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Remo Guerrini

PELLE D'OMBRA
Romanzo di fantascienza

CASA EDITRICE LA TRIBUNA - PIACENZA


Copyright 1979 by Remo Guerrini

Proprietà riservata

Copyright by Celt, Piacenza, settembre 1979


INDICE

Presentazione

Pelle d'ombra

Sori

Giaime gioca a scacchi


PRESENTAZIONE

Remo Guerrini lo conosciamo abbastanza bene; oltre a scrivere


fantascienza fin dagli anni '60, negli ultimi tempi ha contribuito a
smuovere le acque dell'editoria specializzata con una serie di articoli
che in realtà di polemico avevano soltanto quell'oncia di giusta
indignazione presente in una persona che poteva e voleva
commentare liberamente i fatti/misfatti del mercato nazionale. Niente
in comune con una qualsiasi crociata, comunque, in quanto le guerre
sante sono retaggio di coloro che vogliono diffondere ideologie,
mentre nel caso di Guerrini l'ottica critica si basava su una disamina
realistica e quanto più obiettiva possibile di una ben particolare
situazione di fatto.
Un po' come nel caso di Pelle d'ombra, in fondo. A prima vista, il
romanzo si apre secondo le regole tradizionali di un romanzo
poliziesco: c'è un omicidio — con annesso l'accecamento di una
donna bella e importante — e c'è un'indagine che costringe
l'investigatore di turno a zigzagare fra i più diversi ambienti sociali.
Intanto, parallelamente al procedere di questi stilemi, ecco sorgere
intorno ai protagonisti un mondo che formalmente è ben diverso dal
nostro, racchiuso com'è in una statica bolla di cristallo in fondo ad un
oceano quasi uterino di cui gli abitanti hanno quasi perso coscienza.
Diversi sono certo i nomi e le origini biologiche di queste creature, di
questi uomini e Squali che nascono, vivono e muoiono sepolti negli
abissi, eppure, grattando sotto i loro orpelli alieni, subito possiamo
riconoscere la loro presenza nella nostra stessa società. Dobbiamo
ammettere l'uguaglianza dei vizi, delle angosce, della loro sete di
potere e della loro muta accettazione di uno stato che naturale non è,
anche se per tale si vorrebbe farlo passare: seguendo le mosse
dell'assassino e di Lorna lo Squalo, il suo cacciatore, in un frequente
ribaltamento dei ruoli, il lettore è costretto a prendere coscienza di
molti mali e bassezze ormai connaturate all'uomo, questa creatura
troppo orgogliosa per ammettere e quindi riparare ai suoi errori.
L'uomo che ha fatto dell'alienazione il suo sistema di vita e ne è poi
diventato schiavo inconsapevole. Questo dualismo è presente in tutto
il romanzo sotto aspetti diversi e spesso inusitati, giungendo poi al
suo apice nell'opposizione fra i due mondi, quello sottomarino e
quello di superficie, ma i due protagonisti si riveleranno incapaci di
afferrare la potente molla rivoluzionaria di questa antitesi e
continueranno a sentirsi schiavi di un destino che loro stessi, anche se
ormai non riescono a ricordarlo, hanno contribuito a creare.
Pelle d'ombra è il primo romanzo di Guerrini, e lo si potrebbe
vedere come una specie di esperimento, di banco di prova, quasi
un'ipotesi narrativa di lavoro che accumula un'enorme quantità di
materiale mentre, una pagina dopo l'altra, si sfogliano gli strati
successivi dei personaggi e delle situazioni. Le stesse difficoltà di
stesura con interventi e manipolazioni a lunghi intervalli di tempo, i
due blocchi contrapposti di presenze narrative nella prima e nella
seconda parte, la ricchezza spesso lirica del linguaggio usato, tutti
questi elementi contribuiscono a fare di quest'opera una specie di
guscio multiplo nel quale l'autore ha voluto rinchiudersi piano piano
per poi abbatterne alla fine le pareti diventate troppo strette.
Questa impressione di un guscio a più strati proviene prima di
tutto dalla stratificazione stessa delle storie che, a diversi livelli, si
sovrappongono alle precedenti e le inglobano, ampliandone ogni
prospettiva; così il delitto di Omar Khayam ingloba l'accecamento di
Lady Mamoudy, e il tutto viene ammesso dall'indagine di Lorna che
a sua volta viene assimilata e dilatata dall'ottica vendicativa e
conservatrice del padrone della città, Gy Mamoudy. Gli strati
aumentano con i pericoli che corre l'intera città con le spinte
corrosive dall'interno, poi il guscio si dilata ulteriormente con la
comparsa del mondo di superficie, e via di questo passo. In ogni
istante di questa stratificazione, tuttavia, il parallelismo con certi
motivi del nostro quotidiano rimane costante: la grande città degli
abissi spezzata in due classi che si distinguono prevalentemente per
la diversa fruibilità del potere, l'onnipresente Cattedrale che sorveglia
e segue passo dopo passo ogni abitante, le sterili occupazioni dei
privilegiati, gli uomini, e la disperata rassegnazione dei reietti, gli
Squali, l'urto quasi inconciliabile fra la vita subacquea e quella in
superficie, gli strenui tentativi di sopravvivenza dei superstiti che
ancora conoscono la luce del sole… tutte queste presenze richiamano
accostamenti con il reato pur affastellandosi dietro immagini
allusive.
Gli influssi, in Pelle d'ombra, sono tanti e in definitiva nessuno: la
storia è quella che Guerrini ha iniziato a raccontare nel 1971 con
Carnevale e che da allora si è ingigantita con sfumature dapprima
poliziesche, poi echeggianti l'autobiografismo nazionale e popolare
delle letterature ispano-americane, su fondo di sensibilità
mitteleuropea e con un'ombra del fatalismo aggressivo di Melville
(autore presente in modo quasi diretto in diverse pagine marinare
della seconda parte). Nell'arco di tempo utilizzato per scrivere il
romanzo, queste influenze si sono accavallate e amalgamate in
un'opera a dir poco originale e stimolante, e il fatto che Guerrini
fosse ben cosciente della loro presenza è dimostrato dai due recenti
racconti che fungono da Coda al romanzo. Scritti entrambi nel 1979,
sia Sori che Giaime gioca a scacchi rappresentano un'ulteriore
interpretazione del reale secondo approcci che ultimamente Guerrini
sembra prediligere. Il fantastico quotidiano affiora in Sori con accenti
di cruda umanità che ricordano quelli del migliore Marquez o del più
scanzonato Amado, e offre il primo tassello di un grande affresco che
l'autore intende dedicare ad una rivisitazione dell'Italia popolare e
fantastica. In Giaime gioca a scacchi, invece, la presenza del reale in
termini di terrorismo politico è affiancata ad un'intuizione speculativa
che apre questo campo scottante ad una storia dove l'individuale e il
personale ricevono un trattamento privilegiato: scordata la politica, il
personaggio chiave si trova dinanzi ad una scelta ben più concreta e
ai suoi sviluppi più pericolosi.
Questo è tutto, per il primo libro di Remo Guerrini. Speriamo
soltanto di non dover aspettare altri sette anni per il prossimo.
G.M. & W.B.
Remo Guerrini: biografia:

Remo Guerrini nasce a Genova il 9 maggio 1948. Esordisce in


fantascienza nel 1963, su Urania, con uno scherzoso contributo alla
rubrica 'Il Marziano in cattedra', e pubblica poi altri racconti su
Galassia e Oltre il Cielo. Nel 1970 inizia a lavorare come giornalista
per l'ANSA di Genova, nonché per i settimanali Panorama e Il
Milanese; si laurea in Giurisprudenza (Filosofia del diritto) e nel
1974 entra nella redazione di Epoca. Oltre a numerosi articoli sulla
fantascienza, Guerrini ha curato una rubrica sulla rivista Robot nel
corso del 1978. Pelle d'ombra è il suo primo romanzo, ma
attualmente Guerrini sta lavorando ad una serie di racconti sull'Italia
'popolare e fantastica' di cui Sori è il primo frammento pubblicato a
tutt'oggi.

BIBLIOGRAFIA ITALIANA:

racconti:
— Ecco fatto (Urania n. 316, Mondadori 1963);
— Il rifugio (Urania n. 325/bis, Mondadori 1964);
— L'ultimo (Galassia n. 46, CELT 1964);
— La fine di tutto (Oltre il Cielo n. 132, Gruppo Editoriale Esse
1965);
— Tutta una vita (Galassia n. 59, CELT 1965);
— Il tempo dell'oro (Galassia n. 89, CELT 1968);
— Zucchero (Galassia n. 91, CELT 1968);
— Ombre in uno specchio (Galassia n. 96, CELT 1968);
— Progetto S. Stefano (Oltre il Cielo n. 149, Gruppo Editoriale
Esse 1969);
— Carnevale (Galassia n. 137, CELT 1971);
— L'ultima giga (Galassia n. 165, CELT 1972);
— Cavaliere (Robot Speciale n. 4, Armenia 1977);
— Fiori di cartapesta ho ancora da quell'ultimo carnevale
(nell'antologia Universo e dintorni, Garzanti 1978).
A mio padre, prima di tutto,
poi a Lino Aldani, che è il più bravo di tutti,
poi a Vittorio Curtoni, che m'ha dato consigli essenziali, fin dal
principio,
poi a Gianni Montanari, naturalmente,
poi a Ismaele, Queequeg, Achab, Bildad, Peleg e Starbuck,
all'ammiraglio Benbow, John Silver & C.,
a Jonathan Harker e a sua moglie Mina,
a Hamlet, Ophelia, Horatio, Polonius, Rosencrantz & Guildestern,
a Leo Percepied, Sal Paradise e Ray Smith,
a Leopold Bloom, Stephen Dedalus e Molly,
a Aureliano Buendia, Melquiades, José Arcadio e Ursula,
e a Paperino.

Ma forse ho scordato qualcuno.


PELLE D'OMBRA

Parte Prima

Nello specchio profondo e buio il volto, bianco come gesso,


sboccia come una maschera oscena. È Carnevale. Spargo il pigmento
sul viso freddo e sbarbato. Lo specchio proietta un'immagine che ha
il colore dei rubini e degli smeraldi, una rete fosforescente che copre
guance, fronte e labbra. Le lenti a contatto riflettono lampi viola, nel
cristallo.
Oggi rivedrò la mia donna: spruzzo lo smalto sulle unghie, e
piccole sbavature d'ebano rigano i polpastrelli. Carnevale è il tempo
giusto, per divertirsi, e le feste di Gy Mamoudy sono sempre le
migliori, si dice in città. I soli appesi sui grattacieli tramontano: dai
sotterranei al tetto, tutto il grande corpo degli edifici si appresta a
trascorrere la notte più lunga dell'anno.
Oggi ucciderò la mia donna. L'abito che indosso respinge ogni
radiazione luminosa, e il mio corpo sarà come una nebbia mortale.
Lo specchio proietta infine l'immagine completa: l'Assassino ride, e
le rughe fosforescenti disegnano sul suo viso una ragnatela che non è
spiacevole.
Spengo lo specchio. Nel vestibolo l'Ombra attende silenziosa.
Quando uscirò si porrà discretamente alle mie spalle.

Sorrise, e cancellò ogni cosa: il nastro del registratore corse


indietro e si fermò con un botto. Non gli piaceva. C'erano troppe
parole, troppi colori. L'avrebbe voluto più grigio. Da troppo tempo
sognava a colori. Uscì.

Omar camminò sul tappeto di coriandoli che ormai copriva il


selciato. L'Ombra lo seguiva, soffiando piano: quando un velo di
pioggia cadde da una fonte automatica, essa s'allungò nella
semioscurità e le gocciole d'acqua si dissolsero sul capo dell'uomo.
Il Carnevale fioriva soprattutto dopo il tramonto, quando i soli si
spegnevano contro l'alto soffitto della città, e il mantello di luce
dorata che per tutto il giorno aveva avvolto i grattacieli svaniva. Le
fontane sussultarono e accesero nell'aria i fuochi d'artificio, rossi e
argentati. Omar salì in ascensore fino alle terrazze di Gy Mamoudy.
Giocherellò con l'impugnatura dello stiletto cesellato, appeso alla
cintura. Colse il profumo sottile dei limoni coltivati con cura
nell'appartamento. Un gran fiore bianco sbocciò in cielo: poi come
una nevicata di petali chiari cadde al suolo. Giù, cento piani sotto,
suonò il grido roco degli squali.
Lady Mamoudy venne ad accoglierlo sull'uscio, muovendo con
grazia i fianchi che l'età giovanissima non aveva fatto fiorire ancora.
Omar s'inchinò, baciò le braccia protese. "È uno splendido costume",
disse la donna. "Davvero inatteso. Solo… un po' truce. Spero di non
essere la tua vittima stanotte". Inclinò il capo e sorrise.
Omar girò intorno lo sguardo: il costume da Assassino si rifletteva
su una parete di cristallo. "Uccideremo il re del Carnevale, tutti
insieme… è così che si fa ogni anno, no?" scherzò, ma non gli
piaceva quel guazzabuglio di allegria impastata di morte. Nella città
anche l'aria sapeva di morte, negli ultimi tempi, soprattutto quando i
soli si spegnevano. Era l'odore degli squali, che saliva fino alle
terrazze strisciando sotto gli stipiti?
Pat N'goa entrò nel salone insieme con l'uomo alto e magro: il suo
volto impallidì solo un momento, quando il suo sguardo corse sul
costume di Omar, poi gli occhi chiari brillarono di malizia. Prese per
mano l'uomo alto e lo condusse avanti. Omar si inchinò ancora.
"Ciao Pat," disse, e rimase immobile a guardare l'uomo: una
maschera di rame ne copriva del tutto i lineamenti, ma quando Omar
fissò il taglio degli occhi vide il colore del ghiaccio. "Salve
Valdemaro," aggiunse, e si accorse tardi che la sua voce era stata
stridula e alta. L'arlecchino della morte riflesso nel muro era
meschino, con quella voce da castrato.
Si volse pieno di rabbia, e subito si quietò: lady Mamoudy gli
sorrideva, i denti piccoli resi simili a una ferita nel pallore del viso
dal pigmento scarlatto; teneva una spina di cristallo fra le dita, e il
valletto-squalo dagli occhi glauchi ritto al suo fianco reggeva una
coppa di psicodin. Sul polso sottile della donna l'ago aveva lasciato
soltanto una traccia rosea.
"Ne vuoi?" gli disse.
"Tuo marito?"
"Lascialo a mostrare in giro i suoi nuovi gioielli: poche cose lo
interessano di più." Gli porse l'ago.
Omar baciò leggermente la donna mentre sentiva lo psicodin
montargli alla testa, euforico e sincero, e il sapore dolce del rossetto
di lei sulle proprie labbra.

Gy Mamoudy era grigio e vizzo: aprì uno scrigno e ne trasse una


perla candida. "È viva," mormorò. "Ho pagato molto per poterne
avere una viva. Guardate." La perla brillò nel cavo della sua mano,
poi si colorò di rosa e d'amaranto, e ancora di rosa quando un'altra
mano dipinta la raccolse nel palmo. "È viva," ripeté Mamoudy. "È un
camaleonte degli abissi, è vivo come noi adesso." E la gente, intorno,
sorrise.
Omar scosse il capo. Valdemaro gli si era accostato con
discrezione. "Pat vuole parlarti," sussurrò e, dietro la maschera
dell'Assassino, Omar scoppiò a ridere. Trovò Pat sulla terrazza:
l'edificio mandava il suo calore per l'aria fredda e faceva fiorire i
cedri e i limoni, nei giardini pensili.
La donna lo guardò fisso. "Hai già…"
L'Assassino annuì. Il suo volto splendeva fosforescente.
"Ucciderai qualcuno, vero?"
"Può darsi. Le maschere non sono un gioco."
"Lo immaginavo. Quando?"
"Non adesso. Più tardi. A mezzanotte, forse."
La donna si volse a guardare la città, in basso: la gente di
Carnevale s'affollava nelle strade verso il quartiere dei giochi e verso
il Circo, pulito a oriente contro la massa scura dei picchi. L'Assassino
poggiò le mani sulle spalle della donna: la pelle morbida rabbrividì
sotto le sue dita. Lei mosse il capo e un ricciolo fulvo le ricadde sulla
fronte, un invito tacito, discreto e chiaro.
"Non adesso," ripeté l'uomo. Si chinò: "A più tardi."
Valdemaro uscì sulla terrazza muovendosi come un cane da
guardia, muto e vigile. Hai sposato un cane da guardia, Pat. Dentro
suonava una musica vecchia, che scherzava strisciare attraverso gli
ingressi socchiusi. "Vorrei ballare con te," disse l'Assassino. La
maschera di rame scintillava: quando un fuoco d'artificio salì
scoppiettando nell'aria ed esplose, i lineamenti sbalzati parvero
incandescenti. Assentì. Danzarono in silenzio, senza toccarsi, mentre
le pupille di Valdemaro, nascoste nel metallo, correvano lontano,
verso la terrazza, e verso Pat.
"Tieni molto a quella donna?" L'Assassino gli parlò brusco, in
tono familiare, come si parla agli squali e ai servi meccanici. La
maschera di rame si volse, ma non rispose.
"Dunque ci tieni molto," e rise ancora. Poi la danza terminò:
anche l'effetto breve della droga svaniva, e l'Assassino si quetò
piano, mentre i valletti raccoglievano gli aghi dispersi e servivano i
cocktail d'ambra. Una bambina imbellettata gli toccò un braccio. "Ho
provato tutti i tuoi sogni," sussurrò. Aveva un viso chiaro, lo sguardo
soffice e lisciava con le mani il costume da vergine, vaporoso come
una nuvola attorno al corpo esile.
"Sei fortunata davvero," rispose Omar. "A me non li mostrano
neppure, prima di venderli in strada. E, d'altra parte, come potrei
comperare i miei sogni?" Colse un'espressione delusa, negli occhi di
lei. "Quanti anni hai?" chiese.
"Nove."
Trattenne il riso, ma non le parole. "Getta quel vestito, fa' un
bagno di psicodin e chiudi Carnevale come si conviene."

"Verrai con noi?" sussurrava lady Mamoudy, prendendolo


sottobraccio. Omar la baciò ancora. Quando ritirò le labbra vide una
lieve traccia d'argento sulla bocca della donna: il pigmento
cominciava a evaporare. Annuì.
Uscirono, e Valdemaro guidò l'auto nelle strade nere, verso
l'anfiteatro di pietra. "Al circo… c'è lo spettacolo migliore dell'anno,
stasera." Gli squali erano nelle vie e nei crocicchi, la loro pelle non
provava il gelo della notte e i liquori di Carnevale chiamavano le
memorie su dagli intestini. Quando uno di essi agitò i pugni verso il
veicolo, Valdemaro gorgogliò un insulto e pilotò l'automezzo dritto
su di lui: il corpo fu investito e gettato lontano, sul marciapiede. Un
filo di sangue nero rigò il parabrezza, poi il tergicristallo lo spazzò
via. La mano di Lady Mamoudy strinse le dita di Omar: le unghie
acute lo graffiarono sul palmo. Egli passò il braccio intorno alla esile
vita della donna, slacciò l'abito sulla schiena, accarezzò la carne nuda
e fredda. "Veglierò io su di lei," aveva promesso a Gy Mamoudy,
sulla soglia dell'appartamento.
Salirono fino alle gradinate più alte del circo: nell'anfiteatro la
folla nera degli squali pigiava fino alla piattaforma centrale. Quando
Omar per primo emerse dal sottopasso di granito il loro mormorio
parve gonfiarsi. Le Ombre degli uomini e delle donne si unirono in
una sola ala protettiva, scintillante come un pauroso angelo custode.
Omar aveva smesso da molti mesi di frequentare il circo e gli
spettacoli della lotta. Non gli piaceva più, quella violenza senza
scopo. Non detestava la violenza, in realtà. Detestava soltanto la
violenza senza motivo: e l'applauso isterico delle gradinate non gli
sembrava un buon motivo, per uccidere e farsi uccidere. Si volse: le
labbra di Pat erano umide e morbide. Come un tempo… ma lady
Mamoudy gemette: un attore s'era abbattuto sul palcoscenico con le
membra infrante, e il sangue correva sul corpo magro e s'allargava
sul piancito, nel tondo delle fiaccole. Aveva sul viso una maschera
rosa: il volto terreo era celato, ma da sotto la cartapesta colava un filo
di sangue, una bava scura e salata. "Voglio uscire," disse la donna.
Omar s'alzò.
Fuori il cielo era pieno di luci. Il corpo di lei sussultava e
rabbrividiva: l'uomo afferrò il lembo di una tenda che velava
l'ingresso al sottopassaggio. La stoffa cedette subito: fasciò le spalle
della donna in quel mantello gualcito, la baciò sugli occhi e sulle
tempie. "Davvero non eri mai stata qui? È bella la lotta," mentì.
Gli occhi di lei erano però di nuovo lieti. Gli prese la faccia fra le
mani. "Chi sarà la tua vittima stanotte?"
"Non farmi questa domanda: è una storia molto brutta."
Lady Mamoudy osservò incerta la maschera da Assassino: il volto
di Omar mandava riflessi fiochi, il suo abito era lucido. Lascia
perdere, pensò. Mio marito si cura più dei gioielli del mare che del
mio corpo. E nel mio cuore c'è tanto spazio. Ma non disse nulla.
Pat e Valdemaro uscirono dal sottopasso, tenendosi per mano.
"Venite, brinderemo a questa mezzanotte sul picco."
"E quell'uomo?" chiese lady Mamoudy.
"Quello squalo," corresse Valdemaro. "È morto. Un ottimo
spettacolo, davvero."

"È un bel cielo. Non l'avevo mai visto così da vicino. Che ore
sono?" disse Omar, guardando l'orologio che brillava al sottile polso
di lady Mamoudy.
"Mezz'ora, o forse meno, alla mezzanotte."
I fuochi erano accesi sulle rupi e sui colli che circondavano la
città, lunga sulla sabbia: dalle finestre sul picco essa appariva come
una gran tela di ragno, tessuta di strade convergenti verso il circo.
"È difficile decidere, adesso è davvero difficile."
"È proprio il più bel cielo del mondo," ripeté lady Mamoudy, tesa
sul davanzale alto sul gran buio scintillante. Sopra di lei, a meno di
cento metri, la volta di cristallo si curvava sulla città: e le stelle non
erano che i riflessi pallidi dei fuochi al suolo.
"Temo che non sarà mai più così. Mi fa paura il tempo che passa.
È come una bestia feroce che ti morde continuamente, mentre tu non
sai dove colpirla."
La donna reclinò il capo, come stupita. "Davvero hai paura?"
"No. Credo di no." La città gli apparve all'improvviso come un
cimitero ricamato di candele. Posso fare quello che voglio, adesso.
Scegliere le armi e il momento, negare o concedere la grazia come un
dio d'altri tempi, crudele e misericordioso a seconda delle lune.
"Ci sono dentro, ormai," sussurrò chino all'orecchio di lady
Mamoudy. Il corpo di lei era morbido, quando gli si strinse addosso:
Omar sentiva il suo cuore battere dietro ai seni minuti. L'accarezzò.
"Sarà come a teatro, un copione con le parti stabilite e le battute
pronte." Guardò in alto: "Dopo quell'attimo, un attimo solo, le
chiacchiere di oggi non saranno che ricordi stupidi d'una fine di
Carnevale."
Rientrarono, e sedettero con gli altri, intorno a una tavola d'oro.
"Hai una bella casa Valdemaro, e una bella donna," disse Omar.
"Dovresti essere un uomo felice. Perché non lo sei?"
Valdemaro s'incupì, d'improvviso. "Perché dici che non sono
felice?"
"Perché ho visto come ti guardavi intorno, questa sera. Hai paura
di perdere Pat?"
La donna lo guardò, incuriosita e impaurita. Mancava ormai poco
a mezzanotte, e le rughe sul viso da Assassino di Omar s'erano fatte
più profonde. Lei fremette: "Non essere sciocco, Omar," disse.
Valdemaro aveva sorriso, invece. "Considero tutto ciò uno scherzo
poco riuscito," disse. E aggiunse, accennando al costume dell'altro:
"Come quel costume, d'altra parte, è poco felice."
Omar sorrise, a sua volta. Piano, portò la mano destra lungo il
fianco, e sganciò il pugnale dal fodero ricamato. "Sbagli," disse, con
un improvviso gelo nella voce. "Sono vestito da Assassino perché
questa notte sono un Assassino."
"Sciocco,"ripeté Pat N'goa, e batté le mani, uno schiocco soltanto.
I valletti-squalo versarono vino rosato e psicodin in vasi di peltro.
"Brindiamo all'Assassino, allora," disse Valdemaro. Tese le coppe,
scuotendo gli steli sottili. "Pago per questo vino buona parte del mio
reddito, e il prezzo aumenta di giorno in giorno. Forse al Carnevale
dell'anno prossimo brinderemo con lo champagne di alghe." Guardò
negli occhi Omar, poi Pat e lady Mamoudy. "Quelli di noi che
sfuggiranno all'Assassino, naturalmente," e rise.
"C'è tempo per bere," disse Omar. "C'è tempo fino a mezzanotte."
S'allungò in poltrona. "Giochiamo, invece."
C'era un rondò di bambini di moda in città, un antico
divertimento, tutta l'anticaglia del Novecento era di moda in città, in
quei giorni. Un giocatore viene bendato e gira a tentoni, finto cieco, e
cerca nella sua oscurità di arrivare agli altri che lo deridono. Omar
sfilò il pugnale, e ne immerse la lama nella brocca dello psicodin.
Punse il palmo della propria mano. "Nessuno dovrà barare," scherzò,
e porse la lama a lady Mamoudy, quieta accanto a lui. La donna
trafisse piano il proprio polso sinistro: le labbra tinte dell'Assassino
le inviarono un bacio silenzioso. Tese il pugnale a Pat, vestita come
Biancaneve, un'altra maschera vecchia trovata in soffitta.
"Sorteggiamo la mosca cieca," disse.
Pat lo guardò incuriosita. "È il cardine del gioco, un insetto
scomparso. La persona che non vedrà," spiegò Valdemaro. Alzò lo
sguardo a una pendola di cristallo, e disse: "Nove minuti a
mezzanotte. Conta a nove."
"Uno, due, tre, quattro, cinque…"
La sorte indicò lady Mamoudy. "Non ci sarà bisogno di sciarpe, né
di maschere," gridò Valdemaro e si alzò di scatto, traendo dalla
cintura un minuscolo laser d'argento.
Biancaneve si mosse. "Rimani seduta," ordinò l'Assassino, a bassa
voce.
Il raggio di fuoco bruciò le pupille di lady Mamoudy: la donna
urlò, portando le mani al viso. Le iridi cangianti erano due piaghe di
fiamma, adesso. Valdemaro le spinse il tubo d'argento fra le dita, poi
si fece da parte. La donna restò ritta nella sala, accanto alla tavola.
"Questo non rientrava nel copione," mormorò quieto l'Assassino.
"Non nel mio, almeno." Valdemaro rise forte, un riso sonoro. "Gioca,
signora. Manca pochissimo, ormai, a mezzanotte, e dopo dovremo
essere di nuovo saggi e normali, tutti." La donna si volse in direzione
della voce. Sparò: il filo di fiamma sfrigolò e arse l'architrave, sulla
porta del salone.
Valdemaro si girò verso le terrazze. Poi, all'improvviso,
incominciò a correre alla porta-finestra. L'Assassino lanciò il
pugnale: la lama vibrò e andò a piantarsi nella schiena dell'uomo,
all'altezza del cuore. La maschera di rame rotolò al suolo. Portato
dallo slancio l'uomo sì abbatté sulla balaustra e rimase in equilibrio
un solo istante. Precipitò nel vuoto.
L'Assassino si avvicinò a Biancaneve. "Forse ti amo ancora, sai,"
disse, e con la punta delle dita le scompigliò i capelli. Si strinsero
uno all'altra. "Non piangerò, sai, ora che l'hai ucciso. Era lui, dunque,
la vittima scelta per Carnevale… ho avuto paura, prima," mormorò la
donna.
L'Assassino la baciò, poi si volse piano verso lady Mamoudy,
cieca dolente nella sala, stringendo Biancaneve, forte come uno
scudo. "Ti amo!" gridò, e lady Mamoudy sparò verso quell'urlo, nel
suo buio. Il corpo di Biancaneve ebbe un fremito leggero, e ricadde
con un sospiro nelle braccia dell'Assassino. L'uomo la lasciò
scivolare sul pavimento. Uscì dalla stanza.

Quando tornò nel suo appartamento il pigmento era quasi


evaporato: aveva il volto stanco, si passò le mani sulle gote, la barba
era cresciuta e la sentiva ruvida contro il palmo sudato. Cancellò con
il detergente le ultime tracce d'argento, poi sciolse il solvente sulle
unghie, ripose il vestito nel guardaroba, e le lenti a contatto nei
flaconi. Mezzanotte era passata: presto, al mattino, gli spazzini-
squalo avrebbero raccolto cadaveri e coriandoli nelle strade grigie e
deserte. Prese da uno scaffale la cuffia brunita, e vi inserì un nastro.
Era tempo di sognare.
II

Sui muri erosi corre una luce purpurea e strana. Lorna non ha mai
visto quella luce, contro i muri della casbah. Guarda in alto, nella
notte: nemmeno quel cielo pieno di punti illuminati l'ha mai visto, né
il pallone bianco e butterato, disegnato sopra i contorni dei
grattacieli, verso l'orizzonte. Prova un'angoscia lieve, come se un dio
sconosciuto l'avesse precipitato attraverso una porta invisibile, dentro
una casbah che somiglia in tutto e per tutto alla sua, ma che —
diavolo — non lo è!
Ricaccia in gola l'inquietudine, e s'affretta: non c'è tempo per
concedersi all'angoscia, nel vicolo, né per gli spilli di luce puntati nel
cielo. Poi il vicolo si apre su una piazza tonda e buia. Lorna va dritto
alla porta che sta di fronte, affondata nel muschio che s'arrampica su
tutta la facciata della casa. Scivola sui lastroni di granito… anche
scivolare a quel modo è una sensazione insolita e strana, per lui. Sale
i gradini, la sua mano destra si alza, preme sulla piastra della
serratura, il computer riconosce la ragnatela delle sue dita e
l'ingranaggio scatta: succede tutto così in fretta che Lorna ne è
stupito.
Entra nella stanza buia, e subito avverte un odore insolito, forse
sandalo, o alghe bruciate, un fumo sottile e aspro contro il palato.
"Ehi. C'è anche lui," squittisce una voce da nano. No, è un nano
davvero, il buio si scioglie in una penombra piena di profumi, il nano
sorride. "Siediti," dice, e indica una panchina lunga e coperta di
cuscini tinti con la porpora, vicina al muro.
Il nano veste da maggiordomo, come i maggiordomi vestivano
una volta, con marsina e sparato bianco d'amido, e somiglia a un
pinguino con le gambe tagliate a metà. Gli porge una coppa di vetro,
piena di liquore latteo, e lo spinge a sedere. "Pazienta ancora un
poco, per favore, altri ospiti devono ancora arrivare…"
E infatti non trascorre che un minuto, poi una lama di luce rosa —
ancora quella luce — si apre nel muro: è la porta che si socchiude, e
un altro ospite entra. "Oh Ismaele, vieni. Ti aspettavamo," dice il
nano, e scivola in quel fumo a colori, verso l'uomo. Ismaele ha l'aria
di un uomo di mare, poggia in terra un sacco da viaggio di canapa
grezza, e sbottona il colletto bianco e tondo della camicia
stropicciata. Ride a bocca aperta, un riso franco, e chiude la porta alle
proprie spalle.
"Quell'uomo mi piace," sussurra una donna. Sta accanto a Lorna,
seduta scomposta, a gambe larghe, scoperte fino a metà coscia, il
seno piccolo e rotondo quasi fuori dall'abito, la faccia di gesso e i
boccoli rossi sciolti sulle spalle e sulla fronte, imperlata di piccole
gocce di sudore.
Lorna vorrebbe — chissà da dove gli viene quell'idea, e perché —
che la donna s'alzasse e andasse a gettarsi fra le braccia di Ismaele.
Tutto ciò che al mondo è proibito, diventa lecito sui tappeti dello
speakeasy, e i desideri si avverano. "Oh, avanti amici miei, facciamo
festa. Carnevale viene soltanto una volta all'anno," pigola il nano.
Così la donna si alza — indossa piccole scarpe di vernice, con i
tacchi alti e fuori moda — e dondola goffa verso il marinaio.
"Ismaele," dice, e si toglie le scarpe per camminare meglio, è ubriaca
e incerta, la spallina dell'abito le scivola lungo il braccio destro,
Lorna vede la sua schiena nuda, forse anche davanti s'è scoperta, quel
petto che lui conosce bene… oh, lo speakeasy. Porta alle labbra la
coppa, beve piano, e vede Ismaele che tende le mani, abbranca la
donna e se la tira addosso, mezza nuda com'è.
La stanza è grande, una specie di immensa cantina con il soffitto a
volta, tinto di calce chiara: c'è gente, certo molta gente, uomini e
donne, e gli pare perfino di scorgere uno squalo a torso nudo — un
grande scandalo — cuscini e tappeti e lame d'ombra proiettate giù dal
soffitto, che tracciano alcove a comando.
"Non c'è luce abbastanza," dice. Il maggiordomo è lì, gli spunta al
fianco. "Eh, questo è uno speakeasy, signor mio. Troppo chiaro non
conviene a nessuno," sussurra, e versa ancora latte finto nel suo
bicchiere.
"Ho un appuntamento, qui," dice Lorna.
"E chi non ne ha?" soffia il nano.
"Con una donna… somigliava a quella che se n'è andata con
Ismaele." Indica nell'ombra, un gesto vago.
"Tutti, qui, hanno un appuntamento con una donna come quella,"
sussurra il nano, e s'impettisce, gira la testa e chiama "Anka", e lei —
proprio la donna dell'appuntamento — sorride, viene avanti e siede
accanto a Lorna. Porta un abito lungo che la copre fino alle caviglie,
una tunica viola e casta, ma quando ella si allunga verso Lorna e gli
sfiora il viso con una mano piena d'anelli, l'abito si apre del tutto,
davanti, dalla gola al ventre.
Lorna la guarda in faccia, i capelli rossoscuro che lei scuote,
ridendo, con un gesto lieve del capo, e vede che è proprio la stessa
donna che se n'è andata con Ismaele… alza di scatto la testa, e il
nano salta ancora fuori da chissà dove. "No signor mio, qui tutte le
donne sono fatte così," spiega, alzando un dito tozzo e sporco.
"Vuoi… intimità?" chiede.
"Sì," sussurra Lorna. Il nano trotta via e un millepiedi di ferro
corre sul soffitto e si ferma sopra di loro: scintilla un istante, come se
andasse a fuoco per un corto circuito, poi due sottili pareti d'ombra
scendono dall'alto, come sipari di velluto, impenetrabili al brusio e al
fumo. La donna scuote le spalle, e l'abito sbottonato scivola a terra, e
la lascia bianca e nuda.
Lorna la guarda incuriosito: ha le gambe lunghe, solo un po'
grosse nelle cosce, il ventre tondo. Le prende il volto fra le mani a
coppa, per sentire la pelle sotto le dita, sentirsela sua ancor prima di
andarle addosso. È soltanto un poco più pallida, rispetto all'ultima
volta che hanno fatto l'amore. "Tuo marito?" dice lui. "Oh, lascia
perdere, perché continui a evocare la sua ombra? Non sei stanco di
trascinarti dietro un fantasma?"
"Non so. Io non ho mai avuto padroni, e quando incontro una
persona che ce l'ha, ho sempre paura che questo padrone si presenti a
pretendere i suoi diritti".
"Non è soltanto una questione di padroni e servi…"
"Perché prima ti sei buttata su quell'Ismaele come una puttana
affamata?"
La donna lo guarda piena di curiosità. "Non sono stata con lui,"
dice. Resta seduta, li davanti, a ginocchia unite e nuda, come se nulla
fosse: il suo petto si solleva piano, i capezzoli ancora duri, come
quando s'è spogliata, così eccitata. Ha la voce bassa ma ferma, e
scolpisce le parole.
"Come… non sei stata con lui. Io t'ho vista."
"Non è possibile." Lei scuote ancora il capo. "Guarda," dice. È
come se il millepiedi meccanico, in alto, le obbedisse: il sipario
d'ombra si schiude, e Lorna vede in un gran divano di pelle chiara,
contro una parete, Ismaele e la donna abbracciati. Non si sono
neppure curati di stendere l'ombra intorno a loro.
"Ma ti somiglia, anzi, è straordinario… è uguale a te."
"Sciocco." Lei gli preme il petto contro il petto. "Ohi" dice
quando i bottoni della camicia di Lorna sfregano contro la pelle del
suo seno, si sposta di nuovo, si inginocchia sul pavimento.
"Ma quella là…" mormora Lorna, ma indica nel buio, perché la
coltre nera è di nuovo discesa dal soffitto, "quella là basta", dice la
donna, e gli straccia dal petto la camicia. Lui vorrebbe ribellarsi a
quella violenza finta, al profumo di donna, e gridare che non è
possibile che tutte le puttane dello speakeasy abbiano la stessa pelle
chiara, la faccia spruzzata d'efelidi, gli occhi verdi e gli stessi riccioli
sul collo. Ma lei gli monta ancora addosso, senza pudori, la sua
bocca è famelica, grande, le labbra rosse come i lembi di una ferita
scendono dal suo petto al suo ventre, gli mandano in ogni parte del
corpo brividi lunghi e violenti, è come la lingua d'un animale alieno
che gli si ficca dentro la carne, e lo svuota, gli tira via tutto.
E mentre resta ad aspettare l'orgasmo che dovrebbe lasciarlo
stanco e pieno di ribrezzo — per sé e per lei — e quei brividi che gli
salgono dalle cosce fin nelle reni, una campanella comincia a trillare,
nell'aria dello speakeasy, forse sono gli squali della Spazzatura che
fanno pulizia nel quartiere, oltre l'uscio blindato, che si portano via
Carnevale, o forse — il nano si affaccia dentro la sua incoscienza e
dice, inaspettatamente, "tutto bene monsieur?" prima di tornare dietro
al sipario — Lorna scrolla il capo, forte, ma il trillo si fa ancora più
acuto, lo speakeasy se ne va, quella bocca che lo riempiva se ne va, e
giù, nell'anca, giù a destra, il richiamo della Cattedrale scaraventa
Lorna fuori dal sogno.

L'angelo aveva la forma di un ragno nero, non grande, non più


grande di una nocciola, ed era cucito nella pelle spessa di Lorna.
Sporgeva nell'epidermide come un grosso neo. Le sue zampe di filo
d'argento affondavano nella carne, e andavano a piantarsi nei cordoni
dei nervi, con chele d'oro. Ora l'angelo suonava.
Il trillo scuoteva Lorna da dentro, gli rintronava dai fianchi fino in
testa: non suonava all'esterno, contro i suoi timpani, ma veniva su
lungo i nervi e il midollo. Si svegliò, alla fine, sulla branda di ferro.
La sua mano destra risalì lungo il fianco, seguendo un riflesso
ormai abituale, trovò il sarcoma duro — l'angelo — poco sopra la
testa del femore, e premette. Il trillo cessò. Lorna si tirò a sedere, con
gli occhi chiusi, ancora fissi sulle immagini del sogno. Cercò a
tentoni la scatola di latta del terminale, sul pavimento, la trovò, tirò
un interruttore.
"Lorna," tossì. Aveva la voce roca. Si schiarì la gola. "Lorna
1797" ripeté, ponendo dopo il nome il numero di matricola, il
cognome degli squali. Se non avesse chiamato entro quindici
secondi, quell'infernale acaro di metallo avrebbe incominciato di
nuovo a scuotergli il cervello. L'angelo seguiva gli squali dei servizi
pubblici ovunque andassero, giorno e notte. Era il filo che li univa
alla Cattedrale in ogni momento, un impalpabile cordone ombelicale.
L'angelo custode. Soltanto al termine del periodo di arruolamento lo
stesso chirurgo che glielo aveva piantato nella carne l'avrebbe
strappato via.
"Sezione Spazzini," scandì una voce registrata. "C'è una richiesta
per Lorna 1797. Entro venti minuti all'incrocio delle coordinate 37 e
39. Urgente."
Lorna si strofinò gli occhi, poi premette entrambe le mani sul viso,
a palme aperte. Era sconcertato: le coordinate 37 e 39 si
intrecciavano lontano, in periferia, verso la montagna. Fuori zona,
per lui. Portar via la carcassa di qualche ubriaco, spazzare coriandoli
e cocci di vetro… potevano farlo benissimo gli spazzini di zona.
Buttò le gambe oltre il bordo della branda; ciocche di capelli scuri e
arruffati gli ricadevano sulla fronte. Erano lunghi, quasi al limite dei
regolamenti. Li cacciò indietro, con un gesto brusco della mano
destra, le dita aperte a pettine. Era insolita, quella sveglia repentina,
troppo… l'angelo squillava solo nei casi d'urgenza, quando non c'era
neppure il tempo di passare alla Cattedrale per il contrappello del
mattino.
Sfilò dalle proprie tempie la cuffia che s'era allacciato prima di
dormire. Il nastro aveva cessato di scorrere dentro la bobina nel
momento in cui s'era svegliato: ricordò il nano, e la faccia della
donna con i capelli rossi. Non era un buon sogno, però. Da tempo
non c'erano più sogni buoni, erano sciocchi, il genio degli scrittori
s'era come seccato… specie i sogni di (faticò a trovare il nome)
Omar Khayam, come quello che s'era ficcato in testa la notte prima,
così pieni di cieli sconosciuti e di… speakeasy (cos'è uno
speakeasy?). Saranno sei mesi che non trovo un sogno che mi fa
godere davvero, pensò Lorna.
Avvolse la cuffia in uno straccio di canapa, e la buttò sotto la
branda, fra altri stracci e casse di cartone. Agli squali non era
permesso di possedere le cuffie dei sogni, né di usarle. Quella cuffia
l'aveva sequestrata, un paio d'anni addietro, a un sognatore
clandestino, uno squalo anch'egli (doveva averla fabbricata per lui un
artigiano di genio, chissà come), e invece di consegnarla l'aveva
tenuta per sé.
L'aveva usata, sempre più spesso. Ma adesso, gli conveniva
tenersela sotto la brandina? Si chinò, raccolse il fagotto e l'avvolse in
un foglio di nylon, insieme con il nastro dell'ultimo sogno. Poi si
vestì: non era alto, ed era grosso, le braccia corte e possenti, i fasci
dei muscoli coperti d'una pelle dura e grigia, come feltro spesso.
S'infilò una tuta floscia, color mattone, chiusa fino alla gola da
una lunga cerniera. Poi uscì: la porta a vetri — vetri opachi e
smerigliati — s'affacciava nell'ombra di un vicolo stretto, sul
marciapiede d'ardesia. La luce del mattino non era ancora tanto forte
e diretta da arrivare dentro le case e sotto i portici (la Cattedrale
accendeva, dapprima, i soli a levante): durante la notte il Carnevale
era arrivato fin lì, e la pioggia che prima dell'alba era stata versata dal
cielo, per pulire l'aria dal fumo aspro dei fuochi, aveva impastato
coriandoli e stelle filanti in una melma sporca, senza colori.
Lorna tirò l'uscio alle proprie spalle, e prese la strada per il
quadrante dove si incrociavano le coordinate 37 e 39. Tutte le strade
avevano un nome, nomi antichi come Cartagine o Ebla, oppure nomi
moderni, ma tutti venivano cambiati spesso (un buon lottatore del
circo poteva farsi intitolare un viale per l'intera stagione, se lo
voleva), così dalla Cattedrale partivano soltanto ordine in codice, con
cifre immutabili.
37 e 39 significava… era la strada sotto la montagna, quasi un
viottolo di pietra che saliva verso i picchi, ma Lorna ne aveva
scordato il nome. Le botteghe della casbah alzavano piano le
serrande scardinate, tinte di verde e di blu: le prime ore del mattino
nei vicoli erano sempre battute da quel suono stridente, e dai richiami
dei venditori di alghe e funghi.
Lorna si arrestò davanti al carretto elettrico di un ortolano.
"Cos'hai stamattina?" domandò.
"Non molto. A Carnevale sono pochi i contadini che preferiscono
scendere nelle vasche," disse l'ortolano.
Lorna osservò il piano di lamiera sfogliata e la verdura, disposta
in modo da piacere almeno alla vista. Poi si guardò intorno. Non
c'era ancora molta gente in strada, e fino a mezzogiorno non ce ne
sarebbe stata: l'ultima notte di Carnevale s'era affogata, come ogni
anno, nel vino e nello psicodin.
Diede al venditore il fagotto con la cuffia, e il nastro del sogno.
"Ecco, c'è anche la cuffia. Nascondila fra i tuoi cavolfiori fino a che
non tornerò a chiedertela. Il nastro verranno a prenderlo come
sempre, stasera."
L'ortolano fece finta di nulla. Prese il pacco e lo mise in terra,
sotto il carretto. Tese a Lorna due grandi foglie d'alga, fasciate nel
cellofan: lo squalo sorrise, e riprese a camminare con quel pacco
sotto il braccio.
Non gli restava molto tempo, ormai, per arrivare alle coordinate
37 e 39. Ma era meno in agitazione, adesso: si sentiva di nuovo al di
sopra di ogni sospetto. Gettò le foglie d'alga in un cesto per la
spazzatura, udì il ronzio delle lamine d'acciaio che tritavano e
digerivano cellofan e verdura, e si affrettò.

