. Carnevale viene soltanto una volta all'anno," pigola il nano.
Così la donna si alza — indossa piccole scarpe di vernice, con i
tacchi alti e fuori moda — e dondola goffa verso il marinaio.
"Ismaele," dice, e si toglie le scarpe per camminare meglio, è ubriaca
e incerta, la spallina dell'abito le scivola lungo il braccio destro,
Lorna vede la sua schiena nuda, forse anche davanti s'è scoperta, quel
petto che lui conosce bene… oh, lo speakeasy. Porta alle labbra la
coppa, beve piano, e vede Ismaele che tende le mani, abbranca la
donna e se la tira addosso, mezza nuda com'è.
La stanza è grande, una specie di immensa cantina con il soffitto a
volta, tinto di calce chiara: c'è gente, certo molta gente, uomini e
donne, e gli pare perfino di scorgere uno squalo a torso nudo — un
grande scandalo — cuscini e tappeti e lame d'ombra proiettate giù dal
soffitto, che tracciano alcove a comando.
"Non c'è luce abbastanza," dice. Il maggiordomo è lì, gli spunta al
fianco. "Eh, questo è uno speakeasy, signor mio. Troppo chiaro non
conviene a nessuno," sussurra, e versa ancora latte finto nel suo
bicchiere.
"Ho un appuntamento, qui," dice Lorna.
"E chi non ne ha?" soffia il nano.
"Con una donna… somigliava a quella che se n'è andata con
Ismaele." Indica nell'ombra, un gesto vago.
"Tutti, qui, hanno un appuntamento con una donna come quella,"
sussurra il nano, e s'impettisce, gira la testa e chiama "Anka", e lei —
proprio la donna dell'appuntamento — sorride, viene avanti e siede
accanto a Lorna. Porta un abito lungo che la copre fino alle caviglie,
una tunica viola e casta, ma quando ella si allunga verso Lorna e gli
sfiora il viso con una mano piena d'anelli, l'abito si apre del tutto,
davanti, dalla gola al ventre.
Lorna la guarda in faccia, i capelli rossoscuro che lei scuote,
ridendo, con un gesto lieve del capo, e vede che è proprio la stessa
donna che se n'è andata con Ismaele… alza di scatto la testa, e il
nano salta ancora fuori da chissà dove. "No signor mio, qui tutte le
donne sono fatte così," spiega, alzando un dito tozzo e sporco.
"Vuoi… intimità?" chiede.
"Sì," sussurra Lorna. Il nano trotta via e un millepiedi di ferro
corre sul soffitto e si ferma sopra di loro: scintilla un istante, come se
andasse a fuoco per un corto circuito, poi due sottili pareti d'ombra
scendono dall'alto, come sipari di velluto, impenetrabili al brusio e al
fumo. La donna scuote le spalle, e l'abito sbottonato scivola a terra, e
la lascia bianca e nuda.
Lorna la guarda incuriosito: ha le gambe lunghe, solo un po'
grosse nelle cosce, il ventre tondo. Le prende il volto fra le mani a
coppa, per sentire la pelle sotto le dita, sentirsela sua ancor prima di
andarle addosso. È soltanto un poco più pallida, rispetto all'ultima
volta che hanno fatto l'amore. "Tuo marito?" dice lui. "Oh, lascia
perdere, perché continui a evocare la sua ombra? Non sei stanco di
trascinarti dietro un fantasma?"
"Non so. Io non ho mai avuto padroni, e quando incontro una
persona che ce l'ha, ho sempre paura che questo padrone si presenti a
pretendere i suoi diritti".
"Non è soltanto una questione di padroni e servi…"
"Perché prima ti sei buttata su quell'Ismaele come una puttana
affamata?"
La donna lo guarda piena di curiosità. "Non sono stata con lui,"
dice. Resta seduta, li davanti, a ginocchia unite e nuda, come se nulla
fosse: il suo petto si solleva piano, i capezzoli ancora duri, come
quando s'è spogliata, così eccitata. Ha la voce bassa ma ferma, e
scolpisce le parole.
"Come… non sei stata con lui. Io t'ho vista."
"Non è possibile." Lei scuote ancora il capo. "Guarda," dice. È
come se il millepiedi meccanico, in alto, le obbedisse: il sipario
d'ombra si schiude, e Lorna vede in un gran divano di pelle chiara,
contro una parete, Ismaele e la donna abbracciati. Non si sono
neppure curati di stendere l'ombra intorno a loro.
"Ma ti somiglia, anzi, è straordinario… è uguale a te."
"Sciocco." Lei gli preme il petto contro il petto. "Ohi" dice
quando i bottoni della camicia di Lorna sfregano contro la pelle del
suo seno, si sposta di nuovo, si inginocchia sul pavimento.
"Ma quella là…" mormora Lorna, ma indica nel buio, perché la
coltre nera è di nuovo discesa dal soffitto, "quella là basta", dice la
donna, e gli straccia dal petto la camicia. Lui vorrebbe ribellarsi a
quella violenza finta, al profumo di donna, e gridare che non è
possibile che tutte le puttane dello speakeasy abbiano la stessa pelle
chiara, la faccia spruzzata d'efelidi, gli occhi verdi e gli stessi riccioli
sul collo. Ma lei gli monta ancora addosso, senza pudori, la sua
bocca è famelica, grande, le labbra rosse come i lembi di una ferita
scendono dal suo petto al suo ventre, gli mandano in ogni parte del
corpo brividi lunghi e violenti, è come la lingua d'un animale alieno
che gli si ficca dentro la carne, e lo svuota, gli tira via tutto.
E mentre resta ad aspettare l'orgasmo che dovrebbe lasciarlo
stanco e pieno di ribrezzo — per sé e per lei — e quei brividi che gli
salgono dalle cosce fin nelle reni, una campanella comincia a trillare,
nell'aria dello speakeasy, forse sono gli squali della Spazzatura che
fanno pulizia nel quartiere, oltre l'uscio blindato, che si portano via
Carnevale, o forse — il nano si affaccia dentro la sua incoscienza e
dice, inaspettatamente, "tutto bene monsieur?" prima di tornare dietro
al sipario — Lorna scrolla il capo, forte, ma il trillo si fa ancora più
acuto, lo speakeasy se ne va, quella bocca che lo riempiva se ne va, e
giù, nell'anca, giù a destra, il richiamo della Cattedrale scaraventa
Lorna fuori dal sogno.
"Cosa c'è lassù, di preciso? Non può essere cascato che da lì, già
morto. Gli hanno messo il coltello nella schiena e l'hanno buttato,
come un pacco di stracci. Il medico dice che forse era già morto,
prima di volare di sotto."
Lorna s'era vestito bene, perché così gli avevano ordinato:
l'uniforme da spazzino era stretta nelle spalle e sui fianchi, i galloni
d'oro brillanti sul velluto granata. Era l'alta uniforme, tutta quella
mascherata.
Guardò le pendici di roccia: in cima al picco i balconi della villa
erano come un soffio rosa, sulla pietra. "Come si fa a salire lassù?"
Aveva al fianco uno squalo anziano, più dimesso nell'uniforme
grigia, ordinaria, e la ronda meccanica, con la faccia di ferro altera.
Lo squalo restò in silenzio. Il robot rispose una cantilena che Lorna
già conosceva: "La villa appartiene a Valdemaro N'goa, uomo.
Possono entrare soltanto gli uomini."
"Se volessi entrarci io?" I soli della città stavano scaldando l'aria
che i ventilatori spingevano da oriente: era giorno avanzato, ma la
strada rimaneva deserta. Due squali spazzini e un robot della guardia
non portavano buone nuove, nella città bassa. Lorna guardò il
compagno grigio, e sorrise: conosceva già anche la nuova risposta
del robot.
"Non è rilevante. Possono entrare soltanto gli uomini."
"Vai. Non ho più bisogno di te."
Ma fu Lorna a doversi tirare da parte. Il robot era rimasto inerte, le
palpebre spente, in attesa di un richiamo dalla Cattedrale. Lo squalo
osservò il disegno di gesso, sull'asfalto: un corpo lungo, a braccia e
gambe spalancate, come un grande uccello. Valdemaro — si
chiamava proprio così? Non gli avevano ancora trasmesso notizie
ufficiali, oltre all'incarico di muovere le prime indagini — era caduto
a faccia in giù come un pupazzo abbattuto.
"Sono sicuro che l'ha ammazzato un altro uomo. O una donna.
Avevo detto novanta probabilità su cento, ieri? Ora direi cento per
cento."
"È pericoloso," mormorò lo squalo grigio.
"Lo so." Quando aveva dovuto indossare quell'uniforme da
pappagallo aveva sudato freddo, per la rabbia. "Fareste bene a
cercare il colpevole da qualche altra parte," aveva sibilato in faccia al
robot che gli aveva portato l'ordine della Cattedrale, sperando che di
là, oltre quel muso di latta, qualcuno sentisse.
"Dobbiamo sapere chi c'è lassù, adesso. E chi c'era l'altra sera,
quando l'hanno ammazzato," disse.
"Non è facile. C'è soltanto un modo…"
"Lo so. Le Ombre."
"Perché perdiamo tempo, Lorna? Nessuno potrà arrivare alla
verità, se dalla verità anche un solo uomo potrà avere qualche rogna."
"C'è sempre un modo, per avere ragione di un uomo. Basta
chiederlo a un altro uomo che sia suo nemico."
"Noi abbiamo solo un cadavere a pezzi, qui. Per trovare i nemici
del suo assassino dovremmo prima trovare lui."
Lorna scoppiò a ridere. "Mi basta sapere chi c'era lassù l'altra sera,
per questo. Poi lo troveremo."
Vide un uomo, anziano e vestito in maniera sgargiante: la coltre
della sua Ombra lo proteggeva come una corazza impenetrabile.
Camminava lentamente, al margine della strada. "Avrà dentro mezzo
litro di psicodin… se la mia uniforme gli sembrasse davvero la veste
di un pappagallo, e lui mi sparasse con il laser, di me non resterebbe
che un mucchio di cenere calda. Ma se io gli tirassi un sasso soltanto,
si ricorderebbero tutti che sono soltanto un pesce, e non uscirei più
dalle loro galere," rifletté. "Quanti di noi lavorano alla centrale delle
Ombre?"
Guardò il compagno. Era ingrugnito. Poi le sue labbra sottili si
distesero. "Quanti ne abbiamo, Kano?"
"Quanti ne bastano."
"E allora falli lavorare. Voglio sapere quante Ombre sono entrate
nella villa, domenica sera, quante ne sono uscite, e dove sono
andate."
"Non sarà facile. Io ho solo qualche amico, laggiù: ma ti farò
sapere."
L'automa lì aveva ascoltati indifferente, come in preda a una
trance metallica, un metro più in là. Si mosse all'improvviso, rollò sul
cuscino d'aria e scivolò via. Qualcuno aveva bisogno di lui altrove.
Lorna guardò la sua sagoma tozza, soltanto vagamente antropoide,
che si allontanava. "Chissà cosa gli frulla, in quelle teste di latta,"
disse. Poi si volse ancora a Kano: "Hai tempo fino a questa sera. Ci
vediamo al Calibano, all'ora di cena. Voglio i nomi: fa' parlare i tuoi
amici, pagali o pianta loro un coltello nella pancia."
Era stato fin troppo semplice, buttare giù la porta. Rame, ferro
nero e battuto, gli stipiti e l'arco di pietra, l'ariete meccanico aveva
infranto tutto al primo colpo. Lorna aveva alzato la mano destra e
Kano, ritto sulla ruspa, aveva avviato il motore.
L'uscio s'era schiantato e le schegge erano volate intorno. Lorna
sperò che l'eco di quel rumore non rotolasse fino in città. Strinse nel
pugno la piastrina sigillata: nel microfilm era registrata
l'autorizzazione a violare l'ingresso della residenza intestata a
Valdemaro N'goa, uomo. Non c'era scritto nulla, di "come" farlo.
Lorna avrebbe potuto fondere i battenti, o inserire nelle serrature a
pressione le mani mozzate di Valdemaro. Avrebbe potuto essere
facile.
Invece c'era voluta mezza giornata, per far salire la ruspa lungo la
strada che si torceva sul pendio. Ma ora la porta stava in terra,
spezzata, sotto gli occhi a 28 millimetri d'un robot che registrava
ogni immagine e non interveniva a fermare quel disastro perché nel
suo cervello un impulso continuava a ripetere soltanto
l'autorizzazione a violare la residenza di Valdemaro N'goa, e non
aggiungeva nulla, di "come" farlo.
"Basta così, Kano."
L'ariete rombò, e trasse indietro la pala d'acciaio. Lorna raccolse
un frammento di rame slabbrato. Era la prima volta che uno spazzino
entrava a quel modo in casa d'uomini. Lo mise in tasca.