Era un uomo. Immobile, lungo sul selciato, a faccia in su. Lorna


non riuscì a vederne i lineamenti: l'uomo fissava il cielo a occhi
spalancati ma, sotto, il suo viso era come una maschera di cartapesta
stracciata. Doveva aver sbattuto la faccia sulla pietra, e le ossa
s'erano rotte, come si erano rotte nelle sue ginocchia e nelle braccia.
Il sangue era colato attraverso le pieghe del vestito di tessuto nero, un
vestito da Carnevale, ed era seccato sui lastroni della strada. Le mani
erano sbiancate, come se quel sangue avesse portato via anche il
colore della pelle.
Lorna gli andò vicino, si inginocchiò accanto a lui, poi guardò in
alto: la montagna saliva dritta, e spoglia d'erba e d'arbusti. Lassù la
luce del mattino indorava il picco. L'uomo doveva esser scivolato,
precipitando nella notte. Non capitava di frequente, in città, di vedere
il cadavere di un uomo. Gli uomini non amavano far vedere agli
squali i loro morti.
"Quando lo avete trovato?" domandò.
"Poco fa. Non più di un'ora," disse uno squalo-spazzino, uno dei
sei o sette che gli stavano intorno, nella strada. "Chi l'ha trovato?"
"La squadra della pulizia. Stavano finendo il lavoro, erano proprio
ai limiti della loro zona… non è cosa da niente, trovarne uno così
ridotto."
Lorna guardò la strada: saliva ripida, lungo il costone di roccia,
stretta e liscia, dove le ruspe avevano spianato il terreno e il laser
l'aveva levigato. A valle, le case della periferia avevano gli intonaci
tinti dalle muffe, e a pezzi. Gli uomini se ne stavano andando,
preferivano aggiungere nuovi piani ai loro grattacieli, e nei corridoi
di quelle case si udivano ora echi insoliti, quando ci camminavano gli
squali.
Lorna s'inquietò. "Come mai non ci sono uomini, qui?"
"Non li abbiamo ancora avvertiti. Sai, c'è una cosa…" disse lo
spazzino. Si chinò sul corpo insanguinato e lo girò di nuovo, a faccia
in giù, come l'avevano trovato in principio. Con tutte quelle ossa a
pezzi, era come una marionetta scardinata.
"Guarda!" Spianò con le dita le pieghe dell'abito, sbrindellato dai
sassi durante la caduta: nella schiena dell'uomo, appena sotto le
scapole, era piantato fino all'elsa un pugnale.

Aveva sentito l'odore del pericolo all'improvviso. Era un odore


dolce, che sapeva di pelle d'uomo, di lozioni e di cosmetici. Era stato
più forte della puzza che saliva dal terreno muffito del tunnel, dalla
malta pestata dai frattazzi dei muratori.
S'appoggiò al muro, guardò a destra, a sinistra, ma non vide
alcuna Ombra sfrigolare contro il soffitto grondante d'umido.
Il tunnel correva in cerchio, illuminato appena dalle lampade
smorte, sotto l'arena del circo. Serviva a far defluire l'acqua, quando
a battersi erano i gladiatori marini, e a passare da una parte all'altra
del circo, senza salire sulle gradinate. Là sotto non si incontravano
uomini, di solito.
E infatti non sembrava che ce ne fossero: soltanto tre squali come
lui passavano in fretta, lì vicino, forse per sbucare dall'altra parte
dell'arena in tempo per lo spettacolo.
Poi uno di loro indicò Lorna: "Lui," disse, e gli piantò in faccia il
raggio di una torcia elettrica, una luce azzurra che lo abbagliò. Lo
stupore di Lorna durò un lento, lunghissimo istante. Infine comprese.
I cacciatori! L'odore così dolce che aveva sentito veniva dalla loro
pelle, spalmata di unguento grigio. Ma era una pelle chiara, sotto,
rosea come il palmo della mano che s'era alzata e lo aveva indicato. I
tra cacciatori erano snelli, un poco più alti di lui, certo meno
massicci. Era pelle d'uomo, ed erano corpi d'uomo.
"Cacciatori!" gridò. Subito sentì che nel tunnel la gente si era
messa a correre, e altri correvano verso le scale che salivano e
scendevano, sotto le gradinate di pietra. Ma era rumore di gente in
fuga. Nessuno si avvicinava: il suo urlo era stato soltanto un allarme,
per gli altri squali. Non veniva nessuno, a dargli aiuto.
Udì un sibilo e uno schiocco, poi una serpe di cuoio gli sfiorò il
volto e lo morse sulla spalla sinistra: la frusta era una delle armi
preferite dai cacciatori, come il tirapugni, il coltello, la spada e, a
volte, le mani nude. C'erano almeno due dozzine di cacciatori, in
città. Lorna sperò di non averli tutti alle calcagna. Incominciò a
correre verso il buio, la testa incassata nelle spalle come per parare
urti improvvisi, senza neppure sentire il bruciore della frustata, sul
viso e nel collo.
Avrebbe dovuto pensarci, e stare in guardia: Carnevale era anche
il tempo delle imprese dei cacciatori. Si facevano vivi ogni volta,
nella casbah e al circo.
Correva sfiorando il muro con il gomito, tenendosi nella parte più
in ombra del tunnel. Avesse potuto combattere ad armi pari, uno in
faccia all'altro, uno solo contro uno solo, si sarebbe battuto
volentieri: e li avrebbe ammazzati, uno dopo l'altro, adoperando
soltanto le mani. Ma erano in tre, tutti armati… le loro aggressioni
erano come governate da un copione: prima la frusta, poi il coltello,
poi la pistola o il laser.
I cacciatori erano uomini che amavano mascherarsi da squali, a
Carnevale. Si tingevano la faccia, lasciavano l'Ombra nei propri
palazzi, sulla gruccia elettronica, e se ne andavano a caccia di squali
e perfino, quando erano gonfi di vino, di altri uomini, e la loro pelle
era striata dalle Ombre che li avevano respinti.
Erano forti: ai piani alti dei loro grattacieli, sulle terrazze vicine ai
soli, avevano palestre per la lotta e bersagli per il tiro.
Scivolò, mentre correva. Sbatté con la schiena sul pavimento
viscido, e ruzzolò nel fango freddo. Ma era bene addestrato: rimase
immobile nella penombra, la faccia contro il terreno, l'acqua sporca
che gli scorreva sulle labbra escoriate. Non aveva più tempo per
rialzarsi e riprendere la fuga. Trattenne il respiro.
I cacciatori gli passarono accanto di corsa: gli schizzarono
addosso altro fango, pestando con gli stivaletti nel pantano. Avevano
chiodi d'acciaio nei tacchi e nelle suole, e non scivolavano: segno che
s'erano preparati alla caccia su quel terreno.
Si rialzò piano, le palme a terra. La corsa dei cacciatori sembrava
essersi perduta dietro una curva, nella galleria. Udiva solo uno
scalpiccio lontano. La spalla gli faceva male, adesso, e anche la
faccia e la schiena, dove aveva battuto scivolando e cadendo
all'indietro. Non gli restava che tornare per un centinaio di passi,
imboccare la prima rampa di pietra e salire, fin sulla gradinata, a
meno che… i cacciatori non si fossero passati la parola e la sua
fotografia, e avessero bloccato tutte le uscite.
Avanzò con cautela nella galleria, male illuminata dalle lampade
che oscillavano contro le pareti, disegnando ombre lunghe e
irrequiete sul soffitto, e sentì un rombo soffocato, di sopra: la luce si
smorzò un istante, poi Lorna poté sorridere. Era l'applauso che
scoppiava sulle gradinate, a un colpo di lotta ben riuscito.
Camminò per cinquanta metri, e trovò la scala che portava in alto:
i gradini erano scalpellati nel sasso, e nessuno aveva mai pensato a
renderli più lisci, meno aspri. Li salivano di solito squali ubriachi e
gladiatori sconfitti, che sputavano sangue e non erano riusciti a
crepare sotto i colpi presi nell'arena.
Guardò indietro, nel tunnel (buio, ombre fuggenti e silenzio,
ormai), poi cominciò a salire. I gradini erano illuminati di riflesso,
dalla luce che filtrava dalle feritoie tagliate nella pietra. Pochi minuti
ancora, e sarebbe stato fuori, fra diecimila altri squali, nel clamore
del circo. Udì lo scroscio dei primi fuochi d'artificio, in cielo:
mezzanotte non era lontana, ormai.
Salì ancora, tenendosi al corrimano ammollito dall'umidità. La
scala si torceva, quasi a chiocciola.
"Fermo. O ti accendo come un fiammifero."
Lorna sentì il metallo della canna d'un laser contro il fianco
sinistro. Il cacciatore uscì dalla nicchia scavata nel muro: spingeva
con forza la sua arma nella pelle di Lorna, gli faceva male e
sorrideva: "Pensavi di essere tu, il più furbo?" disse. "Mi è bastato
imboccare la prima rampa, e salire sulla prima gradinata. E poi sono
tornato indietro: ero sicuro che tu ci stessi preparando una sorpresa…
eccoti ricambiato." Schiacciò ancora il laser nel fianco di Lorna: "Si
dice che tu sia furbo…"
Lo conosceva, dunque. "Girati e torna giù," ordinò il cacciatore.
Lorna si volse e scese due, tre, quattro scalini. Aveva le mani alzate,
intrecciate dietro la nuca: sentì ancora la bocca del laser, contro le
scapole.
"Ehi, dove andiamo?" chiese.
"Zitto, se no…"
Ma gli bastava. Era sufficiente che il cacciatore pronunciasse due,
tre parole, e la sua attenzione se ne sarebbe andata per un decimo di
secondo. Proprio quanto bastava. Lorna abbassò di scatto le braccia,
contro la canna del laser: si girò e spinse l'uomo, con entrambe le
mani aperte sul viso, sui gradini della scala. I lampi di fuoco si
persero nel buio, innocui, scheggiando solo i calcinacci.
Era difficile lottare con un cacciatore, in realtà. Era un uomo, ed
era sempre bene non uccidere un uomo. Era bene non eccitare la
rabbia della Cattedrale. Così Lorna doveva colpire senza ferire,
anche se l'altro, il cacciatore, combatteva per uccidere.
Lasciò che l'uomo si rialzasse e si avventasse su di lui: si spostò di
fianco, soltanto un poco, e lo colpì rapidamente, col pugno chiuso a
martello, nella tempia sinistra.
Il cacciatore cadde sui gradini, stordito. Lorna gli toccò il polso:
era debolissimo, ma batteva. Tornò a salire i gradini, due a due, di
corsa.

Chissà se aveva ancora in faccia il segno di quella frustata? Si


passò il palmo d'una mano sul viso. Non sapeva se augurarselo o no.
Certo sarebbe stato un buon alibi, per questo delitto, ma forse era un
delitto altrettanto grave accettare di battersi con un cacciatore, e
percuoterlo, e sfuggirgli. Non c'era certezza del diritto, su queste
faccende. Non era il cervello principale della Cattedrale a computare
reati e pene. Per quell'uomo steso in mezzo alla strada, nel sangue
nero, ci sarebbe stata una buffa marionetta incartapecorita, vestita da
giudice, con la parrucca vecchia di duecento anni, quasi più vecchia
della città, con il campanello e il batacchio di legno. Non aveva
dubbi, riguardo alla sentenza, se l'imputato era uno squalo.
"Siete sicuri di averlo trovato così? Proprio così?" insisté.
Gli spazzini non mostrarono esitazioni. "Nessuno di noi l'ha
toccato, salvo… girarlo per vederlo in faccia," mormorò uno di essi.
"Bene, allora. Avvertite la guardia, alla Cattedrale, date l'allarme,
fate quello che si fa in questi casi, svelti," ordinò Lorna.
Ma non andava affatto bene. Possibile che — guardò l'orologio —
possibile che, alle dieci del mattino, nessun uomo si fosse ancora
accorto di quel… la parola gli rintronò in testa, sinistramente… di
quel delitto?

Poi se ne era andato a casa. La mattina che stava per spuntare


avrebbe portato molto lavoro, in città. Al termine del Carnevale
precedente avevano raccolto sui marciapiedi più di venti cadaveri,
squali uccisi e illividiti dal freddo della notte, ancora vestiti della
carta colorata che tutti si mettevano addosso per fare festa, i risvolti e
le tasche ancora piene di coriandoli. Si muore sempre così
tristemente, di Carnevale. Andava sempre a dormire presto, l'ultima
notte di Carnevale.
Era sceso fra la folla delle gradinate, cacciandosi dove la gente era
più stipata, e dove vedeva più squali che uomini. Forse i cacciatori
erano lontani, dall'altra parte dell'arena, ma non voleva correre il
rischio di trovarsi di nuovo in faccia a loro.
Uscì dal circo. La jeep degli spazzini, parcheggiata davanti
all'ingresso principale, aveva ancora la chiave dell'accensione nel
cruscotto. Ma Lorna preferiva andare a piedi: la casbah si
ammucchiava proprio all'ombra del circo, le case quasi appoggiate ai
muri massicci dell'anfiteatro.
Si guardò intorno: gli ubriachi di alcol e di psicodin erano più
numerosi, senza dubbio, rispetto all'anno prima. Guardò anche in
alto: contro il vetro del cielo, i fuochi artificiali riflettevano arabeschi
bianchi e rossi e d'oro. Quando — raramente — un razzo sbatteva
contro il soffitto, su tutta la città si allargava una rosa di luce, e il
tuono scuoteva le finestre. Accanto a Lorna, nella strada che
d'improvviso s'era ristretta ed era diventata quasi un viottolo, un altro
squalo ruttò forte, e si appoggiò al muro. A mezzanotte in punto
Carnevale sarebbe finito: non era bene farsi trovare, dopo quell'ora,
per strada.
Camminò più in fretta: l'appuntamento era fissato allo scoccare
dei dieci minuti prima della mezzanotte. E l'uomo della Cattedrale
era sempre puntuale. Era un uomo vero, con la pelle sottile, i capelli
sottili, le idee sottili… gli uomini erano sottili. Chissà perché
quell'uomo aveva bisogno dei suoi soldi d'argento, una moneta che
aveva valore soprattutto fra gli squali. Un sogno appena stampato, un
sogno da vetrina, gli fruttava mezza dozzina di monete, da spendere
nei bordelli della casbah… forse era quello, il motivo. Non è ben
visto, fra gli uomini, chi va a puttane fra gli squali. Lorna s'era
chiesto, spesso, come riuscisse a prendersi i sogni nell'archivio della
Cattedrale: li portava con regolarità, uno alla settimana, e Lorna li
restituiva la mattina seguente. Era… uno spacciatore di sogni. Lorna
rise, e continuò a camminare.
Al momento dell'appuntamento, secondo quanto avevano pattuito
la prima volta, l'angelo avrebbe sussultato un istante, nel suo fianco.
A Lorna sarebbe bastato, in quel momento, mettere le mani nel cesto
dei rifiuti più vicino, ma di quelli vecchi, senza lamine rotanti, e
dentro il pacchetto di carta stagnola avrebbe trovato il nastro.
Chissà come funzionava, quel trucco semplice e misterioso? Lo
spacciatore era bene accetto alla Cattedrale, se poteva manovrare così
il suo angelo custode. Avrebbe potuto tenere Lorna in pugno, se
l'avesse voluto, proprio come Lorna avrebbe potuto tenere in pugno
lui, se l'avesse voluto. Lo spazzino aveva spesso riso, di quel legame
ambiguo.
L'angelo cacciò un grido, nel suo fianco e nella sua testa.
Brevissimo. Lorna si fermò, la fronte fredda di sudore, d'improvviso:
sapere che da qualche parte, in città, c'era un uomo che premendo un
pulsante poteva scatenargli in testa un inferno di suoni e farlo perfino
impazzire, a suo piacimento, in qualsiasi istante, gli provocava
sempre quell'effetto.
Poi sfilò di tasca una manciata di coriandoli, e girò il capo intorno,
come per cercare dove gettarli. E si rese conto che quella
stupidaggine avrebbe potuto portarlo dritto in galera. A Carnevale
anche gli spazzini gettano i coriandoli in aria, e in terra: chi va mai a
cercare un cesto dei rifiuti? Chi ha paura di sporcare le strade, a
Carnevale?
Buttò in alto, sul proprio capo, i ritagli di carta e di plastica, li
guardò ricadere incantato come un ubriaco, poi andò dritto verso il
cesto: frugò con le mani e trovò, nella cartaccia, il pacco. Sospirò,
quindi lo tirò fuori, insieme con un gran foglio accartocciato. Si
chinò: strofinò con la carta la punta degli stivaletti ancora imbrattati
del fango del circo, quindi gettò di nuovo la carta nel cesto. Il
pacchetto di stagnola l'aveva infilato nel collo dello stivaletto destro.
Portava sempre stivali dal collo largo. E puliti.

Forse sarebbe toccato proprio a lui. Gli uomini della Cattedrale, e


i computer, e i robot della vigilanza, avrebbero concluso che
bisognava acciuffare in fretta i colpevoli. Con la stessa fretta li
avrebbero identificati e a lui, spazzino capo, sarebbe toccato di
andarli a scovare nelle loro tane della casbah. Perché sarebbero stati
squali, certamente.
Lorna si volse agli spazzini che gli stavano intorno, tetri. "Ci sono
due cose impossibili, al mondo," disse. "Un uomo morto, morto
ammazzato, e un uomo senza Ombra. Costui è morto, ed è senza
Ombra. C'è soltanto una spiegazione, quindi: lo hanno ammazzato
mentre era senza Ombra. Così, con novanta probabilità su cento, l'ha
ammazzato un altro uomo. Attenti, tutti, a non farvi incastrare."
A vedere la faccia degli altri squali, dipinta d'un repentino
spavento e di incertezza, gli venne da ridere. Era la prima volta da
quando, quella mattina, il suo angelo custode l'aveva destato così
bruscamente.
III

L'ombra andò di corsa lungo il muro di pietra. La luce di


mezzanotte veniva giù fioca e gialla dal soffitto della città, e l'ombra
era bigia sui sassi. Una pompa automatica spruzzò nel buio un
ventaglio di pioggia, e l'uomo la sentì sui capelli, fredda, e sulle
spalle.
C'era una pozza d'acqua sul terreno: l'uomo affondò i piedi nel
fango. Bestemmiò, poi riprese a camminare svelto, poggiando i piedi
con cura, quasi sulle punte come una ballerina. Non gli era mai
piovuto addosso, né aveva mai cacciato le scarpe in una
pozzanghera: la sua Ombra l'avrebbe impedito. Nella notte l'uomo
correva senza Ombra.
Si fermò contro la facciata di una casa a due piani: era alto e
secco, snello, quasi malato, le membra lunghe contro il muro, come
un ragno. Guardò le finestre serrate, le grate di ferro al piano terreno
e le imposte, al piano più alto. L'obitorio era stato costruito nel cuore
della città, dove ora c'era la casbah, al tempo in cui c'erano più
uomini che squali, ed era ancora facile morire.
Frugò nella cintura a bandoliera: impugnò il laser e traversò la
strada. La porta dell'obitorio era quasi maestosa, chiusa com'era fra
gli stipiti alti che salivano fin sotto le grondaie di piombo, secche.
L'uomo si volse, poggiò le spalle ai battenti e spinse forte, scivolando
con i talloni sul selciato, e girando lo sguardo intorno.
Non c'era nessuno, a quell'ora.
Il portone era soltanto socchiuso. S'aprì e la luce della notte
spazzò il salone, fino ai tavoli di pietra chiara. L'uomo scivolò dentro
e sbatté la porta. Poi si volse ai tavoli e sospirò, sollevato: era ancora
lì… Su cinque delle sei lastre d'ardesia la polvere era come una coltre
grigia e lanuginosa. Sul piano dove poggiava il corpo di Valdemaro,
invece, erano stati passati panni imbevuti d'alcool d'alghe, ne sentiva
ancora l'odore acuto, e la lastra luceva.
Posò al suolo la lampada agganciata alla bandoliera. S'allargò una
luce a ventaglio, rosata: Valdemaro era stato svuotato come un orso
di pezza, e bruciato dentro con gli acidi. La lunga ferita nell'addome
era pronta a esser cucita: prima di mettere i punti di ferro avrebbero
colato dentro la gomma sintetica, poi l'avrebbero rattoppato, fasciato
d'una buccia di silicio, e l'avrebbero portato nel museo.
Toccò quella carne fredda: sembrava cera, così umida e gelida.
Cercò di rivoltare il corpo, spingendolo, anche se nel momento in cui
l'aveva visto sventrato aveva perso ogni speranza. Era morto soltanto
da un giorno: non pensava che l'avessero già… lavorato.
Era quasi inutile, adesso, essere arrivato fin lì. E pericoloso. Non
aveva mai immaginato quanto fosse pesante un cadavere: lo scosse
ancora, a mani aperte. Il corpo rotolò e cadde dal tavolo, con un tonfo
sordo, innaturale, e rimase rigido, la faccia terrea contro il
pavimento.
Vide la ferita sottile e violacea fra la quarta e la quinta costola: era
vuota, la lama era già stata estratta. Dov'era finita, dunque? Abbrancò
il cadavere, e cercò di sollevarlo. Non sarebbe stato facile rimetterlo
sul piano d'ardesia. E non mancava ormai molto, all'alba.

"Cosa c'è lassù, di preciso? Non può essere cascato che da lì, già
morto. Gli hanno messo il coltello nella schiena e l'hanno buttato,
come un pacco di stracci. Il medico dice che forse era già morto,
prima di volare di sotto."
Lorna s'era vestito bene, perché così gli avevano ordinato:
l'uniforme da spazzino era stretta nelle spalle e sui fianchi, i galloni
d'oro brillanti sul velluto granata. Era l'alta uniforme, tutta quella
mascherata.
Guardò le pendici di roccia: in cima al picco i balconi della villa
erano come un soffio rosa, sulla pietra. "Come si fa a salire lassù?"
Aveva al fianco uno squalo anziano, più dimesso nell'uniforme
grigia, ordinaria, e la ronda meccanica, con la faccia di ferro altera.
Lo squalo restò in silenzio. Il robot rispose una cantilena che Lorna
già conosceva: "La villa appartiene a Valdemaro N'goa, uomo.
Possono entrare soltanto gli uomini."
"Se volessi entrarci io?" I soli della città stavano scaldando l'aria
che i ventilatori spingevano da oriente: era giorno avanzato, ma la
strada rimaneva deserta. Due squali spazzini e un robot della guardia
non portavano buone nuove, nella città bassa. Lorna guardò il
compagno grigio, e sorrise: conosceva già anche la nuova risposta
del robot.
"Non è rilevante. Possono entrare soltanto gli uomini."
"Vai. Non ho più bisogno di te."
Ma fu Lorna a doversi tirare da parte. Il robot era rimasto inerte, le
palpebre spente, in attesa di un richiamo dalla Cattedrale. Lo squalo
osservò il disegno di gesso, sull'asfalto: un corpo lungo, a braccia e
gambe spalancate, come un grande uccello. Valdemaro — si
chiamava proprio così? Non gli avevano ancora trasmesso notizie
ufficiali, oltre all'incarico di muovere le prime indagini — era caduto
a faccia in giù come un pupazzo abbattuto.
"Sono sicuro che l'ha ammazzato un altro uomo. O una donna.
Avevo detto novanta probabilità su cento, ieri? Ora direi cento per
cento."
"È pericoloso," mormorò lo squalo grigio.
"Lo so." Quando aveva dovuto indossare quell'uniforme da
pappagallo aveva sudato freddo, per la rabbia. "Fareste bene a
cercare il colpevole da qualche altra parte," aveva sibilato in faccia al
robot che gli aveva portato l'ordine della Cattedrale, sperando che di
là, oltre quel muso di latta, qualcuno sentisse.
"Dobbiamo sapere chi c'è lassù, adesso. E chi c'era l'altra sera,
quando l'hanno ammazzato," disse.
"Non è facile. C'è soltanto un modo…"
"Lo so. Le Ombre."
"Perché perdiamo tempo, Lorna? Nessuno potrà arrivare alla
verità, se dalla verità anche un solo uomo potrà avere qualche rogna."
"C'è sempre un modo, per avere ragione di un uomo. Basta
chiederlo a un altro uomo che sia suo nemico."
"Noi abbiamo solo un cadavere a pezzi, qui. Per trovare i nemici
del suo assassino dovremmo prima trovare lui."
Lorna scoppiò a ridere. "Mi basta sapere chi c'era lassù l'altra sera,
per questo. Poi lo troveremo."
Vide un uomo, anziano e vestito in maniera sgargiante: la coltre
della sua Ombra lo proteggeva come una corazza impenetrabile.
Camminava lentamente, al margine della strada. "Avrà dentro mezzo
litro di psicodin… se la mia uniforme gli sembrasse davvero la veste
di un pappagallo, e lui mi sparasse con il laser, di me non resterebbe
che un mucchio di cenere calda. Ma se io gli tirassi un sasso soltanto,
si ricorderebbero tutti che sono soltanto un pesce, e non uscirei più
dalle loro galere," rifletté. "Quanti di noi lavorano alla centrale delle
Ombre?"
Guardò il compagno. Era ingrugnito. Poi le sue labbra sottili si
distesero. "Quanti ne abbiamo, Kano?"
"Quanti ne bastano."
"E allora falli lavorare. Voglio sapere quante Ombre sono entrate
nella villa, domenica sera, quante ne sono uscite, e dove sono
andate."
"Non sarà facile. Io ho solo qualche amico, laggiù: ma ti farò
sapere."
L'automa lì aveva ascoltati indifferente, come in preda a una
trance metallica, un metro più in là. Si mosse all'improvviso, rollò sul
cuscino d'aria e scivolò via. Qualcuno aveva bisogno di lui altrove.
Lorna guardò la sua sagoma tozza, soltanto vagamente antropoide,
che si allontanava. "Chissà cosa gli frulla, in quelle teste di latta,"
disse. Poi si volse ancora a Kano: "Hai tempo fino a questa sera. Ci
vediamo al Calibano, all'ora di cena. Voglio i nomi: fa' parlare i tuoi
amici, pagali o pianta loro un coltello nella pancia."

Kano prendeva il cibo con le mani, dalla tazza di peltro: i bocconi


di soia erano immersi nella salsa scura, e l'olio gli sporcava le labbra
e le dita. Altre volte Lorna aveva sorriso, guardandolo: adesso era
teso, l'angelo avrebbe potuto trillare, e alla Cattedrale si sarebbero
accorti che quella sera Lorna cenava al Calibano. Non era un peccato
mortale, né contro la legge degli squali, però avrebbe potuto destarsi
all'improvviso anche l'angelo di Kano…
"Sbrigati. Non voglio che sappiano che stiamo qui, insieme."
L'altro alzò gli occhi: aveva il viso stretto e lungo, pieno d'ossa
sporgenti, le labbra piegate in basso, l'antica ferocia trasformata in
stanchezza. "Cosa vuoi fare?"
Lorna sbatté il pugno sul tavolo. "Allora?"
"Tre Ombre sono entrate nella villa sul picco. Due sono ancora là:
una è quella del… morto, l'altra è di sua moglie." Sfilò dalla giacca
una piastrina di celluloide chiara. "Pat N'goa," lesse "Le Ombre sono
nel guardaroba, spente."
"E la terza?"
"Appartiene a una persona importante. È uscita dopo la
mezzanotte. Sembra regolare."
"Kano, chi stai cercando di proteggere? Il terzo è l'assassino.
Anche uno come te lo capisce. Chi è?"
"Omar Khayam, lo scrittore."
Lorna rimase immobile, i gomiti piantati sul piano del tavolo. La
taverna aveva il pavimento coperto di legno, e sul parquet i passi
dell'oste rintronavano. Era di un palmo più alto di Lorna, e grosso
come un lottatore. Tanti anni prima s'era fatto trapiantare sulla faccia
glabra una barba ispida che adesso era color del ferro e, raccolta in
una crocchia sul petto, spenzolava a ogni passo. Non la tagliava da
molto tempo. Lorna si chiese perché gli avessero consentito di tenere
appesa al mento quella matassa: gli uomini non amavano i baffi e le
barbe addosso agli squali, in genere. Con la barba, un pesce
somigliava troppo a un uomo… cosa dava, quell'oste, in cambio?
Attese che si fosse allontanato, con le mani unte e colme di
stoviglie. "Sei sicuro?"
"Sicuro, Omar. Ma saperlo non significa niente. Avrai bisogno di
una registrazione, o di un nastro, di una prova che anche gli uomini
possano toccare. Sempre che lo vogliano. Non sarà facile averla e,
senza quella, la tua parola sarà… acqua corrente."
Lorna prese con le dita un boccone di soia dal piatto del
compagno. Masticò lentamente. "Vedremo. Ora dobbiamo scoprire
chi sono i nemici di questo Omar. Non dovrebbe essere difficile, in
fin dei conti."

Scelse il cappuccio consueto, di panno nero con gli occhi trapunti


di perle e lo Strass che scendeva fin sugli omeri. Lo calzò davanti ai
battenti spalancati, di pietra graffita, calcandolo bene in capo, ed
entrò.
La giovane venditrice, in piedi accanto al banco delle maschere,
guardò l'uomo che seguiva Lorna nella fila, altero e imponente sotto
l'ombrello d'Ombra, e gli sorrise con la faccia da ruffiana dipinta
d'oro. "Se vuoi indossare un cappuccio dovrai spegnere l'Ombra."
L'uomo alzò davanti agli occhi una bautta di pizzo nero, che aveva
portato con sé. "Basterà questa," disse.
Lorna gettò una moneta d'argento nella cesta d'alghe intrecciate,
sul tappeto oltre la porta. La mano che teneva le tende scostate
ricadde, e nella stanza restò il buio fitto, tranne che in un canto
appena rischiarato da candele che sapevano d'oppio e di limone.
"Bentornato."
T'ho fatta ricca, eh, vecchia, a venire ogni settimana qua dentro,
con il mio argento? Ma, se ogni volta ritorno, ci sarà pure un motivo,
no? La strega-squalo era accovacciata, apparentemente scomoda, sui
talloni, il volto velato, vicina a un tavolino d'osso laccato. Anche
Lorna si acquattò: non era mai riuscito a vederla in faccia. Gli era
venuta spesso la voglia di tirar via quel sipario di garza nera,
strapparglielo dalla faccia, ma ogni volta aveva rinunciato: tanto
ritornerò…
"Cosa vuoi sapere?"
"Oh, domani, dopodomani, la settimana intera. Può essere
importante, per me."
"Il futuro è sempre importante, e tutti i giorni hanno lo stesso
valore: sono come i grani di un rosario. Soltanto se ci sono tutti, la
catena ha un senso…"
La strega raccolse nella mano tre dadi. Teneva gli occhi fissi sulla
maschera nera che copriva la faccia di Lorna: poi fece rotolare i dadi
sul piano del tavolo: erano consunti, e l'avorio era affumicato di
giallo. Rimbalzarono, si fermarono. Le facce quadrate, in alto,
mostravano tre figure, incise con il bulino e tinte di smalto: il re in
rosso, il fante nero, la donna in rosso.
Lorna osservava la figura della strega: aveva il corpo piccolo,
vecchio, eppure pieno di energia. Quanti anni ha costei? Solo le
mani, secche, avrebbero potuto indicare un'età avanzata, ma non
certo gli occhi così sani e vivi.
A Lorna non piacevano i dadi. Preferiva le cose più solide,
tangibili, sicure, che non rotolavano su un piano: invece nei dadi il
suo destino era in balia di tre figure e tre colori, il re, il fante e la
regina, il nero, il rosso, il giallo. Così il futuro era affidato soprattutto
alla buona volontà della fattucchiera (ma le streghe e i tarocchi
leggono il futuro, o lo determinano?)… però quella chiromante
l'aveva trattato sempre bene. Per questo ci tornava.
"Il re in rosso, e la donna dello stesso colore vogliono dire molte
cose, in genere buone cose."
"In genere… e il fante nero?"
La sala era grande. Dal soffitto e sulle pareti pendevano i tappeti,
arabescati e pieni di polvere. "Il fante nero può essere buono, o
terribile." La strega indicò la faccia degli altri dadi giocati, il re e la
donna. "Dipende dai suoi compagni di sorte."
"E allora, cosa vuol dire, adesso?"
La strega tacque. Raccolse i dadi con la mano aperta, e li gettò
ancora sul piano del tavolo. "Si può sempre sfidare due volte la
fortuna," disse. Poi guardò i dadi, e trasali: il re in rosso, fante nero,
donna in rosso. Ancora. "Mi dispiace."
Lorna si alzò. Sentiva i muscoli delle cosce indolenziti e doloranti.
Che importa, non sempre le frottole fanno piacere… "Non ti
inquietare vecchia," disse, camminando piano a ritroso. Ecco, ancora
un po' d'argento perché ti passino smanie e preoccupazioni. Quante
probabilità ci sono che i dadi rotolino sul tavolo mostrando la stessa
faccia una, due, magari tre volte?
"Ti sei cacciato in un vicolo cieco, questo dicono i dadi. Quale
vicolo, Lorna?" squittì la strega.
Lorna gettò un'altra moneta nella cesta: quella finzione stralunata
l'aveva messo di cattivo umore. Vorrei proprio sapere come fai, a
preparare i tuoi indovinelli. E poi, perché te la pigli tanto, vecchia?

C'era sulla faccia di quell'uomo il colore della morte. Avrà


cent'anni, pensò Lorna, ha più anni di questa città, ci ha visto nascere
tutti e ci vedrà scomparire.
Nella poltrona alta e soffice le membra di Gy Mamoudy
sembravano ancora più esili: aveva i capelli bianchi e duri, corti,
spazzolati indietro, i lineamenti del viso persi nelle rughe, il naso
affilato. Faceva rotolare fra le dita ossute un uovo d'alabastro. Era il
suo unico movimento.
Lorna guardava come ipnotizzato quel corpo smilzo, ma non
fragile. Gy Mamoudy si lasciò osservare a lungo, prima di parlare, e
guardò a sua volta lo spazzino, senza apparente curiosità. Il gran
corpo dello squalo lo sovrastava. Indicò una poltrona di fronte alla
sua. "Siediti," disse.
Cosa vuole costui? si chiese Lorna. Non era mai entrato in
quell'appartamento, né era mai salito così in alto, sui grattacieli.
Dalle finestre velate d'una seta sottile aveva potuto scorgere i tetti
degli altri palazzi e la casbah, come una macchia scura sul fondo
della città.
Le stanze sembravano deserte: c'era ovunque silenzio, e
penombra. Udì, in un corridoio lontano, il fruscio d'un automa che
scivolava sul suo tappeto d'aria.
"Pensi che il colpevole sia un uomo, vero?" disse Mamoudy.
Lorna trasalì. Era come se avesse parlato un robot, una statua
meccanica. Gli occhi dell'uomo erano rimasti immobili, dritti
addosso a lui, e oltre lui. "Mi hanno riferito delle tue indagini, finora,
e delle tue intenzioni. Vorrei sapere anch'io come andrà a finire. Sono
curioso."
E perché mai ti interessi a questa storia? chiese Lorna, dentro di
sé. "Ci sono indagini che uno come me non può compiere," rispose.
"Potessi fare ciò che voglio, forse la tua curiosità sarebbe esaudita."
Sceglieva con cura ogni parola, e ne sentiva il suono dentro di sé,
mentre la pronunciava. In quella casa c'era odore di sciagure, e lui
non voleva tirarsele addosso, scendendo dal filo del rasoio. Cosa
vuole costui? tornò a domandarsi.
Gy Mamoudy scivolò dalla poltrona damascata: era ancora più
piccolo, ritto sul tappeto di porpora e d'oro, con l'abito simile a una
veste talare che cadeva dritto sul pavimento (per un attimo somigliò a
una vecchia donna, come la strega della casbah), e camminò verso un
uscio socchiuso.
L'aprì, si volse rigido come un manichino e chiamò, a voce bassa:
"Vieni qui." Lo squalo gli andò accanto. "Entra."
Entrò. La luce era fioca, e pioveva sulla moquette del pavimento e
delle pareti attraverso il filtro d'una tenda chiara, tesa sulla finestra.
Lorna guardò la donna: era seduta su un dondolo di legno antico, e la
cuffia le stringeva le tempie dove un'arteria blu era gonfia e pulsava.
Lady Mamoudy stava sognando.
Un groppo gli chiuse la gola: gli occhi della donna erano due
buchi d'arsura, le orbite scavate da un fuoco che sembrava esser
sceso fin dentro il cervello. Era come uno scoiattolo inchiodato su
un'altalena che si muoveva piano, su e giù. Nel braccio sinistro una
piccola fiala trattenuta dalle bende gocciolava lo psicodin nelle sue
vene.
Lorna sentì una mano fredda stringergli il polso: non più d'una
dozzina di persone l'avevano toccato in quella maniera,
all'improvviso, senza rimetterci la vita. Ma non reagì, e si lasciò
condurre ancora nel salone.
Mamoudy era solo una mummia viva, adesso, grottesca nel suo
abito talare. Disse: "Se fossi sicuro che è stato uno squalo, a ridurla
così, raderei al suolo la casbah, e manderei i tuoi figli a vivere nelle
grotte, sui picchi. Ma non posso farlo, finché ho il dubbio che sia
stata opera d'un… uomo. Cosa ti serve, per scoprirlo?"
Nella stanza, contro la parete di fondo, c'era un acquario
immenso: nell'acqua verde i pesci si muovevano piano, agitando
appena le pinne piumate. Due predatori si azzannarono, impazziti: la
luce diventò torbida per un momento, poi il sangue rosa salì alla
superficie. Gy Mamoudy osservò i piccoli pesci. Non sono che un
pesce, per lui, pensò Lorna, anche se adesso gli sono utile. Nulla più
di un pesce d'acquario.
"Devo poter salire sul picco, nella villa," disse.
"Troverai il permesso domattina, sul tuo tavolo. Ma non ti servirà
molto. Lady Mamoudy è stata lassù, l'ultima sera di Carnevale. È
lassù che l'abbiamo trovata così… mutilata. Eppure dai registri della
sua Ombra non potresti ricavare nulla, lo ho fatto cancellare ogni
cosa: sono le trappole del potere. Forse anche altre registrazioni sono
state manipolate."
"Può darsi. Ma una volta che la superficie del ghiaccio è stato
infranta, è più facile pescare di sotto."
Le rughe sul viso del vecchio parvero distendersi un poco. Sorrise.
"Se non riuscirai a dimostrare che il colpevole è un uomo, sarai
ucciso, per il sacrilegio d'averlo pensato… ma se ci riuscirai, troverai
comunque un altro uomo disposto a chiuderti per sempre la bocca.
Adesso vattene: voglio presto tue notizie".
IV

Era stato fin troppo semplice, buttare giù la porta. Rame, ferro
nero e battuto, gli stipiti e l'arco di pietra, l'ariete meccanico aveva
infranto tutto al primo colpo. Lorna aveva alzato la mano destra e
Kano, ritto sulla ruspa, aveva avviato il motore.
L'uscio s'era schiantato e le schegge erano volate intorno. Lorna
sperò che l'eco di quel rumore non rotolasse fino in città. Strinse nel
pugno la piastrina sigillata: nel microfilm era registrata
l'autorizzazione a violare l'ingresso della residenza intestata a
Valdemaro N'goa, uomo. Non c'era scritto nulla, di "come" farlo.
Lorna avrebbe potuto fondere i battenti, o inserire nelle serrature a
pressione le mani mozzate di Valdemaro. Avrebbe potuto essere
facile.
Invece c'era voluta mezza giornata, per far salire la ruspa lungo la
strada che si torceva sul pendio. Ma ora la porta stava in terra,
spezzata, sotto gli occhi a 28 millimetri d'un robot che registrava
ogni immagine e non interveniva a fermare quel disastro perché nel
suo cervello un impulso continuava a ripetere soltanto
l'autorizzazione a violare la residenza di Valdemaro N'goa, e non
aggiungeva nulla, di "come" farlo.
"Basta così, Kano."
L'ariete rombò, e trasse indietro la pala d'acciaio. Lorna raccolse
un frammento di rame slabbrato. Era la prima volta che uno spazzino
entrava a quel modo in casa d'uomini. Lo mise in tasca.
"Dentro. Non fate rumore, non rompete niente. Fotografate ogni
cosa. Se trovate in giro bicchieri, nastri dei sogni, altre cose che
abbiano addosso impronte neurodigitali, adoperate le strisce… un
momento, ancora. Lasciate fuori le armi."
Kano ritirò i fulminatori, e i manganelli. Li gettò nella cabina
dell'ariete meccanico, ed entrò nella villa per primo, camminando
curioso e timoroso, chino in avanti come una mantide, Lorna lasciò
che sciamassero dentro tutti: era come profanare una chiesa, e quasi
nessuno se ne accorgeva. Stupidi. Tutti.
Entrò. La casa era graffiata dentro la roccia, proprio sul sommo
del picco più alto. Dall'ingresso, un salone tondo con il pavimento
scalpellato nel granito, si sperdevano i corridoi, lunghi tunnel
d'ombra, i tizzoni di legno profumato ormai spenti nei bracieri, e
ognuno portava a una sala più piccola, in salita e in discesa come in
un grande formicaio.
Lorna udì lo strepito degli squali che si rincorrevano: le torce
elettriche facevano luce sui mosaici dei muri, poi qualcuno scovò gli
interruttori e le lampade si accesero, in ogni angolo.
Lorna sostò davanti a una parete: il granito era smerigliato, e
l'intero corridoio luccicava come un grande specchio concavo.
Guardò il proprio volto riflesso in alto, gli occhi grandi, pieni d'acqua
verde. Quella casa lo riempiva di curiosità. Ma aveva altro da fare,
prima. "Cercate nel guardaroba, e nelle stanze intorno, le cinture
delle Ombre. E armi, se ce ne sono. Voglio sapere se in casa ci sono
armi," gridò.
Gli portarono una manciata di strisce gommate. "Impronte. Di là
ci sono gli avanzi di una festa, coppe, una brocca di psicodin ancora
mezza piena. Vieni."
Seguì Kano nel salone più grande. Il tavolo era stato preparato per
quattro. Ma quanto tempo prima? Piuttosto, quattro erano le coppe, e
le poltrone. "Vediamo," disse, a voce alta. "Una è per il morto. L'altra
per lady Mamoudy… almeno, così dice Mamoudy. Una, immagino,
per l'assassino. E l'ultima?"
Quanto era stupido quel lavoro, e quanto sprecati i suoi timori.
Forse era solo un divertimento crudele, una burla che qualcuno gli
faceva. E, forse, avrebbe dovuto chiamare la fattucchiera: con dadi e
tarocchi, magari, l'assassino gli sarebbe cascato fra le braccia. Ma
c'era il morto là sotto, le piaghe sulla faccia di lady Mamoudy, e
l'Ombra di quell'Omar. Gli uomini volevano una verità: e lui
gliel'avrebbe data. Non importava quale, in fondo.
"Lorna," chiamò una voce da un corridoio.
Alzò la testa.
"Qui, nel guardaroba."
Si volse e tornò nel tunnel degli specchi. Kano teneva in mano due
bandoliere: una d'argento, con le borchie e le fibbie pesanti. L'altra di
filigrana, più leggera, ricamata di bianco, una cinta da donna.
Agganciati a entrambe, i piccoli generatori delle Ombre. Kano aveva
sfilato le bandoliere dai ganci del guardaroba, e le guardava
incuriosito.
Quando Lorna le afferrò, Kano tirò un sospiro. "Se me la infilassi
io, una di queste cinture?" chiese.
"Friggeresti, vivo come sei. Uno sbuffo di fuoco e addio Kano…
non so come funziona, ma è così."
L'Ombra di Valdemaro era quella, dunque. E l'altra, quella da
donna? Sospirò a sua volta, e scosse il capo. Imbecille. Gliel'aveva
ben detto Kano, il giorno prima. Pat N'goa. E dov'era finita, quella
donna.
Una voce gridò ancora, stridula, da una terrazza.
La donna stava là, vicina all'architrave sbrecciato dal laser, morta
a braccia aperte, gli occhi in su. Lorna la rivoltò, spingendola con un
piede: la lama di fuoco le aveva scavato un buco nella schiena, fino
alle ossa. L'abito bianco era pieno di sangue secco.
Rovistarono in tutte le stanze, come topi, frugarono negli angoli,
perfino tra i diari, i nastri e i libri della biblioteca, ma non trovarono
il laser. "Non è in casa, assolutamente," disse Kano, quando tutti se
ne furono andati.
Lorna aveva schermato le lampade, e le luci si erano smorzate.
Rifletteva, le spalle contro una parete e gli occhi fissi sulla città (al
tramonto i soli cambiavano di colore, dal bianco all'arancio, e
s'affievolivano). A chi appartiene l'arma di questo secondo delitto? E
la mano che ha piantato il coltello nella schiena di Valdemaro, è la
stessa che ha sparato con il laser, la stessa che ha ucciso Pat e,
probabilmente, accecato la piccola Mamoudy?
La cintola stretta l'infastidiva e, ora che non c'era più nessuno,
poté sganciarla e gettarla su un cassettone. Sedette. "Vieni qui, Kano.
Cerchiamo di adoperare la testa. Credo che qualcuno voglia servirsi
di noi, come pedine di un gioco che ancora non capisco. Cerchiamo
di evitarlo. Prima troviamo l'assassino, meglio è."
Avevano steso la donna su un'asse lunga e sghemba, le braccia
irrigidite lungo i fianchi, l'abito sporco di polvere e sangue, e
l'avevano portata via. Lorna l'aveva osservata a lungo, il viso pallido
spruzzato di lentiggini piccole e dorate, il naso dritto, i capelli rossi
come una gran fiammata sulle spalle seminude. Le aveva chiuso gli
occhi, passandole le dita sul volto. Occhi opachi ormai, ma ancora
verdi. Di una donna così mi potrei innamorare, aveva pensato. Per un
attimo se l'era immaginata viva, contro il suo ventre rugoso: ma una
donna così l'avrebbe respinto come una bestia piena di rogna.
"Portatela via," aveva gridato.
Ma s'era calmato subito, aveva inghiottito la rabbia e detto a
Kano: "È stato un uomo a sparare. Non c'è dubbio. Nessuno di noi
sarebbe stato ammesso, a Carnevale, a una festa di uomini, tranne
qualche valletto fedele. Forse è stato lo stesso uomo che ha tirato il
coltello. Ma bisogna dimostrarlo, e non mi sembra facile. Voglio
l'elenco di tutti i laser in mano agli squali."
Kano socchiuse gli occhi, con malizia. "Quelli legali…" sorrise.
"Soltanto quelli legali contano, per gli uomini."
"Si può fare" disse Kano. "Non credo che siano molti, in fin dei
conti. Cento, centocinquanta al massimo, compresi quelli più vecchi.
Nella casbah si adopera il coltello, più che il laser."
"Voglio sapere quanti laser, dei nostri, hanno sparato la notte di
Carnevale. E quali. È possibile?"
"Credo di sì," disse Kano. "Il caricatore dovrebbe portare il segno
di ogni scarica, di ogni colpo insomma. Basta sequestrarli tutti, o
chiedere che li portino alla centrale, per un controllo. Chi non ha
niente da temere lo farà subito. Ma ci vorrà un po' di tempo…"
"Voglio dimostrare che qui nessuno squalo ha sparato, la notte di
Carnevale. E che, quindi, possono aver sparato soltanto gli…"
"Come fai a saperlo?"
"Non lo so. Lo spero."
Lorna s'alzò, traversò il salone e uscì sulla terrazza: incominciava
a far freddo, fuori. Sentì l'odore della città: gli squali sentivano gli
odori, e spesso dal sudore, dal sapone e dai cosmetici distinguevano
un uomo da un altro. Distinguevano, a volte, gli uomini a occhi
chiusi. Ora la brezza dei ventilatori spingeva fin sul picco l'odore
della città, salato, aspro come i limoni in fiore sulle terrazze più alte.
Un velo di nebbia s'era avvolto intorno ai grattacieli. Lorna
s'avvicinò al parapetto e guardò sotto, nell'abisso dove Valdemaro era
rotolato come un uccello dalle ali mozzate.
"Nella mia stanza, alla centrale, nel terzo cassetto a sinistra, c'è il
pugnale che abbiamo tirato fuori dalla schiena di quell'uomo. Cerca
le impronte e fammene una copia, per domani. È un coltello da
uomo, ma non vuol dire che sia stato un uomo a usarlo. Se però le
impronte fossero quelle di Omar…"
"E come potrai controllare, poi? Non ti lasceranno mai entrare
nell'archivio degli uomini."
Lorna si volse: la luce dei soli si rifletteva dal cielo sull'alabastro
della terrazza. "Questa è un'indagine piena di illegalità," sorrise. "È
tutto così strano: uno squalo che va a caccia di un uomo… pensaci.
Non ha senso. Eppure è questo il mio vantaggio: posso fare quello
che voglio, tanto sono già nell'inferno e più in basso non possono
cacciarmi. Quelle impronte, ce le prenderemo."
Rientrò e sbarrò le finestre, con cura. Sul pavimento era rimasta
una macchia di sangue secco, grande come il palmo di una mano.
Cercò di raschiarla con la punta d'uno stivaletto. "Fa' pulire qua
dentro, e metti una guardia alla porta," disse a Kano. "Vorrei anche
sapere cos'ha fatto, dopo il… delitto, Omar Khayam. Ora per ora, con
precisione. Sempre che anche la registrazione della sua Ombra non
sia stata alterata."
Mentre scendeva dal picco, nella jeep, ripensò al volto della donna
bianca: aveva visto una faccia come quella, qualche giorno prima, in
un sogno.
Aveva paura, e Kano glielo leggeva in faccia, dentro le guance
infossate e rasate male, e nello sguardo che scivolava continuamente
verso la porta dell'osteria.
Ma Kano era impaziente: aveva già riempito e svuotato il
bicchiere, tante volte, e sentiva il sidro da quattro soldi bollirgli
dentro lo stomaco. "Cerchiamo di fare presto," disse, scuotendo la
caraffa ormai quasi vuota. "Non sono venuto qui per perdere tempo."
"Nessuno deve sapere da dove ti arrivano queste informazioni,"
disse l'altro. "Per nessun motivo."
"Certo, Lo abbiamo già stabilito, questo: ora sbrigati, però."
"Soltanto un tecnico delle Ombre può averti detto queste cose,
sarà facile risalire a noi… a me."
Kano bevve ancora, un sorso breve, e schioccò le labbra.
"Sbrigati, o te ne farò pentire," sibilò.
La voce del tecnico si abbassò, soffiò quasi, come in un gemito.
"L'Ombra di Khayam non è stata manomessa. La registrazione è
integrale. È uscito da quella casa, lassù, ed è tornato subito al suo
appartamento. A piedi. Abbiamo tutto il tempo di accensione
dell'Ombra, dopo la mezzanotte. Non più di un'ora in tutto." Sfilò da
una tasca interna della giacca una scheda di metallo che portava
impressi numeri, in una lunga serie, e simboli che lui non aveva mai
visto. La spinse sul piano del tavolo, verso Kano, nascondendola con
la mano aperta quando l'oste massiccio, la barba arrotolata nella
consueta treccia sul petto, passò accanto a loro. "Questa è la matrice
della registrazione. Stasera deve essere nuovamente al suo posto."
Kano annuì. La prese fra le mani, la rigirò, poi tolse di tasca una
striscia di cartone metallizzato e la schiacciò contro la scheda. Poi la
restituì. "Ecco," disse. Numeri e simboli erano rimasti impressi sul
foglio. "Da questa copia posso tirar fuori tutte le informazioni che mi
servono, senza pericolo per nessuno. È rudimentale… ma funziona."
Negli occhi dell'altro passò una ventata di sollievo. Prese il
bicchiere, fece per riempirlo, ma dalla brocca caddero solo poche
gocce. Kano alzò una mano verso l'oste che li osservava, piegato su
un altro tavolo da sparecchiare. "Un'altra caraffa," disse. Perché li
guardava così? Si rannuvolò. "Ancora una cosa: vorrei che tu
controllassi anche la registrazione dell'Ombra di lady Mamoudy,"
mormorò.
"Be', è più semplice, se non devo portarla fuori di là."
"No, non è semplice, perché non è la registrazione archiviata,
quella che io voglio. Alla Cattedrale ce n'è una copia falsa. Ce l'ha
portata qualcuno, il giorno dopo Carnevale. Io voglio quella vera…
deve pur esserne rimasta una traccia, da qualche parte. Trovala, e
fammi sapere cosa conteneva."
L'altro scosse il capo, attese finché l'oste ebbe versato altro sidro
nei bicchieri, e l'osservò mentre si allontanava ciondolando. Bevve,
sporcandosi di spuma il labbro superiore. "Non posso assicurartelo,
questo. Ma ci proverò." Poi s'alzò, spingendo indietro lo sgabello.
"Resta qui ancora un po'. Meno gente ci vede insieme, meglio è."
Kano sorrise. Sulla sua faccia il riso sembrava inconsueto. "Finirò
di bere, prima. Tu fila via."
D tecnico uscì: la porta della taverna si apriva su un ballatoio al
primo piano, una ringhiera su un vicolo pieno di odori dolciastri e
fumi, soffocata dalle tende di plastica tese da una finestra all'altra,
dalla paglia d'alghe e dai fogli di lamiera che spiovevano dai tetti
rosi. Sopra, l'insegna bianca e rossa, "Calibano", era consumata dalla
ruggine.
Non era semplice lavorare per Kano, ma avere amici fra gli
spazzini gli avrebbe portato buono, prima o poi. Incominciò a
scendere i gradini sconnessi, reggendosi al corrimano.
Il primo colpo lo prese quasi di striscio, sulla tempia. Sentì un
lampo di dolore e d'allarme corrergli lungo la schiena, si volse e il
secondo colpo gli si abbatté sulla faccia, di traverso sullo zigomo
sinistro. Fece in tempo a vedere il profilo scuro del suo assalitore, poi
il mazzuolo lo prese in fronte, le forze lo lasciarono con il suono
delle ossa infrante, le dita scivolarono sulla ringhiera e lui cadde di
sotto, sbattendo la faccia sui gradini della scala di ferro.
"Basta così. Frugalo adesso, e portami su quello che gli trovi
addosso. Dovrebbe esserci una piastra di ferro, o di alluminio, o
quello che diavolo è. Ci serve assolutamente. Poi buttatelo in qualche
vicolo e inzuppatelo di alcool… come un ubriaco pestato in una
rissa," disse l'oste sul ballatoio. Sorrise e tornò dentro, pulendosi le
mani in un cencio chiaro.

Premette tanto che l'asticciola stridette e la carta si stracciò. Fece


una palla crocchiante con il foglio, la gettò al suolo, sul tappeto, e
incominciò a scrivere di nuovo. Stringeva la matita fra il pollice e
l'indice, dritta, ed era come se le parole gli scorressero giù, dentro il
braccio, fin nelle dita. Era meglio che dettare al registratore: quando
parlava nel microfono il nastro girava e il sogno rimaneva lì,
congelato. E poi bastava inserire il nastro, o una qualsiasi sua copia,
in una cuffia, e i chip leggevano le parole e le cambiavano in
sensazioni e sospiri, e la gente sognava…
Scrivere il sogno sulla carta era diverso, invece. Alzava gli occhi e
vedeva il foglio intero, lo leggeva tutto, la grafia piccola e tonda, il
sogno tutto insieme, nelle righe precedenti. Sostituiva una parola. Ne
cancellava altre, e il sogno cambiava. Tutte le immagini
s'accostavano e si sovrapponevano, come in un caleidoscopio, fino a
che non ne restava una sola. E allora poteva leggerla in quel
microfono, talvolta la recitava, e quelli erano i sogni d'arte.
La matita si spezzò: i muscoli dell'avambraccio gli facevano male,
i tendini del polso s'erano fatti duri e indolenziti. Chissà, rise, forse
gli sarebbe anche tornato il piccolo callo sul dito medio, dove la
matita appoggiava. L'aveva avuto come tutti, da ragazzino. Poi il
callo s'era sgonfiato e lui s'era fatto adulto.
Omar ammucchiò i fogli sul piano della scrivania, fece la punta
alla matita con una lama sottile, e soffiò i trucioli sul pavimento.
Aveva già riempito quindici pagine, con quel sogno. Quanti minuti
erano, sul segnatempo del nastro? Tirò una somma, su un pezzo di
carta. Meglio i sogni lunghi, che riempiono tutta la notte. Ma da
molto tempo non produceva che mozziconi d'incubo, visioni
sbocconcellate più brevi di un'ora, violente, piene d'erotismo, visioni
tirate fuori dalla sua memoria vera. Era molto tempo che non
scriveva più una storia compieta. Un'avventura… gli sarebbe
piaciuto… ripose lo stilo.
Era una settimana ormai che cincischiava: avrebbe dovuto dar
fuoco a tutta quella carta, soffiare la cenere sui tappeti e pensare, di
nuovo, un'altra storia. Stava scrivendo un sogno pieno di sensazioni
sottili, sensazioni sotto la pelle, per romantici ammalati, sensazioni al
crepuscolo. La gente non vuole un'anima piena di sussurri, però;
vuole sentirsi la testa piena di grida, il sapore acre di sangue contro il
palato, e svegliarsi la mattina svuotata d'ogni desiderio.

"Posso parlare con te? Non ti chiedo che un paio di minuti, del tuo
tempo prezioso." Quelle parole gentili suonavano male, sulla bocca
sguaiata dello squalo. Omar guardò lo specchio che s'era illuminato e
non rifletteva più la sua immagine, ma proiettava quella d'uno
spazzino — almeno così sembrava, dall'uniforme — con le braccia
robuste, e l'impugnatura d'un manganello fra le mani. Non accadeva
spesso che un uomo fosse chiamato al video T da uno squalo. Non
rispose subito, e l'osservò incuriosito: la chiamata veniva dalla
casbah, forse da un posto pubblico. Sfocata, vedeva la forma d'una
panchina stinta, la vernice sfogliata dalla ruggine e dal sale.
"Sei Omar Khayam, immagino, lo scrittore dei sogni…"
Omar annuì. Vedeva bene che l'altro era eccitato. Fece un passo, si
accostò quasi a sfiorare lo specchio: fossero stati in strada, così,
l'Ombra avrebbe bruciato come cartapecora secca la pelle dello
squalo. Ora, invece, erano come due pesci carnivori appena separati
dal vetro d'un acquario.
Era quello, dunque, il fantasma che aveva cominciato a
perseguitarlo, per ordine di chissà chi?
"Ci incontriamo, alla fine," disse Omar. "So che sei stato tu," disse
lo squalo.
Non aveva esitato. Colpiva dritto. Non aveva rispetto. Anche
Lorna fece un passo, andando quasi contro l'obiettivo del video T
pubblico, e Omar vide il suo volto deformato, per un attimo, dalla
lente convessa.
"Forse non mi sarà mai permesso di provarlo. Però ho già qui…"
disse Lorna, e si batté la mano sinistra sul petto. "Le Ombre lasciano
sempre la loro impronta, lo sai. E qui c'è tutta l'ultima sera del tuo
Carnevale."
Omar sentì un brivido morderlo nelle reni. Poi sorrise: poteva
aspettarselo, quello. "Non significa nulla."
"Oh, lo so bene. Però… chi mi ha fatto avere questo, è morto
soltanto due ore fa." La faccia dello squalo era diventata terrea, di
cera, come quella d'una statua. "Forse un morto significa qualcosa di
più."
"Un'Ombra non parla. Tu sai soltanto che io sono andato al picco,
quella notte. E che ne sono uscito, più tardi. Se qualcuno me lo
avesse chiesto, l'avrei spiegato io stesso, forse… A un uomo,
naturalmente."
Lasciò cadere le ultime parole come gocce di veleno. "Io,
piuttosto, conosco molte cose di te." Fece un gesto breve, in tondo,
con la mano destra. "È un piccolo mondo, questo… Lorna." Lo
squalo sussultò, sentendo il proprio nome. Omar sussurrò: "Fino ad
ora ho scherzato. Ho accettato di parlare con te perché era una cosa
nuova, divertente, più o meno un'avventura. Ora basta: so bene che
tu, quasi ogni notte, consumi dei sogni che non ti spettano. Ognuno
ha la sua droga. So perfino dove vai a goderteli, questi sogni…"
Rise: "A ogni scrittore piace conoscere i lettori che lo apprezzano."
La maschera di cera restò muta. "Potrei farti finire nei forni della
Cattedrale. Posso venire nella casbah, e sbattere con la mia Ombra
sui muri, friggere gli intonaci, bruciare tutto… e invece aspetterò,
semplicemente, perché è un gioco che incomincia a divertirmi.
Provaci tu, ad accusarmi."
Finalmente Lorna rise. "Non ho soltanto questa registrazione, con
me," disse.
"Sai che soltanto un uomo può…"
"Certo. Ma io gioco con te a carte scoperte. Ho già il tuo coltello,
sai, l'abbiamo tirato fuori noi dalla schiena di Valdemaro. E poi ho le
tue impronte… in questo momento qualcuno le sta confrontando con
quelle che abbiamo trovato sul pugnale," mentì Lorna, quasi
distaccato, ma teso dentro come il ferro di una balestra. "Se sono
uguali… forse non significherà niente nemmeno questo, ma a forza
di tirare somme qualche totale lo avremo. Anzi, lo avrà chi ce l'ha
ordinato."
Senza accorgersene neppure, Lorna aveva portato di nuovo la
mano al petto: nel palmo, contro la stoffa, sentì la piastra sottile della
registrazione… e si sentì più tranquillo. Era il momento del bluff,
aveva in mano buone carte ma non conosceva quelle dell'avversario.
Forzò il gioco: "E se le tue impronte risultano uguali a quelle
impresse sul coltello…" lasciò il discorso appeso nello specchio,
minaccioso. Se Omar avesse controllato, se soltanto avesse chiesto
una verifica video T alla Cattedrale, sarebbe stata la fine per tutti.
Invece l'uomo si incollerì: "Come hai avuto le mie impronte?" gridò
nello specchio. "Come ti è stato permesso?"
"Non è stato difficile," disse Lorna, e si tirò indietro, come se
Omar avesse potuto balzar fuori dallo specchio, e l'immagine dello
squalo rimpicciolì. Omar batté a palme aperte sui pulsanti, in basso
lungo la cornice, e Lorna diventò un fantasma di luce e svanì.
Lo specchio restò nero, a rimandargli la sua faccia pallida, senza
trucco. Omar l'accese di nuovo, premendo con violenza sulla tastiera,
e il tondo lucido si fece di nuovo chiaro. Era ancora lì, con l'aria di
sfidarlo… Lorna sapeva che lui avrebbe acceso ancora, e l'aveva
aspettato. Puntò la mano verso la sua immagine. "Bada, spazzino,"
sibilò. "Fra dieci minuti sarò lì. Fa' che io non ti trovi."

Il lucidatore scivolò nell'anticamera sul cuscino d'aria. Il valletto-


squalo gli andò dietro, pilotandolo per il timone lungo e sottile.
Doveva far presto, prima che l'uomo rientrasse e che
l'elettrodomestico, terminato il lavoro, tornasse a spiarlo con il suo
monocolo.
Odiava le macchine almeno quanto gli uomini. Quella macchina.
Se l'immaginava, con tutte le sue valvole o quello che diavolo erano,
a fabbricare pensieri, a guardarlo — e magari gli vedeva dentro, sotto
i vestiti, in testa e nella pancia, e andava a riferire agli uomini perfino
quello che lui aveva mangiato a mezzogiorno — e se l'immaginava
maligna. Come tutte le altre.
Le macchine le hanno inventate tutte gli uomini, quindi non sono
certo cose buone e, certo, non stanno dalla nostra parte. Quando gli
dicevano che questa era schizofrenia, schizofrenia da curare, lo
squalo sorrideva e faceva finta di nulla.
Attivò il lucidatore e lo pilotò nella stanza grande. Ronzava e
gracchiava… avrebbe dovuto cambiargli l'intero schema delle
spazzole. Poi tornò nell'anticamera. Frugò nella tasca, sulla pettorina
della tuta da lavoro, ne estrasse uno spruzzatore e lo puntò sullo
specchio: una nuvola chiara velò il cristallo, e il bordo della cornice.
Lo squalo incollò una striscia gommata sulla cornice e sulle pani
più esterne dello specchio, attese un istante, e tirò.
La striscia venne via con un rumore di carta stracciata. Lo squalo
l'arrotolò entro un tubetto di latta e compose un numero, sulla tastiera
dello specchio.
Lorna gli apparve teso, preoccupato, nella cabina della casbah.
"Fatto?" domandò.
"Fatto. Abbiamo le impronte," disse il valletto-squalo. "Ora le
abbiamo davvero. Vattene, prima che quel pazzo arrivi lì."
V

Talvolta, di notte, e più spesso verso l'alba, gli sembrava di


sentirli, tutti quei sogni. Come se si levassero insieme, con il sospiro
della città che dormiva, dietro le porte sbarrate e le finestre, dietro i
cancelli chiusi dai catenacci elettronici. Si levavano e gli pareva
perfino di vederli, come mille e più ectoplasmi, strisciare nelle
serrature, uscire dai camini e salire su fino al cielo, e da lì guardare in
basso, come una popolazione di fantasmi.
Di notte la città era abitata dai sogni: la gente dormiva, con la
cuffia calzata contro la nuca, e il sottile raggio del laser penetrava in
migliaia di teste reclinate e di cervelli, frugava fra le cellule dei
sogni, e le comandava a inventare avventure e incubi.
Quando Omar aveva consentito a quel lavoro, non avrebbe
pensato di ridursi così. L'aveva accettato perché era vita d'artista,
soprattutto, vita libera s'immaginava. Ma ora, quando tutte quelle
facce l'osservavano da lassù, si sentiva come se gli avessero riempito
l'Ombra di piombo e quel peso gli si versasse sulla schiena. Di notte
gli uomini si liberavano della propria anima in pena, indossavano i
sogni che s'erano comprati, e a Omar sembrava che tutti quegli spiriti
momentaneamente messi da parte, dopo il tramonto, gli si
affollassero intorno.
Era stato semplice, da principio, inventare i sogni. Aveva
cominciato come tanti altri, nella bottega d'un maestro sognatore, un
uomo strano che, non appena poteva, fingeva di dimenticare l'Ombra
in guardaroba e se ne andava libero e a piedi in strada, un uomo che
coltivava fiori e disegnava farfalle, nel suo appartamento al
pianterreno d'una casa di cemento, brutta e grigia.
Hans, si chiamava il maestro. Era uno di quelli che erano stati di
sopra, giovanissimi, e raccontare era per lui facile. Aveva la pancia
grossa e il busto e le spalle strette, era malato e lo sapeva; quando
Omar s'era presentato a lui, la prima volta, già non poteva più
scrivere a mano — l'artrosi dei fondali l'aveva rattrappito, come una
mummia — e già dettava nelle nuove macchine a nastro, che
mutavano la voce in immagini, scomponendo parole e sensazioni.
"Una gran bella invenzione," aveva detto Hans, "ma scrivere con le
mani, dio infame, era davvero un'altra cosa."
Bastava un profumo, un'eco, e gli scattava come una molla nella
memoria, il forziere si apriva e Hans ci pescava dentro avventure mai
vissute, solo sognate, eppure così nitide e credibili.
La bottega del maestro era occupata per metà da un gran
guardaroba, l'unico mobilio che i suoi genitori avessero portato
laggiù, ma dentro il maestro non ci conservava oggetti antichi, corde,
damaschi o lenzuola di lino: c'erano solamente i sogni, chili di sogni,
dozzine di libri di carta che l'aria salmastra rosicchiava piano.
Il maestro era morto pazzo, vecchissimo e pazzo, assediato dai
suoi incubi e svuotato nel midollo: a forza di sognare e scrivere era
come se un pezzo della sua testa se ne fosse andato, un brandello in
ogni nastro, e quando anche l'ultimo sogno era stato inciso, il maestro
era diventato matto ed era morto.
"Forse sono anch'io vicino a quel momento," pensò Omar. Se l'era
scelto apposta quel nome, Omar Khayam, perché l'aveva trovato in
un libro della vecchia bottega, con la copertina di cartoncino
slabbrato, le pagine arricciate ai bordi. Era un libro di strofe che gli
erano piaciute, e poi quel nome, Khayam, aveva il suono d'una
campana sbattuta e dello schiocco di una fiocina. Bene, Khayam.
Anche lui, gli avevano detto, era un po' matto.
Ora che tutto quel tempo era passato, si sentiva rinsecchito e
incapace di inventare sogni nuovi. Sfogliare i libri di Hans non gli
sarebbe più servito: gli erano stati di grande aiuto, quando il suo
genio (se mai l'aveva avuto) s'era asciugato, e aveva cercato là dentro
le storie da raccontare. Adesso non erano che una pila di carta morta,
in un angolo della vecchia bottega, le pagine tutte sfogliate e piene
d'appunti, sottolineate a matita. E i personaggi che ne aveva tirato
fuori se ne andavano di notte con gli altri, ad appendersi in cielo,
come pipistrelli e vampiri a testa in giù, Pinocchio e Tristano,
Lazarillo e Marylin, Alì Babà e il principe Miskin. Li sentiva perfino
ridere, quando provava invano a scrivere, seduto e fisso davanti al
registrasogni, o chino con la penna in mano.
C'era soltanto un libro, nel gran guardaroba, che non era riuscito a
sognare (ma non c'era riuscito neppure Hans), e che mai gli si
sarebbe composto in testa: il libro del leviatano immenso e bianco e
delle acque senza orizzonte… era un libro stracciato e rotto a metà
(Hans non gliene aveva mai spiegato le ragioni) e terminava brusco,
con una parola spezzata alla pagine 384. Non ne aveva cavato
proprio nulla: non riusciva, da solo, a inventare i colori per
quell'affresco di spuma e di sangue. Eppure soltanto quello gli
avrebbe ridato, almeno per un po', la pace. Quante volte aveva
iniziato, "Chiamatemi Ismaele," e s'era fermato lì?
C'erano dei disegni negli archivi della Cattedrale, disegni di
capodogli e di balene azzurre, che stavano in coda all'elenco delle
bestie passate ormai nel mito, come l'aquila e il tirannosauro, la
fenice e la tigre del Bengala. Guardando quei disegni e le sagome
grigie dipinte d'acquerello, s'era chiesto se mai avrebbe potuto
cavarne qualcosa. E sempre aveva rinunciato, crollando il capo.
Così aveva incominciato a inventarsi altri sogni, andando a
frugare nel fondo della propria memoria. Ma non ne aveva trovati
molti e adesso non ce n'erano più, comunque, e la sua testa
rimbombava come uno scandaglio sbattuto nella pancia di ferro di
una nave.
S'era smagrito nelle guance, e sotto gli occhi. La cera e la biacca
dei cosmetici non nascondevano più a sufficienza le sue rughe, le
prime e più profonde.
Eppure i giorni scorrevano sulla città come l'acqua d'un fiume
calmissimo. Di cosa poteva scrivere e raccontare? Il circo, la caccia
con le tartarughe sull'orlo dell'abisso… soltanto i sogni erano veri e
reali, nella città. Quei grappoli di fantasmi appesi in alto, a notte,
erano più concreti dei muri di pietra, delle muffe e del profilo della
Cattedrale contro i soli al tramonto.
Anche lui sognava. I sogni di qualche altro maestro, per riempire
il vuoto che s'era allargato nella sua testa, fino a premergli il cranio e
a fargli male. E di giorno, quando camminava avvolto nell'Ombra, si
sentiva come staccato dal proprio corpo, come se l'anima gli si fosse
scollata dalla pelle per andarsene a passeggio, in attesa di ritornare al
tramonto dentro il suo mondo giusto, quello dei sogni.

L'idea, l'idea giusta, gli venne una sera che si sentiva così,
stralunato, e guardava con l'Ombra sulle spalle gli squali grigi che
passavano in strada, quasi sfiorandolo. Mancavano quindici giorni al
Carnevale. Era ubriaco di psicodin, sentiva una specie di valzer
rivoltarglisi nelle budella, e le facce della gente s'erano fatte ovali e
allungate, scure e cupe… era anche quella un'altra realtà, lo psicodin
gliela scavava dentro, ma era comunque una realtà. Avrebbe potuto
scrivere un sogno dell'orrore, guardando quelle facce atroci… e gli
venne quell'idea. Non avrebbe più dovuto immaginarsi ciò che non
era, inventando con fatica occhi e volti e frasi inesistenti. Avrebbe
potuto smettere di correre a quel modo verso il suicidio.
Se un uomo ubriaco di psicodin poteva inventare una realtà,
dentro di sé ma comunque una realtà, un uomo con la testa sgombra
avrebbe creato davvero la realtà, con le sue mani, con tutto il corpo.
E poi l'avrebbe raccontata nei sogni. Avrebbe fatto il diario di se
stesso.
Era scoppiato a ridere, sonoramente, e le facce degli squali s'erano
voltate un istante solo a guardarlo. E quale realtà avrebbe potuto
creare, come un dio d'una volta, capriccioso e crudele, migliore della
morte e della paura? Nelle botteghe dei sogni si vendevano bene gli
incubi, le avventure della paura e della morte. Fu quella sera, che
decise di uccidere.

Si dondolava, il corpo abbandonato all'indietro, contro lo


schienale della poltrona. Sembrava non accorgersi di lui: Lorna era
entrato nella stanza camminando piano, ed era andato a sedersi di
fronte a lei, cauto e silenzioso, sul bordo d'una sedia scomoda laccata
di bianco.
"Scusa signora, puoi parlarmi?" le aveva detto, parlando appena
più forte dello scricchiolio del dondolo. La faccia di lady Mamoudy
era come quella d'un grande insetto: s'era avvolta il capo con una
maschera di seta color del ferro, ma sottile come un velo di garza e
senza aperture, davanti agli occhi o sulle labbra. Sotto, le bende che
ancora le coprivano il volto e i tamponi d'ovatta sulle pupille, le
davano l'aspetto di una grande ape, cieca e grigia. Non aveva risposto
alla domanda di Lorna.
"Vorrei parlarti dell'altra sera," aveva aggiunto, vago, lo squalo.
Non aveva trovato altre parole. Come se non avesse voluto cercare
termini più precisi che le ricordassero le ultime immagini di quella
notte di Carnevale. Sarebbe stato come ficcarle nella testa un'altra
lama ardente. Ma lei non parve comprendere nemmeno quelle parole:
mosse il capo, solo un poco, e s'irrigidì, e Lorna vide il lungo, sottile
tubo che le sgocciolava nelle vene psicodin misto ad acqua, oscillare
piano.
"Ho bisogno di sapere qualcosa, per aiutarti," disse lui. "Ho
bisogno di informazioni… sull'altra sera."
Ma lei continuava ad apparirgli come un grande insetto di ferro,
una statua alla quale era inutile rivolgersi. Lorna s'inquietò: fosse
stato nella casbah, ad interrogare una puttana ladra d'un portafoglio,
o nel suo stanzone sotto la Cattedrale, e se lei non fosse stata lady
Mamoudy ma una femmina di squalo, o perfino una donna qualsiasi,
con la pelle chiara e senza peli, l'avrebbe picchiata, a pugni chiusi,
finché non gli avesse risposto.
"Soltanto se un uomo, o una donna, certo, denuncia un altro
uomo, io posso far bene il mio lavoro. Se nessuno mi aiuta, le mie
prove valgono meno di niente." Esitò: "Se nessuno mi aiuta, come
posso renderti giustizia?" aggiunse. Ma cercava la giustizia, quella
donna? "Io devo sapere, dalla tua voce, adesso, chi c'era sul picco
quella sera."
Lei restò muta, e immobile. Non si dondolava più. Lo ascoltava,
dunque, ma non gli rispondeva.
"Perché continui a tacere?" ringhiò, alzandosi in piedi con rabbia e
rovesciando la seggiola indietro, sul pavimento. Scostò la tenda che
velava la finestra: una lama di luce, come un colpo di sciabola nella
penombra, le passò sul volto velato e la fece sembrare ancora più
terribile, nemmeno più una statua, ma un mostro né morto né vivo
che stava lì, paradossalmente, a perseguitarlo.
"Omar… Khayam. È stato lui?" soffiò Lorna. E aggiunse,
parlando in fretta, quasi spaventato dall'avere sputato quel nome,
"Oppure Valdemaro, o qualcun altro?"
Ma le parole sembravano affondare nell'ovatta di quella penombra
molle, nei tappeti. "Soffri molto?" le chiese, d'improvviso. "Ti fanno
male… gli occhi?"
Non l'avevano abituato a quelle domande, agli interrogatori
sommessi. Lorna era stato soddisfatto, quando Mamoudy gli aveva
concesso d'interrogare sua moglie, ma ora sentiva d'essere impotente
di fronte a quell'insetto muto. Lei lo sentiva, certo. E taceva così…
tradita, ferita, cieca, e ancora fedele, ma a che cosa? "Perché non
rispondi?" ripeté rabbioso.
La disprezzava, anche, proprio perché lei non cercava una
vendetta che sarebbe stata giusta, e perché se ne stava in quel nido
imbottito e non muoveva un dito, per aiutare lui.
Le andò vicino, s'inginocchiò accanto al dondolo, e fermò con un
braccio quel movimento avanti e indietro. "Ascolta," sussurrò, quasi
alitando contro la maschera di stoffa, "non dovrai mai presentarti a
un tribunale, non dovrai mai più ripetere le parole che ora mi dici."
Estrasse di tasca il registratore, e io pose al suolo: era tondo come
un'arancia, e nero. Avrebbe trasmesso direttamente alla Cattedrale le
parole che avrebbe captato; la registrazione sarebbe avvenuta laggiù,
e il nastro con la voce di lady Mamoudy avrebbe contato molto più
d'un certificato, d'una firma o di una impronta di pollice. "Rispondi
soltanto a questa domanda. Chi ha sparato, l'ultima notte di
Carnevale, sul picco? Oppure dimmi, chi c'era con te? Mi basta
questo."
Premette il pulsante scuro, che sporgeva dal registratore come il
picciolo d'un frutto. E sussurrò ancora: "Devi aiutarci."
Ma lei restò ancora muta, il volto girato verso la parete e la
finestra velata, mentre nel registratore non finiva che l'ansito roco di
lui. Lorna schiacciò ancora il pulsante, con la mano aperta. Era
inutile, ormai, restare lì dentro. Lei era viva, e sembrava morta. O era
morta, e sembrava una finta viva? Allungò una mano e la toccò sul
ginocchio: sentì che sussultava, ma ancora non disse nulla. Era
fragile, sotto la stoffa sottile: premendo, il palmo di lui le fasciò il
ginocchio, e gli parve di stringere un grappolo d'ossi. Fece scorrere la
mano sulla coscia di lei: s'era messo sulle ginocchia, accanto alla
sedia a dondolo. La toccava e la carezzava, come se lei fosse stata un
pupazzo, ma un pupazzo caldo, che fremeva piano.
Poi le prese ancora la coscia, più in alto, nell'interno morbido,
disegnato dalla gonna di seta, l'incavo della coscia, e alla fine,
muovendo un poco le dita, trovò il pube.
Era così irreale, talmente sacrilego, che non riuscì ad avere paura
di quei gesti, e rimase con la mano contro il sesso di lei, quasi dentro
di lei, scanalandola, tanto l'abito era leggero.
Lady Mamoudy volse il capo nella sua direzione, e anche se aveva
la faccia bendata e quel cappuccio sugli occhi, Lorna fu certo che lei
lo stava vedendo. Si alzò, restò un istante dritto e fermo davanti a
quell'insetto cieco, poi uscì dalla stanza. Avrebbe detto a Mamoudy
che lei non ricordava più nulla, di quella notte. Che non gli sarebbe
stata utile per le indagini.