"Dentro. Non fate rumore, non rompete niente. Fotografate ogni
cosa. Se trovate in giro bicchieri, nastri dei sogni, altre cose che
abbiano addosso impronte neurodigitali, adoperate le strisce… un
momento, ancora. Lasciate fuori le armi."
Kano ritirò i fulminatori, e i manganelli. Li gettò nella cabina
dell'ariete meccanico, ed entrò nella villa per primo, camminando
curioso e timoroso, chino in avanti come una mantide, Lorna lasciò
che sciamassero dentro tutti: era come profanare una chiesa, e quasi
nessuno se ne accorgeva. Stupidi. Tutti.
Entrò. La casa era graffiata dentro la roccia, proprio sul sommo
del picco più alto. Dall'ingresso, un salone tondo con il pavimento
scalpellato nel granito, si sperdevano i corridoi, lunghi tunnel
d'ombra, i tizzoni di legno profumato ormai spenti nei bracieri, e
ognuno portava a una sala più piccola, in salita e in discesa come in
un grande formicaio.
Lorna udì lo strepito degli squali che si rincorrevano: le torce
elettriche facevano luce sui mosaici dei muri, poi qualcuno scovò gli
interruttori e le lampade si accesero, in ogni angolo.
Lorna sostò davanti a una parete: il granito era smerigliato, e
l'intero corridoio luccicava come un grande specchio concavo.
Guardò il proprio volto riflesso in alto, gli occhi grandi, pieni d'acqua
verde. Quella casa lo riempiva di curiosità. Ma aveva altro da fare,
prima. "Cercate nel guardaroba, e nelle stanze intorno, le cinture
delle Ombre. E armi, se ce ne sono. Voglio sapere se in casa ci sono
armi," gridò.
Gli portarono una manciata di strisce gommate. "Impronte. Di là
ci sono gli avanzi di una festa, coppe, una brocca di psicodin ancora
mezza piena. Vieni."
Seguì Kano nel salone più grande. Il tavolo era stato preparato per
quattro. Ma quanto tempo prima? Piuttosto, quattro erano le coppe, e
le poltrone. "Vediamo," disse, a voce alta. "Una è per il morto. L'altra
per lady Mamoudy… almeno, così dice Mamoudy. Una, immagino,
per l'assassino. E l'ultima?"
Quanto era stupido quel lavoro, e quanto sprecati i suoi timori.
Forse era solo un divertimento crudele, una burla che qualcuno gli
faceva. E, forse, avrebbe dovuto chiamare la fattucchiera: con dadi e
tarocchi, magari, l'assassino gli sarebbe cascato fra le braccia. Ma
c'era il morto là sotto, le piaghe sulla faccia di lady Mamoudy, e
l'Ombra di quell'Omar. Gli uomini volevano una verità: e lui
gliel'avrebbe data. Non importava quale, in fondo.
"Lorna," chiamò una voce da un corridoio.
Alzò la testa.
"Qui, nel guardaroba."
Si volse e tornò nel tunnel degli specchi. Kano teneva in mano due
bandoliere: una d'argento, con le borchie e le fibbie pesanti. L'altra di
filigrana, più leggera, ricamata di bianco, una cinta da donna.
Agganciati a entrambe, i piccoli generatori delle Ombre. Kano aveva
sfilato le bandoliere dai ganci del guardaroba, e le guardava
incuriosito.
Quando Lorna le afferrò, Kano tirò un sospiro. "Se me la infilassi
io, una di queste cinture?" chiese.
"Friggeresti, vivo come sei. Uno sbuffo di fuoco e addio Kano…
non so come funziona, ma è così."
L'Ombra di Valdemaro era quella, dunque. E l'altra, quella da
donna? Sospirò a sua volta, e scosse il capo. Imbecille. Gliel'aveva
ben detto Kano, il giorno prima. Pat N'goa. E dov'era finita, quella
donna.
Una voce gridò ancora, stridula, da una terrazza.
La donna stava là, vicina all'architrave sbrecciato dal laser, morta
a braccia aperte, gli occhi in su. Lorna la rivoltò, spingendola con un
piede: la lama di fuoco le aveva scavato un buco nella schiena, fino
alle ossa. L'abito bianco era pieno di sangue secco.
Rovistarono in tutte le stanze, come topi, frugarono negli angoli,
perfino tra i diari, i nastri e i libri della biblioteca, ma non trovarono
il laser. "Non è in casa, assolutamente," disse Kano, quando tutti se
ne furono andati.
Lorna aveva schermato le lampade, e le luci si erano smorzate.
Rifletteva, le spalle contro una parete e gli occhi fissi sulla città (al
tramonto i soli cambiavano di colore, dal bianco all'arancio, e
s'affievolivano). A chi appartiene l'arma di questo secondo delitto? E
la mano che ha piantato il coltello nella schiena di Valdemaro, è la
stessa che ha sparato con il laser, la stessa che ha ucciso Pat e,
probabilmente, accecato la piccola Mamoudy?
La cintola stretta l'infastidiva e, ora che non c'era più nessuno,
poté sganciarla e gettarla su un cassettone. Sedette. "Vieni qui, Kano.
Cerchiamo di adoperare la testa. Credo che qualcuno voglia servirsi
di noi, come pedine di un gioco che ancora non capisco. Cerchiamo
di evitarlo. Prima troviamo l'assassino, meglio è."
Avevano steso la donna su un'asse lunga e sghemba, le braccia
irrigidite lungo i fianchi, l'abito sporco di polvere e sangue, e
l'avevano portata via. Lorna l'aveva osservata a lungo, il viso pallido
spruzzato di lentiggini piccole e dorate, il naso dritto, i capelli rossi
come una gran fiammata sulle spalle seminude. Le aveva chiuso gli
occhi, passandole le dita sul volto. Occhi opachi ormai, ma ancora
verdi. Di una donna così mi potrei innamorare, aveva pensato. Per un
attimo se l'era immaginata viva, contro il suo ventre rugoso: ma una
donna così l'avrebbe respinto come una bestia piena di rogna.
"Portatela via," aveva gridato.
Ma s'era calmato subito, aveva inghiottito la rabbia e detto a
Kano: "È stato un uomo a sparare. Non c'è dubbio. Nessuno di noi
sarebbe stato ammesso, a Carnevale, a una festa di uomini, tranne
qualche valletto fedele. Forse è stato lo stesso uomo che ha tirato il
coltello. Ma bisogna dimostrarlo, e non mi sembra facile. Voglio
l'elenco di tutti i laser in mano agli squali."
Kano socchiuse gli occhi, con malizia. "Quelli legali…" sorrise.
"Soltanto quelli legali contano, per gli uomini."
"Si può fare" disse Kano. "Non credo che siano molti, in fin dei
conti. Cento, centocinquanta al massimo, compresi quelli più vecchi.
Nella casbah si adopera il coltello, più che il laser."
"Voglio sapere quanti laser, dei nostri, hanno sparato la notte di
Carnevale. E quali. È possibile?"
"Credo di sì," disse Kano. "Il caricatore dovrebbe portare il segno
di ogni scarica, di ogni colpo insomma. Basta sequestrarli tutti, o
chiedere che li portino alla centrale, per un controllo. Chi non ha
niente da temere lo farà subito. Ma ci vorrà un po' di tempo…"
"Voglio dimostrare che qui nessuno squalo ha sparato, la notte di
Carnevale. E che, quindi, possono aver sparato soltanto gli…"
"Come fai a saperlo?"
"Non lo so. Lo spero."
Lorna s'alzò, traversò il salone e uscì sulla terrazza: incominciava
a far freddo, fuori. Sentì l'odore della città: gli squali sentivano gli
odori, e spesso dal sudore, dal sapone e dai cosmetici distinguevano
un uomo da un altro. Distinguevano, a volte, gli uomini a occhi
chiusi. Ora la brezza dei ventilatori spingeva fin sul picco l'odore
della città, salato, aspro come i limoni in fiore sulle terrazze più alte.
Un velo di nebbia s'era avvolto intorno ai grattacieli. Lorna
s'avvicinò al parapetto e guardò sotto, nell'abisso dove Valdemaro era
rotolato come un uccello dalle ali mozzate.
"Nella mia stanza, alla centrale, nel terzo cassetto a sinistra, c'è il
pugnale che abbiamo tirato fuori dalla schiena di quell'uomo. Cerca
le impronte e fammene una copia, per domani. È un coltello da
uomo, ma non vuol dire che sia stato un uomo a usarlo. Se però le
impronte fossero quelle di Omar…"
"E come potrai controllare, poi? Non ti lasceranno mai entrare
nell'archivio degli uomini."
Lorna si volse: la luce dei soli si rifletteva dal cielo sull'alabastro
della terrazza. "Questa è un'indagine piena di illegalità," sorrise. "È
tutto così strano: uno squalo che va a caccia di un uomo… pensaci.
Non ha senso. Eppure è questo il mio vantaggio: posso fare quello
che voglio, tanto sono già nell'inferno e più in basso non possono
cacciarmi. Quelle impronte, ce le prenderemo."
Rientrò e sbarrò le finestre, con cura. Sul pavimento era rimasta
una macchia di sangue secco, grande come il palmo di una mano.
Cercò di raschiarla con la punta d'uno stivaletto. "Fa' pulire qua
dentro, e metti una guardia alla porta," disse a Kano. "Vorrei anche
sapere cos'ha fatto, dopo il… delitto, Omar Khayam. Ora per ora, con
precisione. Sempre che anche la registrazione della sua Ombra non
sia stata alterata."
Mentre scendeva dal picco, nella jeep, ripensò al volto della donna
bianca: aveva visto una faccia come quella, qualche giorno prima, in
un sogno.
Aveva paura, e Kano glielo leggeva in faccia, dentro le guance
infossate e rasate male, e nello sguardo che scivolava continuamente
verso la porta dell'osteria.
Ma Kano era impaziente: aveva già riempito e svuotato il
bicchiere, tante volte, e sentiva il sidro da quattro soldi bollirgli
dentro lo stomaco. "Cerchiamo di fare presto," disse, scuotendo la
caraffa ormai quasi vuota. "Non sono venuto qui per perdere tempo."
"Nessuno deve sapere da dove ti arrivano queste informazioni,"
disse l'altro. "Per nessun motivo."
"Certo, Lo abbiamo già stabilito, questo: ora sbrigati, però."
"Soltanto un tecnico delle Ombre può averti detto queste cose,
sarà facile risalire a noi… a me."
Kano bevve ancora, un sorso breve, e schioccò le labbra.
"Sbrigati, o te ne farò pentire," sibilò.
La voce del tecnico si abbassò, soffiò quasi, come in un gemito.
"L'Ombra di Khayam non è stata manomessa. La registrazione è
integrale. È uscito da quella casa, lassù, ed è tornato subito al suo
appartamento. A piedi. Abbiamo tutto il tempo di accensione
dell'Ombra, dopo la mezzanotte. Non più di un'ora in tutto." Sfilò da
una tasca interna della giacca una scheda di metallo che portava
impressi numeri, in una lunga serie, e simboli che lui non aveva mai
visto. La spinse sul piano del tavolo, verso Kano, nascondendola con
la mano aperta quando l'oste massiccio, la barba arrotolata nella
consueta treccia sul petto, passò accanto a loro. "Questa è la matrice
della registrazione. Stasera deve essere nuovamente al suo posto."
Kano annuì. La prese fra le mani, la rigirò, poi tolse di tasca una
striscia di cartone metallizzato e la schiacciò contro la scheda. Poi la
restituì. "Ecco," disse. Numeri e simboli erano rimasti impressi sul
foglio. "Da questa copia posso tirar fuori tutte le informazioni che mi
servono, senza pericolo per nessuno. È rudimentale… ma funziona."
Negli occhi dell'altro passò una ventata di sollievo. Prese il
bicchiere, fece per riempirlo, ma dalla brocca caddero solo poche
gocce. Kano alzò una mano verso l'oste che li osservava, piegato su
un altro tavolo da sparecchiare. "Un'altra caraffa," disse. Perché li
guardava così? Si rannuvolò. "Ancora una cosa: vorrei che tu
controllassi anche la registrazione dell'Ombra di lady Mamoudy,"
mormorò.
"Be', è più semplice, se non devo portarla fuori di là."
"No, non è semplice, perché non è la registrazione archiviata,
quella che io voglio. Alla Cattedrale ce n'è una copia falsa. Ce l'ha
portata qualcuno, il giorno dopo Carnevale. Io voglio quella vera…
deve pur esserne rimasta una traccia, da qualche parte. Trovala, e
fammi sapere cosa conteneva."
L'altro scosse il capo, attese finché l'oste ebbe versato altro sidro
nei bicchieri, e l'osservò mentre si allontanava ciondolando. Bevve,
sporcandosi di spuma il labbro superiore. "Non posso assicurartelo,
questo. Ma ci proverò." Poi s'alzò, spingendo indietro lo sgabello.
"Resta qui ancora un po'. Meno gente ci vede insieme, meglio è."
Kano sorrise. Sulla sua faccia il riso sembrava inconsueto. "Finirò
di bere, prima. Tu fila via."
D tecnico uscì: la porta della taverna si apriva su un ballatoio al
primo piano, una ringhiera su un vicolo pieno di odori dolciastri e
fumi, soffocata dalle tende di plastica tese da una finestra all'altra,
dalla paglia d'alghe e dai fogli di lamiera che spiovevano dai tetti
rosi. Sopra, l'insegna bianca e rossa, "Calibano", era consumata dalla
ruggine.
Non era semplice lavorare per Kano, ma avere amici fra gli
spazzini gli avrebbe portato buono, prima o poi. Incominciò a
scendere i gradini sconnessi, reggendosi al corrimano.
Il primo colpo lo prese quasi di striscio, sulla tempia. Sentì un
lampo di dolore e d'allarme corrergli lungo la schiena, si volse e il
secondo colpo gli si abbatté sulla faccia, di traverso sullo zigomo
sinistro. Fece in tempo a vedere il profilo scuro del suo assalitore, poi
il mazzuolo lo prese in fronte, le forze lo lasciarono con il suono
delle ossa infrante, le dita scivolarono sulla ringhiera e lui cadde di
sotto, sbattendo la faccia sui gradini della scala di ferro.
"Basta così. Frugalo adesso, e portami su quello che gli trovi
addosso. Dovrebbe esserci una piastra di ferro, o di alluminio, o
quello che diavolo è. Ci serve assolutamente. Poi buttatelo in qualche
vicolo e inzuppatelo di alcool… come un ubriaco pestato in una
rissa," disse l'oste sul ballatoio. Sorrise e tornò dentro, pulendosi le
mani in un cencio chiaro.
"Posso parlare con te? Non ti chiedo che un paio di minuti, del tuo
tempo prezioso." Quelle parole gentili suonavano male, sulla bocca
sguaiata dello squalo. Omar guardò lo specchio che s'era illuminato e
non rifletteva più la sua immagine, ma proiettava quella d'uno
spazzino — almeno così sembrava, dall'uniforme — con le braccia
robuste, e l'impugnatura d'un manganello fra le mani. Non accadeva
spesso che un uomo fosse chiamato al video T da uno squalo. Non
rispose subito, e l'osservò incuriosito: la chiamata veniva dalla
casbah, forse da un posto pubblico. Sfocata, vedeva la forma d'una
panchina stinta, la vernice sfogliata dalla ruggine e dal sale.
"Sei Omar Khayam, immagino, lo scrittore dei sogni…"
Omar annuì. Vedeva bene che l'altro era eccitato. Fece un passo, si
accostò quasi a sfiorare lo specchio: fossero stati in strada, così,
l'Ombra avrebbe bruciato come cartapecora secca la pelle dello
squalo. Ora, invece, erano come due pesci carnivori appena separati
dal vetro d'un acquario.
Era quello, dunque, il fantasma che aveva cominciato a
perseguitarlo, per ordine di chissà chi?
"Ci incontriamo, alla fine," disse Omar. "So che sei stato tu," disse
lo squalo.
Non aveva esitato. Colpiva dritto. Non aveva rispetto. Anche
Lorna fece un passo, andando quasi contro l'obiettivo del video T
pubblico, e Omar vide il suo volto deformato, per un attimo, dalla
lente convessa.
"Forse non mi sarà mai permesso di provarlo. Però ho già qui…"
disse Lorna, e si batté la mano sinistra sul petto. "Le Ombre lasciano
sempre la loro impronta, lo sai. E qui c'è tutta l'ultima sera del tuo
Carnevale."
Omar sentì un brivido morderlo nelle reni. Poi sorrise: poteva
aspettarselo, quello. "Non significa nulla."
"Oh, lo so bene. Però… chi mi ha fatto avere questo, è morto
soltanto due ore fa." La faccia dello squalo era diventata terrea, di
cera, come quella d'una statua. "Forse un morto significa qualcosa di
più."
"Un'Ombra non parla. Tu sai soltanto che io sono andato al picco,
quella notte. E che ne sono uscito, più tardi. Se qualcuno me lo
avesse chiesto, l'avrei spiegato io stesso, forse… A un uomo,
naturalmente."
Lasciò cadere le ultime parole come gocce di veleno. "Io,
piuttosto, conosco molte cose di te." Fece un gesto breve, in tondo,
con la mano destra. "È un piccolo mondo, questo… Lorna." Lo
squalo sussultò, sentendo il proprio nome. Omar sussurrò: "Fino ad
ora ho scherzato. Ho accettato di parlare con te perché era una cosa
nuova, divertente, più o meno un'avventura. Ora basta: so bene che
tu, quasi ogni notte, consumi dei sogni che non ti spettano. Ognuno
ha la sua droga. So perfino dove vai a goderteli, questi sogni…"
Rise: "A ogni scrittore piace conoscere i lettori che lo apprezzano."
La maschera di cera restò muta. "Potrei farti finire nei forni della
Cattedrale. Posso venire nella casbah, e sbattere con la mia Ombra
sui muri, friggere gli intonaci, bruciare tutto… e invece aspetterò,
semplicemente, perché è un gioco che incomincia a divertirmi.
Provaci tu, ad accusarmi."
Finalmente Lorna rise. "Non ho soltanto questa registrazione, con
me," disse.
"Sai che soltanto un uomo può…"
"Certo. Ma io gioco con te a carte scoperte. Ho già il tuo coltello,
sai, l'abbiamo tirato fuori noi dalla schiena di Valdemaro. E poi ho le
tue impronte… in questo momento qualcuno le sta confrontando con
quelle che abbiamo trovato sul pugnale," mentì Lorna, quasi
distaccato, ma teso dentro come il ferro di una balestra. "Se sono
uguali… forse non significherà niente nemmeno questo, ma a forza
di tirare somme qualche totale lo avremo. Anzi, lo avrà chi ce l'ha
ordinato."
Senza accorgersene neppure, Lorna aveva portato di nuovo la
mano al petto: nel palmo, contro la stoffa, sentì la piastra sottile della
registrazione… e si sentì più tranquillo. Era il momento del bluff,
aveva in mano buone carte ma non conosceva quelle dell'avversario.
Forzò il gioco: "E se le tue impronte risultano uguali a quelle
impresse sul coltello…" lasciò il discorso appeso nello specchio,
minaccioso. Se Omar avesse controllato, se soltanto avesse chiesto
una verifica video T alla Cattedrale, sarebbe stata la fine per tutti.
Invece l'uomo si incollerì: "Come hai avuto le mie impronte?" gridò
nello specchio. "Come ti è stato permesso?"
"Non è stato difficile," disse Lorna, e si tirò indietro, come se
Omar avesse potuto balzar fuori dallo specchio, e l'immagine dello
squalo rimpicciolì. Omar batté a palme aperte sui pulsanti, in basso
lungo la cornice, e Lorna diventò un fantasma di luce e svanì.
Lo specchio restò nero, a rimandargli la sua faccia pallida, senza
trucco. Omar l'accese di nuovo, premendo con violenza sulla tastiera,
e il tondo lucido si fece di nuovo chiaro. Era ancora lì, con l'aria di
sfidarlo… Lorna sapeva che lui avrebbe acceso ancora, e l'aveva
aspettato. Puntò la mano verso la sua immagine. "Bada, spazzino,"
sibilò. "Fra dieci minuti sarò lì. Fa' che io non ti trovi."
L'idea, l'idea giusta, gli venne una sera che si sentiva così,
stralunato, e guardava con l'Ombra sulle spalle gli squali grigi che
passavano in strada, quasi sfiorandolo. Mancavano quindici giorni al
Carnevale. Era ubriaco di psicodin, sentiva una specie di valzer
rivoltarglisi nelle budella, e le facce della gente s'erano fatte ovali e
allungate, scure e cupe… era anche quella un'altra realtà, lo psicodin
gliela scavava dentro, ma era comunque una realtà. Avrebbe potuto
scrivere un sogno dell'orrore, guardando quelle facce atroci… e gli
venne quell'idea. Non avrebbe più dovuto immaginarsi ciò che non
era, inventando con fatica occhi e volti e frasi inesistenti. Avrebbe
potuto smettere di correre a quel modo verso il suicidio.
Se un uomo ubriaco di psicodin poteva inventare una realtà,
dentro di sé ma comunque una realtà, un uomo con la testa sgombra
avrebbe creato davvero la realtà, con le sue mani, con tutto il corpo.
E poi l'avrebbe raccontata nei sogni. Avrebbe fatto il diario di se
stesso.
Era scoppiato a ridere, sonoramente, e le facce degli squali s'erano
voltate un istante solo a guardarlo. E quale realtà avrebbe potuto
creare, come un dio d'una volta, capriccioso e crudele, migliore della
morte e della paura? Nelle botteghe dei sogni si vendevano bene gli
incubi, le avventure della paura e della morte. Fu quella sera, che
decise di uccidere.
"Ne ho abbastanza, sai, non voglio più restare con te. Mi sposo."
Lui s'era messo a ridere, sentendo quelle parole. "Tu non mi hai
mai chiesta in moglie," aveva aggiunto Pat, e a lui era passata la
voglia di ridere. Avevano appena finito di far l'amore, e il batticuore
di Omar s'era appena calmato, avevano fatto l'amore con le bambole,
e il manichino della donna era allungato accanto a lui, con la testa
reclinata sulla sua spalla e una mano sul suo petto. Nella casa di Pat,
lontana, sulla cima d'un grattacielo dall'altra parte della città, la
donna era viva di carne, e lungo sul tappeto, accanto a lei, fremeva
ancora il pupazzo di Omar. La guancia di lei, appoggiata contro la
sua spalla, sentiva un calore leggero e un sommesso palpito nel petto,
come se quel manichino fosse stato un uomo vero. Oh, era stato vero,
quando era entrato in lei. Sono così uguali a noi che, a volte, non so
più se siamo noi a guidare i pupazzi, o se sono loro a guidare noi,
pensò Pat.
Sentiva, duro e ingombrante contro la propria nuca, il collare che
le permetteva di guidare da lontano il manichino A-Propria-
Immagine-e-Somiglianza. L'ultimo prodotto dei maghi, nei laboratori
della Cattedrale. Dopo aver allacciato il collare, bastava ordinare con
la mente che il pupazzo parlasse, ridesse o facesse l'amore, e quel
corpo di plastica, gomma, alluminio e carne finta obbediva.
"Non capisco," mormorò l'Omar sintetico e nudo che le stava
accanto. "Non stai bene con me? Anche adesso è andato tutto bene,
no?" disse.
"Per te va bene far l'amore con un aggeggio di plastica, a tre
chilometri di distanza?" gridò lei, e le parve perfino di udire l'eco
lontana della gola artificiale che ripeteva quelle parole, solo un
decimo di secondo più tardi.
"Ma è un gioco. Lo fanno in tanti."
"È un gioco infernale. Ci stiamo abituando a farci sostituire. Prima
gli squali, ora i manichini. Per strada le Ombre ci proteggono. E di
notte i nastri ci fanno sognare. Omar, ho l'impressione che ci stiamo
svuotando, piano piano, e che pupazzi e squali e Ombre stiano
succhiando a poco a poco la nostra esistenza, e diventino loro, vivi. A
volte mi pare di diventare matta…"
S'interruppe e tirò su col naso, e il manichino fece lo stesso,
perché lei s'era scordata di sganciare il collare. "Vedi, anche ora si
mangia una parte di me," aggiunse. "L'ultima volta che sono stata
felice, davvero, di dentro, è stato — è ormai passato tanto tempo —
quando facevamo l'amore sui picchi, senza Ombre e senza manichini,
come… vedi? come animali, mi veniva da dire, e invece avrei dovuto
dire come persone normali." Tacque. Era amaro, dover lasciare
queste confessioni a una copia meccanica.
"Ma possiamo farlo ancora," disse Omar.
"Oh." Lei alzò gli occhi e rise mesta, la faccia improvvisamente
incavata, piena di paura. "Francamente non lo so, quello che
possiamo fare ancora."
Ora il manichino di Omar era immobile, nudo e lungo sul tappeto
folto dove avevano fatto l'amore, a faccia in giù: non lo pilotava più,
dunque, e parlava solo dentro la sua gola di latta, come un telefono
mostruoso. "Ti sposi, hai detto. E con chi?"