"Ne ho abbastanza, sai, non voglio più restare con te. Mi sposo."
Lui s'era messo a ridere, sentendo quelle parole. "Tu non mi hai
mai chiesta in moglie," aveva aggiunto Pat, e a lui era passata la
voglia di ridere. Avevano appena finito di far l'amore, e il batticuore
di Omar s'era appena calmato, avevano fatto l'amore con le bambole,
e il manichino della donna era allungato accanto a lui, con la testa
reclinata sulla sua spalla e una mano sul suo petto. Nella casa di Pat,
lontana, sulla cima d'un grattacielo dall'altra parte della città, la
donna era viva di carne, e lungo sul tappeto, accanto a lei, fremeva
ancora il pupazzo di Omar. La guancia di lei, appoggiata contro la
sua spalla, sentiva un calore leggero e un sommesso palpito nel petto,
come se quel manichino fosse stato un uomo vero. Oh, era stato vero,
quando era entrato in lei. Sono così uguali a noi che, a volte, non so
più se siamo noi a guidare i pupazzi, o se sono loro a guidare noi,
pensò Pat.
Sentiva, duro e ingombrante contro la propria nuca, il collare che
le permetteva di guidare da lontano il manichino A-Propria-
Immagine-e-Somiglianza. L'ultimo prodotto dei maghi, nei laboratori
della Cattedrale. Dopo aver allacciato il collare, bastava ordinare con
la mente che il pupazzo parlasse, ridesse o facesse l'amore, e quel
corpo di plastica, gomma, alluminio e carne finta obbediva.
"Non capisco," mormorò l'Omar sintetico e nudo che le stava
accanto. "Non stai bene con me? Anche adesso è andato tutto bene,
no?" disse.
"Per te va bene far l'amore con un aggeggio di plastica, a tre
chilometri di distanza?" gridò lei, e le parve perfino di udire l'eco
lontana della gola artificiale che ripeteva quelle parole, solo un
decimo di secondo più tardi.
"Ma è un gioco. Lo fanno in tanti."
"È un gioco infernale. Ci stiamo abituando a farci sostituire. Prima
gli squali, ora i manichini. Per strada le Ombre ci proteggono. E di
notte i nastri ci fanno sognare. Omar, ho l'impressione che ci stiamo
svuotando, piano piano, e che pupazzi e squali e Ombre stiano
succhiando a poco a poco la nostra esistenza, e diventino loro, vivi. A
volte mi pare di diventare matta…"
S'interruppe e tirò su col naso, e il manichino fece lo stesso,
perché lei s'era scordata di sganciare il collare. "Vedi, anche ora si
mangia una parte di me," aggiunse. "L'ultima volta che sono stata
felice, davvero, di dentro, è stato — è ormai passato tanto tempo —
quando facevamo l'amore sui picchi, senza Ombre e senza manichini,
come… vedi? come animali, mi veniva da dire, e invece avrei dovuto
dire come persone normali." Tacque. Era amaro, dover lasciare
queste confessioni a una copia meccanica.
"Ma possiamo farlo ancora," disse Omar.
"Oh." Lei alzò gli occhi e rise mesta, la faccia improvvisamente
incavata, piena di paura. "Francamente non lo so, quello che
possiamo fare ancora."
Ora il manichino di Omar era immobile, nudo e lungo sul tappeto
folto dove avevano fatto l'amore, a faccia in giù: non lo pilotava più,
dunque, e parlava solo dentro la sua gola di latta, come un telefono
mostruoso. "Ti sposi, hai detto. E con chi?"
"Lo saprai soltanto al momento giusto." Lei gorgogliò un sorriso,
con improvvisa malizia. Certo che lui lo conosceva: era difficile non
conoscersi in città, anche se soltanto alla lontana. "Continueremo a
vederci, se vorrai, e magari… chi lo sa, forse ti lascerò ancora far
l'amore con me. Almeno, con questo manichino…" disse il pupazzo
di lei, che continuava a fremere come se l'aver detto quelle parole gli
avesse dato una forza nuova, e nuova corrente elettrica nelle braccia
e nelle gambe.
"Non voglio," disse Omar.
Lei tacque un istante. "Non vuoi? E cosa vuol dire? Tu non puoi
volere cose che mi riguardano. Tu stai parlando a un manichino, è
vero, ma i suoi comandi li ho in mano io."
E all'improvviso Omar s'accorse di sentire un grande dolore, che
diventava quasi fisico, e gli rodeva dentro lo stomaco, e nel cuore.
Era da un'infinità di tempo che non provava dolore. Fu quella sera,
mentre la bambola di Pat si rivestiva (è brutto vedere le bambole che
si rivestono, è lì che vedi dov'è che mancano d'umanità, quei
manichini coperti di stoffa), fu quella sera che scelse la sua vittima di
Carnevale. Sarebbe stata lei.
Il sogno aveva la forma di un ferro di cavallo, e non era più
grande del palmo delle mani di Omar. L'alzò controluce; era quasi
trasparente, e vide, nitido, il filo magnetico, sottile e torto. Era una
grande magia, anche quella: nella Cattedrale tutto era magico, non
era più un posto per preti, ma per stregoni. Come avrebbe potuto uno
scienziato mettere le mani nei sogni della gente? Sorrise: aveva detto
ad alta voce quella domanda, un giorno in uno speakeasy, e l'avevano
guardato come si guardano i matti. Perché, forse fra scienza e magia
non esisteva quella impalpabile e incommensurabile terra di nessuno
dove le pinze della scienza si incrociano con le bacchette magiche?
Ebbene, i sogni a ferro di cavallo erano figli di quella terra. Non
aveva dubbi.
Inserì il nastro nella cuffia da sonno. Fece un rumore molle, dolce,
ciac, l'estrasse e l'inserì di nuovo, ciac.
Era il suo sogno più bello. Timbrato uno, la prima copia. Era il più
bello anche perché era l'ultimo, in ordine di tempo. Ed era come se
fosse stato il primo. In città, non circolava ancora.
Ciac. Ciac.
L'aveva sognato in fretta, nell'alba livida dopo Carnevale, senza
scrivere. Aveva dettato direttamente nel registratore, senza
correggere, senza pause, come in trance mentre dalla strada veniva il
rumore sordo, i tonfi dei carri automatici che spazzavano le strade, e
il fruscio dei getti d'acido che lavavano dai marciapiedi sangue
rappreso, polvere e peccati.
Anche lui si lavava, di dentro, mentre sognava quel sogno, e
quando aveva fermato il giranastri, s'era trovato stremato e vuoto,
con lo stomaco vuoto e gli occhi vuoti. Ma lavato di tutta la rabbia e
tutta la tensione che gli si erano incrostate dentro, nei giorni e nei
mesi. Riscrivere la notte appena trascorsa era stato come provare un
lungo orgasmo, che montava e montava e non trovava da esaurirsi.
Ora ce l'aveva fatta. Sospirò e andò alla finestra: tirava vento
forte, come ogni volta che un computer, nei fondi della Cattedrale,
decideva di ripulire dai fumi l'aria della città.
Era un sogno perfetto. Professionalità… quel sogno sembrava
traboccarne. Era molto tempo che non sognava così. Si sentiva come
ubriaco.
Ciac. Si baloccò ancora.
Era un sogno pieno di brividi, e di sudori reali. E ora altri brividi
glieli dava la caccia che quello squalo — Lorna!, perfino un nome da
donna — aveva preso a dargli. Era come se la sua vita avesse
incominciato di nuovo ad avere sapore, a mandare odori. S'alzò dal
divano, un perfetto Luigi XIV in vetroresina, fuso apposta per lui da
un artigiano della casbah, e andò verso lo specchio, nudo com'era.
Batté sui tasti, e lo specchio si illuminò. C'era uno squalo grigio,
lontano, nel fondo di un archivio.
"Tu, rispondi," gli disse Omar. Non era Lorna, era più piccolo e
curvo e non aveva, lo vide quando lo squalo s'ingrandì nello
specchio, quell'aria sfrontata in faccia.
"Ho un ordine per Lorna," disse Omar. Lo squalo gli lanciò uno
sguardo grigio anch'esso. Chissà se era così sempre, chissà se uno
squalo cambia faccia quando canta, o beve, o fa l'amore? Alzò la
mano destra verso lo specchio, a palmo aperto, mostrando il piccolo
nastro del sogno. "Farò arrivare lì questo nastro, per Lorna. Entro
questa sera," disse.
Lo squalo annuì.
"E poi…" Omar esitò un istante. "Digli che l'aspetto domani, a
mezzogiorno, all'hangar delle tartarughe. Che non arrivi in ritardo."
Non gli lasciò il tempo d'una risposta. Batté ancora sulla tastiera, e
spense lo specchio. Altri brividi, su e giù per la schiena.
Ciac. Inserì ancora una volta il sogno nella cuffia. L'avrebbe
goduto ancora una volta, prima.
VI

Le marionette devono sentirsi così, pensa. Ci sta largo, in quelle


membra: a ogni gesto è come se un puparo invisibile gli tirasse le
braccia in tutte le direzioni. Si sente addosso una pelle sottile e
malata: un urto, e potrebbe stracciarsi come carta.
È sempre così, quando uno squalo sogna: non riuscirà mai a
vestire fino in fondo i panni di un uomo. Vede Pat N'goa entrare nel
salone, la osserva mentre inchina il capo a salutare Gy Mamoudy, i
riccioli fulvi spettinati sul collo nudo. Sente il ventre contrarsi, quei
muscoli estranei, così fiacchi. La voglia di quella donna continua a
rimanere dentro il suo corpo, imperiosa, come il giorno prima, il
mese prima e l'anno prima.
I fili del burattinaio si tendono ancora, poi si allentano e
schioccano nel suo subcosciente. E Lorna piomba dritto nel sogno.
Pat è accanto all'uomo alto e magro: quando la mano di lui cerca
le dita della donna e le stringe quasi furtiva, Lorna freme. Pat glielo
conduce di fronte: deve chinarsi, secondo i riti del galateo di
Carnevale, anche se in faccia all'antica amante sente il respiro farsi
pesante, dentro il petto.
"Ciao Pat," dice.
La maschera di rame copre del tutto il volto dell'uomo alto, ma
quando fissa il taglio degli occhi Lorna vede il colore del ghiaccio.
"Salve Valdemaro," aggiunge, a voce alta e stridula.
Ha addosso il costume della morte, ma quello strillo da eunuco lo
fa vergognare: si volge a lady Mamoudy, che sembra porgergli aiuto,
e gli si offre con una spina di cristallo fra le dita, appena intinta nella
coppa di psicodin.
"Vieni," dice lei. Lorna si abbandona contro quel corpo minuscolo
e crudo, anche se non lo desidera: vuole piuttosto scrollarsi di dosso
lo sguardo di Pat che gli ride nella schiena. Stammi lontana, per ora,
impreca. Bacia la giovane sposa di Mamoudy, passando la lingua sui
denti piccoli che il pigmento rende simili a una ferita sul volto
pallido.
Il sapore del rossetto di lei è dolce, e il bacio e lo psicodin che gli
bolle dentro lo rendono euforico d'improvviso. Che accade di là,
nelle stanze profumate di limone?
"Pat vuole vederti." Lorna si volge ancora una volta, di scatto:
Valdemaro gli è venuto vicino con discrezione, e gli indica la terrazza
dove il calore dell'edificio fa fiorire gli agrumi del giardino pensile.
Sente ancora quel male al ventre: Pat sorride, le labbra sottili
aperte sui denti candidi, morbide come la carne di un'ostrica.
("Puttana," pensa). "Hai già…" dice lei.
Lorna annuisce, il volto da Assassino fosforescente nella
penombra. Ma non provocarmi così, aggiunge, dentro di sé.
"Ucciderai qualcuno?"
"Le maschere non sono un gioco." Ma lui vuole anche giocare,
con quelle parole ambigue, spaventarla e scherzare con la sua paura.
"Lo immaginavo. Quando?"
Le accarezza le spalle fresche, la pelle di lei s'increspa tutta in un
brivido, e Lorna legge nei suoi occhi lo stesso invito che ella gli
rivolgeva ogni sera, un tempo, prima di far l'amore sui picchi, prima
di spegnere le Ombre e sentire l'eccitazione di accoppiarsi nudi e
indifesi come due animali.
"Non adesso," dice. "Più tardi."
Balla con Valdemaro, più tardi. Scherza con una bambina
imbellettata. Beve piano i cocktail d'ambra. Sorride quando lady
Mamoudy lo prende sottobraccio e gli sussurra: "Verrai con noi? Al
circo c'è spettacolo, stasera." La bacia ancora: non è mai semplice
mentire — se ne sta accorgendo mentre l'ultima sera di Carnevale si
dipana secondo un copione — né provare false sensazioni. Eppure la
stringe ancora, la tira contro di sé, sui cuscini dell'automobile scura:
la giovanetta gli prende le mani, le unghie affilate lo graffiano sul
palmo e i graffi gli bruciano sulla pelle.
Gli sarebbe piaciuto, un'altra volta, l'avrebbe eccitato forse.
Circonda con il braccio l'esile fianco della donna ("Veglierò io su di
lei," ha promesso a Gy Mamoudy, sulla soglia dell'appartamento.
Ride), slaccia l'abito, accarezza la schiena nuda: lady Mamoudy
volge il capo e lo guarda, rannuvolata in viso mentre quella mano si
impadronisce di lei.
Più tardi — gli attori si colpiscono sul palcoscenico, e alle
gradinate gorgoglianti sale lo strepito delle giunture infrante, e sul
piancito s'allarga il sangue — incontra lo sguardo di Pat, seduta
accanto a lui: ha le labbra umide e morbide, rosse di pigmento. "Ci
sono dentro, ormai." Le parole gli si fermano in bocca, e si accorge
in quell'istante della tragica rete che ha tessuto. Quella strategia da
ragno, si che avrebbe dovuto fargli paura.
Ma lady Mamoudy lo abbraccia ancora. "Portami fuori," geme, e
lui si alza mentre nel tondo delle fiaccole, sul palcoscenico, un corpo
magro è infranto al suolo. Escono sulle terrazze, sotto il cielo pieno
di luci.
"Ho freddo." È come se ci fosse un altro Lorna, a guardarlo da
fuori, a osservarlo ridendo mentre lui si muove come un ridicolo eroe
da sogno: strappa un lembo della tenda che vela l'ingresso di un
sottopassaggio, fascia con quel mantello gualcito i fianchi e le spalle
della donna. La bacia, ma questa volta come si bacia un bambino al
termine d'un gioco che fa sudare, sulle tempie e sugli occhi,
sporcandosi la bocca di pigmento scuro.
Lady Mamoudy gli passa le mani gelide sulle guance: "Chi
ucciderai questa notte?" Si legge dunque così chiaro nella sua faccia
e nel suo vestito? "Non chiedermelo. È una storia molto vecchia."
"È così difficile decidere," mormora più tardi, ritto sulla terrazza,
sul picco, mentre la città ai suoi piedi gli appare davvero come una
gran tela di ragno, luminosa, tesa a legare i morti. "Ma quando una
decisione è presa… è ancora più difficile tornare indietro." La
maschera da Assassino e l'abito lucido specchiano i fiochi riflessi
delle stelle.
"È il più bel cielo del mondo," dice lady Mamoudy, china sul
davanzale. Lorna guarda l'orologio: è troppo tardi per avere paura, e
tirare indietro le unghie, né lo vuole ormai. Posso fare quello che
voglio, scegliere le armi e il momento, negare o concedere la grazia
come un dio d'altri tempi. Lei gli si stringe addosso, ancora una volta,
così forte che sul proprio petto lui sente battere quel piccolo cuore.
"Ti amo," dice lei.
"Andiamo, raggiungiamo gli altri," mormora Lorna.
Siedono intorno alla tavola d'oro. Bevono il vino d'uva ("Ma
l'anno prossimo non ci resterà che lo champagne d'alghe," dice
Valdemaro, con la voce piena di sdegno). Giocano.
Pat s'è vestita di bianco, l'abito è morbido e carezza le scarpe di
raso, e sul seno quasi scoperto ha posato una rosa di vetro, leggera
come un fiore vero. "Vediamo a chi tocca," dice Lorna. Non sente più
peso sul cuore, dopo che lo psicodin gli è fluito nelle vene: ora il
pugnale immerso nella droga è pesante nel fodero, contro la coscia.
Quando lady Mamoudy scioglie il velo che porta al collo, per
farne la benda della mosca cieca, Valdemaro si alza, rovesciando la
poltrona, indietro. "Non abbiamo bisogno di sciarpe," grida. Estrae
dalla cintura un laser d'argento.
"Cosa significa tutto ciò?" pensa Lorna. Quella follia improvvisa
non rientra nel copione minuzioso che ha predisposto. Anche Pat
sussulta, e si alza. "Rimani seduta," le ordina Lorna, ponendole una
mano sul braccio.
Valdemaro punta il laser, il raggio di fuoco arde le pupille di lady
Mamoudy, e il sorriso di lei si muta in un urlo feroce, e qualcosa
nelle viscere di lui si contorce. Valdemaro — perché ha fatto questo?
— le spinge il tubo d'argento fra le dita, e si tira da parte.
Lady Mamoudy spara nel suo buio, e il raggio sfrigolante brucia
l'architrave sulla porta del salone, mentre Valdemaro corre verso le
terrazze. Lorna sente la propria mano scendere lungo la coscia,
sfilare con una carezza delle dita la lama dal fodero, sente il braccio
piegarsi indietro come una fionda, e il movimento breve del polso
che scaglia il pugnale: i suoi muscoli fiacchi hanno obbedito bene
all'addestramento ipnotico. La lama si pianta nella schiena di
Valdemaro all'altezza del cuore, e l'uomo si abbatte sul davanzale,
precipita nell'abisso mentre la maschera di rame rotola sulle
mattonelle.
Dentro gli occhi di Pat c'è una pozza di terrore, e di sollievo
insieme. "Era dunque lui, la vittima di Carnevale… ho avuto paura,
prima," mormora. L'Assassino la bacia. "Forse ti amo ancora," dice
lei.
Lui le scompiglia i capelli con la punta delle dita, con un cenno
breve, stringendola forte, mentre i fuochi delle fontane incendiano la
notte, scoppiettano e coprono il singhiozzo di lady Mamoudy, cieca
dolente in mezzo alla sala.
L'Assassino bacia Biancaneve, poi si volge piano, facendosi scudo
con il suo corpo candido e soffice. "Anch'io ti amo!" urla, e lady
Mamoudy reagisce come un animale ferito, grida anch'essa e spara
verso quella voce. Il corpo di Biancaneve è scosso da un brivido,
leggero, e ricade con un sospiro nelle braccia dell'Assassino.

La testuggine si muoveva lenta nell'acqua nera, mentre la città si


spegneva nel buio, piano piano, e di essa non rimaneva che un'eco
brillante solo sullo schermo. Le pinne di ferro crocchiavano,
remigando, senz'olio da tanti mesi.
Quando Lorna s'era ridestato nella sua realtà, ansimante come un
cane, la jeep era ferma da quasi un'ora davanti al portone della
Cattedrale. Immobile al volante, Kano l'osservava: "Davvero vuoi
andar dentro?" aveva chiesto. "Dammi tempo, maledizione. Fa'
ancora un giro intorno al palazzo, poi salirò," aveva risposto Lorna,
strappandosi la cuffia dalle tempie. Era la seconda volta che sognava
quel nastro, e ancora ne era sconvolto. Poi aveva camminato nelle
viscere della Cattedrale, mostrando alle guardie la sua tessera di
spazzino, aveva camminato dietro la figura più snella, quasi gracile,
di Omar fino a che le serrande dell'hangar s'erano alzate stridendo
davanti a loro.
La testuggine aveva occhi enormi, illuminati e bombati: dentro
quegli occhi, a destra Lorna, a sinistra Omar, cercavano ora
nell'abisso la sagoma del mostro che li avrebbe divorati, venendo su
dal ventre dell'oceano.
"Ho le prove, adesso ho tutte le prove che mi servono," disse
Lorna, guardando il mare attraverso le pupille di cristallo del
sottomarino. Alzò il colletto della giubba contro le guance: tutta
quell'acqua gli metteva addosso un freddo strano e inatteso.
Omar spinse ancora in basso la cloche, e la testuggine si tuffò a
capofitto, come un'ombra verde e scura nell'immensa fossa
dell'oceano. "Buon per te," sorrise. L'eco della città s'era spento.
"Posso conoscerle anch'io?"
Lorna tolse di tasca una striscia gommata e l'incollò sul bracciolo
della poltrona, dove l'uomo aveva poggiato le mani a palme aperte.
Poi la strappò via, secco. "Ecco: queste sono le tue impronte. Sono
identiche a quelle che lasci in ogni angolo di casa tua, e che io tengo
in cassaforte. Sono proprio le stesse che qualcuno, l'ultimo giorno di
Carnevale, ha lasciato sul coltello che ha ammazzato Valdemaro."
Dunque era stato inutile sgusciare nella notte, senza Ombra, a
cercare la lama cesellata. Omar rise piano al pensiero di come aveva
tremato rimettendo il cadavere sventrato sulla lastra d'ardesia, e di
come era scappato dall'obitorio, pieno di paure. Qualcuno aveva già
impresso le strisce gommate sul coltello, e lui aveva rischiato la pelle
per niente.
Un'altra eco pulsò intermittente sotto di loro. "Eccoli," mormorò
Omar. Volse il capo a Lorna: li separavano soltanto pochi centimetri
e i braccioli, seduti com'erano nella testa verde del sottomarino.
"Annoda la cintura, se non vuoi sbattere la faccia sui vetri."
Erano tre, e neppure troppo grandi: salivano dall'abisso muovendo
appena la coda, tendendo le vibrisse lunghe sul muso senza occhi.
"Cosa sono?"
"Murene del fondo. Bestie cieche e carnivore. Sono comparse
quasi all'improvviso, più o meno dieci anni fa." La testuggine s'era
fermata, appesa sulla fossa: spostava le pinne piano, avanti e indietro,
il muso inclinato verso l'abisso, perché Omar e Lorna potessero
scrutarvi dentro.
"Ho una denuncia già firmata, nel mio cassetto. Basterà
aggiungere il tuo nome in fondo. Ho la registrazione delle Ombre e le
tue impronte sul coltello…"
"Cosa aspetti, dunque?"
"Che tu confessi. O che mi spieghi…"
L'eco sullo schermo era ormai una fontana di luce: Omar pose le
dita sulla tastiera degli arpioni, una sorta di terribile pianoforte di
morte. Lorna guardò oltre l'oblò. "Lasciami sparare, voglio sparare
anch'io," disse. L'uomo l'accontentò, attivò la tastiera di fronte allo
squalo, e Lorna sfiorò con i polpastrelli i pulsanti di metallo.
Le murene scodinzolavano, cento metri più in basso, come
fantasmi inquieti, tesi verso la preda. Lorna e Omar volsero insieme
il capo, uno all'altro. "Non aver paura, i loro denti si romperanno
sulla corazza."
"Confessi, allora?" disse Lorna. E aggiunse: "Non ho paura."
Omar accese i proiettori: il fascio di luce gialla frugò nel fondo,
illuminando le murene, così enormi, lunghe e vicine, le fauci pronte a
gocciolare veleno dentro la testuggine.
"Ti farò denunciare. Ma non perché questo è il mio dovere. Non
credo al dovere, né alla vostra giustizia: la giustizia è semplicemente
l'opinione del più forte. Ti sbatterò davanti al giudice, al giudice della
tua gente, per un motivo ben diverso."
Una murena saltò in avanti, in alto, le zanne tese: Omar schiacciò
le mani sulla tastiera, come un pianista impazzito. Gli arpioni a razzo
schizzarono dalla testuggine, sfilarono gorgogliando nell'acqua scura
verso il pesce: gli bucarono le carni e l'animale finì a brandelli,
lacerato nella luce dei proiettori.
Lorna teneva le mani in grembo: non aveva neppure accennato a
sparare. "Cerco soltanto la vendetta… la vendetta collettiva della mia
gente. Nessuno, nella casbah, ha mai avuto una simile occasione."
"E tu credi che gli uomini lo permetteranno?"
La seconda murena attaccò: Omar fece un gesto strano verso
Lorna, come un uomo che cede il passo sull'uscio. L'immenso pesce
guizzava ruggendo verso il sottomarino: Lorna guardò nel mirino la
forma scura che ingrandiva. "Perché distruggerlo? Si romperà i denti
su questo ferro, e tornerà a rintanarsi sul fondo… perché devo
distruggerlo?" pensò. Poi mise le dita sulla tastiera, e scagliò gli
arpioni.
La testuggine sobbalzò: i tubi di lancio stavano diventando
incandescenti. Dall'abisso salì ancora un ruggito, e una nuvola
torbida. La terza murena si mosse piano, nel sangue e nel vomito,
all'indietro questa volta. Omar fissò l'eco che rimpiccioliva sul
monitor. Sentiva sulla lingua un sapore acido e piacevole. "Sei bravo,
sei un bravo cacciatore di pesci," disse.
Lorna tacque fino a che l'eco della città tornò a illuminare lo
schermo: la testuggine si muoveva, portata dalla corrente, nel fiume
sottomarino che lambiva l'immensa cupola. "Però non è stata una
buona caccia" aggiunse Omar. "Bisognava prenderli con gli arpioni e
rimorchiarli sui non farli a pezzi così."
Lorna sentiva rabbia e nausea, per quel grumo di infamie: le
murene assassinate senza bisogno; quell'uomo freddo e altero
malgrado i suoi delitti, orgoglioso della sua umanità, che gli frugava
nell'intimo… poggiò le mani sul pianoforte delle armi: gli arpioni
erano puntati addosso alla città, dritti davanti alla testuggine, ma
Omar ne aveva già staccato il contatto. Altrimenti avrebbe scaricato
sulla cupola (anche se inutilmente) tutti gli ordigni d'acciaio.

Chissà se ha già imparato a conoscere l'odore degli squali, è così


giovane e qui l'aria profuma solo di cedro, pensò Lorna, entrando
nella stanza.
La bambina cieca era ritta accanto all'acquario, le mani contro la
parete di cristallo tiepido, schiacciate forte, quasi a sentire i fremiti e
le onde dei pesci in movimento. Aveva i capelli raccolti sulla nuca, in
una crocchia d'oro, e l'ombra di un ematoma sul collo bianco.
"Ecco, ha sentito," pensò Lorna quando lei si voltò all'improvviso,
e nella gran sala gli puntò addosso gli occhi svuotati, e uno sguardo
che sgorgava direttamente dal buco che le affondava nel cervello.
Aveva la faccia pallida — s'era tolta la maschera dalle guance —
come rinsecchita, come se un'implosione dell'anima l'avesse
succhiata da dentro, giorno dopo giorno. "Buonasera." Era un saluto
duro, anche se non ostile. Un ringhio infantile. "Buonasera," disse
Lorna, ma più che una risposta era un sussurro: aveva tenuto la voce
bassa, sfiorita, e s'accorse di avere quasi paura. Si accorse che dal
fondo di quegli occhi vuoti qualcuno l'osservava, non lady
Mamoudy, ma uno spirito vendicativo che si rintanava nelle orbite
secche.
Non aveva mai pensato, così, alla vendetta. Lo spirito della
vendetta ci agita tutti, come burattini. Gli squali non chiedono
giustizia, ma vendetta: la giustizia è una forma raffinata di vendetta,
ma gli squali non sono raffinati. Quando, un'ora prima, la testuggine
s'era fermata sulla piattaforma di cemento, bestia morta sul cui
guscio bagnato la ruggine colava in rivoli scuri, ed Omar aveva
spinto il portello balzando a terra per primo, poggiando la mano sul
fianco del sottomarino ancora caldo e fremente come un animale in
riposo, Lorna aveva alzato i pugni sulla nuca dell'uomo.
Omar non aveva ancora teso l'Ombra sulle proprie spalle, e il
colpo dello squalo gli avrebbe infranto la nuca. Ma Lorna aveva
lasciato ricadere quelle mani lungo i fianchi, dopo un momento.
"Accendi la tua Ombra," aveva sibilato. Non sarebbe stata vendetta,
quella di fracassarlo sul pavimento, all'improvviso, in una morte
repentina.
"Ecco mio marito."
Non s'era accorto dei passi soffici sui tappeti, annegato com'era in
quegli occhi senza fondo. Avrebbe voluto parlarle di nuovo, toccarla,
passare ancora le sue dita di cartavetrata sulla pelle, già fino ai
riccioli radi del pube: perché quella bambina non andava in cerca di
vendetta? Si volse, e si trovò di fronte a un altro Mamoudy, ancora
livido in faccia e triste, ma d'una tristezza meno irrequieta e
rassegnata.
"Ormai sente i miei passi come un segugio, e mi conosce da
quelli," disse il vecchio. "Cosa mi hai portato, spazzino?"
Lorna avvertì sul viso lo sguardo della donna, lo sguardo che lei
non possedeva ma che pure gli buttava addosso. Era una sensazione
strana: gli fece passare la paura. Era così evidente che lei lo stava
indicando e accusando, che Lorna sorrise, e sedette di fronte a
Mamoudy, aspettando le parole della donna. Non poteva, ormai, non
averlo riconosciuto, né aver già scordato le sue mani dure dentro di
lei.
Ma l'uomo ripeté la domanda, "Cosa mi porti, spazzino?", e la
donna non parlò; andò via lungo il corridoio, sfiorando con le dita il
muro d'alabastro.

Lorna aprì la cartella di gomma e pose sul tavolo, davanti a


Mamoudy, una striscia telata, un uovo di metallo nero, e un nastro
registrato.
"Qui ci sono le impronte neurodigitali di chi ha lanciato il coltello
nella schiena di Valdemaro N'goa," disse. "È un riconoscimento che
non si può evitare nemmeno con la chirurgia della pelle: nella striscia
c'è la registrazione del potenziale elettrico nell'innervamento delle
dita; e uno i nervi non può cambiarseli. Bisognerebbe tagliarsi le
mani, per sfuggire a questa identificazione," disse, e sorrise. "L'avete
inventato voi uomini, per riconoscere meglio gli squali."
Lo sguardo di Mamoudy si fece di piombo. "Non ti faccio
ammazzare subito perché stai svegliando la mia curiosità. Ma non
tirare troppo la corda, spazzino…"
Lorna continuò a sorridere. "Scusa, signore. Ti chiedo scusa.
L'uovo contiene invece la registrazione di tutti i movimenti di
un'Ombra, l'ultima notte di Carnevale. Appartiene all'unica persona
uscita dalla villa sul picco… ad eccezione di lady Mamoudy,
naturalmente."
Gy Mamoudy tese una mano, secca come un osso nell'ampia
manica di seta, raccolse l'uovo e lo tenne in pugno. "Naturalmente,"
aggiunse, "le impronte e l'Ombra sono della stessa persona…"
"Naturalmente, signore." Ecco la droga più bella, la sua vendetta
senza sangue, ma ancora più profonda, che non coinvolgeva soltanto
Omar ma anche Mamoudy, e tutta la gente della città, la gente con
l'Ombra sulle spalle. "Il nastro, poi, è una specie di confessione. Oh,
è soltanto un sogno in realtà, ma è così pieno di circostanze strane…"
"Come si chiama?"
Non ebbe esitazioni. "Omar Khayam, lo scrittore."
L'uomo sospirò, s'acquietò e si lasciò andare nel trono d'avorio,
con gli occhi chiusi. Era una pace terribile, quella che gli stava
scendendo dentro. Ma era, comunque, una pace.
"Hai provato quel sogno?"
"È contro la legge, signore."
"L'hai provato?"
"A volte, solo violando una legge se ne può applicare un'altra."
Il Volto di Mamoudy s'increspò in una smorfia che divenne un
sorriso, le sue rughe parvero distendersi, ma quando aprì gli occhi
Lorna vide in essi un colore che l'impaurì. "Sarebbe un motivo, un
altro, sufficiente a farti uccidere dalle guardie, malgrado il buon
lavoro che hai fatto."
"Certo, signore," disse Lorna. Era disorientato: s'era battuto, aveva
vinto, eppure non riusciva ancora ad assaggiare il succo di quella
vittoria. "Hai fatto davvero un buon lavoro," disse ancora il vecchio.
S'alzò, prese il nastro e la striscia telata e li gettò nelle lame di
fiamma del camino: lì osservò bruciare, in un soffio brevissimo. "È
stato davvero un buon lavoro," ripeté. Troppo buono, aggiunse dentro
di sé. Dovrò occuparmi anche di te, adesso.
VII

Oltre il cielo di vetro, ma un vetro spesso come il corpo d'un


uomo, l'ingegnere sorrise e agitò le braccia. Sembrava una bambola
tozza e nera, con gli arti brevi e l'addome da insetto, chiuso com'era
nello scafandro. Batté una mano aperta su quel ventre tondo; dentro,
nel marsupio metallico, bolliva il generatore dell'Ombra. Senza quel
carapace misterioso, milioni di metri cubi d'acqua l'avrebbero
schiacciato contro il cielo.
Mosse ancora i piedi corazzati, alzando una nuvola di sabbia, e,
goffo come un manichino, andò verso la testuggine acquattata sul
vetro.

Mamoudy preferiva non guardare nell'abisso; appesa come una


cesta, sotto le nuvole, più vicina al cielo che alla terra, l'ampolla di
filigrana d'acciaio s'inclinò, mentre il braccio della gru la calava in
fretta.
"Piano," brontolò nell'amplificatore. "Non voglio ammazzarmi
proprio oggi."
Proprio oggi. E dov'era la foga che suo padre gli aveva predetto
sulla sua stuoia di morte, con la faccia riverberata in alto, perché la
Mecca era da qualche parte lassù? "Quando avrete finito il cielo, e
non resterà che costruire il mondo di sotto, il vostro lavoro sarà quasi
terminato. Festeggiatelo, quel giorno."
Non aveva mai parlato a lungo con suo padre, né gli aveva mai
rinfacciato abbastanza d'averlo fatto nascere in uno strano universo
umido, in mezzo a gente simile più a termiti che uomini e donne,
occupati tutto il giorno a mettere mattoni di vetro uno sull'altro, e
lamine d'acciaio contro l'orizzonte, un orizzonte fatto d'acqua,
anch'esso strano: l'avevano tirato su dritto e alto, e poi era diventato
cielo, e s'era saldato alla fine, proprio quel giorno, come il guscio di
un'immensa noce.
Non aveva mai parlato a lungo con suo padre, mentre il mondo si
chiudeva sopra di loro, ma ogni volta che s'erano trovati faccia a
faccia, gli occhi all'insù verso la Mecca, il vecchio Mamoudy aveva
ripetuto le stesse parole, sempre più rotte. "Quando il cielo sarà
finito…"
Se l'era portato via una sifilide antica, di cinquant'anni prima, e a
lui era venuto perfino da ridere, un riso amaro, davanti al tappeto
della morte, pensando ai maghi della scienza che avevano scrollato le
braccia, impotenti di fronte a quella mummia mangiata dai sogni e
dai batteri.
L'ampolla di filigrana sbatté sul terreno, la grande spiaggia che le
talpe meccaniche grattavano e frugavano in cerca della roccia, ancora
più sotto. Nella jeep sgangherata e piena di cigolii, sull'unica strada
del suo mondo ancora in cantiere, Mamoudy pensò ancora a suo
padre: era morto a centoquattro anni, nonostante tutto, ma i maghi
della scienza avevano garantito che in futuro la vita sarebbe stata
ancora più lunga… a patto di affidarsi a loro.

"C'è stato un tempo in cui guardavo in alto, e mi sentivo quasi


prigioniero di quest'eden appena creato," disse Mamoudy. "La città
era, allora, come una grande ostrica, con il guscio rigido e vuoto, e in
mezzo soltanto quella… anch'essa in costruzione." Si sporse sul
terrazzo, indicando l'ombra massiccia della Cattedrale. Poi si girò a
lady Mamoudy e il gesto si ruppe, abbassò il braccio e gli occhi.
Immobile accanto al parapetto di granito, la donna volgeva il viso ai
tetti della città, ma sulla maschera liscia che aveva calzato di nuovo
c'era soltanto la fessura, quasi uno sfregio di colore, delle labbra.
"Era più piccola, allora, era solo il gran batiscafo che avevamo
portato giù, poggiato sul fondo con le zampe di titanio, più di
centomila tonnellate, con i laboratori e una stiva piena di bare, di
sarcofaghi gelati. Dentro c'era la gente che mio padre s'era
comperato, e quei pochi che erano riusciti a comperar lui, offrendogli
il loro patrimonio in cambio d'un posto-letto in paradiso. Dormivano
in quelle celle, aspettando che qualcuno li tirasse fuori."
L'alba elettrica sbocciava in fretta e il chiarore corse da un
grattacielo a un altro, rifrangendosi in alto. Lady Mamoudy sentì sul
collo e sulle mani il tepore improvviso dei soli, e fece scivolare dalle
spalle lo scialle che l'aveva coperta. Il vecchio le parlava a voce
bassa, quasi chino al suo orecchio, ma senza sfiorarla.
"Ti annoio?"
"No."
"Ti interessa questa storia?"
"È nuova, per me. Mi chiedo se l'avresti raccontata ugualmente,
se…"
No. Non le avrebbe detto nulla. Ma ora quella presenza cieca gli
scavava nell'anima: aveva l'orrida impressione d'essere responsabile
d'ogni cosa, specie quando la notte si destava e vedeva nel buio
l'ombra di lei, immobile sulla poltrona a dondolo, mentre lo psicodin
le gocciolava dentro piano. O quando la sentiva frusciare, appena
prima dell'alba, inquieta nei corridoi, e sentiva il tocco delle mani di
lei sugli oggetti, sul vetro dell'acquario, e sugli arazzi il graffio delle
sue unghie. Lo spaventava quel tentativo insonne di riappropriarsi
degli oggetti perduti alla vista: soprattutto perché durante la giornata
lei taceva, così tranquilla dietro la maschera, e non mostrava
emozioni.
"Nessuno la conosce, questa storia," disse. "Io stesso l'avevo quasi
seppellita dentro, e dimenticata. La gente viene al mondo, si accoppia
e invecchia senza far domande… ma oggi è come se m'avessero
frugato dentro, e mi tirassero fuori il ricordo lontano, confuso, quasi
misterioso, d'una egira nell'abisso."
Si sentiva come un dio a mezzo servizio, invischiato nella melma
delle sue creature: quell'imbecille dei sogni, lui e i suoi delitti stupidi,
non immaginava neppure cosa avesse provocato.
"Come hai fatto a tenerti dentro queste cose, per tanti anni?"
chiese lei.
"Forse non mi rendevo conto di che peso fosse. Sai, non so
neppure quanti siamo, in questo mondo sottovetro. Uomini e pesci…
gli uomini fanno figli, e gli squali anche, ma gli uomini sono sempre
meno perché qualcosa corrode il nostro sesso, quaggiù, o la nostra
testa. E gli squali sono sempre di più. Presto, sento, dovremo passare
la mano."
"Non l'abbiamo già fatto, forse?"
Mamoudy sorrise un poco. Se l'era già chiesto, mentre lo squalo
spazzino l'ossequiava ipocrita, il giorno precedente, e gli faceva con
aria di scusa domande sempre più intime, e gli suggeriva come un
ruffiano il nome d'un uomo da condannare.
"Forse. Ma chi se ne accorge, oltre a me? Gli uomini hanno le
Ombre, e possono calcinare con il laser qualsiasi squalo, contro i
muri della casbah…"
"Ma quando non ci saremo più," disse la donna, e pose le mani
aperte sul proprio addome, liscio d'una fioritura ancora da venire, "e i
nostri figli non saranno che cadaveri ammuffiti, loro saranno ancora
qui, a ridere."
"È giusto, forse. Abbiamo cercato di andare più in là della natura,
e abbiamo perso. Loro stavano quaggiù prima di noi… e ci
resteranno anche dopo." Il vecchio Mamoudy starà rivoltandosi nel
suo blocco d'ambra e di silicio, pensò. È destino dei pazzi, rivoltarsi
nella tomba. "L'importante, piuttosto, è tenere lontano quel giorno.
L'importante è rimandare " Non se l'aspettava, quel grido. La donna
s'irrigidì e si staccò da lui, strisciando le mani sul parapetto. "E questi
occhi, allora? È stato un gioco, anche questo? Quel fuoco m'è entrato
nella testa e non m'ha ammazzato, per uno scherzo idiota del destino.
Mi ha lasciata cieca soltanto perché tu possa dirmi 'ci siamo sbagliati,
portiamo pazienza e rimandiamo?'. Il cielo non s'è spaccato quella
sera sul picco, quando io l'invocavo, per trascinare nella mia
disgrazia tutto e tutti. Ora dovrà spaccarsi soltanto se lo vorremo noi,
se lo vorrò io, e quando lo vorrò."
Si stracciò la maschera dal viso, ne fece un cencio gualcito fra le
dita, e la gettò nel vuoto, oltre il parapetto. "Io non sono nata da una
bara tenuta in frigorifero," urlò, il corpo scosso da una furia che
montava. "Non c'ero là dentro, con i morti che si sono pagati il posto
in paradiso. Sono venuta al mondo con l'acqua e il sangue, da una
madre di carne. Ho sedici anni, tutti veri, non ho mai dormito in quel
limbo laggiù."
Chiuse le dita sottili, a pugno, e percosse ancora il proprio ventre.
"E questa… nessuno me l'ha toccata, mentre in città le ragazzine
figliano a dieci anni i loro aborti di cartapecora, perché io sono la
benedetta da Mamoudy, e se non mi tocca Mamoudy nessun altro osa
farlo… nessun uomo! Bada Mamoudy, la città è piena di squali
infoiati, e io sono cieca e disperata."
La sua voce era un lampo stridulo, salì, salì e si ruppe, ma aveva
dentro tanta rabbia che continuò a sputare parole strozzate. "Non te
l'aspettavi, vero? Tre frasi così, soltanto un mese fa, e sarei finita
nella casbah a fare la puttana per i pesci." Ma adesso, senza occhi,
era così debole da non sentire più paura di nulla: Mamoudy lo capì,
immobile a qualche passo da lei, mentre il vento del mattino
prendeva a tirare verso i picchi, e tacque. "Non voglio la vendetta su
un uomo, Gy," soffiò lei, spossata all'improvviso, il volto bagnato di
sudore freddo. "Vorrei vendicarmi su tutto questo mondo… anche se
comprendo che sarebbe ingiusto, e folle. Portami dentro." Tese una
mano verso di lui, ma Mamoudy restò accanto al parapetto.
"Aspetta," disse.
Giù nella strada s'allungava piano il nastro del funerale. Era come
un'iride proiettata sull'asfalto, colorata e piena di rumore. "Portano
via Valdemaro, e Pat," mormorò il vecchio, raggrinzito anche nella
voce.
"Basta!"
Si girò e la guardò, dritta contro la portafinestra, la faccia nuda e
feroce. Poi lei infilò la mano sinistra in tasca, nell'abito lungo, un
istante solo, e la tese ancora in avanti, aperta: sul palmo rigido, tondi
e bianchi, Mamoudy vide gli occhi, lustri come cristallo bagnato.