"Lo saprai soltanto al momento giusto." Lei gorgogliò un sorriso,
con improvvisa malizia. Certo che lui lo conosceva: era difficile non
conoscersi in città, anche se soltanto alla lontana. "Continueremo a
vederci, se vorrai, e magari… chi lo sa, forse ti lascerò ancora far
l'amore con me. Almeno, con questo manichino…" disse il pupazzo
di lei, che continuava a fremere come se l'aver detto quelle parole gli
avesse dato una forza nuova, e nuova corrente elettrica nelle braccia
e nelle gambe.
"Non voglio," disse Omar.
Lei tacque un istante. "Non vuoi? E cosa vuol dire? Tu non puoi
volere cose che mi riguardano. Tu stai parlando a un manichino, è
vero, ma i suoi comandi li ho in mano io."
E all'improvviso Omar s'accorse di sentire un grande dolore, che
diventava quasi fisico, e gli rodeva dentro lo stomaco, e nel cuore.
Era da un'infinità di tempo che non provava dolore. Fu quella sera,
mentre la bambola di Pat si rivestiva (è brutto vedere le bambole che
si rivestono, è lì che vedi dov'è che mancano d'umanità, quei
manichini coperti di stoffa), fu quella sera che scelse la sua vittima di
Carnevale. Sarebbe stata lei.
Il sogno aveva la forma di un ferro di cavallo, e non era più
grande del palmo delle mani di Omar. L'alzò controluce; era quasi
trasparente, e vide, nitido, il filo magnetico, sottile e torto. Era una
grande magia, anche quella: nella Cattedrale tutto era magico, non
era più un posto per preti, ma per stregoni. Come avrebbe potuto uno
scienziato mettere le mani nei sogni della gente? Sorrise: aveva detto
ad alta voce quella domanda, un giorno in uno speakeasy, e l'avevano
guardato come si guardano i matti. Perché, forse fra scienza e magia
non esisteva quella impalpabile e incommensurabile terra di nessuno
dove le pinze della scienza si incrociano con le bacchette magiche?
Ebbene, i sogni a ferro di cavallo erano figli di quella terra. Non
aveva dubbi.
Inserì il nastro nella cuffia da sonno. Fece un rumore molle, dolce,
ciac, l'estrasse e l'inserì di nuovo, ciac.
Era il suo sogno più bello. Timbrato uno, la prima copia. Era il più
bello anche perché era l'ultimo, in ordine di tempo. Ed era come se
fosse stato il primo. In città, non circolava ancora.
Ciac. Ciac.
L'aveva sognato in fretta, nell'alba livida dopo Carnevale, senza
scrivere. Aveva dettato direttamente nel registratore, senza
correggere, senza pause, come in trance mentre dalla strada veniva il
rumore sordo, i tonfi dei carri automatici che spazzavano le strade, e
il fruscio dei getti d'acido che lavavano dai marciapiedi sangue
rappreso, polvere e peccati.
Anche lui si lavava, di dentro, mentre sognava quel sogno, e
quando aveva fermato il giranastri, s'era trovato stremato e vuoto,
con lo stomaco vuoto e gli occhi vuoti. Ma lavato di tutta la rabbia e
tutta la tensione che gli si erano incrostate dentro, nei giorni e nei
mesi. Riscrivere la notte appena trascorsa era stato come provare un
lungo orgasmo, che montava e montava e non trovava da esaurirsi.
Ora ce l'aveva fatta. Sospirò e andò alla finestra: tirava vento
forte, come ogni volta che un computer, nei fondi della Cattedrale,
decideva di ripulire dai fumi l'aria della città.
Era un sogno perfetto. Professionalità… quel sogno sembrava
traboccarne. Era molto tempo che non sognava così. Si sentiva come
ubriaco.
Ciac. Si baloccò ancora.
Era un sogno pieno di brividi, e di sudori reali. E ora altri brividi
glieli dava la caccia che quello squalo — Lorna!, perfino un nome da
donna — aveva preso a dargli. Era come se la sua vita avesse
incominciato di nuovo ad avere sapore, a mandare odori. S'alzò dal
divano, un perfetto Luigi XIV in vetroresina, fuso apposta per lui da
un artigiano della casbah, e andò verso lo specchio, nudo com'era.
Batté sui tasti, e lo specchio si illuminò. C'era uno squalo grigio,
lontano, nel fondo di un archivio.
"Tu, rispondi," gli disse Omar. Non era Lorna, era più piccolo e
curvo e non aveva, lo vide quando lo squalo s'ingrandì nello
specchio, quell'aria sfrontata in faccia.
"Ho un ordine per Lorna," disse Omar. Lo squalo gli lanciò uno
sguardo grigio anch'esso. Chissà se era così sempre, chissà se uno
squalo cambia faccia quando canta, o beve, o fa l'amore? Alzò la
mano destra verso lo specchio, a palmo aperto, mostrando il piccolo
nastro del sogno. "Farò arrivare lì questo nastro, per Lorna. Entro
questa sera," disse.
Lo squalo annuì.
"E poi…" Omar esitò un istante. "Digli che l'aspetto domani, a
mezzogiorno, all'hangar delle tartarughe. Che non arrivi in ritardo."
Non gli lasciò il tempo d'una risposta. Batté ancora sulla tastiera, e
spense lo specchio. Altri brividi, su e giù per la schiena.
Ciac. Inserì ancora una volta il sogno nella cuffia. L'avrebbe
goduto ancora una volta, prima.
VI
Il cervello della petroliera s'era fatto attento. Vide, con gli obiettivi
delle telecamere mobili, la battaglia sul ponte: erano come vermi di
gomma, strisciavano sulle lastre d'acciaio e spenzolavano dalla torre
di prua, inquadrando la lotta. Un pirata ne colse uno mentre si
dondolava lungo la murata, e gridò di trionfo tranciando con un
colpo di daga il collo sintetico. Uno schermo televisivo si spense
nella pancia della nave: il cervello non sentì dolore, ma cacciò fuori
un altro verme elettrico che strisciò sul ponte, e inquadrò con il suo
occhio di cristallo il volto del pirata. La nuova immagine corse in un
centesimo di secondo nei sensi dei calabroni: dozzine d'occhi
artificiali rifletterono il volto del corsaro, e l'uomo non s'accorse di
morire. Una manciata di insetti gli piantò nella schiena i pungiglioni
di ferro, e un gabbiano lo colpì, frantumandogli le ossa della faccia e
cacciandolo oltre il parapetto, cinquanta metri giù in mare.
Tre metri più in là Lorna scoprì il boccaporto, nero come la gola
spalancata d'un pesce abissale, rugginoso e viscido. I gradini si
perdevano in basso, più scendeva e più i tonfi della battaglia sul
ponte suonavano cupi e lontani. La torcia fece luce sulle pareti
scrostate: la vernice si staccava in fogli secchi e chiari. Le mani di
Lorna si rigarono di sangue, strisciando su quel muro logoro.
Scendendo contava i gradini, dieci, venti, trenta, seguendo i contorni
del disegno che aveva studiato il giorno prima e mandato a memoria,
i disegni dei boccaporti serrati nel cassero, fino ai pozzi e alle stive.
Si fermò nel buio, e prese a leccarsi le mani: il sangue era colato
sui polsi, e Lorna lo sentì in bocca salato e nero. Su dagli intestini gli
veniva un vomito acre, feroce: inghiottì un groppo di saliva e prese a
camminare piano, la spada tesa in avanti come il bastone d'un cieco,
nel corridoio che scivolava in basso.
Il rumore della battaglia era svanito ormai, e un altro palpito
sommesso veniva da sotto, dal cuore della nave, un trum trum trum
cupo, come il sospiro d'una balena che dorme. Lorna incominciò a
gridare: "Vieni fuori… fuori… FUORI!" Il grido salì, salì e si ruppe:
lo squalo sbatté la spada contro la parete, e mulinò la torcia,
disegnando un balletto d'ombra sulle paratie. Il cuore della nave
sembrava battere più vicino ora, sotto i suoi piedi. Corse per pochi
passi: secondo la mappa che aveva in testa, il cervello avrebbe
dovuto essere là, a pochi metri dietro il guscio di metallo.
Sbatté con il petto contro una murata, gli si spezzò il respiro in
gola, poi le sue dita scontrarono la ruota fredda della serratura.
L'aprì — non se l'aspettava — con facilità: la porta girò sull'olio
dei cardini, così silenziosa che Lorna ebbe all'improvviso paura e si
volse stringendo le pupille per guardare nel buio: il suo grido aveva
forse svegliato qualche genio del mare? Poi spinse il portellone a
palme aperte, ed entrò nel cervello.
Grande, chiara nel cielo buio, la luna spuntò quasi all'improvviso,
illuminando la piana fino ai margini del bosco, e le ombre degli
alberi si allungarono sui sentieri dell'isola, sull'erba grigia, sulle
scogliere. Sinbad guardò in alto, con apprensione: nell'aria limpida il
fruscio del vento del settentrione portava il presagio d'un altro
inverno precoce.
"Le notti cominciano ad essere fredde. Attizza il fuoco, vecchio,"
mormorò guardando le due sagome acquattate accanto al falò. Una
mano ossuta gettò un fascio di sterpi sulle braci, e le fiamme
guizzarono.
La voce di David suonò debole. "Dovremmo prendere la barca e
andare a sud. Qui non c'è più nulla per noi. Andremo a sud, Sinbad?"
Una folata di vento portò via le ultime parole: dalla capanna sulla
spiaggia venne il gemito d'una porta sbattuta contro gli stipiti corrosi,
e s'alzò un urlo di gabbiani.
"Sono inquieti, stasera." Sinbad strinse forte l'elsa della daga:
presto o tardi sarebbero venuti, spinti dalla fame e dal gelo, volando
bassi fra i rami degli alberi, quei nuovi gabbiani feroci che
divoravano ogni cosa, annunciati da un secco battere d'ali.
"A meno che non ce ne andiamo davvero a sud," brontolò Sinbad,
accostandosi al fuoco. Il vecchio gli porse una tazza di coccio,
fumante, d'un odore strano e acuto. "Erba e pesce fradicio… ancora,"
disse. Poi sorrise. "Mi dispiace, ma non posso cambiare più spesso.
Venderei un occhio, per un gatto arrosto."
Davide alzò il capo e guardò verso le rovine lontane del villaggio.
"Ieri ne ho visto uno selvatico, al cantiere. Ciondolava la testa sulle
rotaie delle gru, e leccava la ruggine. Poi, come se gli fosse venuta
chissà quale idea, è saltato nell'erba ed è sparito. Sono bestie strane."
Sinbad mangiava piano, senza parlare, masticando le spine sottili che
crocchiavano sotto il palato. Sempre, in quel tempo immobile
accanto al fuoco, prima che il sonno lo cogliesse ravvolto nel sacco a
pelo, contava in mente le trappole che aveva nascosto nell'erba, e le
lenze tuffate in mare lungo la scogliera.
"E magari l'altro occhio per una fiasca d'acquavite," sussurrò il
vecchio.
"Uh. Saresti orbo da un bel pezzo," disse Davide.
Il vento soffiò forte e insistente, alzando la sabbia. Lontano, verso
oriente, un velo chiaro lambiva l'orizzonte sul mare. Sinbad lo
guardò con gli occhi stretti: "Ieri ho visto Ari, quello che pesca le
spugne," mormorò. "Partirà anche lui. Ha già messo in acqua la
barca, e aspetta solo che il legno secco si gonfi e chiuda le fessure,
per navigare."
Né Davide né il vecchio parlarono: fissavano l'ombra scura che
era comparsa fra gli arbusti, e camminava lenta, piegata nella foga
del vento che montava. Sinbad frugò il buio con le pupille sbarrate.
Poi impugnò la daga. Si raggomitolò per saltare e colpire, ma la voce
suonò all'improvviso nella radura. "C'è un gran vento stanotte." E
poi: "È sempre così su questa isola?" Era una voce acuta: il vecchio
guardò con curiosità la faccia pallida, esangue perfino, dello
sconosciuto.
"Quasi sempre."
Sedette vicino al fuoco, a gambe incrociate, le scarpe di tela
contro le cosce. "Chiamatemi Hickey," disse.
Davide si mise a ridere, tossì, poi gli occhi gli bruciarono. "Cosa
fai qui?" chiese. L'altro indicò l'orizzonte e il mare, con un braccio
vago. Rispose: "Sto andando."
"Dove?"
Chinò il capo. "Non so." Una nuvola d'argento s'allungò per un
attimo sulla faccia della luna. "Via di qui, lontano dall'arcipelago,
comunque."
Sinbad afferrò uno sterpo e lo gettò nel fuoco. "L'arcipelago è una
benedizione: vorresti stare sul continente, nelle pietraie, a far la
guerra ai fantasmi?" disse masticando un filo d'erba secca, aspra
come le parole che gli salivano in gola.
"C'è Vancoy, che corre per il mare. Lo cerco fin da quando ero
ragazzo, da un'isola all'altra. Qui tutto è morto, bruciato e maledetto.
Solo Vancoy è vivo, nell'arcipelago. Qui tutti si trascinano sulla
sabbia e si rotolano nella loro merda."
"Eh, la merda." Sinbad rise più forte, con un ansito rauco. Tese le
mani alle fiamme: le sue dita lunghe parvero animarsi alle ombre
calde dei ceppi. "Sai perché qui mi chiamano Sinbad? Mio nonno era
marinaio, tutti i giorni salpava con la goletta e andava a caccia di
mercantili e ferry boat, ce n'erano tanti allora, stava via due, tre
giorni, poi tornava, ma spesso era a mani vuote. Un giorno tornò e la
sua casa, sul molo, era distrutta. L'aveva bruciata Vancoy, o qualcuno
come lui. Diventò matto, credo. Arenò la goletta sulla spiaggia, e la
spiaggia dovette sembrargli assurda, così vuota e lunga e senz'altro
rumore che il rumore del mare. Coprì la barca di frasche, e passò il
resto della sua vita (breve, era già vecchio, a quel tempo) a
strofinarla, a dare il lustro su quella pancia di legno. Mio padre è
cresciuto da marinaio, anche se non è mai stato al largo, nell'oceano.
Ora è da qualche parte, laggiù, a lucidare la goletta. Quando non ce la
farà più, verrà a cercarmi su questa spiaggia, mi darà quello straccio
e toccherà a me, di diventar matto… cosa mi frega, Hickey, di correr
dietro a Vancoy?"
L'aria calda gli colò in gola e s'appiccicò nei polmoni. Una nebbia
di vapore gli velava gli occhi. Era torrida e bruciava: vide nelle
lacrime una liana bianca scendere dalle travi del soffitto e torcersi al
suolo come una fune. Dalla porta che si chiudeva alle sue spalle
venne un soffio d'aria: la sentì fresca sulla nuca, con sollievo. La
liana si scosse come un rettile molle e cieco, sembra proprio una
serpe, pensò Lorna, era una serpe che si dondolava avanti e indietro.
Più in là, una foresta d'altre liane danzava, torcendo piano le spire.
Lorna tese le mani dietro di sé, contro il ferro della paratia: nei
suoi sogni clandestini non s'era mai trovato di fronte a un
panorama… così. Dal pavimento i cristalli, bianchi e taglienti,
s'alzavano dritti. Da un soffitto che non riusciva a vedere calavano
grandi reti chiare, come lenzuola umide e ricamate, reti con le maglie
grosse oltre le quali vedeva altre liane e altri cristalli. La luce non
pioveva dall'alto: era dentro le cose, nelle serpi, in quei veli che
sembravano fatti di colla, di sperma, di muco pallido.
"Che trappola è mai questa?" Lo disse ad alta voce, e s'accorse
all'improvviso che non c'erano neppure suoni, in quella giungla
opaca: le sue parole caddero come fasciate nel cotone, su un terreno
soffice. Le liane mosse dal suo fiato scossero le spire di latte: le vesti
di Lorna s'erano fatte umide e spesse come coperte inzuppate di
vapore. Eppure nelle mappe di Vancoy la sala del cervello non era
che un rettangolo tracciato a matita, poco più di cento metri quadrati
segnati con uno stilo verde. E non quell'assurdo proscenio.
Non può essere una trappola di Vancoy, pensò. Sarebbe troppo
raffinata. E poi, ci rimetterebbe: soltanto io ora posso strizzare l'aorta
di questa balena di ferro, e fermarla in mezzo al mare.
Prese una liana fra le dita, ed essa si spezzò sfrangiandosi come
una canapa consunta. Era morbida a toccarla, e vischiosa. Tese la
spada dritta davanti a sé, toccò un velo che scendeva come un
sipario: la stoffa (o quello che diavolo era) si lacerò, e i brandelli
s'avvolsero sulla lama. Lorna camminò nell'intrico: era come
procedere nella pancia calda d'una grande limaccia, o in una foresta
di tele di ragno. Sotto i suoi piedi i cristalli si spezzavano
crocchiando, frantumati in piccole scaglie.
La giungla opaca ebbe fine all'improvviso: la parete in fondo alla
sala, ossidata e cotta dal vapore, stava a tre palmi dagli occhi di
Lorna. Dunque le carte di Vancoy erano esatte. Poggiò le palme
aperte contro il muro e le ritirò sporche di ruggine, come sangue
color ocra. Si volse a guardare la selva bianca che aveva attraversato,
bianca e breve e piena d'affanno, e vide in terra, quattro passi più in
là, appoggiato contro la parete, un gran fagotto di stracci bigi, una
macchia di colore in quell'aria bianca. Sembrava quasi un cadavere
raggomitolato.
Lo toccò con la punta del piede, spingendo fino a che il fagotto si
sfasciò. Il volto di Omar era terreo e grigio: la pelle era tirata sugli
zigomi e sul collo. Quando la faccia sbatté sul pavimento la pelle si
stracciò, e gocciolò piano un filo di sangue scuro, che scese a
imbrattare le guance scavate dalla barba, e il mento e la camicia.
Lorna poggiò la schiena contro la parete e fissò quel corpo lungo
il pavimento, il cadavere della sua preda ma anche d'un altro se
stesso, che ancora non era riuscito a conoscere. Qualcosa gli venne
su nella gola, nuovamente un succo aspro, il sentimento più vivo nei
suoi visceri di pescecane. Guardava in terra e sentiva gli occhi
pesanti come biglie di piombo. Lacrime, e perché? "Sono venuto per
ammazzarti, dovevo essere io ad ammazzarti," brontolò. "E prima
dovevo dirti qualcosa."
S'acquattò accanto al corpo: Omar era a faccia in giù, i capelli
cresciuti sulla nuca erano sporchi e imbrattati di melma bianca. I lobi
delle sue orecchie erano cianotici, freddi in quell'assurdo stanzone
bollente. Lorna tastò gli abiti del cadavere: sentiva sotto la stoffa la
carne secca, e le costole. Poi ebbe un sussulto: dal braccio sinistro di
Omar correva un tubo sottile, un catetere scuro che s'infilava nella
paratia, diretto nella tempia del cervello elettronico come una presa
di corrente.
Lorna stracciò la camicia dell'uomo: poco sopra il gomito, il
catetere era nascosto in un goffo nodo di bende. Tolse la fasciatura. Il
tubo era conficcato in una ulcera rossa, fresca ancora, l'unica parte
viva nel cadavere di Omar. Lo prese fra le dita e l'avvicinò al viso:
aveva un odore strano e stringendolo fra il pollice e l'indice sentì
fremere piano un liquido, o un gas, o chissà cosa.
Lorna raccattò la spada che aveva posato al suolo. Era ora di
buttare all'aria quel laboratorio del diavolo, e quella nave pazza. Alzò
la lama: un solo colpo sarebbe stato sufficiente a tranciare il tubo.
Nel corpo irrigidito di Omar passò uno spasmo furioso. Il
cadavere volse il capo, anche le ossa stridettero, e gridò.
Davide si mosse nel buio, a disagio. "È giusto, però," disse. "Non
dovremmo lasciar perdere. Chissà, forse sta davvero succedendo
qualcosa, nell'oceano." Parlava basso, come intimorito dalle parole. Il
vecchio gli andò vicino, aveva la voce debole e chiara. "Non ho più
nemmeno la forza di respirare, questa sabbia mi scende in gola, fin
nei polmoni, dentro il cuore. Che posso fare io? O Sinbad,
condannato a grattare la stessa sabbia, per il tempo che gli avanza, da
un giocattolo inutile?"
Hickey abbassò il capo. Quelle teste erano morte ormai, in quei
cervelli vizzi era viva soltanto la sagoma familiare delle isole, e la
speranza che un giorno la grande balena, la grande nave, si sarebbe
arenata contro la riva, a offrire il suo fegato fumante, senza fatica.
Cercò invano delle risposte. Così, quando le stelle presero a
impallidire, mormorò: "Fra poco andrò via. Verrai con me, tu?"
Davide guardò la figura gobba del vecchio accanto al falò:
sembrava un involucro vuoto, fasciato di cenci. Sinbad era una
mummia immobile, le mani strette sull'impugnatura della daga. Dal
buio venne un altro grido di gabbiano. "Stanotte non si dorme," disse
Sinbad.
"Io resto," disse Davide.
Il vecchio cacciò una manciata di cenere sulle braci. Sinbad
sentiva in faccia i granelli di sabbia portati dal vento, come tanti
piccoli aghi, e nelle orecchie il rombo del mare che si ingrossava. "Ci
vuole un gran coraggio, per accettare la realtà e accettare sé stessi.
Anch'io, ogni tanto, penso al passato come se fosse il tempo dell'oro.
Eppure tutti sappiamo che è soltanto una gran balla, e che nessuno
può tornare indietro… non ridere Hickey, è una frase stupida, e come
tutte le frasi stupide ha dentro una verità profonda. Scegliere di
ricostruire una illusione che è già andata a pezzi, per poi vederla
tornare in frantumi… sarebbe piacevole come cascare nella merda.
Così noi stiamo qui, a guardare il mare, e aspettiamo che la grande
nave ci porti il suo fegato."
Poi il cielo diventò chiaro, le braci si spensero del tutto e Hickey
sorrise, mesto. "Allora?" Sinbad sentiva le braccia stanche. Andò
verso Hickey, alzò la mano stringendo la daga e colpì forte. Hickey
cadde nella sabbia, indietro, con la gola insanguinata. Morì. Davide
alzò gli occhi e guardò il cielo livido. "Le notti si fanno più fresche,"
sussurrò. "Quando ci sposteremo più a sud?"
XIII
Ora il camion non bruciava più, e la notte era scesa del tutto. Il
gran tentacolo di luce della Lanterna si allungava ogni venti secondi,
in alto, e frustava il buio. In quel momento i bracci delle gru, le
gomene, i cavi, tutto s'imperlava d'argento e rifletteva quel raggio sui
moli e sul cancello della cinta portuale: poi la luce se ne andava, e la
notte tornava giù.
Giaime tirò la cerniera lampo del giubbotto fin sotto la gola. La
pistola adesso la teneva nella destra. Attese un'altra volta il lampo del
faro: quando esso venne, cercò ancora la sagoma grigia
dell'Esperanza, in fondo al molo. Era ancora là, inclinata e immobile
come se l'acqua tutt'intorno fosse diventata ghiaccio. Già capitava,
nelle notti più fredde. Le luci dei magazzini, sulle calate, erano
spente: solo una scritta al neon brillava sulle garitte, sopra i cancelli
aperti. Passate quelle, sarebbe stato al sicuro: non gli restava molto
tempo, ormai, L'Esperanza avrebbe ritirato la passerella e sganciato
l'ormeggio entro mezz'ora.
Sentiva un dolore cupo nella tempia, la microradio era come un
tumore nella sua testa, un cancro di ferro: l'aveva sentita sempre più
estranea, mano a mano che il tempo passava. Già s'era trovato a
fregare le dita contro la pelle, e a grattare con le unghie, quasi a
cercare di strapparsi di dosso quel ragno malefico.
Il raggio passò ancora, il porto si coprì d'argento, poi tornò il buio.
Giaime uscì dall'ombra della sopraelevata. Senza correre: non era
importante far presto, era più importante non far rumore. Camminò
sul piazzale, a ridosso d'una fila di container. Poi ebbe davanti solo
uno spiazzo, così immenso in quel buio. S'irrigidì, appoggiandosi a
quel ferro gelido, la guancia contro i chiodi sparati nelle lamiere. Il
raggio passò ancora. Non aveva che venti secondi, ora.
Prese a correre, sperando che la neve e il ghiaccio gli avessero
talmente ammollito le scarpe da farle diventare silenziose come
pezza. Corse, e si mise a ridere: era un gioco mortale, ma era un
gioco. Se ne era reso conto quando Peter era morto, e il camion
aveva preso fuoco. Rebecca, e Paco, e gli altri l'avevano sempre
saputo: il terrorismo è come il gioco degli scacchi. Non puoi
compiere alcuna mossa, non puoi smuovere pedine, senza sapere
come reagirà l'altro, se sposterà un alfiere o una torre. La Colonna e
lo Squadrone non erano che giocatori di scacchi, lo erano sempre
stati, ma lui se ne rendeva conto adesso.