La jeep s'era fermata, sul piazzale di ghiaia e cemento. Mamoudy


scivolò dal posto di guida: aveva i movimenti di un'anguilla, umidi e
imprevedibili. Era vestito di nero, gli stivali e la giubba impolverati:
il suo volto pallido e sottile era come il volto d'una giovane pulce, un
viso senza sole. Entrò nel batiscafo.
Era un immenso polmone d'acciaio: sentiva le macchine battere e
ansimare, un tonfo ritmico e continuo che mandava aria nella stiva.
S'arrampicò verso i piani alti, sulla scala a pioli, provvisoria come
tutta la costruzione. Lassù stavano i suoi maghi, gli scienziati
dell'atomo e della vita eterna.
Vicino a un oblò interno prese fiato. Era come un occhio
spalancato sulla grande stiva. Giunto a quel gomito, nel budello che
andava in alto, si fermava sempre a guardare dentro.
"Dovremo tirarli fuori, prima o poi," mormorò. Il fiato mozzo
aveva appannato il vetro, e lo ripulì con la manica della giubba. Era
come un alveare, un mosaico di cunicoli in verticale, un grandioso
nido d'ape. Da ogni apertura sporgeva un viso. Mamoudy li guardava
dall'alto, i crani tondi come biglie e disposti come in un gioco di
pazienza.
Provò a contare le teste, ancora una volta: cento file da dieci,
mille, millesei, millesette… Un giorno si sveglieranno, li tireremo
fuori da quell'inverno senza sogni e dovremo raccontar loro ogni
cosa: ecco il vostro mondo nuovo, il cielo è lassù e i soli stanno sopra
ogni cosa, poggiati proprio contro il tetto. Qui sarete signori, liberi
dal bisogno e (forse) dalla paura… "Quante balle," rise da solo. Ma
in quella penombra le teste lucide, rasate dai chirurghi, gli facevano
nascer dentro un'angoscia inattesa.
Un giorno o l'altro avrebbe girato l'interruttore, e inondato di sole
quel cimitero così effimero.
Salì altri gradini, fino al primo dei livelli superiori.
"Eccoti, Mamoudy," disse l'uomo seduto in fondo al laboratorio.
Era più grosso di lui, era un otre di lardo, e ringhiava e rideva,
parlando. "Il cielo è pronto, eh? Ora tocca alla terra, dunque. Basta
con le anime, pensiamo ai corpi," aggiunse. Aveva il corpo
massiccio, le membra gonfie e strette nella poltrona a rotelle, la pelle
tesa e smagliata. Il laboratorio non era che un tunnel d'alluminio e di
neon, la sedia scorreva su una cremagliera d'ottone e le braccia dello
scienziato potevano così raggiungere ogni pulsante sul muro, i
monitor e i terminali del calcolatore, e la botte dell'alcol, agganciata
al tavolo con dadi e bulloni d'acciaio.
"Ho una cosa da mostrarti," disse lo scienziato.
"Più tardi. È vero: il cielo è pronto, adesso. Accendi le tue
macchine e dimmi piuttosto: quanto tempi ti ci vorrà, a darmi il
resto?"
"Uh, il padrone ha fretta," disse lo scienziato, e fece ruzzolare la
sedia verso la spina dell'alcol. Sembrava una lumaca paralitica, priva
di guscio. "Perché non lo domandi a quello di sopra? O a quello di
sotto?" Batté il piede sul pavimento di ferro, due, tre volte. "Anche
nelle loro teste ci sono rotelle che girano."
"Sai che mi fido di te, più di tutti."
"Ah… fidarsi è bene. Chiedere l'oroscopo però è un'altra cosa: le
mie macchine non sono carte da fattucchiera." Rise ancora: aveva la
faccia schiacciata come l'effige di una moneta, e le labbra cotte
dall'alcol. Dove t'ha raccattato mio padre? pensò Mamoudy. "Oggi
con un pugno di soldi si compera un'università intera, e un buon
cuoco costa più di dieci filosofi," gli aveva detto una volta il vecchio.
Era una frase che aveva letto da qualche parte… in un libro sulla
Roma dei Cesari, la storia si ripete sempre. Ma è possibile che tu
fossi così importante?
Facciadilumaca bevve dalla spina automatica, poi s'allontanò dal
tavolo. "Ho una cosa da mostrarti," ripeté. Alzò un braccio nudo, la
manica rimboccata. "Ti darò dopo le risposte che vuoi."
La sedia a rotelle prese di nuovo a scorrere, verso la parete di
fondo. Il pannello d'alluminio si sollevò, lungo una rotaia verticale, e
Facciadilumaca indicò un'ampolla piena di liquido paglierino, su uno
scaffale. "Un fallimento…" disse, con la voce piena d'un rimpianto
che sembrava antico. Nei liquido galleggiava un corpicino molle, un
feto grigio e lungo, privo d'occhi. Accanto, in un barattolo di
cristallo, in una gelatina chiara, un altro oggetto stava immobile, gli
occhi spalancati, la miniatura d'un viso d'uomo con la pelle crespata,
e grandi cartilagini sfarfallate sul dorso. "Quello è migliore."
"Cosa…"
"Sopra," e Facciadilumaca alzò la mano lustra di sudore verso il
soffitto, "sopra già incrociano il seme per il terzo embrione. Quello
definitivo, forse."
"Sopra ci sono gli acquari, e gli ittiologi."
"Proprio così." Poi Facciadilumaca sorrise: aveva i denti lunghi,
sorprendentemente candidi, come zanne di cane. "Quando saremo
vecchi, non vogliamo facce di latta, intorno. Né giovani pieni di
boria. Vogliamo qualcuno che ci baci i piedi, come a un patrizio."
Allungò un braccio. "Eccoli, i nostri plebei." Poi aggiunse: "E
serviranno anche a voi…"
"Sei pazzo. Chi vi ha autorizzato… quando è incominciata questa
storia?" Mamoudy non riusciva a tirar via lo sguardo dalle ampolle e
dai feti, grossi come il pugno di un bambino.
"Avete comperato i nostri servizi, non il nostro cervello," disse
Facciadilumaca. "Quando non lavoro per te, non ho altri padroni.
Faccio… tutti facciamo quello che ci pare."
Mamoudy si girò a quel volto chiaro, così tondo e liscio che
sembrava spalmato di cera, e modellato. "Credi di sapere qual è il
bene, per tutti noi? Credi di saperlo tu?"
"No. Ma non me lo chiedo nemmeno. Sei tu, che credi di sapere
tutto."
"Cosa verrà fuori, da quei barattoli?"
"Chissà. Vedi, Mamoudy? Io non mi chiedo nemmeno questo.
Non vivrò per molto, ormai. Sono gonfio come una vescica, e non
durerò. Guardami: non sono che una limaccia piena d'alcol." Indicò i
feti nelle ampolle. "Sono più uomo io, o loro? La vita è vita; che
differenza fa, se è vita d'uomo o di pesce?"
"Non voglio che questa storia vada avanti."
"Hai bisogno di noi, Mamoudy, non puoi toccarci perché se noi
smettiamo di fare andare le macchine, quaggiù, si ferma tutto, e un
miliardo di tonnellate d'acqua inonda il tuo mondo. Non puoi fare a
meno di questo…" allargò le braccia corte, e indicò le pareti e il
soffitto, "di questo baraccone di fenomeni. Non venirci più, se non ti
piace. Avrai lo stesso i nostri servizi. Ma lasciaci in pace. E poi, sei
giovane: non dovrai sopportarci a lungo."
"Perché fate questo, allora? Ti contraddici… non parlarmi di
vecchiaia, e di facce di latta, e di giovani pieni di boria. Perché?"
"Oh." Facciadilumaca bevve un sorso d'alcol, tossì, sputò sul
pavimento incrostato di sale e di lordura. "Più tardi. Un'altra volta.
Ma non avere paura: te lo finiremo il tuo mondo, presto."
Tirò con furia il pannello di metallo e la cassaforte dei suoi orrori
si chiuse; Facciadilumaca si volse e disse: "Vattene."

E infatti erano morti, da un sacco d'anni ormai. Mamoudy cercò di


pensarci, ma ricordava soltanto date confuse: avrebbe dovuto
consultare i calendari e l'anagrafe, in archivio, per saperlo. Ora
Facciadilumaca stava nel suo blocco di silice, come un insetto, solo
un poco più raggrinzito di una volta, ma in posa da re: avevano tolto
il suo corpo paralitico dalla sedia a rotelle e l'avevano posto su un
piccolo trono. Guardava fisso in avanti, con le pupille di plastica
opaca, più in alto della testa dei visitatori, come se continuasse a
correre dietro a un sogno.
Sono tutti al museo, ormai, pensò Mamoudy. Avevano costruito un
reparto apposta per loro, davvero un baraccone da fiera: tutti in fila,
storpi, sciancati e gente dalla faccia bizzarra. I padri — ma diceva
questa parola a bocca amara: un padre non è stipendiato per il suo
mestiere di genitore — stavano allineati, uno accanto all'altro, contro
la parete: una nevicata di polvere s'era posata sulle bare cilindriche,
come grandi barattoli di marmellata d'oro.
In quella stanza entrava poca gente: a chi interessano le maschere
del passato? Mamoudy, decine d'anni prima, aveva dato un ordine:
"Seppelliteli senza nome. Che i giovani non abbiano genitori da
bestemmiare, né Cristi o antenati." Non è bene, pensava, che la
teologia diventi cronaca. Quelle gambe mozze e le facce da lupo non
avrebbero mai potuto entrare nel mito.
Erano morti, adesso. Chiusi nell'ambra e nel silicio interpretavano
i pupazzi del passato, le maschere, lo storpio e il paralitico in un
mondo in cui erano tutti perfetti. E felici, pensò Mamoudy.
Perché felici? Se lo chiese, d'istinto. Gli squali sono infelici o
felici, a seconda dello stomaco pieno o vuoto, d'un oroscopo fausto o
infausto, d'un coito compiuto. Essere felici presuppone la facoltà di
scelta, l'alternativa: noi viviamo in questa città una gravidanza senza
fine, protetti, saziati, con gli schiavi per sfogare le nostre rabbie, i
servi e i sogni. Ecco: qui la felicità è merce che si compra in cassetta,
già registrata e collaudata da altri.

C'era gente insolita, al funerale: ma era la moda dell'ultimo


momento, appena sbocciata nei bazar di città. Gli occhi del
manichino di Mamoudy ruotarono in cerca di Omar, fra le facce
dipinte che si allineavano dietro al carro di latta. Era gente alta, d'una
longilinia allampanata e strana. Tutti uguali, o quasi: volgevano il
capo uno all'altro, girando a vite, dentro il collo a bullone, la faccia
gelata come da una iniezione di psicodin.
Soltanto pochi uomini, fra quei manichini, si muovevano come al
luna park, ridendo a gola piena quando la loro Ombra urtava e
fondeva, in uno sbuffo di scintille, le membra sintetiche. Il funerale
puzzava di plastica arsa.
Mamoudy pilotò lo sguardo del proprio manichino, in quel
balletto di bambole. Da ogni balcone, sulle facciate dei grattacieli, si
affacciava gente: guidavano da lassù i loro sosia, per gioco. Era
l'inatteso seguito del Carnevale. Erano così rari, i funerali in città.
Vide Omar, quasi addosso al carro, l'Ombra ardente sulle spalle:
non l'incontrava… da quell'ultima sera di Carnevale, rammentò.
Rigido, in piedi nella sala buia, sentì improvvisamente freddo. Le sue
gambe secche tremarono. È l'anima che mi si scuote, pensò.
Il suo manichino zampettò più veloce, nel funerale. Altri pupazzi
si parlavano, e dalle orecchie e dalle labbra elettroniche le parole
rimbalzavano nelle case in alto, sotto i soli. "Giocano come bambini
rincitrulliti," mormorò Mamoudy, e il manichino ripeté le sue parole,
piano. "Continueranno a masturbarsi, con le loro bambole, fino alla
fine."
Poi Omar si volse, e vide il profilo bruno: non era la faccia di
Mamoudy (altri avevano volti sintetici, di cartaplastica, fotostampati
in cima al corpo da stenterello), ma solo una sfera liscia, con gli
obiettivi accesi nelle orbite, e nella gola nera il reticolo del
microfono.
"Devo parlarti."
Omar riconobbe la voce, ma non s'inquietò. Se tiene dentro la
paura è un buon attore davvero, pensò Mamoudy.
"A proposito di che cosa?" L'uomo continuava a camminare
eretto, dietro al carro. Il pupazzo di Mamoudy non replicò. "Sei qui
di persona," disse, ronzando, dopo un lungo istante.
"Dovevo farlo. Sai bene cosa rappresentava, per me, Pat. E poi…
non sopporto queste macchine."
Mentiva bene, se mentiva.
"È grave e urgente," sussurrò il manichino, piegato verso di lui
con un atteggiamento di buffa premura meccanica. Omar sorrise:
"Sono a tua disposizione. Al termine del funerale, fra qualche
minuto, tornerò al mio appartamento."
"Puoi venire da me?"
"Ne sarei onorato, davvero. Ma ho un gran lavoro, e urgente, da
finire." Rise dritto negli occhi del manichino, e Mamoudy lo vide
beffardo, così in primo piano davanti a lui. Omar si batté un dito
sulla tempia: "Ho una storia, qui. Farà un gran successo, il prossimo
mese."
È stupido, o è furbo come un vecchio prete, pensò Mamoudy. Il
suo pupazzo si piegò ancora, goffamente, per sussurrare ancora.
Omar alzò una mano: "Se è davvero così urgente, vieni tu da me.
Oppure manda la tua bambola."
Tranquillamente, senz'ansia sulla faccia pallida, aveva lanciato la
sua sfida. "Verrò io," mormorò Mamoudy.
"Bene. Non sopporto queste macchine," ripeté Omar. Nel clamore
del funerale pochi se ne resero conto: alzò la mano guantata di
velluto nero, e puntò il laser al petto del manichino bruno di
Mamoudy. Il pupazzo s'incendiò, e la plastica annerita colò
sull'asfalto.
VIII

S'era preparata a gridare di gioia, al primo filo di luce. L'aveva


atteso quasi con angoscia, ma quando spalancò gli occhi il dolore le
rintronò fin nella nuca.
"È insopportabile," gemette. Eppure, anche se affogava in un
groppo di pianto, nessuna lacrima le veniva sulle ciglia. Era un
dolore arso e asciutto: il bisturi aveva reciso (e lo spray suturato)
anche quei dotti che il fuoco di Carnevale aveva lasciato intatti.
"Chiudi gli occhi di nuovo," le disse l'uomo vestito d'azzurro.
Almeno, azzurra era l'ombra che s'era riflessa nel suo sguardo.
Lady Mamoudy fece scorrere le dita sui bordi del lettino: era una
barella di ferro, al centro della stanza dove s'era addormentata poco
più d'un'ora prima. "Spegnete quelle luci," sussurrò. L'uomo vestito
d'azzurro inserì una cartuccia sedativa nella pistola ipodermica.
"Sono già spente," disse piano.
Bastava dunque il chiarore tenue della sala, a ferirla così? "È
inutile, allora," disse, serrando ancora le palpebre, come per tenere
lontana quella luce così dolorosa.
"No. Purché tu prenda i calmanti regolarmente. Fra qualche
giorno il male se ne andrà." Il chirurgo tacque, e accostò la pistola al
petto della donna, sotto il seno. "Dopo, semmai…"
"Lo so," l'interruppe lei. Dopo, fra un mese, fra un anno, sentirò
un bruciore nel cervello, dove i nervi di questi occhi s'allacciano agli
altri, solo un pizzicore da principio. Poi la fiamma si alzerà, proprio
come un fuoco acceso in un angolo della testa.
"Non durerà tanto, però." Il chirurgo le aveva parlato fin troppo
chiaro, il giorno in cui s'era presentata a lui. "Ma prima che tu possa
impazzire, le cellule del tuo cervello moriranno. Anzi, cominceranno
a morire proprio quando il fuoco incomincerà a montare. Sarà quasi
un sollievo, poi, andarsene…"
Aveva detto così, 'andarsene'. Da principio, quando la donna era
entrata nella clinica clandestina della casbah, aveva rifiutato. C'era
soltanto una donna, con gli occhi bruciati, in città, e Gy Mamoudy
era troppo potente, per sfregiare così il suo nome.
Ma la donna era stata brusca: "Sei un sopravvissuto, dottore. Il tuo
ospedale miserabile sta in piedi soltanto perché chi dovrebbe vigilare
fa finta di nulla. Credi che non si sappia di come, ricucendo le ferite
degli squali, tu impedisci che siano registrate le risse, gli aborti e gli
omicidi?"
"Perché non vengono qui, allora, a bruciare tutto?"
"Perché tu sei utile, in fondo. Sei come lo psicodin, o i sogni per
gli uomini: garantisci la… pace sociale." Un sorriso s'era stirato sul
viso del dottore. "Ma non è abbastanza, sai? Basteranno quattro
parole all'orecchio di Mamoudy, e avrai qui i robot della guardia, e
perfino gli spazzini. Non ci vuole molto, a sostituire un chirurgo
fuori legge."
E lui aveva capito: se quella donna avesse voluto, il cerchio dei
suoi affari si sarebbe chiuso per sempre. Lo tolleravano, sapeva,
anche per i piccoli interventi clandestini sugli uomini che volevano
soltanto cicatrici ufficiali, sulla propria faccia. Ma era una tolleranza
da pochi soldi, sempre in bilico su un sottile asse d'equilibrio.
"Torna dopodomani," aveva detto. "Al mattino. A sera avremo
finito."
Aveva preso la piccola teca di madreperla, senza guardarla: quegli
occhi artificiali erano l'orrido risultato degli esperimenti più recenti,
alla Cattedrale — la donna era potente davvero, se poteva
procurarseli così — più orridi d'ogni altra eresia biologica. Erano
gioielli radioattivi: li aveva riposti nella cassaforte foderata di
piombo, in fretta, e la donna se n'era andata, sorretta da un'ancella al
cui fianco era appesa la canna brunita e breve d'un laser.
E ora stava lì, sdraiata e ferma, con la paura d'evocare il dolore di
poco prima aprendo quegli occhi. "Perché fai questo?" le sussurrò.
Credette che si fosse già assopita. Poi la donna scosse il capo, i
riccioli schiacciati sul cuscino, e fece un sorriso: "Non chiedermelo.
Non potrei risponderti neppure se volessi… non lo so davvero."
Ma non era così. "Non ci si brucia il cervello per… qualcosa che
non si sa," disse l'uomo. Lady Mamoudy sbatté ancora il capo, a
destra, a sinistra.
"Taci," aveva ringhiato come un animale: non serviva mentire,
soprattutto a sé stessa. Aveva qualcosa da fare: non s'era messa
addosso quegli occhi tragici solo per rivedere la faccia triste e piena
di premura di Mamoudy.
"Quando potrò andar via?" sussurrò.
"Presto. Ora dormi: quando ti sveglierai sarai libera."

Mamoudy camminava svelto sul marciapiede: se la sentiva quasi


pizzicare dentro, nelle gambe e negli avambracci, tutta l'adrenalina
che s'era fatto sparare nei muscoli prima d'uscire. Non aveva
l'Ombra, non gli piaceva portarsela appresso.
Un manichino bruno gli sorrise, incontrandolo. "Salute. È bello
rivederti in strada."
Anche Mamoudy sorrise: "Volevo farlo da tanto tempo. Me ne
mancava l'occasione, semplicemente." Era il manichino d'un altro
uomo importante, ma non ne ricordava il nome. Il pupazzo restò
immobile contro il muro, mentre il suo padrone, da qualche parte in
città, si affannava a cercare le parole da dettargli.
Mamoudy tirò dritto. Prima di lasciare l'appartamento aveva
trasmesso altre istruzioni, alla Cattedrale. "Trovatemi subito l'Ombra
di lady Mamoudy. È uscita di qui all'una e mezza, più o meno."
Se n'era andata di casa così, in fretta e in silenzio: cieca com'era,
aveva portato con sé soltanto un'ancella e un fulminatore. Era troppo
inconsueto. "Appena avete notizie, di qualsiasi genere, chiamatemi.
Ho con me un ricevitore."
Ora camminava, davanti agli squali della guardia così silenziosi
che il loro passo era solo un fruscio. Tornava con stupore in quelle
strade vuote, ora che non c'erano Carnevali, feste o funerali.
Da mesi non calpestava il selciato consunto — anche quella città
si consumava, dunque — consunto e pieno di muffe, sempre più
consunto mentre scendeva verso la casbah. No, non scendeva, ma
l'impressione era quella: andare verso la casbah era come rintanarsi,
lontani dai grattacieli, in un ghetto basso e scuro, con le case
costruite una a ridosso dell'altra.
Omar Khayam abitava laggiù, come gli artisti e quelli che
credevano d'esserlo, e potevano sostenere le spese per sembrarlo.
La casbah era cresciuta piano, con gli anni era strisciata fuori dal
vecchio recinto dove gli squali avevano costruito le loro tane —
pochi s'erano rifugiati negli scantinati dei grattacieli — e s'era come
gonfiata, aveva occupato tutta la grande spiaggia lasciata sgombra
dall'antico cantiere della città, con le sue strade, i vicoli, le baracche
sghembe e i sottopassi.
Mamoudy l'osservò, dall'altra parte del vialone come dall'altra
parte di una terra di nessuno: case stinte, ammucchiate senza criterio,
muro a muro, torve di notte quando i soli si spegnevano, e appesi
sulle porte non rimanevano che i lampioni gialli e viola, a illuminare
i finti brividi degli uomini con l'Ombra. Di notte la gente della
casbah sembrava sussurrare dentro i muri, e correre dentro i muri,
pieni com'erano di aperture segrete. Di notte soltanto i grattacieli
degli uomini erano serrati come casseforti, e morti.
Le case degli artisti (gli veniva da ridere solo a pensarla, quella
parola) davano all'esterno, sul viale, erano più grandi e intonacate di
fresco. Mamoudy passò il palmo d'una mano sul muro tinto: era
liscio, lo graffiò con le unghie ma non lasciò segni. Un velo
trasparente e duro era stato spruzzato sull'intonaco. Eccole le case
d'artista, finte come tutta l'arte: perché questa gente preferisce star
qui, dietro a un muro falso? pensò.
Lo scalpiccio della guardia s'era fermato: erano rimasti immobili
davanti a un portone senza scritte, con l'occhio delle telecamere
sbarrato in alto sull'architrave, e il numero d'ottone finto. Era quella,
la casa di Omar.
"Aspettate all'angolo della strada. Non fate venir qui nessuno,"
ordinò Mamoudy. "Né uomini né…" lasciò la frase a metà e li guardò
in faccia: non sapeva nemmeno cosa cercare nei loro occhi; un cenno
d'assenso sarebbe stato sufficiente, non erano automi muti, ma quegli
occhi erano bianchi, vuoti e freddi. "Aspettatemi laggiù," ripeté.
Si volse all'uscio e premette entrambe le mani sulla piastra di
riconoscimento: se Omar l'aveva programmata, i battenti si sarebbero
aperti subito. Sentì un leggero calore nelle dita, poi la porta si
schiuse.
Salì le scale d'una rampa stretta, dieci gradini verso un'altra porta
in alto, illuminata. E all'improvviso gli scoppiò dentro una gran
rabbia, così inattesa che si fermò sui gradini e guardò verso l'uscio di
legno (legno vero, roba da vecchia casbah, questa volta): l'aveva
soffocata per troppo tempo, seppellendola in fondo all'anima, era così
evidente che batté il pugno sul corrimano.
È una decisione meschina, uno squalo non si cercherebbe una
vendetta diversa, lo farò fuori così facilmente… pensava in fretta,
come se in precedenza non avesse riflettuto a sufficienza. Ma la mia
vendetta non è importante: è il mondo che conta, e questo mondo non
deve andare in frantumi così presto. Anche se è ben povero un
mondo che, per salvarsi, deve affidarsi agli umori di un vecchio.
Tirò il fiato: la serratura della porta in cima alla scala era scattata.
Salì i gradini che restavano, camminò nel vestibolo pieno d'ombra ed
entrò nella stanza. C'era vento, così forte che sembrava aria
d'uragano, i libri sul pavimento si sfogliavano a schiocchi secchi, e
sulla fronte di Omar, immobile sulla poltrona, i capelli erano
scompigliati.
Contro la parete, rigido, i capelli anch'essi agitati, un altro Omar
lo fissava con gli occhi spenti.
Omar Uno, quasi ai piedi di Mamoudy, respirava piano, con la
cuffia dei sogni applicata alle tempie. Il vecchio spense il ventilatore
che agitava quel turbine di carta, e guardò il manichino: assomigliava
allo scrittore come nessun pupazzo aveva mai assomigliato al suo
originale. Sedette di fronte all'uomo, volgendo le spalle al burattino:
poi, chinandosi piano, gli sfilò dal capo la cuffia.
Omar gridò: per un attimo il suo sogno inondò la stanza, e la
faccia di Mamoudy si mischiò al delirio. Poi si destò, batté le
palpebre e guardò il vecchio.
"Devi sparire," disse Mamoudy. "Al più presto."

"Cosa significa, sparire?"


"Lorna ha le prove di tutto. Sa che hai ammazzato Valdemaro, e
Pat…"
"Gli uomini hanno compiuto ben altri delitti, in passato, senza
destare tanto scandalo."
Mamoudy sospirò: lo stanzone era colmo di oggetti inconsueti e
antichi, una macchina dattilografica, bottiglie soffiate nel vetro e
dalle forme strane, di uccelli e pesci lunghi e sottili, e sul muro c'era
un grande dipinto, su alluminio: il ritratto di Pat N'goa che rideva con
le labbra aperte, i denti come mandorle in fila. Era una fotografia di
molti anni prima.
"Questa volta, però, hai colpito me. In due maniere: attraverso mia
moglie…"
"Non è stata colpa mia."
"Vorrei esserne sicuro. Ma, soprattutto, hai distrutto il destino che
mi spettava. Hai condannato questa città. Ti sei fatto scoprire da uno
squalo, come un idiota."
"Condannare… è una parola grossa. Tu hai dato quell'incarico allo
squalo."
Omar si alzò: com'è magro, pensò Mamoudy, i sogni e lo psicodin
se lo stanno mangiando. Omar s'avvicinò al registratore dei sogni:
prese nel pugno una bottiglia di vetro soffiato, si volse al vecchio,
ridendo, era una bottiglia antica e a forma di squalo, e colpì forte il
registratore, sui microfoni e sulle bobine arrotolate. Il vetro si spezzò,
tranciò i fili e la plastica. Poi Omar gettò sul pavimento il coccio,
rovesciò il registratore e infranse le piastre dei circuiti. Spalancò le
braccia a Mamoudy: "Ecco."
Il vecchio era rimasto seduto, immobile sul divano, e l'osservava.
"Giustizia è fatta," rise ancora Omar. Fra le sue dita, dove il vetro
della bottiglia s'era rotto, colava un filo di sangue.
"La giustizia è il modo più intelligente per conservare il potere.
Per chi ce l'ha già, questo potere. Così tu non sarai punito per il tuo
delitto, per Valdemaro e Pat, ma perché con le tue stupide azioni hai
messo in pericolo l'ordine della città," disse Mamoudy. Omar era
stato un buon strumento per lui, era il migliore fra gli artisti dei
sogni, e l'aveva aiutato a colare cemento sulle fondamenti del suo
regno. Ora non serviva più. Peggio: era dannoso.
Lo scrittore sciolse un nastro magnetico, lo sfilò fra le dita e
lanciò la bobina nella stanza, come una stella filante. "Finalmente
delle parole chiare," disse. "Cosa succederà adesso?"
"Te ne andrai."
"E se io non volessi?"
"Posso farti ammazzare: ma sarebbe un giorno di festa, per gli
squali. Ho paura di loro, l'ho avuta fin dal giorno in cui guardai
dentro una provetta che conteneva il loro seme. Se ti facessi uccidere,
si godrebbero due volte il sapore della vendetta: per merito d'uno di
loro — Lorna, ricorda — uno di noi finirebbe sulla forca elettrica. E
poi… capirebbero che non siamo così forti, così superiori, no, non
sarebbe una buona politica, quella di farti morire in piazza."
Omar sorrise ancora. Era una logica sottile, senza sbavature.
"Potrei farti sparire, seppellirti nelle fogne. Ma sono anni che non
ordino un'esecuzione del genere. Preferisco che tu vada via. Via di
qui."
Omar si rizzò. Portava una giubba nera e i pantaloni flosci e pieni
di borchie, lo stesso abbigliamento del manichino appoggiato al
muro. Alzò le mani, le sue dita erano sporche di sangue, erano lunghe
e tremavano un poco, e le passò sul viso del pupazzo. Schiacciò con
la mano destra la pelle artificiale e livida di quel viso, e spinse,
facendo leva sull'avambraccio sinistro passato dietro alla nuca di
Omar Due: sentì un cigolio sottile, la testa si staccò dal tronco e un
liquido scuro colò d'improvviso lungo il collo sintetico. Omar prese
quell'oggetto fra le mani, lo guardò come un assurdo specchio, poi lo
gettò fra i rottami del registratore.
"Ecco," ripeté. "Ora non ci sono proprio più. Ma non ci saranno
più nemmeno i sogni. Attento, Mamoudy: è soltanto con i sogni che
la gente si sente viva, e se ne sta buona. Senza i sogni avrai dei morti,
intorno a te, ma dei morti che faranno la rivoluzione."
"In città c'è bisogno di fantasia, è vero. E tu sei sempre stato il più
bravo, nel dargliela. Come tutti gli artisti che credono di avere la
rivoluzione in pugno, sei stato lo strumento di conservazione più
efficace. Ma adesso è finita."

Il vecchio, lì dritto a fare l'accusatore, non gli metteva paura:


adoperava argomenti razionali, che tuttavia non gli ispiravano né
rimorso né pietà. E le sue minacce: andar via… e dove?
"Abbiamo trovato l'Ombra. Sta ferma da molte ore, in un centro
di ricevimento della casbah. È un centro grande. Ci sono con lei
almeno quattro altre Ombre, identificabili in breve tempo. È andata
direttamente lì, all'una e mezza." Erano parole roche, che uscivano
da una gola di vetroresina, una piccola gola nella cintura di
Mamoudy. Il vecchio sfilò la fascia di pelle di pescecane, e la mostrò
a Omar: il ricevitore era poco più grande della fibbia. "Avanti,"
mormorò Mamoudy.
"C'è una visita precedente, registrata, nello stesso posto: tre
giorni fa."
Mamoudy guardò Omar. "Te l'immagini la faccia di quello che sta
parlando?" gli disse il giovane. Un uomo che si scrolla distrattamente
dalla testa la cuffia dei sogni, che legge senza capire il nastro che un
computer gli passa, e se ne frega di te e del tuo animo. Oppure uno
squalo, addirittura uno squalo, che ride sommessamente mentre ti
parla.
Siamo tutti finti, siamo pupazzi che fabbricano altri pupazzi:
burattini che non possono fare altro che recitare il proprio copione.
Questa città non è che un immenso palcoscenico.
Mamoudy teneva la cinta fra le mani. "Perché hai ammazzato quei
due?" chiese.
"Uh. Lascia stare. Dove abbiamo appeso le nostre anime, questo
dovrebbe importarti di più. In quale attaccapanni abbiamo appeso
l'anima? Qui l'anima non esiste più. Le anime stanno appese al
soffitto di questa città, come tanti pipistrelli neri."
"Sei ubriaco di letteratura e parli come nei libri. Non vedi un dito
più in là del tuo naso. Smettila di fare il buffone: le cose accadono
anche se tu non lo vuoi."
Omar si sentì svuotato, come un manichino a motore spento.
"Dove dovrei andare?" chiese. "Sopra. Oltre il cielo."
"È impossibile."
"È possibile, invece."
"Non ci andrò mai."
"Oh, sì che andrai. Altrimenti non ti resterà che ammazzarti con
discrezione in qualche vicolo, o farti inchiodare a un muro dal
fulminatore di Lorna. So che ne ha una gran voglia."
Venne ancora un suono di vetroresina, dal ricevitore nella cintura:
"Attenzione. L'Ombra s'è mossa. Sta uscendo dalla casbah, insieme
con un'altra…" La frase restò sospesa: Mamoudy aveva ancora la
testa alla Cattedrale, cercava di immaginarsi la faccia di quell'uomo
che leggeva al microfono, mentre il computer gli sputava la banda
metallizzata fra le dita. Omar prese a baloccarsi con il nastro filato, il
nastro del sogno che aveva lanciato nella stanza: ne aveva fatto una
benda grottesca, e l'avvolgeva piano intorno alla sagoma decapitata
del manichino, come una mummia mostruosa.
Quest'uomo non ha più nulla da dirmi, pensò Mamoudy. S'avviò
verso la porta: "Hai un paio d'ore di tempo. Pensa a tutto ciò che t'ho
detto: manderò qualcuno a prenderti. E non inventare follie: sei ben
sorvegliato. La tua Ombra ti sta dietro meglio di una spia e tu non
puoi farne a meno, qui. Non puoi scapparmi. Ma non voglio
nemmeno giocare con la tua pelle: dovrai convincerti che non ci sono
vie d'uscita, per te."

Pat aveva raccolto i capelli sulla nuca, in una crocchia piccola,


trafitta dalle forcine di vecchia madreperla. "È incredibile quanta
roba sono riusciti a portare giù: potrei mettermi gioielli e vestiti di
venti epoche diverse."
Gli aveva passato le braccia intorno al collo, l'aveva baciato su un
angolo delle labbra, a piccoli morsi morbidi. E Omar l'aveva baciata
a sua volta a occhi aperti: gli piaceva guardare le prime, brevi rughe
intorno ai suoi occhi verdi. L'aveva baciata a occhi aperti sempre, fin
dal primo giorno d'amore.
Ora finiva così, senza che nessuno riuscisse a tirar fuori un solo,
buon motivo. "Sono stanca," mormorò Pat.
Avevano fatto l'amore come due macchine perfette, sul pianoro fra
i picchi, all'ombra della jeep, con le carezze di sempre e le parole di
sempre soffiate nell'orecchio, e i sussulti di sempre. Ora lei si
rivestiva, accucciata di fronte a lui, i seni penduli, improvvisamente
casta, mentre si copriva con le mani, velandogli il ventre.
"Hai vergogna?" le chiese.
"No. Sì. C'è qualcosa fra noi, adesso… cioè, manca qualcosa, che
prima c'era. Ti sei abituato a me."
Omar s'abbottonò piano la giubba. "Sei bella," sussurrò. Non
glielo aveva detto spesso. "Non dev'essere più vero, ora che lo dici,"
mormorò lei. Gli leggeva in faccia e dentro, ormai.
Avevano fatto l'amore in fretta, schiacciati uno contro l'altro, lo
sguardo di ciascuno perso dietro le spalle dell'altro. "Non voglio più,
così," disse lei. "Né con i manichini, né con lo psicodin," gli aghi di
cristallo erano in terra, intatti. "E non voglio più fare l'amore con te,
nei tuoi nastri maledetti. Non voglio che tu usi noi… e usi me, per
inventare i tuoi sogni.
"Hai mai visto i granchi nell'acquario? Si rincorrono, si
accoppiamo, sono sempre gli stessi, ma è come se fosse sempre
diverso."
"Non siamo animali. Omar, almeno non fino a questo punto."
"Non so. Mi sento… come uno che sale le scale di corsa, arriva in
cima e trova sbarrata l'ultima porta. E non può più tornare indietro
perché, mentre saliva, i gradini diventavano di calce secca, e si
sbriciolavano alle sue spalle."
Lo capisci, questo? avrebbe voluto mettersi all'improvviso a
urlare. Sto perdendo te, e non ho la minima idea di come riempire
questo vuoto che mi si apre dentro. In questa città del demonio
l'alternativa alla realtà è il sogno, ci sono migliaia di sogni, che si
comprano in bottega. Ma io, che i sogni li fabbrico?
Pat s'era rivestita, e ora allacciava gli stivaletti chiari, trafficando
con le cinghie, in una posa da bambina…
E finiva così, un ronzio e uno schiocco, il suo ultimo sogno
incompiuto: non c'erano più parole nel suo diario, avrebbe voluto
finirlo, metterci tutte le parole che non le aveva mai detto, e
mandarglielo, perché quel sogno era solo per lei, ma non aveva fatto
in tempo; nella vita di lei s'era infilato Valdemaro, e la sua
dichiarazione d'amore, così tarda, gli era rimasta fra le dita.
Fece scorrere indietro il nastro.
Quando Mamoudy se n'era andato, Omar aveva atteso che la porta
sbattesse, giù a pianterreno, e che lo scalpiccio della guardia
s'affievolisse all'angolo della strada. Poi aveva spinto la cartuccia
magnetica nella cuffia dei sogni, ma aveva aspettato ancora, prima di
mettersela in testa. Dovrei fare ordine qui dentro, preparare i bagagli
dell'esilio, e prima ancora dovrei accettare di andarmene davvero, se
davvero non c'è scampo come dice Mamoudy, ma la realtà ha mille
facce, anche in un mondo così piccolo che a farne a piedi il perimetro
cammineresti al massimo tre giorni, e Mamoudy potrebbe essere
pieno soltanto di senilità isterica.
Aveva preso la cuffia e se l'era posta contro le tempie.

Non fece in tempo a mandare indietro tutto il nastro, a


riavvolgerlo, per sognarlo ancora.
Lady Mamoudy bussò giù alla porta, spinse le mani aperte sulla
piastra della serratura, spinse e i campanelli trillarono e Omar fece
scattare la serratura dabbasso, mentre le telecamere s'illuminavano
sulla scala interna e sulla piccola donna che saliva, che entrava, e se
la trovò lì, nel vestibolo, mentre lui aveva ancora la cuffia dei sogni
fra le dita.
Lady Mamoudy si guardò attorno: c'erano frammenti di vetro e
plastica dappertutto, sul tappeto con le frange chiare, e il corpo senza
testa d'un manichino sporco d'olio, che colava come una bava gialla.
"Ho poco tempo," disse lei. Aveva addosso una tunica piena
d'arabeschi (è il disegno nella pelle di uno squalo, aveva detto
Mamoudy, un giorno), una bandoliera leggera e, sul viso, una
maschera piccola, che copriva soltanto la fronte e gli occhi, una
bautta nera.
"Ti rivedo, alla fine, Omar," disse. Era una strana parola, sulle sue
labbra sottili. "Ci vedi," mormorò l'uomo. Fece due passi, non se la
ricordava così gracile, gli arrivava al mento e aveva i tacchi di
gomma, alti: lei gli passò le mani intorno al corpo. "Sono molto
triste," disse.
"Perché sei venuta qui?"
"Ti ricordi della notte di Carnevale?" disse lei. Se la ricordava fin
troppo bene, ma non riuscì a parlare. "Sì," sussurrò.
"È l'ultimo ricordo della mia vita di prima. È doloroso, sai, ma
non è brutto. È così doloroso che mi dà una specie di piacere,
dentro."
È pazza, completa.
"No, Omar. Fino ad oggi sono stata nel mio appartamento, chiusa
nel delirio. Ma ora ci vedo: e tu sei il mio ultimo punto di
riferimento, qui."
"È sciocco."
"So che te ne andrai. Forse non ti lasceranno tornare mai più. Ma
nemmeno io durerò molto…"
Non capiva, ma se la strinse contro, aveva cercato di chiudere i
drammi degli altri fuori dal suo bunker, ma adesso, con l'irruzione di
quella piccola donna, era come se tutta la gente della città
s'accalcasse nella stanza, con le sue angosce.
"Voglio fare l'amore con te," disse lady Mamoudy.
"Fra un'ora Mamoudy sarà qui, con i suoi sgherri. Sei pazza."
Ma la donna s'era sfilata l'abito, con un gesto solo, era nuda sotto,
era rimasta nuda con gli occhi coperti dalla maschera scura. "Non
aver paura. C'è giù la mia guardia, quella personale. E poi, in questo
momento staranno tutti a chiedersi perché la mia Ombra stia ferma
così a lungo in strada. M'è bastato semplicemente cacciare la cintola
in una fogna."
Era dura. Omar s'accorse che stava per stuprarlo e che era giusto,
perché era il primo atto violento in tutta la vita di lei. S'aprì i calzoni,
s'accovacciò sul divano e la tirò sopra di sé: era leggera come un
manichino, aveva la pelle chiara, così chiara che vedeva bene le sue
vene blu, sottili, scorrere nelle braccia e nei seni piccoli. "Sei
vergine?" sussurrò, sentendola dura anche dentro.
"Non chiedermi cose del genere," disse lei, sospirando piano, e le
mani di lui le carezzavano il pube.
"Ti…"
"No. Sii sincero, almeno adesso."
Omar le accarezzò i capelli sulla nuca, e sciolse il nastro che le
stringeva la maschera sul volto. Fu così rapido e naturale che lei non
se ne accorse neppure, ma Omar gemette guardandola, e il suo corpo
si fermò.
"Gli occhi…" Era come fare l'amore con una bambola: erano
occhi di vetro chiaro, fissi e immobili, eppure lo guardavano. Se la
schiacciò sul petto, per non vederli più, e continuò a muoversi così,
come una macchina con il motore a molla, su e giù con le reni fino a
che lei non singhiozzò e disse "Basta," ma "No, sono io a volerlo,
adesso," mormorò Omar. Sentiva il corpo di lei più caldo, velato d'un
sudore leggero che le correva sul seno e lungo le cosce.

Fu lei scuotersi poi, al biip sommesso che trillava dentro la sua


bandoliera, fra gli abiti nel mucchio sul pavimento. "Presto, vestiti,"
gli sussurrò all'orecchio, tenendo le palpebre chiuse per non fargli
vedere quelle due cose di vetro. "Svegliati," ripeté più forte,
passando una mano sul viso di lui.
Omar la guardò: era ancora sdraiato, e il corpo nudo di lei gli
pesava addosso, ancora sporco per l'amore che avevano fatto. "Cosa
c'è?"
"Vengono. La mia guardia li tratterrà, ma non so per quanto."
Omar si rivestì di furia, dritto in piedi s'infilò gli stivali, mentre la
donna continuava a star lì, aveva aperto gli occhi ma li riparava con
l'avambraccio poggiato sulla fronte. Sorrideva, piano e triste.
Omar sentiva come una bestia l'odore del pericolo che gli veniva
addosso, per la prima volta. Andò nel vestibolo e s'allacciò la cintola
dell'Ombra, ma la voce di lei lo chiamò: "Lasciala. Saprebbero dove
trovarti, in qualsiasi momento. La conserverò io, per te."
Tornò nella stanza: "Ti farò sapere, in qualche modo, dove
raggiungermi. Te lo manderò a dire, da qualcuno." Lei non scostò il
braccio: s'era tirata addosso il vestito, come una coperta. "Non
pensare a questo, ora. Scappa."
Il biip suonò ancora, più acuto. Poi s'interruppe e la radio tacque.
"Vai. Non pensare a dove… via di qui, per il momento."
Si chinò a baciarla, ma lei teneva le labbra chiuse, i denti duri.
Omar corse giù per le scale, in strada. C'era scuro, nel vicolo, il
primo buio di quell'ora incerta, prima che i soli si spengano del tutto.
Li vide arrivare svelti, una mezza dozzina, sembravano squali-
spazzini in uniforme, chini in avanti lungo il muro. In fondo alla
strada, dove il vicolo s'allargava nel viale, scintillavano i contorni di
un'Ombra umana. Poi cominciarono a correre: capì che non si
sarebbero fermati davanti alla porta, a parlare nel citofono, a chiedere
di salire: si mise a correre anch'egli, giù per la strada, sui ciottoli
muffiti che portavano ben dentro la casbah.
Sparano, ora sparano. Se lo ripeteva dentro, e invece il colpo non
veniva, né la luce del laser. Svoltò in un vicolo più stretto: non aveva
idea di dove portasse, ma corse con un nuovo terrore dentro, eccolo il
nuovo sentimento che era andato cercando per tanto tempo, il terrore
gli si versava addosso, gli faceva stridere le ossa, aveva paura e
scappava. E la paura più grande era quella di saper bene che non
c'erano luoghi per nascondersi davvero.
Sentì un soffio sulle spalle, come aria che frigge, e i muri si
illuminarono, un lampo solo, mostrando il muschio e l'intonaco che
veniva giù. Sparano, sparano davvero, ora sì che la caccia è
incominciata, squali a caccia d'un uomo, dev'essere proprio la prima
volta.
Il vicolo era senza uscita, si chiudeva contro un muro basso e
verde d'una muffa salata e spessa, una parete di mattoni che qualcuno
aveva tirato su, come per sbarrare la strada. Saltò a ginocchia unite e
con le braccia tese, abbrancò i mattoni più in alto, si scortecciò le
dita, poi riuscì a tirarsi sul muro.
Gli era venuto caldo d'improvviso, un sudore quasi bollente che
gli scorreva dentro le maniche: si lasciò cadere, dall'altra parte, e vide
in alto una corona di schegge luminose, dove il laser aveva spazzato
il margine del muro.
La corsa degli squali s'era fermata, dietro i mattoni: sentì che
stavano per saltarlo, facendo scala con le mani e le ginocchia.
Cominciò di nuovo a correre, nel vicolo che ora saliva e si
contorceva, prima a destra poi a sinistra. Non era mai stato in quel
luogo: le botteghe erano ancora aperte, anche se non c'era più gente
nella casbah; era il vicolo delle pelli, e negli antri Omar sentiva
battere e lavorare con il trincetto e gli aghi elettronici.
Udì un botto forte, e soffocato, come un gran colpo di tosse: il
muro era crollato, infranto da una mina. E lui, non aveva con sé
neppure un fulminatore. Da una bottega venne una voce: "Presto, qui
dentro. Non ti troveranno."

S'accasciò sul tappeto, non aveva nemmeno il fiato per ansimare.


Un profumo agre, sottile, veniva dai bastoncini profumati, immersi
nello psicodin e seccati al fuoco delle alghe d'acquario. "Grazie,"
soffiò.
Il locale era ampio e basso, a pianta quasi quadrata, con il soffitto
affrescato da un pittore pazzo, e coperto d'arazzi: se la ricordava
diversa, la tana della fattucchiera. "Certo, perché sei sempre passato
dall'altra parte, quella degli uomini," disse la strega.
"Perché mi hai tirato qui dentro?"
"Oh. Quando uno scappa, nella casbah, trova sempre aiuto.
Chiunque sia."
Omar la guardò in faccia: senza il velo di garza nera teso sul viso
sembrava più vecchia, la sua pelle s'era come impallidita con gli
anni, da grigia che era, e solo gli occhi erano fondi e vivaci, nel volto
pulito dai cosmetici.
"E poi, correvi senza Ombra," disse. "È raro che a correre senza
Ombra, nella casbah, non sia uno squalo."
"Sai chi sono?" domandò Omar. Abbassò lo sguardo.
"Certo." C'era una specie di riso, nelle rughe della strega. Gli
porse una tazza di coccio, acqua e spirito. "Bevi," disse, e Omar
bevve fino in fondo, mise la tazza vuota sopra un tavolino basso, e
borbottò: "Verrà qualcuno, qui?"
Avevano messo qualcosa nella tazza, insieme all'alcol. "No," disse
la strega, e gli sorrise. S'addormentò quasi senza accorgersene.
Si destò un'ora più tardi. Accovacciata accanto a lui, sul tappeto,
la strega s'era velata il viso. Omar sentì le braccia come di pietra, e
un fuoco pesante nella bocca. La strega vide che s'era svegliato, si
alzò e scivolò verso una porta in fondo alla stanza. Bussò. La porta si
schiuse: gli occhi pieni di febbre di Omar videro solo una grande
ombra grigia, e un abito rosso.
"Eccolo, Lorna," disse la strega. "Portatelo via."
IX

Un boato, e lo spuntone di roccia se ne andò in frantumi.


Mamoudy rimase immobile, ansimando quasi rauco nell'ombra.
S'appoggiò alla pietra: la pallottola aveva sbriciolato il granito, e una
scheggia aveva fischiato sulla sua faccia.
Sorrise, però. Soltanto una persona adoperava ancora le pistole a
polvere. "Oliver, piantala. Sono io," latrò. Non pronunciò alcun
nome: la voce sarebbe bastata, anche se era più carica d'anni. Puntò
la torcia nell'oscurità e l'accese: il fascio di luce salì verso le grotte,
modulando un segnale.
"Sali, Gy. Se avessi voluto prenderti davvero, non avrai
sbagliato." Anche la voce di Oliver era più vecchia, più rauca, una
voce piena di rughe, ma il tono del suo sarcasmo non era cambiato.
Mamoudy alzò ancora la torcia e lanciò un altro segnale, verso il
basso. Ora che era arrivato in cima s'accorgeva del batticuore che gli
spremeva i polmoni e gli toglieva il fiato. Quando il bulbo,
sull'impugnatura della torcia, s'illuminò e qualcuno in basso segnalò
d'aver ricevuto il messaggio, tirò un sospiro. "Vieni giù, Oliver,"
disse al buio.
"Macché. Sei venuto fin lì, beato te che puoi muoverti tanto,"
ringhiò ancora Oliver. "Finisci la tua scalata."
Mamoudy lo maledì in silenzio, rise e s'arrampicò ancora. Poi la
faccia di Oliver uscì dal buio, era il volto d'un orco che rideva,
incorniciato di barba grigia e nera, folta sulle guance. Sedeva sul
gradone d'ingresso alla grotta più alta, vestito di stoffa spessa, la
pistola a polvere ancora nelle mani. Mamoudy avvertì l'odore della
cordite, nell'aria pesante. "C'è puzza, quassù," disse. "C'è anche
puzza di mare."
"Per forza. Siamo così vicini al cielo."
Era impossibile, certo, ma Mamoudy guardò le nuvole di sabbia
chiara che si muovevano oltre il cielo, spinte dalla corrente. "Anche
tu puzzi, Oliver."
L'orco rise piano. "Ti sei bruciato i polmoni solo per venire a
insultarmi in casa mia?" disse. "Da quanto tempo non ci vediamo?"
Mamoudy indicò l'antro scuro: solo una luce velata s'allargava
contro le pareti. "Andiamo dentro."
Oliver era grottesco e pesante, ma s'alzò agilmente ed entrò nella
caverna. "Fai luce," disse. Mamoudy puntò la torcia e inondò la
grotta di luce gialla.
Non era soltanto un buco nella roccia. La parete di fondo era
d'acciaio lustro, viscida d'un grasso che teneva lontane le muffe:
quando i soli s'accendevano Oliver stendeva sulla parete una canapa
verde e nera, che assorbiva i riflessi.
Il muro — Mamoudy lo sapeva, era una porta, in realtà — girò su
un cardine silenzioso, e i due uomini entrarono nella vera tana
dell'orco: c'era caldo, e l'odore del mare era più aspro, dentro.
Mamoudy sedette su una panca, foderata anch'essa di canapa. "Ho
bisogno di te," disse.
Oliver sembrava ancora più grosso, sotto il soffitto basso. Prese
una lattina di champagne ghiacciato dal frigorifero e la tese a
Mamoudy. "Non è più quello d'un tempo," fece, con un'aria di
rimprovero nella voce. "O giù si perdono i costumi dei bei tempi
passati, oppure hai ordinato ai cantinieri della Cattedrale di spedirmi
gli scarti."
"Non t'ho riempito il becco di champagne per nulla, in questi anni.
È il momento che tu faccia qualcosa per me, adesso."
Oliver sorrise. Stappò un'altra lattina, e bevve a garganella il
liquido paglierino e sintetico. "Sei l'unico a poter cambiare orizzonte,
se vuoi," rispose. "Non è poco, in questo mondo d'acqua." Indicò un
cunicolo nella parete più grande, dietro di sé. "È sempre pronta e
lustra," aggiunse.
"Non fatico a crederlo." Mamoudy accennò verso una stuoia di
vimini sottile, al suolo. "Non è roba nostra, questa."
Oliver si rabbuiò, come di fronte a un'accusa infamante. "Cosa
vuoi da me?"
"Due viaggi, presto, stasera stessa o domani. E poi… che tu
distrugga tutto."
"Spiegati meglio. Vorrei non aver compreso."
"Dapprima un uomo… un ragazzo, quasi. Lo porteranno su fra
poco. Non c'è bisogno che io ti dica dove abbandonarlo: conoscerai
certo un posto, una spiaggia, uno scoglio."
"Io non conosco nulla." Oliver aveva posato la lattina sul tavolo, e
lo guardava con attenzione adesso, senza ironia e senza ridere.
Dunque, era venuto il momento. Succedevano cose molto gravi in
città, dunque. "E l'altro?" chiese.
"Uno squalo."
"Sei matto?"
"Lo porterai vicino al primo, poi tornerai giù e fracasserai il
Nautilus. Senza botti, niente esplosivo. Fonderai la roccia con un
cannone laser, chiuderai tutto e te ne verrai in città."
"Non parlo per me," mormorò Oliver. "Ma tu… vuoi restare qui
per sempre? Ti sei circondato di gente finta, di manichini di plastica,
di squali con la faccia da uomo. Non vuoi andare a morire da un'altra
parte?"
"No. Io sono di questo mondo, ormai. Niente di quello che
abbiamo costruito qui deve finire altrove. Nient'altro, almeno. Quei
due, che andranno su, sono la mia follia senile. Ma quando, magari
fra mille anni, questo cielo andrà in malora, nient'altro deve
contaminare l'universo di fuori. Le poche tartarughe che prenderanno
il largo saranno distrutte dal mare, come nocciole schiacciate."
"Bah. Allora sarò morto e roso dai tarli."
Ronzò una cicala d'allarme, sulla porta d'acciaio.
"Sono i miei uomini con la prima parte del carico," disse
Mamoudy, alzandosi. Oliver lo seguì, poi spalancò la porta-parete:
sfilò ancora la pistola a polvere, e la puntò nel buio. "Meglio star sul
chi vive," ghignò a Mamoudy. Aveva ritrovato il vecchio sarcasmo.
"Quando succede quello che sta succedendo, be'… potrebbe saltar
fuori da quelle rocce anche Maometto."
Ah, squali, pensò poi, quando vide i portatori grigi e la barella con
il corpo lungo e fasciato nel velo di cellofan. Sembrava morto e
imbalsamato, pronto per il museo. "Portatelo dentro, vicino al
tavolo," ordinò. "Poi mettetevi in fila, contro il muro," aggiunse
Mamoudy.
Oliver guardò dritto nello sguardo del vecchio, mentre quelli
obbedivano. Lo vide estrarre un laser dorato dalle pieghe dell'abito: i
suoi occhi guizzarono. Alzò il cane della pistola. Se mai in città era
stata compiuta un'azione che non richiedeva testimoni, ebbene, era
quella.
"Sbrighiamoci," disse Mamoudy. "Prepara la tua macchina,
caronte."

Omar si risvegliò legato, intorpidito, pieno di dolore nel fianco


sinistro. Giaceva sul dorso, gli occhi velati. Alzò un braccio per
strofinare le palpebre che gli bruciavano, e sentì tendersi i legacci che
gli tagliavano la carne.
Era come una bara grigia, metallica, piena di fremiti e di rumore.
Lo sguardo gli si schiarì, e riuscì a distinguere i bulloni di ferro, la
ruggine che gli si era spolverata sul petto, e quella testa grigia e
lorda, i capelli lunghi, che gli mostrava la nuca.
O era un acquario? Poteva guardare a destra e a sinistra, con la
coda dell'occhio, e vedeva un vetro azzurrato, e fuori brevi onde
luminose, lamprede che saettavano nell'acqua e pesci minuscoli.
Scosse il capo, con dolore: soltanto negli acquari aveva visto pesci
così vicini e colorati.
Cercò di respirare, ma un'aria di plastica e cellofan gli si incollò
sulle labbra, lo fece tossire e soffocare nel suo stesso fiato.
Oliver si girò verso Omar, a quel singhiozzo. "Buon giorno,"
brontolò. "Finalmente." Tese indietro un braccio: impugnava una
lama sottile e, quasi a tentoni, tagliò il cellofan che aveva sigillato il
respiro dell'uomo.
Era come l'inizio d'un sogno. Ne aveva inventati tanti, Omar:
buttò fuori un brutto suono, un altro singhiozzo.
"Niente domande, prego. Non te ne farò io, e il diavolo sa quanto
vorrei sapere i motivi di questa situazione," disse Oliver. "Ma
neppure tu, devi chiedere."
"Cos'è questo?" gorgogliò Omar.
"Mare, tutto è mare al mondo, no?" Oliver s'era rigirato, nella
stretta bara davanti a lui, e sembrava stringere un volante, o una
cloche. Un fiotto di memoria gli riportò in mente le parole di Gy
Mamoudy, le ultime. Non era un vaneggiamento, lo scherzo d'un
vecchio scemo, dunque. Né un sogno scritto da qualcuno che lui non
conosceva. Lo stavano portando… dove?
Voltò il capo e il mare gli sembrò più chiaro, quasi verde, come il
vetro d'una bottiglia. Che mare era mai quello? Il mare è nero. Provò
un nodo d'angoscia in gola: l'ignoto che aveva tante volte
confezionato per gli altri, ora gli piombava addosso. Per davvero. E
quel caronte brizzolato stava veramente governando il suo viaggio
oltre le nuvole.
"Ehi," gridò. "Maledizione, gira i timoni e torniamo sotto."
La voce di Oliver gli giunse più lontana. Per rispondergli non s'era
neppure voltato. "Sotto? Questo è un viaggio da cui non si ritorna,
dovresti saperlo."
Fu come se un altro cellofan gli avesse fasciato l'anima: tossì,
soffocato da quelle parole. E si guardò intorno, più attento, più
disperato: la macchina era lunga e stretta, forse ovale, un proiettile
d'acciaio occupato quasi interamente dal pilota e dalla barella che lo
legava. Sentì dietro alla nuca il fischio sommesso dei motori a getto,
che pompavano acqua e la sputavano indietro, e il gorgoglio del
risucchio. Tese i muscoli delle braccia, ma i lacci si strinsero ancora,
e gli fecero male.
Davanti, il suo custode sembrava essersi scordato di lui.
L'acqua chiara, piena di riflessi, gli baluginava negli occhi. "Ehi,"
chiamò ancora.
Poi il fischio si trasformò in rombo, e lo scafo prese a vibrare,
schiantandosi nelle onde: Omar chiuse gli occhi. Dall'oblò una
cascata di luce si versava nel Nautilus, filtrata appena da una schiuma
bianca. Oliver ruggì: "Copriti la faccia con questo." Si volse,
abbandonando la cloche, e con entrambe le mani gli schiacciò sul
viso il guanto scuro d'una maschera a ossigeno. Lo graffiò sul collo,
con le unghie sudicie, mentre allacciava i fermagli. "Sveglia,
sognatore," gridò. "Queste cose non le hai viste mai, nemmeno nei
tuoi incubi."
Schiaffi d'acqua e di vento ricoprivano i vetri di spuma e
salsedine. Omar succhiò l'ossigeno dalle bombole come se di tutta
l'aria del mondo non fosse rimasta che quella. La luce bianca,
incredibile, era così… pura che lo feriva anche a occhi chiusi.
Poi anche le grida di Oliver se ne andarono, sommerse da un
frastuono più alto. "Attento," urlò il pilota, il Nautilus s'impennò, la
poppa in alto, la prua dritta nell'acqua. I lacci che tenevano Omar si
tesero, i ganci saltarono e l'uomo sbatté la fronte contro la seggiola
del pilota. Gli sembrò di affogare in un mare di dolore.

Gli avevano lasciato soltanto la spada, quella sottile e lunga


dell'alta uniforme. Non gli rimanevano altre armi, e l'avevano
costretto a sfilarsi l'abito davanti a loro, era rimasto nudo e livido e
s'era rivestito con i panni che Gy Mamoudy aveva portato con sé. Poi
l'avevano guardato come un oggetto da vetrina.
"La tua spada sarà più che sufficiente," disse il vecchio. "Non ci
sono Ombre, dove andrai. Perfino quelle mani potrebbero bastare."
Le mani di Lorna erano dure. Le sue nocche di cartilagine
spezzavano le tavolette d'ardesia, negli allenamenti e nelle
esercitazioni. Ma ora gli sembravano nude anch'esse, facili da
scorticare come la pelle d'un uomo. Sorrise a Mamoudy, ma cupo,
senza complicità. "È troppo tempo che non le adopero," disse.
Parlava a Mamoudy come a un altro squalo, ormai. Il vecchio s'era
scoperto davanti a lui, s'era presentato indifeso, e Lorna avrebbe
potuto ferirlo a piacimento, bastava volerlo. Il vecchio, lo sentiva,
aveva bisogno di lui.
"Non ho più niente da dirti. Oliver ti spiegherà il resto," disse
Mamoudy.
La macchina che stava oltre il muro di pietra, dietro la porta che
colava un muschio verde e lento, pulsava come un cuore di ferro. "È
quasi pronta," disse Oliver. Andò vicino a Lorna stringendo fra il dito
indice e il medio una siringa. Non la nascondeva. "Devi
addormentarti," spiegò. "Uscire con il Nautilus sarebbe un colpo
troppo forte, per te."
Aveva una faccia un'espressione strana, come un veterinario in
procinto di operare una bestia, mentre diceva quelle parole vaghe.
Lorna s'irrigidì, poi disse "Forza," e gli offrì l'avambraccio. La paga
sarebbe venuta dopo, e l'avrebbe ricompensato di tutto, una gran
paga.
Sussultò un istante, poi sentì un brivido di sonno. "Hai salutato i
tuoi? Hai già distribuito gli addii? " gli mormorò Oliver.
"Quali addii?"
Oliver scosse i capelli grigi: li aveva raccolti in una specie di
treccia. Dunque quella povera bestia non sapeva nulla. Sussurrò al
suo orecchio: "Non torneremo più qui sotto. Il Nautilus salterà in
aria, quando sarai sceso sulla spiaggia." L'aveva deciso solo in
quell'istante, di dirglielo. "Metterai le zampe sulla sabbia e io farò
scoppiare i motori."
Mamoudy, dritto vicino alla porta, li osservava. Sapeva quali
fossero i loro discorsi, li conosceva e non gli importava. Aveva gli
occhi dritti sulla faccia di Lorna, e scrutava in essa il sonno che
veniva in fretta.
Lo squalo si scosse, cercò di agitare le braccia, inutilmente: erano
già inerti. Per la seconda volta s'era sentito vincitore, e per la seconda
volta Mamoudy l'aveva ingannato. Sentiva una gran rabbia bollirgli
dentro. Ma non poteva più muovere neppure le mani. S'era illuso, e
ora le sue illusioni erano sbattute via, nell'oceano. Soltanto Omar
Khayam, la sua preda, sarebbe stato vicino a lui. Dove avrebbe
trovato il coraggio per eseguire gli ordini, quelli di Mamoudy e quelli
che gli venivano da dentro, gli ordini di uccidere?
Fasciarono con il cellofan anche il suo corpo. "Gliel'ho detto,"
mormorò Oliver.
"Lo so. Ma ti sbagli, se credi di cambiare così il suo destino. In
fondo la sua vendetta sarà più pura, se avrà ancora voglia di
prendersela. Là fuori non avrà altro da fare, se non vendicarsi. Ma io,
che resterò qui sotto?"
"L'hai scelto tu, questo destino," grugnì Oliver. Poi aprì il portello
nella fiancata del Nautilus, e abbrancò il corpo di Lorna. "Aiutami a
metterlo dentro," disse.
In fondo derubavano anche lui, del suo destino. Non aveva
passato la vita in quella grotta sui picchi solo per traghettare, alla
fine, due cadaveri. "Davvero dovrò distruggere tutto?" chiese.
"Non l'hai ancora digerita, vero? Ma non ho cambiato idea. E non
la cambierò."
Oliver alzò il capo e si mise a ridere, anche se non ne aveva alcun
desiderio. Rideva per forza, cercando di ferire il vecchio. "Omar se
n'è andato. È sparito, perduto, è già morto… forse. Il Nautilus ha
picchiato contro qualcosa che galleggiava, s'è mezzo ribaltato e
riempito d'acqua," disse. Vide che Mamoudy si faceva attento. "Il tuo
uomo s'è quasi rotta la testa, nel colpo. L'ho messo fuori, sul canotto
d'emergenza, altrimenti saremmo andati a fondo insieme. Così se l'è
portato via la corrente. E io sono qui."
Mamoudy lo guardava, da sotto in su, le mani sui fianchi. Non
sembrava turbato da quelle parole. "Porta Lorna lassù. Tu sai dov'è
andato a finire Omar, dove l'hanno portato le correnti. E lì vicino
abbandonerai Lorna."
"Lo abbandonerò se potrò, e quando potrò."
"Lorna s'arrangerà: potrà scannare Omar su qualche spiaggia, o
risparmiarlo. C'è soltanto una cosa che non potevo permettere: che
rimanesse qui sotto. E tu lo porterai su."
Oliver abbassò lo sguardo. "Forse hai ragione tu. Ma io non
appartengo più né a questo, né a quell'altro mondo. Porterò sopra il
cacciatore, come ho portato la preda. E fracasserò il Nautilus. Ma
deciderò io il modo, e il luogo, e il momento," disse. E poggiò la
mano contro la parete: dentro, le pompe elettriche continuavano ad
ansimare.
Parte Seconda

Di nuovo era scesa la notte. I rilevatori a cristallo, sul cassero,


tintinnarono, e il messaggio corse dentro il cervello. Era un impulso
di secondo grado, cioè d'importanza secondaria. I relais del Gran
Simpatico scattarono, e tutta la nave s'illuminò. Sul grande pannello
del ponte di comando soltanto una spia, un segnale di luce verde,
rimase spenta: una lampada era infranta, a poppa.
Il Gran Simpatico spedì un avviso lungo i circuiti di intervento
ordinario. Una scheda rossa — assistenza necessaria ma di secondo
grado, non urgente — cadde in una cesta d'alluminio, nella sala della
manutenzione. S'ammucchiò in terra, come le schede della sera
prima, e dell'altra ancora.
L'oggetto A-19 fu inquadrato nel radar dopo dodici minuti e
trentacinque secondi. Il faro infrarosso corse automaticamente sulla
sua posizione, dritto a prua, scostato di due gradi dalla rotta prevista
fino a mezzanotte. Il cervello lo registrò in fretta: oggetto di tipo A,
diciannovesimo rilevamento sconosciuto nella giornata di
navigazione. Il faro infrarosso mandò un altro messaggio: la
temperatura dell'oggetto era di 35,5 Celsius. Origine organica. Il
cervello annullò la prima classificazione, e la sostituì sugli schermi
neri dei terminali, in ogni angolo della nave. B-01. Cercò nelle
memorie: da almeno quarantacinque cicli non avvenivano
rilevamenti organici con temperatura superiore a 35 celsius.
Scrisse anche quello, sugli schermi del ponte di comando.
Quando l'oggetto B-01 entrò nel raggio d'intervento automatico,
meno d'un'ora più tardi, il cervello riconsiderò la questione: non
erano venute istruzioni, di nessun tipo, da nessun terminale. Il
sistema di rilevamento ed esplorazione meccanica entrò in funzione:
gli occhi elettrici dei calabroni si spalancarono a poppa, secchi, nelle
orbite di latta. L'explorer fu calato sul pelo dell'acqua nera, frusciante
lungo la chiglia. Quando il faro infrarosso misurò una distanza ormai
inferiore a mille metri, e il radar confermò il dato, i calabroni
spiccarono il volo.
XI

Era una spiaggia lunga e bianca, non c'era sabbia ma pietre,


ciottoli e sassi piccoli come grano e tritati dalle onde. Lorna guardava
il cielo e nient'altro, il cielo e il mare: Oliver l'aveva lasciato così,
steso sulla schiena vicino al canotto ormai sgonfio, un metro sulla
battigia.
Gli aveva carezzato la faccia ancora dura e insensibile, ed era
tornato sul Nautilus, sguazzando nella spuma a mezza coscia. Gli era
venuta all'improvviso un'espressione più vecchia in viso, aveva
cambiato anche colore, era livido sugli zigomi dove la barba non
cresceva. Chiuse il portello, lo serrò da dentro, Lorna udì il getto che
frusciava nelle onde e il Nautilus virò nell'acqua.
L'avevano imbottito di psicodin e di quel narcotico strano, verde
scuro nella fiala: s'era risvegliato in quell'aria pesante e piena di sale
con la pelle gelata, e aveva cercato invano di muovere le gambe nel
sacco dove l'avevano ficcato. Era immobile come una statua di
granito, anche se i suoi occhi e la sua testa erano desti.
Così aveva visto il Nautilus mettere la prua al largo, in una nuvola
di schiuma, e andarsene piano fino a che non s'era fermato di nuovo,
a centro metri dalla riva: la spuma s'era come sgonfiata, il Nautilus
aveva dondolato nelle onde un minuto, poi s'era dissolto in un lampo
di fuoco e di fumo chiaro. Una ventata calda gli aveva mosso i
capelli.
Oliver non raccontava balle, dunque. L'acqua bollì, evaporò in
fretta, poi la brezza di terra spianò le onde.
Lorna sentiva i muscoli aggrovigliati che si distendevano piano.
Era l'alba e in faccia a lui saliva un sole, uno soltanto, e gli scaldava
il viso. Teneva gli occhi socchiusi: la luce lo stordiva e le sue
palpebre glabre non proteggevano abbastanza le pupille.
Poi il ghiaccio nelle sue braccia si sciolse: era davvero come un
disgelo, la carne gli bruciava addosso e faceva male. Si rizzò a
sedere: slacciò le corde che lo fasciavano, si sciolse da quel sacco e si
tirò in piedi. Guardò il mare: c'erano soltanto due croste grigie a
galleggiare dove il Nautilus era esploso. Slacciò anche il nastro che
teneva la spada legata stretta alla sua gamba sinistra.
Perché Oliver l'aveva abbandonato su quella spiaggia chiara? C'è
ancora qualcuno al mondo che pensa che mi fiaccherò a correre
dietro a Omar, in questa terra strana? pensò. L'orizzonte era lungo e
piatto: chiaro, dove il cielo toccava il mare, lontano cento chilometri.
Zoppicò lungo la spiaggia, poi volse le spalle al mare e risalì le
dune: c'erano piante basse e tignose, aggrappate alla terra con le
radici dure, secche di fuori, piantate dritte. Ne strappò una e la morse,
e dentro, oltre la corteccia, sentì la polpa molle e bagnata. Era un
mondo, quello, da affrontare a denti stretti.
Il sole gli batteva dritto sulla schiena: sfilò la giubba, la piegò e
l'avvolse sull'avambraccio sinistro. Poi pensò che quel fuoco gli
avrebbe seccato presto la pelle, l'avrebbe raggrinzita come cartone:
era una pelle fatta per l'abisso, e per sentire l'acqua gelata scorrere
lungo le braccia. Quel sole unico e forte l'avrebbe scorticato: si gettò
nuovamente la giubba sulle spalle.
C'era un'altra collina spelata, dietro la duna, e un'altra ancora. Più
andava verso l'interno e più il rumore del mare si perdeva in un
fruscio alle sue spalle, più il terreno s'empiva di ciottoli e d'erba, e la
sabbia si mischiava al terriccio giallo. Ancora più in là — si volse e il
mare era scomparso dietro le gobbe di ghiaia — s'alzavano piante
grandi e folte, come le erbe dell'acquario giù in città. Era come un
orto botanico, ma un orto steso all'infinito.
L'ombra umida lo confortò: strappò un ramo, e schiacciò le foglie
larghe fra le mani. Si frizionò il petto con quel verde, come una
pomata: l'erba gli lasciava una traccia fredda sui muscoli. Sorrise.
Avrebbe dovuto farsi un ombrello di foglie, prima di uscire ancora in
quell'inferno caldo.
Poi l'erba frusciò alle sue spalle, e Lorna reagì come gli avevano
insegnato fin da piccolo, nella casbah: la sua mano destra sfilò la
spada dal fodero con un gesto solo, morbido e veloce, e si girò al
rumore, pronto a uccidere.
Ma anche quella era gente che sapeva combattere: erano venuti in
due dietro di lui, fianco a fianco, ma si separarono subito. Avevano la
pelle scura entrambi, ma erano diversi come uno squalo della casbah
e un uomo dei grattacieli. Uno era piccolo, con i capelli lunghi tinti
di verde, e le unghie verdi e i denti verdi — rideva a zanne scoperte,
puntando un tubo lungo e sottile verso il suo viso — e se non avesse
indossato uno straccio scarlatto intorno al torace, Lorna l'avrebbe
visto a fatica, nell'ombra delle piante.
Era il più vicino, e Lorna l'attaccò, gridando. Se quel tubo era ciò
che lui immaginava, un laser o perfino un'arma da fuoco, lo gnomo
era più pericoloso dell'altro, un gorilla massiccio armato solo d'una
picca piena di ruggine.
Il pirata verde saltò indietro, evitò il mulinello della spada, rise e
sparò. Era un'arma a polvere, dunque: fece un botto e uno sbuffo di
fumo, e il grumo di piombo spezzò un ramo, di netto, a un metro
dalla testa di Lorna. Lo squalo balzò ancora in avanti: non doveva
lasciare allo gnomo il tempo di prendere la mira. Proprio come in una
rissa, in taverna. Inciampò, scivolò e cadde: fu per quello che anche
il secondo sparo lo mancò. Non era un'arma a ripetizione: lo gnomo
abbassò il tubo. Da terra Lorna gettò un grido rauco: si volse all'altro
pirata, mulinando di nuovo la spada, e lo colse nel petto: il gorilla gli
era venuto addosso di slancio, senza precauzioni. La spada gli
penetrò nel torace, lacerando i muscoli. Lorna sentì il rumore d'un
otre stracciato, quando la lama entrò nei polmoni.
Non pensò neppure a ritrarre la spada: saltò ancora, verso lo
gnomo verde. La sua pistola era di nuovo carica, adesso, ma il pirata
non riuscì a sparare: Lorna era più grande di lui, gli cadde addosso e
lo travolse, lo schiacciò con il corpo sul terreno, e mentre con una
mano afferrava il suo polso, torcendolo fino a spezzarlo (ma, si
accorse, neppure al crac delle ossa infrante le dita cessarono di
stringere il tubo armato), colpì lo gnomo sul viso, con il gomito
destro.
Era un colpo terribile e proibito: neppure gli squali al Circo
potevano usarlo, senza autorizzazione: sentì le mascelle del pirata
che si spezzavano, e un fiotto di sangue gli arrivò fin sul petto. Il
grido di dolore dello gnomo si spense in un gorgoglio di sangue. Poi
si rovesciò sulla schiena.
Lorna restò ginocchioni sul terreno, soffiando, la gola secca e le
mani tremanti. Lo gnomo era ancora vivo, sporco di sangue, con la
parte inferiore del viso deformata: nei suoi occhi non c'erano solo
lampi di dolore, però. Lorna ci vide disprezzo e, perfino, curiosità.
Sembrava davvero un mondo duro, quello in cui l'avevano
cacciato.
"Dove siamo? Che posto è questo?"
Sapeva bene che dalla bocca frantumata dello gnomo non sarebbe
venuta alcuna risposta. Ma ripeté la domanda, due, tre volte,
tirandolo in piedi per un braccio. Gli aveva preso il tubo, e se l'era
infilato nella cintura. Aveva anche tolto la spada dal corpo dell'altro
pirata.
"Adesso mi porti da chi ti comanda, eh? Avrai bene qualcuno che
ti comanda…" ringhiò. Era assurdo sperare che lo gnomo
comprendesse le sue parole. Così tinto di verde, sembrava piuttosto
una spaventosa pianta insanguinata. Lo fece voltare, spalle al mare, e
lo urtò nuovamente, quasi buttandolo al suolo.
"Cammina." Gli puntò nella schiena la lama della spada, e spinse.
Lo gnomo prese a camminare, reggendosi con la mano sinistra l'altro
polso spezzato. "Cammina. Va' dove vuoi. Da qualche parte arriverai
pure… e io ti sto dietro."

Dissero a Vancoy che sulla costa, a meridione, qualcosa non


andava, e che due delle pattuglia s'erano persi durante il giro del
mattino, proprio mentre Belfagor gli spalmava con un pennello sulle
gengive secche l'olio di psicodin.
"Avrebbero dovuto essere di ritorno un'ora fa, ma nessuno li ha
visti ancora. In mattinata abbiamo sentito un'esplosione, da quella
parte." Il pirata s'era arrampicato come una scimmia lungo la scala a
pioli esterna, sul nuraghe, ed era entrato dalla finestra che guardava il
mare.
Vancoy aveva i capelli bianchi e duri, sforbiciati sul collo e folti
sulla fronte. Lo facevano sembrare più giovane, tagliati così, ma lui
giovane non lo era più. Era arrivato nell'arcipelago… da quanto
tempo? "Non so. Taci. So soltanto che ti metto un dente nuovo più o
meno ogni due anni, e che in bocca ne hai almeno una decina," rise
Belfagor, quando Vancoy borbottò quella domanda. Guardò, nel
rettangolo bianco della finestra, le nuvole grigie aggrovigliate
sull'orizzonte. "Ci sarà un tifone, entro la settimana," mugugnò.
Vancoy sentiva le gengive indurirsi e le mascelle come inchiodate
dall'anestetico: perché mai perdo tutti i denti? Poi Belfagor gli sbatté
in bocca una sorta di museruola di ferro, prese uno spillo a spirale
lungo e sottile e l'infilò nel dente, rosicchiato dalla carie. E perché
mai quei due erano andati a perdersi fin laggiù? È un guaio perdere
uomini nell'arcipelago, è meglio che si incrini l'anima d'un cannone,
piuttosto che un pirata in meno. Proprio adesso che il tifone
s'avvicina, e le prede buttate sulla spiaggia dalla tempesta richiamano
gente forte, pronta a combattere.
Belfagor gli fece un male cane, acuto e improvviso, e gli occhi gli
si empirono di lacrime. L'olio di psicodin non serviva a nulla. Vancoy
aveva la faccia abbronzata e secca, mangiata dall'aria del mare.
Belfagor girò ancora lo spillo fra pollice e indice, disse "Fatto," lo
tirò fuori dalla bocca e mostrò il brandello strappato d'una
terminazione nervosa. Prese una briciola di pasta molle e profumata,
la rotolò fra le dita e l'usò per turare il dente. Era gomma
disinfettante, menta e mastice. Poi prese il dente di cristallo posato
sul tavolo, e lo guardò controluce: la radice era d'oro, tozza e
scanalata.
"Basta, per oggi. Fra una settimana metteremo anche questo,"
disse. Fasciò di nuovo il dente nella carta velina, lo ripose in un
astuccio. "Non ti bastavano i denti d'oro, e quelli di porcellana? Denti
di vetro, vuoi?" lo derise.
"Di cristallo."
"È lo stesso. A chi dovrai mai mostrarli, quei denti?"
Vancoy andò alla finestra: era un'altra giornata calda, in
quell'autunno che non sembrava voler finire, anche se i gabbiani che
si posavano sulle terrazze erano già intirizziti dal presagio
dell'inverno, e di notte la brina gelava i rami e i sassi del nuraghe. Un
campanaccio rintoccò, in basso. "Tornano…" ma il grido si ruppe, e
Vancoy udì lo scalpiccio di gente che correva.
Si sporse e vide: Robin aveva la faccia imbrattata di sangue, e un
braccio storto, malconcio. Lo sconosciuto gli premeva una spada fra
le costole, dietro.
Vide due, tre uomini correre incontro al pirata, e all'uomo che lo
teneva prigioniero. "Fermi, o lo ammazzo," gridò lo sconosciuto. Era
una lingua strana, antica, ma Vancoy non ebbe tempo per gridare
ordini dal suo balcone: i tre uomini saltarono verso lo sconosciuto.
Non abbastanza in fretta, però: l'uomo alzò soltanto di poco la spada
e la spinse nella schiena di Robin, fino a metà della lama.

Come sono scemi, la gente di qui è scema e primitiva. L'avevano


pestato bene, nel petto, nelle braccia, in ogni parte del corpo, fino a
che un vecchio era arrivato di corsa e aveva urlato un ordine, e tutti
s'erano fermati. Aprì gli occhi, e fece finta di rinvenire, anche se non
aveva mai perso del tutto i sensi. Guardò il pirata: era più alto di lui,
e parlava bene una lingua antica Che somigliava alla sua, impartiva
ordini e gli altri obbedivano. Era l'uomo giusto.
"Perché l'hai ucciso?" chiese Vancoy. Sedeva su un blocco di
granito e guardava attento quell'uomo strano, con la pelle grigia e i
lineamenti sfuggenti, che gli mettevano addosso un'inquietudine
insolita.
L'ho ucciso perché era giusto così, era la mia preda e la merce per
il mio baratto. Sapevate che l'avrei fatto, se m'avreste assalito. Perché
mi avete assalito? Lorna non rispose. Si tirò a sedere e prese a
massaggiarsi i polpacci.
"Se devi ammazzarmi fallo subito. Altrimenti dimmi: è arrivato un
uomo chiamato Omar, alto e magro, su queste rive?" fece.
Gli sembrava di averlo dimenticato, lo scrittore dei sogni, ma in
quel mondo senza confini, di fronte a quella gente selvatica, se ne era
ritrovato l'ombra al fianco: era l'unico suo simile, paradossalmente.
Venivano dalla stessa terra ed era necessario — per entrambi, pensò
— ritrovarsi. Poi l'avrebbe ucciso, forse… che importava? Tutto quel
rincorrersi di idee, e il bisogno di trovare Omar, quel bisogno che era
l'unico legame con il suo passato, se non voleva diventare matto, gli
fu chiaro all'improvviso.
"Io rispetto la vita, quando mi serve," disse Vancoy, sorridendo
con denti d'un vetro colore delle perle. "Adesso la tua vita mi serve,
dal momento che hai ucciso uno dei miei, e quell'uomo mi serviva.
Prenderai il suo posto. Solo se rifiuti… ti farò impiccare."
Parlava tranquillo, sottovoce, e nessuno tranne Lorna poteva
sentirlo. Osservava lo squalo pieno di curiosità, la sua pelle rasposa e
i suoi occhi, che sembravano bottoni di porcellana dipinta. Da dove
veniva? Inutile chiederglielo. Avrebbe mentito, inventando qualche
strana isola oltre l'orizzonte, e nessuno avrebbe potuto ributtargli in
gola la sua menzogna: il mondo è così grande e misterioso, oggi.
"Hai le mani di uno che sa combattere," disse. "E, d'altra parte,
Robin non era uno sciocco."
Anche Lorna, accovacciato sulla stuoia sul terreno, pesto,
osservava il vecchio: era vestito come uno stregone, con una gran
giubba piena di fronzoli e colori, ma niente di lui spingeva al riso. Si
sventolava in faccia un ventaglio di latta: sembrava un guerriero a
riposo, piuttosto, o un pirata che non prendeva più il mare. La sua
pelle — l'intuì in quel momento — non era colore del cuoio per
natura: alla base del collo, fra le rughe, schiariva come nei polpacci
che i calzoni di tela scoprivano. Era… abbronzato, quello era il
colore del sole. Guardò in alto, oltre le fronde dei palmizi: il sole
stava appeso in un cielo chiaro che mai lui avrebbe potuto
raggiungere e toccare. E si muoveva, durante il giorno, come una
grande medusa d'oro. Omar, forse, avrebbe potuto vivere in quel
mondo, sarebbe stata una sorta di ritorno alle sue origini lontane.
"So combattere," annuì. "In cambio tu mi aiuterai a trovare un
uomo chiamato Omar."
Vancoy era paziente. Ripeté: "Accetti di sostituire Robin?"
"Sì. E in cambio…"
Il pirata alzò una mano, la palma aperta, piena di calli duri.
"Nessun cambio. Tu prendi il posto di Robin e salvi, così, la tua vita.
Nessun altro cambio."
"Io cerco un uomo."
"Eh. Il mare è grande, e tutti ci cercano qualcuno. Perché pensi di
trovarlo qui?"
"Non lo penso. Lo spero: so che è arrivato per la mia stessa
strada."
"Quest'uomo… ti somiglia?"
"No. Sì. Forse ai tuoi occhi, sì."
Vancoy s'era alzato: gli aveva teso una mano, Lorna gli s'era
aggrappato e il vecchio pirata l'aveva tirato in piedi, con un vigore
inatteso. "Lo cerchi per ammazzarlo? Quando uno come te insegue
una persona, è per ammazzarla, no?" I suoi occhi, fra le rughe del
volto scuro, lampeggiarono, poi si mise a ridere. "Non sono fatti
miei."
"Lo cerco perché devo parlare con lui. Poi… vedrò poi, cosa fare."
"Sei una strana persona," disse Vancoy. Indicò una baracca
d'ardesia, bassa e lunga. "Vieni a mangiare. Per questi primi giorni
siedi sempre con le spalle al muro. Contro il muro. Robin aveva degli
amici, qui."

Di botto, l'acqua intorno si gonfiò lenta in larghi circoli; poi salì


fulminea, come sfuggendo lateralmente da un masso di ghiaccio
sommerso, che rapidamente venga a galla. Un basso suono di
terremoto si fece udire, un rombo sotterraneo… e poi una grande
forma balzò per il lungo, ma obliquamente, sul mare. Sfumata da un
sottile velo cadente di nebbia, si librò un istante nell'aria iridata e poi
piombò sprofondando nell'abisso.
Eccolo alla fine il suo Moby Dick, il sogno di sempre, che dopo
averlo rincorso a lungo l'aveva raggiunto. Udiva la spuma frangersi
sulla cresta delle onde, e le fiancate rotonde del canotto
scricchiolavano. Poi la forma scura emerse ancora a prua, più vicina,
fosforescente e netta nell'oscurità: il leviatano dei suoi incubi lontani
spalancò le mascelle, come un otre nero, con rumore di giunture
metalliche, e avanzò piano.
Avrebbe dovuto sentirsi pieno di paura, ma un mantello di quiete
s'era come disteso sulla sua mente. Se ne stupì, le membra immobili
sulle assi del canotto. Un alito caldo, d'olio e nafta bruciata, gli soffiò
addosso: l'acqua gorgogliò, poi si calmò all'improvviso, la brezza
cadde, le stelle scomparvero e il buio fu più buio e meno freddo. Il
suo Moby Dick era uscito dalla foschia dell'incubo, era divenuto
concreto, d'acciaio, e ora s'era rinchiuso su di lui: l'oceano si
svuotava, il canotto urtò il fondo e rimase a dondolare, inclinato sulla
prua tonda.
Moby Dick era venuto, alla fine: cercò di volgere gli occhi, per
scrutare verso l'alto, verso il palato e la chiostra dei denti, e la gola
profonda dalla quale soffiava un rantolo meccanico e cupo. Restò
immobile, due, tre minuti, i sensi tesi a cogliere gli schiaffi delle
onde, fuori. Il leviatano non s'immergeva, dunque.
Chi sei, Moby Dick? "Lascia questo concetto primitivo. Non ci
sono più mostri, in questo mare. La tua testa è piena di strane cose:
bisogna che parliamo, noi due."
Omar non si rese conto che nessuna voce gli aveva parlato, e che
quelle parole gli erano fiorite dentro la testa all'improvviso, come
venute da fuori, spinte a forza. Sentì una carezza sconosciuta
spazzargli il cervello, e lasciarvi solo una gran stanchezza.
"Domani. Ci penserò domani," brontolò, e s'addormentò prono sul
canotto.