Traversò il cancello spalancato, e una sirena urlò. La garitta era
proprio sopra di lui, alta, vide il riflettore e il nido delle mitragliatrici,
e la finestra tonda come un oblò, illuminata. Continuò a correre verso
i moli, tesi nel porto vecchio come denti di un pettine sghembo.
Probabilmente era stato un rivelatore a infrarossi, o a ultrasuoni, o a
chissàchecosa, ad accorgersi di lui. La sirena continuò a suonare
l'allarme. Poi Giaime udì sbattere la porta della garitta, udì anche un
grido e un faro s'accese proprio in faccia a lui, inondandolo di luce
gialla. "Fermo o sparo," fece una voce di metallo.
Giaime s'arrestò con il cuore a pezzi e il fiato che bruciava, puntò
la pistola e sparò nella luce: il faro esplose, ma la sentinella
automatica continuò a ripetere "fermo o sparo", "fermo o sparo",
come se la sua revolverata ne avesse bloccato il cervello.
L'Esperanza si profilò davanti a lui, vicina ormai. Sarebbero bastati
pochi secondi d'oscurità ancora. Ma i soldati erano saliti sul nido
delle mitragliatrici, e altri fari s'erano accesi a scivolavano lingue di
luce sullo spiazzo, sui moli. Giaime udì una raffica di passi, stivali
che correvano sul cemento. "Alza le mani," gridò un'altra voce, così
umana ora che l'amplificatore era stato staccato.
Giaime le alzò le mani, ma con il revolver teso verso i soldati.
Addio Esperanza, addio Rebecca, addio tutto. Però prima di calar le
braghe, qualcuno se lo sarebbe tirato dietro… ma non fece in tempo a
prendere la mira. Sentì due, tre schiocchi, e l'odore acido della
cordite. Un gran dolore alla schiena, e ai fianchi, e cadde giù come
un sacco sul cemento della banchina, si scorticò i gomiti e la faccia,
mentre le reni gli andavano a fuoco, si rivoltò come un gatto
impazzito e sparò, con le dita irrigidite, da terra. Uno, due colpi, gli
ultimi. Vide, con infinito sollievo, due soldati che ruzzolavano sul
selciato.
Remo Guerrini
S.F.B.C.
Science Fiction Book Club
Bigalassia
Volumi a L. 700:
1. Van Vogt: Anno venticinquemila — Le storie delle Lune (esaurito).
2. Dick: Utopia, andata e ritomo — Vedere un altro orizzonte (esaurito).
3. Malaguti: La ballata di Alain Hardy — L'odissea di Alain Hardy.
4. Hamilton: Pianeta perduto — Inciderne nello spazio (esaurito).
5. Russel: Una voce dal nulla - Azione di disturbo.
6. Piper: Lord Kalvan d'altroquando — / vichinghi dello spazio (esaurito).
7. Farmer: Gli anni del precursore — Un universo tutto per noi.
8. Williamson: L'impero dell'oscuro — Luci nell'infinito.
9. Simak: Infinito — Il villaggio dei fiori purpurei.
10. Leinster-Brunner: I pirati di Zan — Sogna, superuomo.
11. Aldiss-Piper: Descalation - Crisi nel 2140.
12. Campbell-Del Rey: I conquistatori delle stelle — Fratelli mostri.
Volumi a L. 800:
13. Dick: Mr. Lars, sognatore d'armi — Follia per sette clan.
14. Heinlein: Starman Jones — I miei mondi.
15. SF italiana: Destinazione uomo — A-more a quattro dimensioni.
16. Disch: Terra all'infinito — Campo Archimede.
20. Silverberg Leiber: Padrone della vita, padrone della morte — Le donne
della neve.
21. Aldiss-Brackett: Anonima intangibili — Storie marziane.
22. Pangborn-Miller Jr. ed altri: Il giudizio di Eva — C'era una volta un
mondo.
Volumi a L. 1.000:
17. Norton Hamilton: I corridoi del tempo — L'invasione della galassia.
18. O'Donnel-Jones: Guerra finale — Cancro 2000.
19. Simak Bush: L'anello intorno al sole — Lascia questo cielo.
Volumi a L. 1.200:
23. Janifer e Treibich: Missili e serpenti blu — Il satellite stregato.
24. Farmer: Notte di luce — Una questione di razza.
25. Panshin: Star well — La rivoluzione Thurb.
26. Gillon — Moore e Davidson: Mondo senza sonno — Joyleg.
27. Kornbluth-Livingston: Idioti in marcia — L'emozionarnetro.
28. Delany: La ballata di Beta 2 — Babel 17.
29. Harness: L'odissea del superuomo — Ritornello.
30. Brunner: La società del tempo — Sotto il segno di Marte.
31. Moorcock: Programma finale — Il veliero dei ghiacci.
32. Smith: L'uomo che comprò la terra — L'uomo che regalò la terra.
33. Herbert: Gli occhi dì Heisenberg — Stella innamorata.
34. Io, l'immortale — Signore dei sogni.
Volumi a L. 1.400:
35. Montanari-Prosperi: Nel nome dell'uomo — Autocrisi.
36. Young: Trenta giorni — Coppa di stelle.
37. Dick-Platt: Amici di Frolix 8 — Asteroide dei paria.
38. Disch: Thomas l'incredulo — 102 bombe H.
39. Koontz-Miglieruolo: Sinfonia delle tenebre — Ladro di notte.
40. Gunn-Catani: Tempo di streghe — Eternità e mostri.
41. Moorcock-Rambelli: Corridoio nero — Ministero della felicità.
42. Dick-Curtoni: Ubik, mio signore — Dove stiamo volando.
Volumi a L. 1.600.
43. Lovecraft-Delany: Chi di vampiro ferisce — Einstein perduto.
44. Farmer-Lauder: I cancelli dell'universo — Il nostro uomo per Ganimede.
45. Fanta Italia-Prosperi: 16 mappe del nostro futuro — Seppelliamo Re John.
Galassia
1. De Camp: Le Amazzoni di Avtinid (esaurito).
2. Brown: Marziani, andate a casal (esaurito).
3. Tubb: Anero-Tanap, zona proibita (esaurito).
4. Bush: I guerrieri dei pianeta Giorno (esaurito).
5. Wellman: Due volte nel tempo (esaurìto).
6. De Camp: La torre di Zanid (esaurito).
7. Tubb: La tribù dei verdi (esaurito).
8. Bush: L'asso di coppe (esaurito).
9. Rambelli: Parricidio ed altri racconti (esaurito).
10. Del Rey: Noi verso le stelle (esaurito).
11. Rambelli: Il libro di Fars (esaurito).
12. Osborne: Stranieri dallo spazio (e-saurito).
13. Russel: Missione su Jaimec (esaurito).
14. Asimov: Veleno per la Terra (esaurito).
15. Vance: Il pirata dei cinque mondi (esaurito).
16. Kuttner: I robot non hanno la coda (esaurito).
17. Simak: All'ombra di Tycho (esaurito).
18. Kuttner: Mr. Gallegher, supergenio (esaurito).
19. Anderson: Le nevi di Ganimede (esaurito).
20. Heinlein: Waldo, o dell'impossibile (esaurito).
21. Anderson: Lo Stormo e la Flotta (esaurito).
22. Asimov: Struttura anomala (esaurito).
23. Dickson: Il mercenario di Dorsai (esaurito).
24. Heinlein: La sesta colonna (esaurito).
25. Wollheim: Il segreto del nono pianeta (esaurito).
26. Efremov: Il cuore del serpente (esaurito).
27. Blish: I Tetraploidi (esaurito).
28. Belaiev: Elephas sapiens (esaurito).
29. Williamson: Un mondo da giudicare (esaurito).
30. Dick: Il dottor Futuro (esaurito).
31. Aldiss: Segregazione (esaurito).
32. White: Stazione Ospedale (esaurito).
33. Efremov: Incontro su Tuscarora (esaurito).
34. White: Settore generale ^esaurito).
35. Garret: Il robot minorenne (esaurito).
36. Merril: Gente di domani (esaurito).
37. Harrison: L'ingegnere etico (esaurito).
38. Budrys: La torcia cadente (esaurito).
39. Laumer: I mondi dell'Impero (esaurito).
40. Ernsting: L'erede di Hiroshima (esaurito).
41. Del Rey: L'undicesimo comandamento (esaurito).
42. Van Vogt: Gli schiavi del Non-A (esaurito).
43. Dick: Redenzione immorale (esaurito).
44. Tubb: La finestra sulla luna (esaurito).
45. Van Vogt: L'ultima fortezza della Terra (esaurito).
46. Christopher: L'inverno senza fine (esaurito).
47. Harrison: Un eroe galattico (esaurito).
48. Brunner: Il santuario nel cielo (esaurito).
49. Heinlein: Anonima Stregoni (esaurito).
50. Dick: Il mondo che Jones creò (esaurito).
51. Malaguti: Il sistema del benessere (esaurito).
52. Charbonneau: E su di noi le stelle (esaurito).
53. Pohl: Processo al domani (esaurito).
54. Heinlein: Il mestiere dell'avvoltoio (esaurito).
55. Harrison: La fine della paura (esaurito).
56. Henneberg: Le notti di smeraldo (esaurito).
57. Hubbard: L'ultimo vessillo (esaurito).
58. Charbonneau: Il problema della libertà.
59. Leiber: L'alba delle tenebre (esaurito).
60. Hamilton: La valle della creazione (esaurito).
61 Farmer: L'inferno a rovescio (esaurito).
62. Aldiss: Galassie come granelli di sabbia.
63. Rambelli: La pietra di Gaunar.
64. Budrys: Incognita uomo.
65. Leiber: I tre tempi del destino.
66. White: Ospedale da combattimento.
67. Kornbluth: Domani la luna.
68. Aldiss: Il mio mondo bruciato.
69. Malaguti: Satana dei miracoli.
70. Williamson: La gemma della stella verde.
71. Leinster: Eroi su commissione.
72. Reynolds: Guerra totale.
73. Dick: I giocatori di Titano (esaurito).
74. Farmer: Il fabbricante di universi (esaurito).
75. Hamilton: I soli che si scontrano.
76. Morgan: Attori si muore.
77. Scerbanenco:… Di tutti i futuri del mondo.
78. Neville: Non della terra.
79. Gunn: Si garantisce la felicità.
80. Autori vari: A un passo dal pianeta domani.
81. Simak: Ingegneri Cosmici (esaurito).
82. Bradbury: Il popolo dell'autunno (esaurito).
83. Clement: Coesistenza pacifica.
84. Smith: Sabbie, tempeste e pietre preziose.
85. Malaguti: La ballata di Alain Hardy (esaurito).
86. Russel: Una voce dal nulla (esaurito).
87. Piper: Lord Kalvan di altro-quando (esaurito).
88. Malaguti: L'odissea di Alain Hardy.
89. Van Vogt: Anno XXV (esaurito).
90. Leinster: I pirati di Zan (esaurito).
91. Hamilton: Pianeta perduto (esaurito).
92. Piper: I vichinghi dello spazio (esaurito).
93. Dick: Utopia, andata e ritorno (esaurito).
94. Farmer: Gli anni del precursore (esaurito).
95. Brunner: Sogna, superuomo! (esaurito).
96. Aldiss: Descalation (esaurito).
97. Van Vogt: Le storie delle lune (esaurito).
98. Williamson: L'impero dell'oscuro (esaurito).
99. Dick: Vedere un altro orizzonte (esaurito).
100. Simak: Infinito (esaurito).
101. Hamilton: Incidente nello spazio.
102. Rusell: Azione di disturbo.
103. Farmer: Un universo tutto per noi.
104. Williamson: Luci nell'infinito.
105. Simak: Il villaggio dei fiori purpurei.
106. Piper-McGuire: Crisi nel 2140.
107. Campbell: I conquistatori delle stelle.
108. Del Rey: Fratelli Mostri.
109. Dick: Mr. Lars, sognatore d'armi.
110. Norton: I corridoi del tempo.
111. Heinlein: Starman Jones.
112. Harness: L'odissea del superuomo.
113. Autori vari: Destinazione uomo.
114. Brunner: La società del tempo.
115. Hamilton: L'invasione della galassia.
116. O'Donnel: Guerra finale.
117. Jones: Cancro 2.000.
118. Disch: Terra all'infinito.
119. Janifer a Treibich: Missili e serpenti blu.
120. Simak: L'anello intorno al sole.
121. Janifer & Treibich: Il satellite stregato.
122. Delany: La ballata di Beta-2.
123. Moorcock; Programma finale.
124. Dick: Follia per sette clan.
125. Farmer: Notte di luce.
126. Blish: Lascia questo cielo.
127. Panshin: Star Well.
128. Silverberg: Padrone della vita, padrone della morte.
129. Leiber: Le donne della neve.
130. Aldiss: Anonima intangibili.
131. Farmer: Una questione di razza.
132. Brackett: Storie marziane.
133. Pangborn: Il giudizio di Eva.
134. Miller Jr.: C'era una volta un mondo.
135. Smith: L'uomo che comprò la terra.
136. Panshin: La rivoluzione Thurb.
137. Autori vari: Amore a quattro dimensioni.
138. Gillon: Mondo senza sonno.
139. Herbert: Gli occhi di Heinsenberg.
140. Moore-Davidson: Joyleg.
141. Kornbluth: Gli idioti in marcia.
142. Livingston: L'Emozionometro.
143. Delany: Babel-17.
144. Zelazny: Io, l'immortale (esaurito).
145. Heinlein: I miei mondi.
146. Pratt-De Camp: Le dimensioni del sogno.
147. Delany: Einstein Perduto.
148. Zelazny: Signore dei sogni.
149. Clifton-Riley: La macchina dell'eternità.
150. Prosperi: Autocrisi.
151. Young: Trenta giorni aveva settembre.
152. Dick: Il cacciatore di androidi.
153. Anderson: Tre cuori e tre leoni (esaurito).
154. Smith: L'uomo che regalò la terra.
155. Montanari: Nel nome dell'uomo.
156. Heinlein: Rivolta 2.100 (esaurito).
157. Farmer: I cancelli dell'universo.
158. Young: Una coppa piena di stelle.
159. Miglieruolo: Come ladro di notte.
160. Disch: Campo Archimede.
161: Platt: L'asteroide dei paria.