Lorna lasciò che il tempo scorresse. Cercò d'abituarsi ai raggi di


quel sole. Si addestrò all'abbordaggio, davanti a Belfagor, anche se
non comprendeva il significato di quella parola. Intuiva la vaga furia
d'un assalto, ma ancora non comprendeva la necessità d'arrampicarsi
su per il tronco dei palmizi, con un coltello fra i denti e la mazza
ferrata nella cintura.
Belfagor era basso di statura, e rosso di capelli. Aveva il corpo
grasso e violento, ma le sue mani erano piccole, le dita corte, delicate
quasi, le unghie del tutto rose. Distribuiva, a pagamento, medicine e
consigli su come riparare orologi a molla e rivoltelle. Lorna s'era
accorto che da quando si era seduto accanto a lui, al tavolo della
mensa, erano numerosi coloro che non lo guardavano più storto.
Presto, forse, avrebbe potuto smetterla di dormire coricato su un
fianco, nella branda di legno, i sensi tesi e le dita intorno
all'impugnatura della spada.
Imparò a lanciare i rampini sulle pietre del nuraghe, in alto, ad
arrampicarsi con il corpo teso in orizzontale, appeso alla corda di
nylon, mulinando sopra il capo un fioretto lungo e sottile, cercando
nell'aria un bersaglio inesistente. "A cosa diavolo serve tutto questo?"
"Eh, lo vedrai."
Si lasciò scivolare al suolo, più veloce degli altri giacché nelle sue
mani di cuoio lo scorrere della corda era meno doloroso, e ruzzolò
vicino a Belfagor: "Una buona risposta, come al solito, eh?"
La faccia arrossata del pirata s'incupì: si chinò verso di lui e gli
parlò con disprezzo. "C'è gente, qui, che ti vedrebbe volentieri
appeso per il collo, e inchiodato al nuraghe. Non tirare troppo la
corda della mia pazienza, e rispetta i patti."
"Fino a quando?"
Le labbra tumide, imperlate di sudore, del pirata si stirarono in un
sorriso: "Non per molto. Domani, al massimo fra un paio di giorni,
Vancoy andrà all'oracolo."
"Non voglio oroscopi. Non mi servono, per la mia caccia." Lorna
s'era rialzato, aveva raccolto la spada, e avvolgeva il laccio di nylon.
Belfagor era più piccolo di lui, ma lo prese ugualmente per un
braccio e lo scrollò: "Ehi, pesce… credi che non ci siamo accorti di
come siano fatti i tuoi occhi e la tua pelle, e la tua faccia? Ma lo
stregone che ti ha messo al mondo non è riuscito certo a farti
immortale… e noi agli scherzi della natura siamo abituati. Attento,
Lorna."
"Dove s'è perso, quell'uomo?" gli chiese Vancoy quella sera. "Hai
delle coordinate precise?"
"No. Però non può essere lontano dal punto in cui ho preso terra
io. È una spiaggia bianca, lunga."
Il pirata sedeva al capo della tavola di legno grezzo, appena
lisciato dalla pialla, sotto le frasche della radura. Lustrava con un
panno l'elsa d'una misericordia. Poi infilò la lama nel fodero di latta,
fece scattare la sicura, e guardò Lorna: "Hai litigato con Belfagor,
oggi?"
"Sì."
"Mi ha detto che non intendi più stare ai patti."
"Belfagor non capisce. È proprio per stare al patto — e
andarmene, poi, libero — che voglio saperne di più…
dell'abbordaggio, della nostra preda, di tutto."
"Ah. Non ci vorrà molto, allora. Ti porterò con me all'oracolo.
Vedrai con i tuoi occhi."
"L'oracolo, ancora…"
"Fossi al tuo posto aspetterei, prima di ridere."
Il sole tramontava in fretta, dentro il mare a occidente: le ombre
degli alberi s'intrecciarono al suolo, e Lorna sentì freddo. Il profilo
del nuraghe, stagliato nel cielo, era come il volto d'un gigante
corrucciato. Le finestre, che le lampade a olio non avevano ancora
velato di luce, erano come orbite vuote. All'altro capo del tavolo,
Lorna non distingueva ormai più i lineamenti di Vancoy. Ne scorgeva
le mani, piatte sul legno chiaro, e i denti di cristallo.
"Non è arrivato alla spiaggia, però: lo avremmo trovato. L'hanno
abbandonato in una barca?"
"Non so. È possibile."
"C'è una gran corrente, laggiù. Può esserselo portato via, se non
aveva un motore, o una vela. E allora te la scordi, la tua vendetta."
"Perché mi hai chiesto dove si fosse perso, allora?"
Vancoy s'alzò. "C'è sempre una maniera per sapere le cose più
misteriose, nell'arcipelago." Si gettò sulle spalle uno scialle pesante,
a maglie grosse, e ci si avvolse quasi. "Seguimi," disse.
Fece montare Lorna fin sulla cima del nuraghe: da lassù,
sull'immenso teschio di pietra, si vedevano la costa e il mare.
Soltanto la vetta d'un monte brullo si ergeva più in alto, nell'interno,
sulle piante e sulle dune dell'isola. Lassù l'odore del mare si
mischiava al profumo aspro della terra e delle erbe misteriose: timo,
menta, ortica, Belfagor gliene aveva contate una dozzina, mentre le
pestava nel mortaio per farne unguenti.
Nel silenzio pieno di fruscii (il vento si portava via le voci degli
uomini, da basso, e le grida degli animali) la linea dell'orizzonte
separava due infinite lastre di smalto violetto. Lorna si volse a
levante: era già buio, da quella parte. S'aggrappò alla ringhiera: era
così pura quella immensità spruzzata di stelle, così diversa da
quell'altra immensità, nell'abisso dove lo sguardo si perdeva sempre
dopo pochi metri, che ne rimase stordito. Gli venne voglia di fuggire
nei corridoi dal soffitto basso, di sotto, ma Vancoy lo trattenne.
"Guarda laggiù, quel grappolo d'ombre." Tese il braccio verso
l'orizzonte. "Isole, come questa. Più in là, a una settimana di vela, c'è
il continente. Una terra piena di morti. Ci sono isole anche a sud, e
presto ci andremo, quando verrà l'inverno. A sud c'è anche l'isola
delle nostre donne…"
Lorna lo guardò. Vancoy sorrise: "Ecco perché non vedi che
uomini, qui. Le donne stanno a sud, a far andare le macchine. Solo le
donne capiscono le macchine, quasi tutte, almeno."
"Perché restate qui, allora?"
"Perché qui passa la rotta delle navi, le petroliere e i traghetti: la
nostra esistenza dipende dal numero di navi che riusciamo a
prendere, ogni estate. Quest'anno non ci è andata bene, per esempio.
Ormai non resta che un'occasione soltanto. L'ultima. Passerà fra una
dozzina di giorni, al massimo."
S'alzò lo scialle sul capo, contro il vento che si era fatto più fresco
e gli agitava i capelli bianchi. "Devo stare attento all'artrite,"
mormorò. "Non conviene, alla mia età, starsene con la testa nel
vento." Si girò a Lorna, e riprese il discorso. "Ma è una nave che
basterebbe da sola ad arricchirci. Per questo ho bisogno di te, e di
altri marinai…"
Lorna faticava a capire. Quell'uomo parlava di navi come un
baleniere avrebbe parlato di capodogli. Una luce bianca tremolò sul
mare, sotto l'orizzonte.
"Pescatori," soffiò Vancoy. "Adoperano le lampade per attirare il
pesce…" Fissò Lorna, ma il viso dello squalo s'era fatto di marmo
grigio, senza espressione. "C'è gente che vive così. Oppure cercano
di prendersi le navi più piccole, o raccattano quello che resta dopo
che siamo passati noi. Quando cacceremo la nave, sta' sicuro, ci
verranno dietro come cani affamati."

Soltanto Vancoy sapeva parlare all'oracolo, Lorna l'aveva


compreso, ormai. L'oracolo stava in una baracca con le pareti di
legno e cartone pressato, e il tetto di ferro ondulato e sfogliato dalla
ruggine, al riparo d'una roccia glabra, quasi in cima al monte. La
porta aveva gli stipiti mangiati dal vento, fessure larghe, e il
pavimento dentro era sporco di terra, foglie secche e sabbia. Vancoy
infilò nel lucchetto unto d'olio una chiave esagonale, e la molla
scattò, stridendo.
"Non salgo da un paio di mesi, ed è piovuto, nel frattempo: tutta
l'isola è piena di ruggine." Poi spinse il battente ed entrò, facendo
cenno a Lorna di seguirlo. Spalancò le finestre, piccole e ben alte
sopra la sua testa, con un colpo delle mani aperte, si volse e disse
"Ecco, questo è l'oracolo." Sorrise, guardò Lorna fermo sull'uscio e
aggiunse: "Tu conosci bene queste cose, non è vero? Hai la faccia di
uno che le conosce."
Indicò gli apparecchi, su una tavola che traballava, coperti da un
telo chiaro e sbrindellato. Lorna tirò la stoffa: c'era una radio, pronta
a trasmettere e ricevere, con le cuffie e le batterie con l'acido in terra,
velate d'un pizzo di muffa; una calcolatrice minuscola, con la cassa di
plastica nera, legata alle batterie da un filo verde e contorto. E altri
oggetti strani, che non riconosceva, di gomma, legno, argento e fili di
rame.
"Questo non è un antro di streghe. È un centralino," rise Lorna.
"Eh. Io qui parlo con gli dèi… o con qualcun altro. L'importante è
che siano esatti i vaticinii."
"Giusto. Per questo non vuoi che nessuno venga qui dentro."
"No. Qualcuno è entrato. Belfagor per esempio," sorrise Vancoy.
"Ma Belfagor conosce tutte le cose che io faccio. L'importante,
invece, è che qui venga soltanto chi non può capire." S'incupì,
all'improvviso. "È ovvio che tu morirai, nel momento preciso in cui
spiattellerai quello che hai visto."
Lorna annuì. "È ovvio," ammise. S'era portato in tasca una
bottiglia d'un liquore nuovo, bacche di ginepro e alcol, tirò via il
tappo e bevve una sorsata lunga: quel sapore inconsueto, che
rimaneva ad alitargli in gola… non poteva più quasi farne a meno. Si
umettò le labbra. "Fa' pure le tue magie, adesso."
Vancoy si tirò accanto uno sgabello zoppo, lo pulì con il dorso
d'una mano, sedette e trafficò un poco con l'apparecchio trasmittente.
Lorna tornò sull'uscio. Sentì un sibilo alle proprie spalle, e un
leggero ticchettio: poi udì che Vancoy aveva incominciato a parlare,
e si volse, pieno di stupore. Fra una lingua strana, che sembrava
venirgli su dall'intestino, una lingua di suoni gutturali e vocali sorde,
sputate nel microfono che Vancoy s'era appeso davanti alle labbra
con un collare d'ottone.
Poi il pirata tacque, e una voce stridula e simile alla sua uscì da un
microfono. Gracchiava, e le scariche d'elettricità coprivano a tratti le
parole. Vancoy tirò un cassetto, ne estrasse un quaderno con i lembi
sfogliati e un mozzicone di matita e disse, rivolto a Lorna: "Fuori,
adesso. Chiudi la porta e aspetta fuori."
Agitò una mano, come per cacciare una mosca, e Lorna uscì sul
prato secco, accostò l'uscio e sedette sul terreno.
Il bel tempo s'era rotto verso occidente, le nuvole
s'aggrovigliavano e vorticavano sul mare, grigie e nere, sfilacciate
dal vento. Eppure sull'isola le fronde delle palme si muovevano
appena, e la risacca fluiva piano sulla battigia. Lorna ebbe paura. No.
Non era paura, ma un orgasmo strano che gli saliva alla gola, come
quando, giù nella casbah, un sogno rubato lo sbatteva nelle
dimensioni estranee degli uomini.
Poi la porta dell'oracolo sbatté: "Ehi, ti incanta il panorama?"
Vancoy teneva un foglio fra le dita e sorrideva; alzò un braccio verso
la tempesta lontana e disse: "Domani sarà qui."
"L'oracolo ti ha spiegato…" rise Lorna.
"Stupido." Vancoy gli si accucciò accanto, le natiche contro i
talloni, strappò un filo d'erba e se lo cacciò in bocca. "L'oracolo… è
uno come me, che sta in un'isola dall'altra parte dell'arcipelago, e
parla per radio con altra gente come lui. E come me! È una specie di
rosario sgranato fra le isole: è così che conosciamo il tempo, il
passaggio delle navi, e quello dei tonni. Noi non ci conosciamo. Non
ho mai visto le loro facce, posso immaginarmele come voglio, e loro
possono figurarmi a piacere, giovane o vecchio, storpio, lebbroso… è
bello, questo mistero che ci tiene insieme."
Fra le nuvole sbrindellate, all'orizzonte, si stampò il disegno
spezzato d'un fulmine. Vancoy annuì: "È confermato. Domani qui
farà tempesta," ripeté. "Ci conviene tornare giù, smontare le baracche
e mettere i sacchi di sabbia sui tetti." Fece per alzarsi, ma Lorna lo
tenne per un braccio. "Il mio uomo?"
Il pirata s'arrampicò fino all'uscio della baracca, lo tirò, fece
scattare il lucchetto. "Può darsi che tu lo abbia prima di quanto
credi."
"Hai saputo qualcosa, dunque! È approdato a un'altra isola?"
"No. Non credo. Temo piuttosto che abbia legato il suo destino a
quello di tutti noi… e della nave. Non so come, ma quell'uomo…
Omar, potrebbe essere a bordo."
"Non capisco."
"Eh. La nave viaggia in anticipo, questa volta. L'hanno seguita da
lontano, e l'hanno vista fermarsi di notte, inspiegabilmente. Una nave
del genere si ferma solo quando è attaccata forte, o per un caso
fortuito. Non s'era mai fermata prima, nell'arcipelago, e invece l'altra
notte è rimasta immobile a dondolare sull'acqua come un sughero,
per un paio d'ore. Poi è ripartita, piano."
"Cosa c'entra tutto questo con…"
"Ascolta. Un pescatore è riuscito ad avvicinarsi alla nave, con un
monitore a raggi. S'è nascosto fra le alghe galleggianti e gli scogli, e
se l'è vista sfilare vicino, e ha scoperto che in quella gran pancia
d'acciaio c'è un uomo…"
"Be', è normale. Non dovrebbe sorprenderti. Le navi sono fatte per
gli uomini."
Vancoy lo fissò, quasi avesse scorto un fantasma rigurgitato da
chissà quale inferno. Scrollò la testa, e cominciò a scendere lungo il
sentiero, scivolando sul terreno polveroso. "Lorna, non fai che
sorprendermi. Sei un marziano, uno spettro o che altro? È una cosa
straordinaria, trovare un uomo a bordo d'una nave. Sono anni che non
succede. Le navi sono cattive, feroci e automatiche come il destino.
Vanno e vengono, guidate dai loro cervelli, con ciurme di latta e
gomma. Tu non hai mai assaltato una nave."
"No, lo sai. Cos'hanno di speciale, queste navi?"
"Sono… nemiche. Se ne vanno per conto loro, dietro a rotte
antiche, dimenticate, che nessuno ha mai cancellato dalle loro
memorie elettroniche. Assaltare una nave è come andare alla
conquista d'una città perduta."
Quell'uomo pronunciava parole arcaiche, che Lorna non riusciva a
comprendere. Scendendo, Vancoy poneva con cura i piedi sulla terra
smossa, e si abbrancava ai cespi di ginestra, secchi per l'autunno ma
ancora duri e forti come corde. "Te ne accorgerai, di cosa siano le
navi, quando sarai sotto la prua, con la scialuppa, e la faccia per aria,
con la schiuma fin dentro il culo e quei… mostri per aria."
"Mostri?"
"Oh, perdio! Non ho mai chiacchierato tanto. Ascolta: quella nave
era vuota da un'eternità. Da qualche notte, invece, là dentro c'è
qualcuno. Chi diavolo credi possa essere questo uomo, trovato di
notte, nell'arcipelago?"
"Omar."
"Lo vedremo. Non ci resta che aspettare il brigantino, che ci porta
armi e uomini per l'assalto. E l'uragano, certo."
Il tifone era venuto soffiando prima un alito caldo e umido, poi
una gran ventata di grandine dritta contro il nuraghe.
Avevano smontato le capanne di frasche, e coperto con i sacchi di
sabbia e pietre i tetti d'ardesia della mensa e dell'armeria: le porte del
nuraghe erano state sbarrate dall'interno, i puntelli d'acciaio fissati
contro i battenti.
Vancoy s'era fatto legare con una treccia di canapa al parapetto
d'uno dei terrazzi più alti. "Starò qui fino a che il brigantino non sarà
al sicuro in rada, oltre la scogliera," aveva brontolato serrando i denti
finti e abbottonandosi sul petto l'incerata. Quando il vento s'era
riempito di pioggia, aveva alzato sugli occhi una maschera di cuoio e
vetro, e aveva puntato il binocolo contro il tifone: il brigantino
sarebbe sbucato sulla cresta delle onde, portato dall'uragano che si
gonfiava di minuto in minuto.
"Se si schiantano sulla scogliera," aveva chiesto Lorna, "che sarà
dell'assalto alla nave?"
"Non si schianterà nessuno. I miei uomini non sono gente d'acqua
dolce," aveva risposto il pirata. Poi, nel buio improvviso che s'era
disteso sull'isola, tagliato dalle saette, mentre le nuvole ruotavano
come in un immenso caleidoscopio bianconero, il veliero era
spuntato sul ciglio di un'onda. "Forza, perdio!" aveva gridato Vancoy.
Lorna l'aveva udito, nel rombo dell'acqua e del vento, e aveva
schiacciato il viso contro una feritoia sgocciolante. Sembrava un
giocattolo di legno, quella nave. Avevano tirato giù quasi tutte le vele
eppure volavano, spinti dalla tempesta. "Non era mai successo che
venissero qui mentre scoppia il tifone. Non devono averli avvertiti,"
gli mormorò Belfagor, nelle orecchie.
Il brigantino s'impennò, un immenso schiaffo lo colpì da sotto, e
le vele del bompresso si stracciarono. Poi la prua s'immerse, traversò
l'onda e uscì di nuovo. Vancoy taceva, adesso, piegato sul terrazzo e
grondante acqua, bagnato fin nelle midolla. Soltanto due vele quadre
portavano la nave verso l'isola. Lorna cercò d'immaginarsi la ciurma,
sulla tolda spazzata dalla schiuma: forse s'erano legati come Vancoy,
contro le murate, o forse non c'era più nessuno, il mare se lì era presi
tutti tranne un timoniere impazzito, sotto il cassero che scricchiolava
a ogni ondata.
Il brigantino puntò dritto sull'apertura fra gli scogli, un varco
turbolento che portava nella rada. Poi sbandò, si mise quasi di
traverso. La bestemmia di Vancoy tuonò in quel finimondo, più forte
del tifone. Lorna sbiancò all'improvviso, e un fremito gelato gli corse
nelle braccia. Chiuse gli occhi, li riaprì. È davvero difficile
rappresentare l'apocalisse, pensò. Nemmeno nei sogni più terribili
aveva assistito impotente a una tragedia come quella.
Ma le vele quadre, in alto, si sganciarono di colpo e volarono via,
portate dall'uragano. Il brigantino s'impennò di nuovo, quasi
l'avessero alleggerito d'un enorme peso, drizzò un poco la prua verso
la scogliera e balzò avanti. L'onda successiva lo sollevò sopra le
rocce, e lo scaraventò nella rada. Lo schianto degli alberi che si
spezzavano fu come un tuono scrosciante sul nuraghe, e la nave
scivolò fra i marosi, verso la spiaggia. S'arenò infine nella spuma
agitata, stridendo, spoglia d'alberi e vele, ma per il resto intatta.
"Hai visto? Quella è la gente che ci porterà sulla petroliera." Lorna
era rimasto attonito, la fronte contro la pietra, gli occhi velati dalla
pioggia della feritoia: le parole di Vancoy lo scossero. Il pirata era
tornato dentro, e come un mostro grondante agitava l'incerata e gli
abiti zuppi. "Ci hanno portato le mappe della nave, i disegni degli
ingegneri. E un cannone laser, l'arma più potente che abbiamo mai
avuto nell'arcipelago. Ora non ci resta che aspettare che quest'inferno
abbia fine, per rimettere su gli alberi del mio brigantino. Scendiamo,
adesso: voglio studiare quelle carte con te."
XII

Fu da prima un moscerino nero sul filo dell'orizzonte. Appoggiato


al parapetto del brigantino Lorna lo vide, e passò oltre lo sguardo, ma
Vancoy rise e il sole scintillò sui suoi denti di cristallo, quando tese il
braccio e disse: "Eccola."
Anche le vedette, nelle coffe, gridavano. "Passa sempre di qui,
alla stessa latitudine, al largo delle scogliere, a ogni inizio di
stagione," disse Vancoy, e guardò nel sestante che teneva in mano.
"Puntuale e al posto giusto. Ha recuperato il ritardo."
Sulla prua i corsari allineavano gli arpioni e annodavano ai ganci
del ponte le funi, e le sagole incatramate. Il punto nero cresceva e si
disegnò contro il cielo. Ingrandì in fretta: Lorna vide nel binocolo la
prora alta e scura, i baffi di spuma chiari contro le fiancate, e le torri
sul ponte nero. "Non è una buona nave, è cieca e ostinata. Ha i
fianchi duri, spararle addosso con il cannone è come piantare uno
spillo nella pelle di un'orca. Quante volte abbiamo provato a
prenderla…" disse Vancoy. Poi diede a Lorna una spada lunga e
sottile, pesante nell'impugnatura. "Colpisci negli occhi, se puoi,"
aggiunse.
"Quali occhi?"
"Aspetta."
Il cannone sulla prua sussultò e tutto il brigantino prese a vibrare:
la lama di fuoco scaldava e bolliva l'acqua del mare, alzando nuvole
di vapore salato. Il gran corpo della petroliera s'impennò e frenò la
corsa: andò a fermarsi dove il mare ribolliva, e suonò una sirena
d'allarme, un fischio lungo, sottile e inutile, che pungeva nella nuca.
"L'ultimo marinaio dev'essere stato lassù, chissà… un secolo fa. Sarà
difficile perfino trovarne le ossa: è un mare sporco, questo, l'aria è
sporca e si mangia tutto, in un momento," disse Vancoy. Non gli
spiaceva di recitare quella parte d'istruttore; erano così rare le reclute,
ormai. "Guarda."
Dalla prua della petroliera uscivano nell'aria manciate di
calabroni, grossi come un pugno d'uomo. Gli insetti elettronici
ronzarono sulla superficie delle onde, raccolsero campioni d'acqua
bollente, e girarono gli occhi a fotografare l'orizzonte e il brigantino,
immobile a un miglio di distanza, a dondolarsi fra i marosi come in
una cartolina. Poi galleggiarono nella schiuma: la petroliera
beccheggiava e procedeva piano: li raggiunse e li raccolse nelle arnie
scavate nello scafo. Il cervello della nave esaminò quei dati.
"Avanti, adesso," ordinò Vancoy. Il cannone seguitava a bruciare
l'acqua salata, e i fumi del vapore avvolgevano la petroliera. "Lì
dentro ci sono le maniglie d'oro e il vino, e ferro, vetro e valvole.
Aste d'acciaio per fondere gli arpioni e le frecce, cristallo per i nostri
denti, corde, scialuppe e macchine con l'intelligenza da vendere ai
chiromanti dell'arcipelago," ruggì Vancoy. Teneva le mani serrate sul
parapetto, così forte che le nocche e la pelle erano bianche e tirate.
Il cervello della nave chiamava i marinai dalle cuccette, il
nostromo e gli ufficiali su per le scale nel gran ventre di metallo. Ma
c'erano soltanto fantasmi, a bordo. Sul fondo della stiva, dietro le
piastre al titanio, il cervello cercava di comprendere — come ogni
volta — perché il suo equipaggio non corresse sul ponte e nelle torri
nere. Quando i grappini scagliati dai corsari, ritti a prua del
brigantino, morsero i fianchi della nave, rimbombando contro le
tanche vuote, e le corde si tesero strisciando e dondolando, i pensieri
del cervello se ne andarono, in tumulto.
Il pericolo era troppo vicino ormai, non era mai stato così vicino,
gli suggerì un gruppo di memorie, sul ponte e contro le fiancate: i
calabroni fischiarono ancora nei fori dello scafo, con i pungiglioni
d'argento tesi fra gli occhi elettrici, la plancia si spalancò e sbattendo
le ali di rame i gabbiani meccanici si alzarono sul ponte.
Agganciato al lungo fianco della petroliera il brigantino era simile
a una scialuppa, piccola accanto all'immenso leviatano d'acciaio.
"Svelti, maledetti cani senza madre, svelti bastardi," urlava
Vancoy nelle orecchie di Lorna, nel vapore che saliva dall'acqua.
Vide gli uomini arrampicarsi sulle biscagline che i grappini
ancoravano a tribordo, come animali selvatici. Ma altri animali, ragni
e serpenti di ferro scuro, scendevano rapidi dall'alto, incontro ai
corsari: tendevano le zanne sottili, le pinze e le chele di titanio,
tagliavano le funi gettate all'abbordaggio, e gli uomini cadevano nel
mare bollente.
Il tiro del cannone sfrigolò lungo la fiancata, salì dalla spuma
verso gli automi a forma d'insetto: bruciò le telecamere dei loro
occhi, e i serpenti e i ragni rimasero immobili, assurdi, appesi in
verticale mentre gli uomini li raggiungevano e li cacciavano in mare
a colpi di bastone.
Nel vapore bianco i gabbiani di rame e i calabroni scuotevano
all'impazzata le ali meccaniche, un sordo flap-flap che suonava in
alto sul ponte, Lorna l'udiva montando lungo la scala di nylon
annodata in alto, sentendo il fiato roco di Vancoy soffiare dietro, alle
sue caviglie.
Balzò sul ponte, e un gabbiano l'assalì. Rammentò all'improvviso
le istruzioni: "Colpisci negli occhi." Estrasse goffo la spada dal
fodero di tela, e l'alzò verso il mostro che picchiava sul suo capo,
grande e dorato, così vicino che nelle ali e sul becco a rostro vide i
bulloni e la ruggine, e sentì l'alito d'olio lubrificante. L'animale lo
colpì e passò oltre: Lorna udì lo strappo della stoffa, nell'abito che si
lacerava sugli omeri. "Negli occhi, idiota," ringhiò Vancoy, saltando
il parapetto.

Il cervello della petroliera s'era fatto attento. Vide, con gli obiettivi
delle telecamere mobili, la battaglia sul ponte: erano come vermi di
gomma, strisciavano sulle lastre d'acciaio e spenzolavano dalla torre
di prua, inquadrando la lotta. Un pirata ne colse uno mentre si
dondolava lungo la murata, e gridò di trionfo tranciando con un
colpo di daga il collo sintetico. Uno schermo televisivo si spense
nella pancia della nave: il cervello non sentì dolore, ma cacciò fuori
un altro verme elettrico che strisciò sul ponte, e inquadrò con il suo
occhio di cristallo il volto del pirata. La nuova immagine corse in un
centesimo di secondo nei sensi dei calabroni: dozzine d'occhi
artificiali rifletterono il volto del corsaro, e l'uomo non s'accorse di
morire. Una manciata di insetti gli piantò nella schiena i pungiglioni
di ferro, e un gabbiano lo colpì, frantumandogli le ossa della faccia e
cacciandolo oltre il parapetto, cinquanta metri giù in mare.
Tre metri più in là Lorna scoprì il boccaporto, nero come la gola
spalancata d'un pesce abissale, rugginoso e viscido. I gradini si
perdevano in basso, più scendeva e più i tonfi della battaglia sul
ponte suonavano cupi e lontani. La torcia fece luce sulle pareti
scrostate: la vernice si staccava in fogli secchi e chiari. Le mani di
Lorna si rigarono di sangue, strisciando su quel muro logoro.
Scendendo contava i gradini, dieci, venti, trenta, seguendo i contorni
del disegno che aveva studiato il giorno prima e mandato a memoria,
i disegni dei boccaporti serrati nel cassero, fino ai pozzi e alle stive.
Si fermò nel buio, e prese a leccarsi le mani: il sangue era colato
sui polsi, e Lorna lo sentì in bocca salato e nero. Su dagli intestini gli
veniva un vomito acre, feroce: inghiottì un groppo di saliva e prese a
camminare piano, la spada tesa in avanti come il bastone d'un cieco,
nel corridoio che scivolava in basso.
Il rumore della battaglia era svanito ormai, e un altro palpito
sommesso veniva da sotto, dal cuore della nave, un trum trum trum
cupo, come il sospiro d'una balena che dorme. Lorna incominciò a
gridare: "Vieni fuori… fuori… FUORI!" Il grido salì, salì e si ruppe:
lo squalo sbatté la spada contro la parete, e mulinò la torcia,
disegnando un balletto d'ombra sulle paratie. Il cuore della nave
sembrava battere più vicino ora, sotto i suoi piedi. Corse per pochi
passi: secondo la mappa che aveva in testa, il cervello avrebbe
dovuto essere là, a pochi metri dietro il guscio di metallo.
Sbatté con il petto contro una murata, gli si spezzò il respiro in
gola, poi le sue dita scontrarono la ruota fredda della serratura.
L'aprì — non se l'aspettava — con facilità: la porta girò sull'olio
dei cardini, così silenziosa che Lorna ebbe all'improvviso paura e si
volse stringendo le pupille per guardare nel buio: il suo grido aveva
forse svegliato qualche genio del mare? Poi spinse il portellone a
palme aperte, ed entrò nel cervello.
Grande, chiara nel cielo buio, la luna spuntò quasi all'improvviso,
illuminando la piana fino ai margini del bosco, e le ombre degli
alberi si allungarono sui sentieri dell'isola, sull'erba grigia, sulle
scogliere. Sinbad guardò in alto, con apprensione: nell'aria limpida il
fruscio del vento del settentrione portava il presagio d'un altro
inverno precoce.
"Le notti cominciano ad essere fredde. Attizza il fuoco, vecchio,"
mormorò guardando le due sagome acquattate accanto al falò. Una
mano ossuta gettò un fascio di sterpi sulle braci, e le fiamme
guizzarono.
La voce di David suonò debole. "Dovremmo prendere la barca e
andare a sud. Qui non c'è più nulla per noi. Andremo a sud, Sinbad?"
Una folata di vento portò via le ultime parole: dalla capanna sulla
spiaggia venne il gemito d'una porta sbattuta contro gli stipiti corrosi,
e s'alzò un urlo di gabbiani.
"Sono inquieti, stasera." Sinbad strinse forte l'elsa della daga:
presto o tardi sarebbero venuti, spinti dalla fame e dal gelo, volando
bassi fra i rami degli alberi, quei nuovi gabbiani feroci che
divoravano ogni cosa, annunciati da un secco battere d'ali.
"A meno che non ce ne andiamo davvero a sud," brontolò Sinbad,
accostandosi al fuoco. Il vecchio gli porse una tazza di coccio,
fumante, d'un odore strano e acuto. "Erba e pesce fradicio… ancora,"
disse. Poi sorrise. "Mi dispiace, ma non posso cambiare più spesso.
Venderei un occhio, per un gatto arrosto."
Davide alzò il capo e guardò verso le rovine lontane del villaggio.
"Ieri ne ho visto uno selvatico, al cantiere. Ciondolava la testa sulle
rotaie delle gru, e leccava la ruggine. Poi, come se gli fosse venuta
chissà quale idea, è saltato nell'erba ed è sparito. Sono bestie strane."
Sinbad mangiava piano, senza parlare, masticando le spine sottili che
crocchiavano sotto il palato. Sempre, in quel tempo immobile
accanto al fuoco, prima che il sonno lo cogliesse ravvolto nel sacco a
pelo, contava in mente le trappole che aveva nascosto nell'erba, e le
lenze tuffate in mare lungo la scogliera.
"E magari l'altro occhio per una fiasca d'acquavite," sussurrò il
vecchio.
"Uh. Saresti orbo da un bel pezzo," disse Davide.
Il vento soffiò forte e insistente, alzando la sabbia. Lontano, verso
oriente, un velo chiaro lambiva l'orizzonte sul mare. Sinbad lo
guardò con gli occhi stretti: "Ieri ho visto Ari, quello che pesca le
spugne," mormorò. "Partirà anche lui. Ha già messo in acqua la
barca, e aspetta solo che il legno secco si gonfi e chiuda le fessure,
per navigare."
Né Davide né il vecchio parlarono: fissavano l'ombra scura che
era comparsa fra gli arbusti, e camminava lenta, piegata nella foga
del vento che montava. Sinbad frugò il buio con le pupille sbarrate.
Poi impugnò la daga. Si raggomitolò per saltare e colpire, ma la voce
suonò all'improvviso nella radura. "C'è un gran vento stanotte." E
poi: "È sempre così su questa isola?" Era una voce acuta: il vecchio
guardò con curiosità la faccia pallida, esangue perfino, dello
sconosciuto.
"Quasi sempre."
Sedette vicino al fuoco, a gambe incrociate, le scarpe di tela
contro le cosce. "Chiamatemi Hickey," disse.
Davide si mise a ridere, tossì, poi gli occhi gli bruciarono. "Cosa
fai qui?" chiese. L'altro indicò l'orizzonte e il mare, con un braccio
vago. Rispose: "Sto andando."
"Dove?"
Chinò il capo. "Non so." Una nuvola d'argento s'allungò per un
attimo sulla faccia della luna. "Via di qui, lontano dall'arcipelago,
comunque."
Sinbad afferrò uno sterpo e lo gettò nel fuoco. "L'arcipelago è una
benedizione: vorresti stare sul continente, nelle pietraie, a far la
guerra ai fantasmi?" disse masticando un filo d'erba secca, aspra
come le parole che gli salivano in gola.
"C'è Vancoy, che corre per il mare. Lo cerco fin da quando ero
ragazzo, da un'isola all'altra. Qui tutto è morto, bruciato e maledetto.
Solo Vancoy è vivo, nell'arcipelago. Qui tutti si trascinano sulla
sabbia e si rotolano nella loro merda."
"Eh, la merda." Sinbad rise più forte, con un ansito rauco. Tese le
mani alle fiamme: le sue dita lunghe parvero animarsi alle ombre
calde dei ceppi. "Sai perché qui mi chiamano Sinbad? Mio nonno era
marinaio, tutti i giorni salpava con la goletta e andava a caccia di
mercantili e ferry boat, ce n'erano tanti allora, stava via due, tre
giorni, poi tornava, ma spesso era a mani vuote. Un giorno tornò e la
sua casa, sul molo, era distrutta. L'aveva bruciata Vancoy, o qualcuno
come lui. Diventò matto, credo. Arenò la goletta sulla spiaggia, e la
spiaggia dovette sembrargli assurda, così vuota e lunga e senz'altro
rumore che il rumore del mare. Coprì la barca di frasche, e passò il
resto della sua vita (breve, era già vecchio, a quel tempo) a
strofinarla, a dare il lustro su quella pancia di legno. Mio padre è
cresciuto da marinaio, anche se non è mai stato al largo, nell'oceano.
Ora è da qualche parte, laggiù, a lucidare la goletta. Quando non ce la
farà più, verrà a cercarmi su questa spiaggia, mi darà quello straccio
e toccherà a me, di diventar matto… cosa mi frega, Hickey, di correr
dietro a Vancoy?"

L'aria calda gli colò in gola e s'appiccicò nei polmoni. Una nebbia
di vapore gli velava gli occhi. Era torrida e bruciava: vide nelle
lacrime una liana bianca scendere dalle travi del soffitto e torcersi al
suolo come una fune. Dalla porta che si chiudeva alle sue spalle
venne un soffio d'aria: la sentì fresca sulla nuca, con sollievo. La
liana si scosse come un rettile molle e cieco, sembra proprio una
serpe, pensò Lorna, era una serpe che si dondolava avanti e indietro.
Più in là, una foresta d'altre liane danzava, torcendo piano le spire.
Lorna tese le mani dietro di sé, contro il ferro della paratia: nei
suoi sogni clandestini non s'era mai trovato di fronte a un
panorama… così. Dal pavimento i cristalli, bianchi e taglienti,
s'alzavano dritti. Da un soffitto che non riusciva a vedere calavano
grandi reti chiare, come lenzuola umide e ricamate, reti con le maglie
grosse oltre le quali vedeva altre liane e altri cristalli. La luce non
pioveva dall'alto: era dentro le cose, nelle serpi, in quei veli che
sembravano fatti di colla, di sperma, di muco pallido.
"Che trappola è mai questa?" Lo disse ad alta voce, e s'accorse
all'improvviso che non c'erano neppure suoni, in quella giungla
opaca: le sue parole caddero come fasciate nel cotone, su un terreno
soffice. Le liane mosse dal suo fiato scossero le spire di latte: le vesti
di Lorna s'erano fatte umide e spesse come coperte inzuppate di
vapore. Eppure nelle mappe di Vancoy la sala del cervello non era
che un rettangolo tracciato a matita, poco più di cento metri quadrati
segnati con uno stilo verde. E non quell'assurdo proscenio.
Non può essere una trappola di Vancoy, pensò. Sarebbe troppo
raffinata. E poi, ci rimetterebbe: soltanto io ora posso strizzare l'aorta
di questa balena di ferro, e fermarla in mezzo al mare.
Prese una liana fra le dita, ed essa si spezzò sfrangiandosi come
una canapa consunta. Era morbida a toccarla, e vischiosa. Tese la
spada dritta davanti a sé, toccò un velo che scendeva come un
sipario: la stoffa (o quello che diavolo era) si lacerò, e i brandelli
s'avvolsero sulla lama. Lorna camminò nell'intrico: era come
procedere nella pancia calda d'una grande limaccia, o in una foresta
di tele di ragno. Sotto i suoi piedi i cristalli si spezzavano
crocchiando, frantumati in piccole scaglie.
La giungla opaca ebbe fine all'improvviso: la parete in fondo alla
sala, ossidata e cotta dal vapore, stava a tre palmi dagli occhi di
Lorna. Dunque le carte di Vancoy erano esatte. Poggiò le palme
aperte contro il muro e le ritirò sporche di ruggine, come sangue
color ocra. Si volse a guardare la selva bianca che aveva attraversato,
bianca e breve e piena d'affanno, e vide in terra, quattro passi più in
là, appoggiato contro la parete, un gran fagotto di stracci bigi, una
macchia di colore in quell'aria bianca. Sembrava quasi un cadavere
raggomitolato.
Lo toccò con la punta del piede, spingendo fino a che il fagotto si
sfasciò. Il volto di Omar era terreo e grigio: la pelle era tirata sugli
zigomi e sul collo. Quando la faccia sbatté sul pavimento la pelle si
stracciò, e gocciolò piano un filo di sangue scuro, che scese a
imbrattare le guance scavate dalla barba, e il mento e la camicia.
Lorna poggiò la schiena contro la parete e fissò quel corpo lungo
il pavimento, il cadavere della sua preda ma anche d'un altro se
stesso, che ancora non era riuscito a conoscere. Qualcosa gli venne
su nella gola, nuovamente un succo aspro, il sentimento più vivo nei
suoi visceri di pescecane. Guardava in terra e sentiva gli occhi
pesanti come biglie di piombo. Lacrime, e perché? "Sono venuto per
ammazzarti, dovevo essere io ad ammazzarti," brontolò. "E prima
dovevo dirti qualcosa."
S'acquattò accanto al corpo: Omar era a faccia in giù, i capelli
cresciuti sulla nuca erano sporchi e imbrattati di melma bianca. I lobi
delle sue orecchie erano cianotici, freddi in quell'assurdo stanzone
bollente. Lorna tastò gli abiti del cadavere: sentiva sotto la stoffa la
carne secca, e le costole. Poi ebbe un sussulto: dal braccio sinistro di
Omar correva un tubo sottile, un catetere scuro che s'infilava nella
paratia, diretto nella tempia del cervello elettronico come una presa
di corrente.
Lorna stracciò la camicia dell'uomo: poco sopra il gomito, il
catetere era nascosto in un goffo nodo di bende. Tolse la fasciatura. Il
tubo era conficcato in una ulcera rossa, fresca ancora, l'unica parte
viva nel cadavere di Omar. Lo prese fra le dita e l'avvicinò al viso:
aveva un odore strano e stringendolo fra il pollice e l'indice sentì
fremere piano un liquido, o un gas, o chissà cosa.
Lorna raccattò la spada che aveva posato al suolo. Era ora di
buttare all'aria quel laboratorio del diavolo, e quella nave pazza. Alzò
la lama: un solo colpo sarebbe stato sufficiente a tranciare il tubo.
Nel corpo irrigidito di Omar passò uno spasmo furioso. Il
cadavere volse il capo, anche le ossa stridettero, e gridò.