162. Rambelli: Il ministero della felicità.
163. Moorcock: Il veliero dei ghiacci.
164. Gunn: Tempo di streghe.
165. Fanta-Italia: Sedici mappe del nostro futuro.
166. Dick: I nostri amici di Frolix 8.
167. Herbert: Stella innamorata.
168. Cat ani: L'eternità e i mostri.
169. Koontz: La sinfonia delle tenebre.
170. Disch: Thomas l'incredulo.
171. Harness: Ritornello.
172. Moorcock: Il corridoio nero.
173. Nourse: Psi-High e gli altri.
174. Curtoni: Dove stiamo volando.
175. Dick: Ubik, mio signore (esaurito).
176. Lauder: Il nostro uomo per Ganimede.
177. Margroff-Anthony: Quel caro bruco ereditario.
178. Lovecraft e altri: Chi di vampiro ferisce…
179. Franke: La psicorete.
180. Compton: Synthajoy.
181. Vance: Le avventure di Magnus Ridolph.
182. Prosperi: Seppelliamo Re John.
183. Disch: 102 bombe H.
184. Brunner: Sotto il segno di Marte (esaurito).
185. McCaffrey: La nave che cantava.
186. Laumer: Il giorno prima dell'eternità.
187. Conrad: Macchine dell'estasi.
188. Franke: Bare di cristallo.
189. Panshin: Mondo in maschera.
190. Versins: Fanciullo per lo spazio.
191. Montanari: Sepoltura.
192. Bunck: Moderan.
193. O'Donnel: Grande incubo.
194. Bunch: Ritorno a Moderan.
195. Siegel: Agente dell'entropia.
196. Moskowitz: Zero umano.
197. Kurland: Unicorno scomparso.
198. O'Donnel: Nuove apocalissi.
199. Geston: Signori della nave.
200. Laumer: Retief.
201. Geston: Bocca del drago.
202. Roberts: Volti del futuro.
203. Cooper: Anni della furia.
204. Goulart: Ingoiatore di spade.
205. F. Brown ed altri: Vieni e Impazzisci.
206. Geston: La stella del giorno.
207. Finney: Storia del tempo.
208. Laumer: La guerra di Retief.
209. Compton: Marte, colore di sangue.
210. Russel ed altri: L'uomo che fu dimenticato.
211. Spinrad: Cristalli di futuro.
212. Disch: Umanità al guinzaglio.
213. Laumer: Retief c i signori della guerra.
214. Goulart: Dopo la catastrofe.
215. Schmitz: Il gioco del leone.
216. Lafferty: Cantata spaziale.
217. James ed altri: I mostri in soffitta.
218. Compton: I missionari.
219. Snyder: L'ultimo testamento.
220. Knight: I mondi dell'abisso.
221. Sturgeon ed altri: Oltre le tenebre.
222. Lafferty: Le scogliere della terra.
223. Sturgeon ed altri: Maturità, L. 1.000.
Questo ennesimo appuntamento con T. Sturgeon, rappresentato stavolta da
un romanzo breve fra i più celebri e più poetici della sua intera produzione
(Maturity, 1947), riconferma la nostra volontà di scavare fra i capolavori
inediti in Italia. La strana vicenda di Robin English, superuomo quasi
fortuito, ci presenta uno Sturgeon deciso a definire alcuni suoi personali
concetti sulla maturità umana e più che mai padrone di uno stile
ineguagliabile, sempre minuziosamente attento all'intaglio di delicate
psicologie. A fianco di Sturgeon ricompare finalmente un membro della
vecchia guardia italiana, Maurizio Viano, con un racconto lungo (Un Bagno
di Stelle), che lo conferma di nuovo come uno dei nostri autori più validi:
sullo sfondo di una dispotica società matriarcale si snoda la doppia presa di
coscienza di un uomo e di una donna, uniti dal matrimonio ma separati da
diverse classi culturali, permettendo all'autore di stendere un'amara
parabola, futura ma non troppo.
Accanto a Viano compaiono altri due italiani. Mauro Miglieruolo
(L'Agenzia Riparatorti) e Livio Horrakh (Tutto l'Acido dell'Impero); due
racconti diversi per tema e struttura narrativa, ma accomunati dalla chiave
personalissima del risultato stilistico, sia che si parli di 'difetti' italiani o si
'esperienze' americane.
224. Rogoz: Pianeta Morphy, L. 1.000.
Morphy, Capablanca, Petrosian, Fischer… ogni buon appassionato di
scacchi che conosca questi nomi illustri e il loro apporto personale al gioco
magico non potrà fare a meno di trovare affascinante questo romanzo, così
come ogni buon lettore di fantascienza che rispedi gli clementi più puri del
genere non potrà evitare la stessa impressione.
Dav Bogar è un ragazzo nato nello spazio, costretto a vivere tutta la sua
giovinezza su astronavi o in spazioporti sempre diversi, ma é anche un
formidabile giocatore di scacchi, forse il più grande mai esistilo; nessuno
può sconfiggerlo, e questa invincibilità conduce lentamente il giovane a
dubitare persino della propria umanità. Per lui, gli scacchi non sono
semplicemente un gioco, e il confronto con un'abilità superiore o almeno
pari alla sua diventa l'unico mezzo per verificare le ragioni della sua
esistenza. Ma dove trovare un simile avversario, se non nelle viscere del
leggendario pianeta Morphy, il mondo che ospiterebbe l'ultima creazione
scacchistica del più grande giocatore esistito? Adrian Rogoz, autore,
curatore e scacchista rumeno, ha davvero scritto un romanzo che forse per
la prima volta unisce in modo completo e stupefacente la fantascienza più
classica al gioco degli scacchi, rivelando una fantasia e una maturità degni
di vera ammirazione.
225. Hamilton: La valle degli dei, L. 1.000.
Edmond Hamilton é giustamente considerato uno dei nomi più popolari
della fantascienza americana e un autore che ha collaborato attivamente alla
creazione dei modelli più classici di space opera, ma qui vogliamo
ricordarlo con due esempi piuttosto particolari della sua produzione che ha
coperto quasi mezzo secolo: abbiamo scelto infatti due lunghi racconti di
heroic fantasy ancora inediti, per osservare Hamilton in un contesto
insolito. Il punto di avvio quasi comune — due individui che per vie
traverse si trovano ad indossare i panni di due antiche divinità, il nordico
Tyr dalla Spada e il maya Kukulcan - segue in entrambi i casi un'evoluzione
parallela che trasporta le due storie sulla linea di confine fra fantasy e
fantascienza propriamente detta, ottenendo il risultato di una narrazione
singolare e avvincente. Per i fans di Robert Bloch è presente anche un
inedito orrorifico (Return to the Sabbath), dove il magistrale autore di
Psyco spiega come possano andare le cose sul set di un film del terrore
quando il primo attore è troppo pratico del mestiere… mentre per quanto
riguarda la parte critica questo volume riserva una sorpresa che speriamo
gradita.
226. Heinlein: Il mestiere dell'avvoltoio, L. 1.000.
Questo celeberrimo romanzo di Heinlein apparso per la prima volta in Italia
più di dodici anni fa sulle pagine di questa stessi collana, in un fascicolo da
tempo ormai e saurito, inaugura doverosamente le ristampe che Galassia ha
deciso finalmente di distillare per i suoi lettori. Perché la scelta di Il
Mestiere dell'Avvoltoio per tagliare il nastro augurale? Il motivo è
abbastanza semplice: nella vasta produzione di Heinlein questo romanzo
occupa un posto a parte, situandosi a mezza strada fra la fantascienza e
l'horror con una vena di fantasy, senza dimenticare alcuni moduli classici
del romanzo poliziesco. Pubblicato su Unknown nel 1942, Il Mestiere
dell'Avvoltoio è davvero uno dei romanzi 'magici' di Heinlein, dove l'autore
sembra districarsi finalmente da certe preoccupazioni ideologiche per
concentrarsi nella costruzione di un romanzo magistrale ed elegante
caratterizzato da una fantasia a dir poco infernale, e che non risente affatto
dei suoi trentacinque anni di età. È l'unico romanzo di Heinlein. anzi, il cui
inizio é ormai considerato un classico a parte: perché Jonathan Hoag si
ritrova sempre una patina marrone sotto le unghie? E perché egli crede che
si tratti di sangue? Soltanto Heinlein, forse, poteva rispondere in modo cosi
sorprendente ad entrambi questi interrogativi.
227. Merritt: Striscia, Ombra, L. 1.000.
Ormai, l'opera di A. Merritt incomincia ad essere abbastanza nota anche in
Italia, e la propensione di questo autore per le storie fantasy-horror
ambientate in un contesto urbano moderno è già stala riconosciuta come
un'importante anticipazione dell'attuale filone orrorifico americano. Chi
conosce già l'ambiente ed i personaggi del celebre Brucia, strega, brucia
(1932), ritroverà in questo romanzo alcuni nomi e ricordi destinati a
renderne ancor più stimolante l'intreccio, ma si accorgerà al tempo stesso
che la penna di Merritt, in questa storia, ha saputo spingersi in una
dimensione diversa. Quattro suicidi misteriosi, apparentemente provocati
dalla presenza di 'ombre', spettrali làmie sussurranti, sono sufficienti a
destare l'interesse di un giovane antropologo. Alan Caranac, e a spingerlo
ad accettare un pericoloso gioco investigativo sul conto di due enigmatici
personaggi che sembrano tolti di peso da leggende bretoni antiche di
millenni, il Dr. De Keradel e la sua affascinante figlia Dahut. Ma la
memoria di Alan conserva altri segreti, oltre a quelli appresi fra maghi e
stregoni di tutto il mondo: perché un antenato della sua stirpe aveva già
conosciuto e ostacolato la splendida Dahut, Regina delle Ombre nella
perduta Città di Ys, lottando per abbattere l'abominevole adorazione per
Colui Che Raccoglie nel Tumulo… Non sarà comunque esagerato
affermare che. nell'ultimo romanzo da lui scritto. Merritt dimostra di essersi
conquistato a ragione il titolo di 'Lord of Fantasy'.
228. Horrakh: Grattanuvole, L. 1.000.
Il nome di questo giovane autore italiano é già noto nel campo della
fantascienza, grazie ad un buon numero di racconti apparsi in maggior parte
su questa collana: in tutte le sue opere precedenti Horrakh ha rivelato un
interesse sempre vivo per gli spunti inusitati e per una ricerca linguistica
volta a rendere in chiave personale e originale una visione dell'uomo
estrema mente lirica.
Nel suo primo tentativo con il romanzo. Horrakh ci presenta un'opera di
ampio respiro e di sorprendente maturità: sullo sfondo di una Terra futura
alle soglie del terzo millennio si levano gli ultimi resti della civiltà
tecnologica, le novelle torri di Babele che da quasi mille anni ospitano
l'estrema discendenza di una razza che ha scelto la via del genocidio per
consentire a pochi eletti la possibilità di guardare al futuro. Ma le poche
centinaia di giganteschi Grattanuvole sparsi su un mondo ormai
irrimediabilmente mutato incominciano a rivelare anch'essi, dopo dieci
secoli, la loro fragilità agli attacchi di un pianeta divenuto insofferente
verso la presenza dell'uomo. Tuttavia, se la leggenda della mitica Casa
dell'Uomo, nebuloso miraggio fiabesco che offre una misteriosa alternativa
alle paure dell'Anno Tremila, si rivelasse fondata, in qualche uomo potrebbe
riaccendersi la volontà di sognare e lotta re…
229. Lundwall: King Kong Blues, L, 1.000.
Le previsioni per il nostro futuro prossimo, in fantascienza, sono raramente
improntate a ottimismo e fiduciosa aspettazione; moltissimi autori
americani e inglesi hanno tentato di anticipare in un modo o nell'altro gli
anni e le catastrofi che ci a-spettano… e cosi pure hanno fatto diversi autori
europei. Sam Lundwall è infatti svedese, ma il suo nome è notissimo anche
ai lettori di lingua inglese, grazie a diversi romanzi e a un testo critico ben
documentato (SF: What it's All About, ACE 1971) apparsi negli Stati Uniti.
Nell'opera che proponiamo, comunque, Lundwall si è fatto un punto
d'onore di restare con i piedi ben radicati agli elementi di una realtà che
conosce molto bene, quella del suo paese, utilizzando inoltre stimoli
ambientali che fanno ormai parte di un patrimonio comune; ci sono quindi
religioni promozionali, inquinamenti, principi arabi che vogliono dominare
il mondo, movimenti rivoluzionari in lotta contro i computer governativi,
sovrappopolazione e iper-erotismo, nonché una miriade di nemici sublimali,
il tutto amalgamato da una prosa mordente che raramente manca un
bersaglio. Ma perchè King Kong Blues? Perchè dal suo romanzo (subito
inseritosi nella lista dei best-seller svedesi) Lundwall ha composto e inciso
un LP omonimo, che ora spettiamo di vedere giungere anche sul mercato
discografico italiano…
230. Del Rey: L'undicesimo comandamento, L. 1.000.
Che Lester Del Rey sia sempre stato un autore affascinato dai temi religiosi
è cosa risaputa, grazie ai numerosi racconti e romanzi brevi di questo
genere apparsi parzialmente anche nel nostro paese. La gemma di tale
produzione è senza dubbio que sto Undicesimo comandamento, che
presentiamo come seconda ristampa di Galassia. Nell'anno 2190, la Terra
sta ancora cercando di riprendersi a fatica dagli orrori di una guerra
nucleare scatenata incidentalmente, e quest'opera di ricostruzione è guidata
e controllata da una Chiesa scismatica americana: questa è la situazione che
un colono marziano, Boyd Jensen, si trova ad affrontare quando scende sul
nostro pianeta in virtù di un ipotetico programma di 'scambi culturali'.
L'umanità appare soffocata dall'oppressivo condizionamento religioso che
investe ogni campo, da quello politico a quello scientifico, all'insegna
dell'Undicesimo comandamento che sembrerebbe un retaggio di secoli
altrettanto bui: Crescete e moltiplicatevi. Se questa è la prima impressione,
tuttavia, occorre un certo tempo perchè Jensen si renda conto dei reali
motivi di molte apparenti durezze e incongruenze, e giunga infine a
comprendere il vero segreto della Chiesa Eclettica Americana. Non per
nulla. Del Rey aveva posto come sottotitolo a questa sua splendida opera:
Romanzo di una Chiesa e del suo Mondo.
231. Ellison: Se il cielo brucia, L. 1.000.
Ellison è un autore di cui si parla spesso, ma le sue opere vengono tradotte
in Italia davvero con il contagocce; a parte un pugno di racconti, l'unica
antologia apparsa da noi risale al 1966 (Dolorama e altre delusioni), e da
anni è introvabile. Con la raccolta qui presentata si è cercato dunque di
ampliare la conoscenza di questo discusso autore attraverso dieci racconti
inediti e un certo numero di brani sciolti — idee o inizi di racconti — che
Ellison stesso ha riunito nella sua Introduzione. È alquanto difficile parlare
qui diffusamente dei singoli testi dell'antologia, anche perchè i temi trattati
vanno dall'horror (Tempo dell'occhio) alla satira ("Piangiamo per tutti" e La
voce nel giardino), dal soggetto 'spaziale' (Se il cielo brucia e Mio fratello
Paulie) all'impegno antirazzista (Battaglia senza bandiere) e antimilitarista
(Soldato, l'opera certo più incisiva), ma si può commentare che tutti questi
racconti contribuiscono a chiarire alcuni dei motivi nascosti dietro la
violenta aggressività di un autore la cui produzione rappresenta ancora oggi
un fatto singolare sul mercato americano.
232. Coney: Certi strani amici, L. 1.000.
Nel corso del XXI Secolo il problema della sovrappopolazione vien risolto
dai governi di tutto il mondo con un colpo davvero maestro; non appena
ogni cittadino raggiunge l'età di quarantanni, il suo cervello viene rimosso e
trasferito nel cranio adattato di un bambino di sei mesi, per ricominciare da
capo un nuovo ciclo vitale di quaranta primavere. Con la prospettiva di tale
surrogato d'immortalità, è comprensibile come ogni cittadino 'rispettabile'
abbia interesse a non compiere anche il minimo gesto criminale… perché
ciò vorrebbe dire la perdita del suo diritto al Trasferimento. Inoltre, ha tutto
l'interesse ad aspettare con calma, magari per anni, nell'apposito contenitore
che ormai tutti chiamano Scatola dell'Amicizia, il suo turno per l'inizio di
una nuova vita… perché i bambini disponibili, con la nuova legge sul
Trasferimento Obbligatorio, sono in numero sempre minore, e i corpi degli
androidi non vanno a genio a tutti. Vi sono poi alcuni irresponsabili che non
denunciano la nascita della rispettiva prole, e questo complica ulteriormente
le cose; per non parlare poi del Mestiere Preferito, che consente un
Trasferimento immediato, e della scarsa volontà dei cittadini rinati ad
occuparsi degli Amici forzatamente racchiusi nelle loro scatole. Ma come
può reggersi — e andare a finire — un cosi crudele gioco delle parti? Con
l'estinzione del genere umano? O con un radicale mutamento della
situazione?
233. Zuddas: Amazon, L. 1.000.
Diecimila anni or sono, come é ben noto, il bacino dei Mediterraneo si
riduceva all'enorme lago conosciuto come Mare Interno, e sulle sue coste -
nonché sulle sue numerose isole - la fauna umana presentava alcune
differenze rispetto a quella che oggi calpesta le dorate spiagge. Nell'isola di
Kos, per fare un esempio, il dominio del sommo Argone (che predilige gli
Uomini Cavallo) é subordinato al potere dei Preti del Gelo, creature capaci
di scatenare tempeste grazie alla loro forza mentale, mentre in quel di
Coralyne la crudele Diaconessa Lugunda imbandisce silenziosi Banchetti
dei Profumi, e nel Palazzo di Nedda alcuni Sacerdoti di Marduk cercano di
comprendere lo strano funzionamento di un gruppo di antichissimi gong
che hanno la facoltà di trasportare in luoghi lontanissimi chiunque capiti fra
le loro vibrazioni… Aggiungiamo che fra questo gong vengono a trovarsi
due bellicose Amazzoni impegnate in una missione di spionaggio, Ombra di
Lancia e Goccia di Fiamma, e a questo punto non resterà altro da fare che
godersi le loro avventure nel gustosissimo mondo sword and sorcery che la
sbrigliata fantasia di Gianluigi Zuddas ha saputo creare, a mezza strada fra
gli esempi di certi illustri precedenti angloamericani e una vena personale di
salutare (e ironica) dissacrazione.
234. Sturgeon: A doppio taglio, L. 1.000.
Theodore Sturgeon e Fritz Leiber sono due autori che ritornano spesso, in
questi ultimi tempi, sulle pagine delle collane della CELT, e non potevano
mancare a questo appuntamento: il primo con un romanzo breve inedito.
Un piede e la tomba, e il secondo con un racconto, Ai raggi X. Fra horror e
fantascienza, sulla scia di Sturgeon e Leiber, segue poi Daniele Ganapini
(con lo splendido Cassandra senza Egisto). Più propensi al gioco
schiettamente fantascientifico, annoveriamo in questa antologia gli altri
inediti di Charles Harness (con la crudele beffa di L'avvelenatore), Algis
Budrys (e il desolato ritratto di superuomo di Homo nondescriptus), Lino
Aldani e Maurizio Viano (che lavorando a quattro mani compongono il
delicato quadro di Gesti lontani), Gianluigi Pilu (che ritorna con
l'affascinante enigma di Gioco di specchi), e Jean-Pierre Fontana (con la
crudele satira 'medica' di Ora ti apro, amore mio!). Se dunque il Primo
Taglio può accontentare coloro che si ritengono più legati al lato 'oscuro'
della fantascienza, il Secondo non mancherà di soddisfare gli adepti del lato
'speculativo'.
235. Dick: Giù nella cattedrale, L. 2.000.
In quest'opera del 1969 che costituisce l'ultimo romanzo di questo autore
ancora inedito in Italia, Philip Dick fornisce un'ennesima prova delle qualità
che lo hanno reso uno dei massimi autori della fantascienza mondiale. Joe
Fernwrìght è l'ultimo riparatore di vasi della Terra, in un futuro dove ormai
le ceramiche, le terracotte e le porcellane costituiscono soltanto dei pezzi da
museo, ma un'inaspettata offerta di lavoro gli permette di uscire dai suoi
soliti guai per infilarsi in un'impresa che promette una favolosa ricompensa
oppure guai ancora maggiori. Assoldato insieme a molti altri esperti scelti
in tutta la galassia da una misteriosa creatura chiamata Glimmung, Joe deve
recarsi sul Pianeta del Contadino per collaborare al recupero della mitica
Cattedrale di Heldscalla inabissata da millenni sul fondo del Mare Nostrum.
L'impresa si annuncia non solo ardua ma sconcertante, specialmente dopo
che Joe incontra nelle acque del Mare Nostrum il proprio cadavere che lo
mette in guardia contro i Doppi Neri del Glimmung e della Cattedrale…
Il volume é completato da un'intervista all'autore e dalla consueta bio-
bibliografìa italiana integrale, nonché da un'intervista a Lester Del Rey.
236. Piper: Torna il piccolo popolo, L. 2.000.
Zarathustra, lo sappiamo bene, era un pianeta molto tranquillo prima che
arrivassero gli uomini e le loro macchine. Ospitava una flora commestibile
e alcune razze di creature capacissime di sbrigare da sole le loro faccende.
Ma con l'arrivo degli uomini si scopre che una di queste razze, battezzata
Tuttopelo per la morbidissima pelliccia, può servire magnificamente per
l'industria della moda terrestre; si scopre anche che il sottosuolo di
Zarathustra é ricco di preziosissime pietre-sole. L'unico ostacolo, a questo
punto, lo offrono proprio alcuni uomini che sono convinti dell'intelligenza
dei piccoli e graziosi Tuttopelo, e che lottano affinché essa venga
riconosciuta. Fin qui la storia ormai nota, apparsa in Italia nel 1962 sulle
pagine di Urania, ma che cosa è successo dopo che i Tuttopelo sì sono visti
riconoscere la proprietà dell'intero pianeta? Sono successe alcune cose
strane, come l'insorgere di una misteriosa mutazione che minaccia di
sterminare i Tuttopelo, o la scomparsa di alcuni di loro per scopi altrettanto
misteriosi, senza contare poi i soliti intrallazzi di troppi umani interessati
allo sfruttamento magari indiretto di Zarathustra e dei suoi indigeni…
237. Compton: E scese la morte, L. 2.000.
L'anno é il 1979. Le superpotenze ai dedicano ad un macabro minuetto
dove lo spionaggio e la politica occhieggiano beffardi su una Terra
sovrappopolata, ma ecco che qualcosa sembra minacciare questo snervante
e inconcludente gioco di posizioni. È l'M.V.P., un morbo sconosciuto che
nel giro di pochi anni ha mietuto milioni di vittime dietro ogni confine:
all'est come all'ovest l'ombra della violenza di massa sfocia già in aperte
dimostrazioni dinanzi all'impotenza dei governi e della scienza contro
questo flagello che non risparmia nessuna latitudine. Eppure, esistono
luoghi isolati dove gli abitanti sembrano immuni dal male; una base aerea
americana in Inghilterrra è uno di questi, ma si tratta di un caso fortuito? O
non è piuttosto la dimostrazione che una volta di più l'uomo ha voluto dare
una mano al corso naturale della morte, spingendolo nell'atroce direzione
che maggiormente gli conveniva? Il dubbio serpeggia già nelle menti più
aperte di alcuni privilegiati militari. Un dubbio scomodo, certo, perchè
comporta una sola e spaventosa conclusione.
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