Davide si mosse nel buio, a disagio. "È giusto, però," disse. "Non
dovremmo lasciar perdere. Chissà, forse sta davvero succedendo
qualcosa, nell'oceano." Parlava basso, come intimorito dalle parole. Il
vecchio gli andò vicino, aveva la voce debole e chiara. "Non ho più
nemmeno la forza di respirare, questa sabbia mi scende in gola, fin
nei polmoni, dentro il cuore. Che posso fare io? O Sinbad,
condannato a grattare la stessa sabbia, per il tempo che gli avanza, da
un giocattolo inutile?"
Hickey abbassò il capo. Quelle teste erano morte ormai, in quei
cervelli vizzi era viva soltanto la sagoma familiare delle isole, e la
speranza che un giorno la grande balena, la grande nave, si sarebbe
arenata contro la riva, a offrire il suo fegato fumante, senza fatica.
Cercò invano delle risposte. Così, quando le stelle presero a
impallidire, mormorò: "Fra poco andrò via. Verrai con me, tu?"
Davide guardò la figura gobba del vecchio accanto al falò:
sembrava un involucro vuoto, fasciato di cenci. Sinbad era una
mummia immobile, le mani strette sull'impugnatura della daga. Dal
buio venne un altro grido di gabbiano. "Stanotte non si dorme," disse
Sinbad.
"Io resto," disse Davide.
Il vecchio cacciò una manciata di cenere sulle braci. Sinbad
sentiva in faccia i granelli di sabbia portati dal vento, come tanti
piccoli aghi, e nelle orecchie il rombo del mare che si ingrossava. "Ci
vuole un gran coraggio, per accettare la realtà e accettare sé stessi.
Anch'io, ogni tanto, penso al passato come se fosse il tempo dell'oro.
Eppure tutti sappiamo che è soltanto una gran balla, e che nessuno
può tornare indietro… non ridere Hickey, è una frase stupida, e come
tutte le frasi stupide ha dentro una verità profonda. Scegliere di
ricostruire una illusione che è già andata a pezzi, per poi vederla
tornare in frantumi… sarebbe piacevole come cascare nella merda.
Così noi stiamo qui, a guardare il mare, e aspettiamo che la grande
nave ci porti il suo fegato."
Poi il cielo diventò chiaro, le braci si spensero del tutto e Hickey
sorrise, mesto. "Allora?" Sinbad sentiva le braccia stanche. Andò
verso Hickey, alzò la mano stringendo la daga e colpì forte. Hickey
cadde nella sabbia, indietro, con la gola insanguinata. Morì. Davide
alzò gli occhi e guardò il cielo livido. "Le notti si fanno più fresche,"
sussurrò. "Quando ci sposteremo più a sud?"
XIII

La guancia poggiata sul pavimento di ferro, Omar sospirava


piano: quel grido gli aveva scavato i polmoni e lasciato nel petto un
dolore acuto, come se i muscoli si fossero stracciati lungo le costole.
Sentì alle sue spalle la spada di Lorna che incideva il catetere:
sussultò, mentre poche gocce d'un plasma scuro calavano sul
pavimento. Udì un sospiro roco, dietro la paratia (o forse se
l'immaginò soltanto). Aveva la gola foderata d'ovatta, i polmoni
zuppi di sangue intorpidito e le ossa, il volto e le braccia pesanti
come oggetti di piombo. Infine, per la prima volta dopo tanti giorni,
tanti mesi, tanti anni, respirò: doveva fare da sé, ora che quel cordone
ombelicale s'era rotto.
Si inarcò e si girò sulla schiena, i tendini sfilacciati dal dolore, gli
occhi socchiusi contro la luce. Vide Lorna dirigersi verso quella
giungla chiara, e il grido selvaggio dello squalo gli graffiò i timpani.
Lorna roteò la spada, si immerse nel cervello e colpì, strappò le
liane e sbrindellò i veli. Quando il breve turbine della sua furia ebbe
fine, egli non era che un mostro grondante sperma e latte, nel vapore
che saliva dalle scaglie frantumate dei cristalli. "Perché no?" ruggì,
immobile all'altro capo della sala, come un'orrida mummia
insanguinata. "Perché no?"
"Portami fuori di qui." Le parole salirono con dolore in bocca a
Omar.
"No," disse Lorna. "Devi parlare adesso, subito, prima che la
rabbia che mi scoppia dentro mi spinga a romperti a calci un osso
dopo l'altro."
"Aiutami a uscire di qui. Ho bisogno d'aria, ho bisogno…"
"No," ripeté Lorna. Strascicò i piedi attraverso la sala, s'avvicinò a
Omar e lo colpì duro, con la punta dello stivale: la pelle sul fianco
secco dell'uomo si spezzò, e colò altro sangue nella camicia lorda.
"Qui dentro," soffiò Omar, e volse intorno gli occhi perché non
aveva abbastanza forza per tendere le braccia, "non c'è mai stato il
cervello della nave. Il cervello è dietro al muro, una matassa di
circuiti, avvoltolati come in un grande encefalo." Sospirò: "Qui
dentro non c'era altro che la prova che anche una macchina, che
anche una nave può amare, odiare e impazzire. Qui dentro c'era… il
sogno del cervello, un ritratto a tre dimensioni, quello che lui…
s'immaginava di essere. Nessuno gli aveva mai raccontato com'è
fatto il cervello di un uomo. Gliel'ho raccontato io…"
"Hai raccontato le tue balle perfino a questa nave." Lorna lo colpì
ancora, ma più piano, questa volta.
Omar si tirò a sedere, le spalle contro la paratia. "Io non ho
raccontato nulla. Quando la nave mi ha preso, e m'ha portato
quaggiù, la mia testa è diventata il suo giocattolo. Ha succhiato tutto
quello che ci ha trovato dentro ma, in cambio, mi ha spalancato la
sua… io non ero soltanto un prigioniero. Io ero, in certi istanti, la
nave stessa, sentivo le eliche fremere come adesso sento quel po' di
sangue che mi resta battermi nei polsi. Prima che tu spezzassi il
cordone che mi univa a lei… è stato il cervello a gridare. Non io. In
quel momento non ero che la sua voce: ora è come se tu avessi colato
piombo nelle sue orecchie, gli avessi bucato le pupille, tagliata la
lingua e strappata la fantasia da dentro il cranio. Questa nave va su e
giù per l'oceano da mille anni: era una macchina perfetta, e adesso
stava forse per diventare anche una macchina viva, una macchina che
sognava…".
Lorna si sentì la bocca gonfia d'ironia. "Signore dei sogni…"
sbottò. "Perché questo onnipotente cervello non mi ha fermato, non
s'è impadronito di me, quando sono penetrato fin qui?"
Anche Omar cercò di sorridere, ma aveva la pelle screpolata e
l'ironia gli bruciò sulle labbra. "Il cervello può prendersi gli uomini, e
comandare i robot. Ma uno squalo gli è estraneo come una rondine o
un'anguilla."
S'era alzato, e Lorna lo ricacciò contro la paratia, con un colpo
della mano aperta. "Ehi, uomo, sai perché sono sceso dentro questo
pozzo di follia?" Tese le braccia intorno, verso i brandelli del
grottesco cervello artificiale. "Signore dei sogni… sono venuto
perché uno squalo-spazzino non può fare altro mestiere che il
proprio, perché volevo conoscerti fino in fondo, vedere come crepa
un uomo, grattare la feccia… e sono venuto per ammazzarti, certo."
"Non puoi. Qui dentro… Lorna, per quanto tempo sono stato
qui?" Pensò alla pioggia di ore e di giorni che, avvolto nel suo
bozzolo di stracci, aveva sentito scorrere sopra di sé.
Lo squalo tese le braccia, afferrò i lembi lacerati della camicia di
Omar e lo strattonò, tirando l'uomo in piedi, contro la parete. "Chi ha
detto che non posso ammazzarti? Me lo impedirà lui… il tuo
cervello, o mi fermi tu?"
"Nel tempo che sono stato qui, uno o cento giorni che siano, ho
sfogliato nella mente il libro elettronico della nave. La sua storia
segreta. Lorna, sono mille anni di vita, almeno mille storie da
scrivere e da sognare, una ricchezza senza fine."
Il ridere di Lorna squassò perfino il vapore nella grande sala.
"Povero signore dei sogni. Tu non tornerai più là sotto, mai più,
nemmeno se ti presentassi con le mani piene di diamanti e di sogni
già incisi. La tua Ombra è stata spenta, e il tuo nome cancellato."
Tirò il fiato. "Non c'è più nemmeno il mio, di nome, ma nessuno
squalo-spazzino ha mai preteso di entrate nella storia. E poi, sarò
ripagato da una grande gioia."
"Portami fuori." La faccia di Omar non era quella di un uomo che
supplica, però. "Nella mia testa c'è il cervello della nave, adesso. Non
puoi…"
"Omar, io ti conosco anche sotto la pelle. Ho sentito sulla mia
lingua il bacio che hai dato a Pat, prima di ucciderla. Ho lanciato
anch'io il coltello nella schiena di Valdemaro. E il mio ventre s'è
contratto guardando negli occhi delle donne, come faceva il tuo. Ti
conosco così bene che, una volta, mi sono quasi identificato in te,
così bene che potevo perfino comprendere le ragioni della tua
pazzia…"
Raccolse la spada e la mostrò a Omar: il filo dell'acciaio era
consunto e spezzato. "Non so cosa succederà dopo, ma perfino le mie
budella approvano quello che sto per fare."
Gli occhi di Omar erano stanchi e immobili, dritti nei suoi. Lorna
capì che l'incarico che gli avevano affidato stava proprio per
concludersi. Avrebbe obbedito agli ordini. Il giustiziere tornava a
essere lo squalo della casbah. Ma forse Vancoy avrebbe avuto
bisogno d'un assassino, per le questioni da sbrigare senza rumore, si
conoscevano bene, ormai… sentì che l'elsa della spada si faceva
pesante fra le sue dita.
Omar poggiò le spalle al muro, le palme delle mani aperte sul
metallo tiepido. "Hai torto," disse. Lorna mulinò ancora la spada
sopra il capo, e la calò sull'uomo.

Uno strappo violento, e la lenza di nylon sfilò rapida nelle dita di


Davide. "Eccolo… perdio!"
Sinbad si rizzò in piedi, in equilibrio sulla poppa. "Dagli spago…"
Il filo scendeva dritto sotto la barca, nell'acqua verde. Le mani di
Davide incominciarono a sanguinare, lacerate: Sinbad frugò nel
gavone di poppa, tirò fuori i guanti di gomma e li indossò in fretta.
Poi strinse la lenza fra le dita. "Lasciala."
Davide mollò lo spago: un filo di sangue gli correva nelle mani,
preciso come una nuova linea della fortuna. Sinbad puntò i piedi sui
paglioli. "Basta adesso," imprecò. La lenza si tese come la corda d'un
impiccato, e il dinghy scrollò le fiancate, una, due, tre volte con
violenza. "Ora." Davide prese il filo e l'avvolse sul mozzo del piccolo
argano. Poi impugnò la manovella e incominciò ad arrotolare la lenza
sul legno incatramato.
Sinbad stava a gambe larghe, in piedi, piantato in mezzo alla
barca.
"Forza Davide, lentamente… forza." La manovella s'era
imbrattata di rosso, sotto le sue dita, ma Davide non se ne accorse,
sembrava non accorgersene almeno, e guardava giù, nel verde
profondo sotto il dinghy, la linea dritta e bianca della lenza.
"A quante braccia era?"
"Oh, quarantacinque, cinquanta, non di più."
Sinbad impugnò il mazzuolo d'alluminio, leggero e incrostato di
sale. Si allungò fuori bordo, e la barca beccheggiò: "Eccolo… viene,
viene."
Vide un lampo d'argento nell'abisso, una vertigine chiara, poi la
sagoma affilata appesa al filo bianco. E una bocca spalancata,
centocinquanta denti sottili in una nuvola di sangue nero che si
perdeva dal labbro rigido, trafitto dall'amo.

"Forza." Davide avvolse l'ultimo metro di lenza. L'acqua calma


eruttò all'improvviso schiuma, sangue, strida e colpi d'una coda
possente contro il fianco tondo del dinghy. Era un gran pesce: Davide
guardò il muso ottuso, grosso come la sua testa, e i denti in riga che
ridevano come ridono i morti. Poi Sinbad colpì il pesce con il
mazzuolo, pieno di furia, mentre l'animale si contorceva e scuoteva
la barca.
Il martello scardinò le cartilagini del muso: "Che roba è?" gridò
Davide. E Sinbad: "Bah. Abbiamo mai preso un pesce uguale a un
altro, in questo mare?"
Annodarono la lenza a uno scalmo, poi Sinbad avvitò un arpione
sulla fiocina e lo ficcò nel ventre dell'animale, Il pesce morì con un
lungo brivido.
Davide strinse il rotolo d'un cerotto fra i denti e l'incollò sulle
proprie mani: con le dita fasciate nella stoffa, s'allungò sulla barca e
trasse dall'acqua il fiasco legato a prua, calato un metro sotto il
dinghy. Lo stappò e bevve un sorso lungo: "Che razza di pesce sarà?"
Tese il vino a Sinbad: era fresco, aspro e salato per le gocce di mare
che c'erano calate dentro. "È morto subito, i pesci di una volta non
morivano così in fretta. È morto come quel tipo, l'altra notte, un
fremito e via. Sembra che abbiano tutti una gran fretta d'andarsene,
oggigiorno."
Il sole era salito rapidamente dall'orizzonte, e scottava sulla pelle.
"Alza la vela, Davide," disse Sinbad. "Siamo a posto, per oggi. Il
vecchio avrà da fare cucina per una settimana."
Davide tirò la vela di canapa e la fissò sull'albero. La terra era
lontana, un velo appena sotto il cielo sfilacciato. Il vento era fresco,
teso e leggero. "Dovremmo andare di bolina," brontolò Sinbad,
sfilandosi i guanti di gomma. Poi Davide tese entrambe le braccia e
urlò: "Laggiù in fondo… Sinbad."
L'orizzonte era piatto e liscio e quel segno nero avrebbe potuto
essere un'altra barca, una goletta corsara, un gabbiano addormentato
sul pelo dell'acqua, o una balenottera o un relitto.
"La nave, Sinbad…"
Eccola alla fine, proprio nel giorno più stupido, dopo una
mattinata di fatica dietro a quel dannato pesce sconosciuto. Sinbad si
guardò le mani: l'anello che aveva sfilato dal mignolo mozzato di
Hickey era opaco, e viscido per gli umori del pesce. Lo tolse e lo
lasciò cadere in mare, come un pegno di ringraziamento.
"Vai, Davide." Avrebbe voluto essere già a terra. Prese il coltello e
tranciò la lenza: il gran corpo color argento, accanto alla barca,
galleggiò un attimo contro la fiancata, poi si rigirò e affondò
gorgogliando. Era diventato un peso inutile, ora: che il mare se lo
riprendesse pure.

Vancoy recitò in fretta e in silenzio la sua preghiera alla Vergine


del mare. Al momento dell'amen, però, gli occhi del gabbiano che
l'inchiodava sulla tolda con le ali di rame, rimasero sbarrati, il rostro
non s'abbatté sul suo viso e la macchina si bloccò fumando
lubrificante fuso.
Vancoy aveva combattuto per sessant'anni la guerriglia sul mare:
lasciò perdere la Vergine e le sue mani si abbatterono unite, di taglio,
sulla faccia metallica del robot: gli occhi elettrici si spezzarono e
Vancoy gridò mentre le ossa delle sue dita andavano in frantumi. Il
gabbiano si rovesciò sulla tolda e rimase immobile, goffa caricatura
d'animale. Vancoy si guardò intorno: ovunque sul ponte i gabbiani
mostravano al cielo la loro pancia tonda e ramata. Immobili.
"Oh, perdio… uomini," urlò Vancoy. Cercò di portare le mani a
imbuto davanti alle labbra. "Fracassateli tutti… e poi adunata davanti
alla torre di prua." Il grido gli morì in bocca, mentre le sue dita si
piegavano indietro sulle nocche, spezzate.
Guardò le proprie mani con gli occhi sbarrati. "Belfagor…
aiutami," chiamò ancora, lasciandosi cadere su un boccaporto.
Il plotone dei corsari era sparpagliato sul ponte: colpivano ragni e
gabbiani, con le spade e le mazze. Molto automi, dopo quell'attimo di
assurda immobilità, avevano ripreso a muoversi piano, ma i colpi dei
pirati li ricacciavano infranti al suolo.
Belfagor corse: "Ci vorranno stecche d'alluminio, e mesi di
pazienza," disse, guardando Vancoy in faccia.
"Fascia queste dita, bastardo."
"Oh sì, mio capitano," gli rise addosso Belfagor. Gli toccò le dita
con delicatezza, mentre la pelle illividita gonfiava e doleva. "Non
gridare mentre ti raddrizzo le falangi… il morale della truppa, lo sai."
Belfagor era un bastardo, davvero.
La nave entrava nell'arcipelago, la battaglia sul ponte non ne
aveva rallentato la navigazione, Vancoy volse il capo per non vedere
le proprie dita contorte (il dolore veniva su lungo le braccia a ondate
metalliche… oh, potessi svenire. A questa età…) e guardò verso le
isole, segmenti scuri sull'orizzonte.
"Perché queste macchine si sono fermate così? Dobbiamo far
presto," gridò ancora. Indicò con il capo il castello di prua. "Lassù, il
ponte di comando. Fino a che non saremo lassù la nave potrà
ributtarci in mare quando vorrà." Belfagor gli aveva bendato la mano
destra: gli tese una fiala di psicodin. Vancoy la spezzò con i denti di
cristallo, e inghiottì il liquido ceruleo. "Vai lassù. Io resterò qui,"
ordinò. "Non siamo mai stati così vicini a prendercela. Voglio sapere
perché ha smesso di combattere… Belfagor, vai su."
Una dozzina di corsari lanciò ancora i grappini contro la torre: ci
sarebbe voluto troppo tempo, per trovare porte e boccaporti, forzarli
e salire le scale ripide.
Il pirata raccolse una fune che s'era allacciata in alto, sullo spigolo
d'una murata. Tirò con forza… reggeva. Salì come uno scalatore,
ritto in orizzontale, i piedi contro il muro chiaro. I grandi oblò del
ponte di comando erano serrati: Belfagor mulinò la mazza, due, tre
volte. L'ottone consunto andò in frantumi, telai e giunti si ruppero e
le schegge dorate caddero in basso.
"Tirate." La corda che lo reggeva, annodata alla cintura, si tese:
Belfagor colpì a piedi uniti l'oblò, scardinandolo, e balzò dentro, sul
ponte di comando.
C'era sul terreno una polvere chiara: scricchiolò mentre il corsaro
la calpestava. Polvere d'osso, chissà, il comandante, o un ufficiale, o
un timoniere addormentato durante l'ultimo turno… Belfagor ne
raccolse una manciata e la gettò in aria, come una nuvola. In mille
anni anche un'anima ha tempo di andare in cenere.
"Salite, forza," gridò affacciandosi all'oblò, Si volse al pannello
elettronico: ronzava piano, quasi impercettibile, e gli occhi lucidi del
cervello riflettevano le immagini della nave su una riga di schermi.
Soltanto pochi schermi erano spenti, accecati dagli anni. Andò
davanti alla telecamera che inquadrava il locale. Non sentiva d'essere
davanti a una macchina. Una macchina non è un nemico. Quella era
ostile, invece. Colpì con un calcio la base della parete. Si sbottonò i
calzoni e orinò addosso al monitor più vicino. Odore aspro, d'orina
calda, Scorreva sulle lamiere, non c'è niente di più umano che
pisciare sul muro. Sbatté la mano aperta contro i pannelli: "Quante
volte hai pisciato, tu, in mille anni?"
Pensò a Vancoy, con le sue dita spezzate, forse per sempre inutili.
Alzò la mazza ferrata e la lasciò cadere su un monitor, poi sulle
lamiere, sui tasti sotto i quadri luccicanti. Uno schermo esplose, un
filo di fiamma corse sotto i timoni, scoppiettando.
Belfagor si fermò solo quando la mazza ebbe sfondato l'intero
pannello: come dentro a un robot sventrato vedeva i transistor e i fili
colorati, e ogni contatto fra il ponte di comando e il cervello, giù
nella stiva, s'era interrotto.
L'immenso corpo della nave s'impennò, come colpito da un'onda
improvvisa. Belfagor s'aggrappò ai timoni d'acciaio. "Ohi, Belfagor,
cosa succede?" gridava Vancoy, venti metri più in basso.
"Non so, un'ondata…"
"Al diavolo. Il mare è fermo come se ci avessero versato sopra
olio a barili. Cos'è successo, lassù?"
"Ho… bloccato i comandi."
"Scendi. Abbandoniamo la nave."
"Come?"
"Sembra impazzita, incontrollabile. Cosa diavolo hai combinato,
lassù? Le andremo dietro con il brigantino. La raccoglieremo a pezzi
contro qualche scogliera. Scendi, se non vuoi crepare lassù."
Nella cassa d'ottone, in fondo alla baracca, Sinbad trovò il vecchio
corredo: trascinò il cofano all'aperto, sulla sabbia, e l'aprì. L'investì
l'odore del passato chiuso là dentro, naftalina, gomma bollita dal
sole, stoffa, carta croccante e una manciata d'anelli (erano, in realtà, i
tondini di rame strappati alle mani d'un robot sconquassato).
Davide lo osservò con curiosità, mentre si vestiva. "Che bisogno
hai di recitare questa mascherata?" Sinbad indossò le braghe di cuoio
scuro, la camicia di canapa, ruvida sulla pelle imbiancata dal sale, e
l'armatura di maglia d'acciaio. Scrollava i fianchi per entrare negli
abiti che non erano suoi, ma teneva lo sguardo dritto in direzione
della spiaggia. "I riti non servono che a rendere misteriose e
importanti le faccende più stupide. Ho passato la vita ad aspettare
quella nave: se oggi non metto qualche orpello su questa carcassa,
come potrà presentarmi al mio appuntamento con il destino senza
sentirmi uno stronzo, da capo a piedi?"
Sbatté gli stivali contro il fianco del dinghy tirato in secco, per
farne uscire la sabbia che li aveva riempiti. Li infilò. "La balestra,"
gridò.
"Un momento ancora." La voce del vecchio gracchiò dietro una
duna. Sinbad sentiva l'odore del legno di sandalo, bruciato sotto il
crogiolo. Poi il vecchio venne con l'arma di ferro, il reflex del mirino
coperto da uno straccio, e i dadi di piombo da lanciare ancora ardenti
dopo la fusione.
Era importante arrivare per primi sulla scogliera. I relitti
appartengono a chi fonde nel metallo della prua il proprio nome,
sancisce la tradizione, e spesso intorno ai crogioli, sulla sabbia,
rimangono anche dei cadaveri.
"Ci vorrebbe un cannone laser," disse Davide. "Lo piazzi sulla
scogliera e stai tranquillo che nessuno ti disturberà, mentre lavori."
Sinbad e il vecchio intrecciarono le cinghie d'una portantina: poi
caricarono il saldatore, i becchi a gas, l'ascia elettronica per squartare
la grande balena.
"Nessun altro l'ha vista?" chiese il vecchio. Si muoveva frenetico
come una formica impazzita intorno a Sinbad, stringendo i lacci
dell'armatura, controllando il gas e i bulloni dell'ascia, come se il
destino fosse affidato soltanto alle sue mani. "Siete sicuri che non c'è
nessun altro?"
"No. Piantala di girarmi intorno," ringhiò Sinbad. Davide
camminò fino a un mucchio di sassi bianchi: ci avevano seppellito
Hickey, perché le mosche non lo mangiassero. "Avevi torto,"
mormorò. "Perché andarsene? È il sud che è salito da noi." Sputò in
terra, poi tornò al dinghy, alto sui pioli di legno, in secca. "Andiamo,
altrimenti sulle rocce non troveremo che ossa spolpate da qualcun
altro."

Cercò di dire "grazie" a qualcuno, a Dio o alla nave o al destino


che l'aveva protetto ancora, ma non ci riuscì. Guardava con le labbra
secche il corpo di Lorna, lungo sul pavimento. L'impennata
improvvisa dello scafo, che aveva scosso l'interno della nave come
un singhiozzo nello stomaco d'un capodoglio, aveva scaraventato lo
squalo contro una paratia: la sua faccia s'era spaccata sui bulloni del
muro, la spada era rotolata rintronando al suolo e Lorna era scivolato
piano in terra, graffiando il muro con le dita, il capo voltato a
guardarlo, disperato impotente e rabbioso.
Omar mosse la gamba destra: la mano di Lorna che s'era
aggrappata al suo piede cadde indietro, nel sangue.
Si girò contro la parete, poggiando alla lamiera la fronte, le mani a
aperte e i muscoli magri delle cosce. Sono… solo, pensò. Era come
se nella sua testa si fosse all'improvviso svuotata una stanza, un
grande spazio, avessero portato via mobili e tappeti… era vuoto
come una stanza abbandonata.
"Rispondi, perdio!" urlò, con le labbra premute sul muro.
Raccolse il catetere reciso che pendeva dalla parete, e lo premette
nella ferita del suo braccio. Attese, ma sentì soltanto un dolore sordo,
che lo paralizzava fino alla spalla.
Sono pazzo, pensò, parlo a una matassa di fili di rame, e le chiedo
di rispondermi. "Da quanto tempo sono qui dentro?" La nave rollò e
beccheggiò ancora, e il corpo di Lorna ruzzolò sui cristalli
sminuzzati.
Sono morti tutti, Lorna e la nave. Qualcuno è salito lassù, c'è
riuscito alla fine, e le ha piantato un chiodo nella fronte proprio
mentre Lorna, qui sotto, le pugnalava il cuore. E mentre s'è strappato
il catetere e la sua anima gocciolava via da quel rubinetto, là sopra
qualcun altro andava all'assalto… sono pazzo, ripeté. Ma sono ancora
vivo.
Corse verso la porta: sbatté contro il buio improvviso delle scale
come contro un muro. Salì i gradini, guidato da un soffio d'aria
salmastra, salì come un pinocchio nella pancia della balena… si
fermò un istante con il cuore in gola, prendendo fiato e attendendo il
rigurgito che l'avrebbe ricacciato per sempre nel ventre del mostro.
Uscì sul ponte attraverso una porta scardinata, e vide la terra, per
la prima volta in vita sua. Era una striscia lunga e azzurra e verde
sull'orizzonte, interrotta a tratti dove il mare s'insinuava fra le isole
dell'arcipelago. Sulla tolda i ragni e i gabbiani erano strane bestie
immote e sgangherate, con le pinze rivolte al cielo. Sembravano
essersi fermate tutte insieme, per offrire la pancia alle picche dei
corsari. C'erano anche uomini, al suolo, eppure le loro ferite gli
parvero naturali, le braccia monche e il sangue che colava… ma i
robot erano finti morti, terribili morti che non erano mai stati in vita.
Zoppicò fino alla murata, a balordo.
Vide il brigantino che andava a vele spiegate, inclinato nella
spuma: seguiva la nave, bianco, ma Omar se l'immaginò come un
avvoltoio che vola attorno a una bestia ferita, e che puzza di morte
imminente.
Sentiva proprio la morte, nel lungo tremito irregolare che scuoteva
le fiancate della nave. Guardò il ponte di comando, e vide i grappini
ancora appesi agli oblò, e le corde tese in basso. Dunque avevano
squarciato gli automi ed erano saliti fin lassù, a colpirla… ecco lo
scrollone che aveva fracassato Lorna contro la parete!
Ma c'erano ancora gabbiani intatti nelle batterie a prua, pronti a
essere lanciati in volo, e c'era quella strana posizione degli automi
sconfitti, tutti a pancia in su. No: per un momento, un momento solo,
qualcosa s'era inceppato nel cuore della nave, una specie di battito a
vuoto, gli uomini avevano preso il sopravvento per quel solo motivo,
ed erano saliti fin lassù.
"Che tu possa essere digerito dai vermi," gridò, battendo il pugno
sul parapetto. "Maledetto Lorna." La nave s'era davvero fermata un
istante durante la battaglia: ricordò il momento in cui lo squalo aveva
tranciato il catetere, e la nave s'era bloccata, e il cervello aveva
urlato. "Bestia maledetta."
La nave fremette ancora, un'onda la sospinse a dritta, verso le
isole, e i timoni arrugginiti non corressero la virata. Omar guardò la
terra che si avvicinava e il brigantino, becchino bianco che aveva
virato anch'esso, all'ombra della petroliera a dieci piani.
"Son morto tante volte, negli ultimi giorni, che non voglio proprio
più morire, adesso," disse. Guardò un corsaro. Aveva la schiena
aperta dal rostro di un gabbiano, e il moto della nave lo faceva
dondolare, avanti e indietro. Si volse a un robot smembrato. "Sono
morto una volta, un secolo fa, giù in fondo al mare. Sono morto
un'altra volta, oggi, qui. Ora rinasco in terra. Non voglio morire più,"
gli disse.
La prua a bulbo della nave arò la sabbia del fondale, il pilota
meccanico non fermò i motori, le eliche spinsero ancora e la
petroliera si erse. Era leggera, con le tanche vuote: quando il fondo
sabbioso ebbe termine, contro la scogliera, lo scafo balzò in alto.
Ricadde: il mare si riversò nell'immenso corpo della nave, attraverso
i fianchi lacerati. I generatori erano stanchi, anche per esplodere: la
petroliera rimase immobile, acquattata contro le rocce, proprio come
una balena arenata, la pancia gorgogliante di schiuma.
Un tremito freddo scuoteva le braccia di Omar, aggrappato al
parapetto: guardava, in basso, l'acqua che correva contro gli scogli.
Cercò di staccare le dita dal metallo, ma quelle mani non sembravano
sue. Erano come sculture estranee, di piombo. "Non voglio morire
più." Lo ripeté tante volte da crederci, infine. Lasciò la presa. Il ponte
era scivoloso, così inclinato: inciampò in un ragno scardinato, e
l'automa se ne andò lungo la tolda, come un cadavere di latta rotolato
giù per le scale.
"BASTA." Omar gridò così forte che l'ultimo tonfo del ragno fu
coperto dalla sua voce.
Annodò al parapetto una corda abbandonata dai corsari. Ci
impiegò dieci minuti: sentiva che il tremore se ne andava, che
l'emozione se ne andava, e che al loro posto gli montava dentro una
stanchezza infinita, e il sonno. "Dormirò giù. Dormirò fino a domani,
sulla spiaggia," disse ancora. Scavalcò il parapetto, si aggrappò un
istante in equilibrio e guardò il ponte: cadaveri di carne e di latta
facevano mucchio, verso la prua, un mucchio grottesco.
Scivolò piano lungo la murata.

Il vecchio era accucciato in basso, e non lo vide. David e Sinbad,


sdraiati sulle rocce, più in alto, puntarono i binocoli, ritti sui gomiti.
"Chi è?"
"Un uomo. Non credo sia un marinaio. Un pirata, forse."
"Ammazzalo."
Sinbad alzò la balestra, pose nella canna il quadrello di piombo, e
poggiò il calcio dell'arma sull'omero destro: nello specchio del
mirino gli occhi di Omar erano come due bottoni di vetro. Ritto sulla
scogliera, l'uomo si volse a guardare il cielo lungo sull'orizzonte: le
nuvole sfilacciate erano tinte dal sole che tramontava, un sole
soltanto, ma luminoso più di mille, giallo come oro e rosso come
piombo fuso, i colori — rammentò — del suo ultimo carnevale.
SORI

Il prete nuovo venne con il treno della sera. Barbagelata attese


finché non ebbe scaricato i suoi bagagli, una sacca di tela nera, tela
cerata, e un cassone di paglia intrecciata e frusta. Aspettò che
s'imbragasse sulle spalle il cassone con una correggia sbiancata, e
che uscisse dalla stazione. Lo osservò, mentre si avviava su per il
vialetto che portava all'Aurelia, sotto i fiori rossi e bianchi degli
oleandri e dell'ibisco. Poi andò a telefonare, nell'ufficio del
capostazione.
"È arrivato," disse. "Sarà giù fra una diecina di minuti al massimo.
È uno che va di buon passo."
"Manco male," gli rispose Guanito, con la voce roca e fessa per
via d'un polipo che gli rodeva la gola, una voce che nel telefono si
sentiva ancor meno, tanto che sembrava di telefonare in Purgatorio.
"Scendi con la teleferica."
Barbagelata aveva settant'anni e le ossa incrostate dal sale e
dall'artrite, piene del veleno d'una murena che gli andava su e giù per
il midollo: l'aveva morsicato tanti anni prima, lui l'aveva presa con la
fiocina e tirata all'asciutto. Non era morto, ma quel veleno gli correva
nelle ossa. Quando c'era scirocco e la maccaia, il tempo molle, caldo
e umido che portava l'odore dell'Africa, quel veleno gli andava
perfino in testa, e Barbagelata si metteva a letto per il gran dolore.
Andare in teleferica gli avrebbe fatto prendere un colpo d'aria, e un
colpo d'aria gli avrebbe provocato il mal di testa, per qualche giorno.
Barbagelata era secco come una ginestra, la pelle come cotenna
annerita e zoppicava. Uscì dalla stazione, diede un'occhiata al sole
che tramontava in fretta, tondo e rosso, e andò di corsa giù per la
strada, verso gli scogli. La corda d'acciaio della teleferica, unta di
grasso, era agganciata a un ulivo contorto, a picco sulla spiaggia.
Le case di Sori, intonacate di grigio e di rosa, s'ammucchiavano in
fondo al vallone ripido e stretto, a ridosso della riva, lungo la foce del
torrente. Torrente di Sori, c'era scritto sulle vecchie carte. La stazione
della ferrovia era in alto, oltre il viadotto che scavalcava il vallone, e
al paese si scendeva lungo l'Aurelia che si contorceva sul fianco del
monte, o con la teleferica.
Barbagelata si mise a cavalcioni del sellino da bicicletta che
avevano agganciato alla carrucola, s'attaccò sospirando a una specie
di manubrio, poi tolse il freno. Aveva fatto quel gran salto, la prima
volta, quasi settantanni prima, a cavallo dello stesso sellino che era
solo un po' più nuovo, e c'era ancora la pelle di cavallino a riparare il
culo dalle molle. Il vento gli fischiò addosso, la teleferica schioccò
come una frusta, e Barbagelata planò come facevano una volta i
gabbiani, lungo il filo che tagliava in due il cielo, come una
coltellata.
Arrivò di sotto, dritto nella piazza: l'altro capo del cavo era
agganciato al campanile di Santa Margherita, e nei giorni di libeccio
si rischiava di andare a sbattere contro l'immagine sul muro, e di
rimanere secchi, appesi come mosciamme ad asciugare. Il
contraccolpo gli mozzò il fiato, e gli rimbombò dalle caviglie fin nei
polmoni. Poi Barbagelata sganciò il sellino della teleferica, e scese,
zoppicando un poco di più, dopo il gran volo.
Guanito stava sulla porta della chiesa, nell'ombra, vestito con la
cappa grigia da sacrestano, ma anche da bidello e da beccamorto, a
seconda dei servizi che faceva. "Vieni fuori, lumaca," gli disse
Barbagelata. "Hai paura di seccarti, che stai sempre al buio?"
"Che tipo è?", disse Guanito.
"Sembra uno spaccalegna, più che un prete," disse Barbagelata.
"Ha due spalle così, la barba rossa, è strano perché ha i capelli
bianchi e la barba rossa. S'è caricato il sacco e un cassone sulla
schiena, e sta venendo giù."
Guanito socchiuse l'uscio della chiesa. Venne odore d'incenso, da
dentro, e una folata d'aria fresca. Il sole se n'era quasi andato dietro al
monte Cordona, ma l'aria era ancora calda. "All'altro gli piaceva,
sentire l'odore dell'incenso. Senza l'incenso, diceva, la chiesa dove va
a finire?"
"Siete tutti così scemi," disse Barbagelata. "L'importante è che
faccia il miracolo, anche quest'anno. Incenso o non incenso." Lui
preferiva respirare il vento che veniva giù dalle fasce, e che sapeva di
salvia e di basilico, altro che incenso.
Poi vide che gli occhi di Guanito s'animavano, e si volse. Il prete
nuovo veniva a passi lunghi verso la chiesa. Invece che sul
marciapiede, camminava sui ciottoli della spiaggia, lì accanto, e le
sue scarpe facevano un gran rumore. Un paio di finestre si schiusero,
sulle facciate delle case più vicine: erano Bidò, la Margherita e la
Guadalupe e qualcun altro che voleva vedere che faccia avesse il
prete che, anche quell'anno, a Sori avrebbe fatto il miracolo del
Corpus Domini.

Come l'abbiano inventato, il nome di Sori, non lo sa bene nessuno.


Forse da 'soros', cioè avello, o sepolcro, chiuso com'è il paese fra due
colline verdi e scoscese. I suoi primi abitatori, probabilmente Iberi e
Galli, se ne stavano all'interno, nella frazione che oggi si chiama
'case bruciate', lontani dal mare, dal quale venivano soprattutto
pericoli e corsari. Nel X secolo, passata la bufera romana, Sori fu
proprietà dei vescovi di Milano, e nell'XI secolo se ne impadronirono
i genovesi. Fu allora che i soresi fondarono la nuova città, in riva al
mare: nel 1190 fu costruito l'ospizio di San Cristoforo, che dava
ricetto ai pellegrini in transito da Genova alla Terrasanta.
Nel 1300 Sori divenne comune autonomo, e i suoi abitanti furono
per metà abili tessitori, e per metà pescatori. Il 1° luglio 1584 proprio
le ricchezze accumulate con sete e velluti provocarono la sanguinosa
scorreria dei pirati di Dragut: i saraceni approdarono a Sori con 22
galee e 1500 uomini. La città fu messa a ferro e fuoco, le case
smantellate, e 134 persone, uomini, donne e bambini, furono presi
schiavi. I saraceni portarono via tutto, compresa l'immagine della
Signora delle Grazie, strappata alla chiesa: ma una forza misteriosa
imprigionò le vele delle galee, e impedì che la flotta ripartisse. Solo
quando l'immagine della Madonna fu gettata in acqua, le navi
poterono salpare e la tavola, tutt'ora custodita sopra l'altare, tornò a
riva galleggiando fra le onde.
Sori fu decimata dalla peste nel 1579 e nel 1657. Nell'Ottocento
l'industria della seta s'estinse, e i soresi ripresero ad andare per mare:
alla fine del secolo gli abitanti erano 1200 e gli armatori avevano
riunito una flotta di 30 bastimenti che percorrevano, soprattutto, le
rotte del centro e del sud America. Di laggiù portarono nomi come
Guanito, o come quello della vecchia Guadalupe.

Il prete nuovo, almeno così parve a tutti, era un uomo di poche


parole. Disse a Guanito di chiamarsi Andrea, fratello Andrea, e che
nessuno s'azzardasse a chiamarlo 'padre'. Guanito fece correre questa
voce la sera stessa, con la sollecitudine che usava nel divulgare i
voleri del maestro di scuola, del sindaco, del provveditore al
cimitero.
Poi, rifiutando anche l'aiuto (offerto più a mosse che a parole) di
Barbagelata, il prete trascinò in sacrestia sacca e cassone, e si mise a
vuotarli. Tirò fuori una pisside, e la mise sul tavolo tarlato, poi un
turibolo, e una vecchia cotta. Sbuffò: "Fa un caldo cane. E non siamo
che a giugno. Come farete, in piena estate?"
Guanito sussultò. Aveva seguito il prete passo passo, dopo essersi
presentato a lui proprio sotto l'immagine della Madonna, ma non
aveva ancora aperto bocca.
"Stiamo all'ombra, specie se c'è scirocco. E poi questa è una
chiesa fresca", s'affrettò a dire.
"Lo vedo. Ma non verranno mica tutti in chiesa, no? Non mi dirai
che queste panche le hanno consumate i loro culi, per star freschi
d'agosto…"
"No, certo che no."
Ma a fratello Andrea quel discorso non doveva importare più di
tanto. Era di modi spicci e bruschi, davvero i modi d'uno
spaccalegna. Finì di sistemare le sue cose, poi disse a Guanito: "Ci
pensi tu a far portare queste robe in camera mia?", e indicò quello
che restava nella sacca e nel baule, dopo che ne aveva tolto le
carabattole del culto. "Avrò una camera per me, almeno?"
Guanito assentì "Come no? Certo."
Il prete sedette a gambe larghe su una panca di legno nero. Si batté
le mani sulle ginocchia e disse: "Parliamo di affari, adesso. Non ho
accettato di venire fin qui solo per sentire odore di basilico." Rise,
agitando la barba rossa come un mangiafuoco. "Chissà quanti anni
ha?", pensò Guanito.
"Voglio il dieci per cento," disse il prete. Guanito lo guardò, nella
penombra della sacrestia, poi scivolò fino a uno scaffale di legno
dipinto: prese un lume a olio e l'accese. "Risparmiamo la corrente,
così," disse. "Il dieci per cento di che cosa?"
Il prete si fece serio, e i tratti già quadrati della sua faccia parvero
indurirsi. "Ehi sacrista," sbottò. "In tutti i paesi i miracoli portano
soldi. C'è la gente che viene da fuori, a vedere. E i bottegai vendono.
Qui ci sono i pescatori, mi pare… il miracolo di Sori è un buon
affare, m'hanno assicurato in Curia."
Guanito sorrise. Aveva tutti i denti, malgrado l'età, ma erano tutti
finti e gialli, e si vedeva. "Vuol sapere una cosa, fratello Andrea?
Parli con Barbagelata, domattina. Lui sa tutto, del mare, dei pesci, dei
miracoli e di quanto ci si guadagna."

Fratello Andrea dormì nella stanza del suo predecessore, il prete


vecchio, il prevosto che aveva fatto il miracolo negli anni passati
(non in tutti, naturalmente) e che era sparito da Sori la notte di
Capodanno, era sparito sottobraccio a una zingara venuta da
chissadove, andandosene verso il monte Becco e nessuno l'aveva più
visto.
Nemmeno il prete nuovo aveva l'aria di disprezzare le donne, né le
donne disdegnavano lui, a giudicare dal numero di quelle che si
presentarono in chiesa per la confessione, già al mattino presto. Ma
Guanito fu irremovibile, le cacciò tutte dal tempio con le loro
focacce, i mazzi di lavanda e i fazzoletti di lino ricamati, a dozzine,
che avevano portato come ogni anno per pagarsi l'assoluzione.
"Fuori, fuori," squittiva, spingendole sui gradini della chiesa, fin
sulla piazzetta che dava sul mare. "Fratello Andrea confessa solo nel
pomeriggio. Ordini tassativi."

Il prete nuovo, intanto, se n'era andato in cerca di Barbagelata,


prima lungo la sponda destra del torrente, un rivo che scioglieva in
mare poca acqua, poi lungo quella sinistra.
Barbagelata faceva un gran chiasso, dritto in punta di piedi su una
panca accostata al muro dell'oratorio, il martello in mano e un
ventaglio di chiodi fra le labbra secche. Un ragazzetto gli porgeva un
nastro di filo elettrico, un rosario di lampadine a colori, e Barbagelata
l'inchiodava al muro, tracciando la emme della Madonna, e una
croce, e un gran pesce rotondo. Erano proprio gli ultimi tocchi, per la
festa del miracolo. Le bancarelle erano già state rizzate, e avevano
abbassato il telo a righe verdi e bianche per coprirsi fino al
pomeriggio, come tanti sipari, e anche la giostra era pronta: più tardi
ci avrebbero attaccato gli asini con le orecchie infiocchettate, e gli
asini avrebbero preso a girare in tondo, con i bambini in groppa.
"Lo sai che il pesce è il simbolo di Cristo?", disse fratello Andrea,
piantato a gambe larghe, un po' sotto Barbagelata.
"Per me il pesce è il simbolo della pancia piena."
"Tu sei un uomo di fede, altrimenti non ti daresti tanto da fare per
le luminarie."
"Luminarie un corno. Io sono soltanto un pescatore, e ho bisogno
che il miracolo venga bene."
Il prete fece un passo indietro. Era quello, il nocciolo della
questione. "E quanto ti rende, il miracolo?", chiese, a voce più bassa,
ma non tanto da non essere udito dall'altra gente che in piazza
trafficava dietro agli addobbi. Barbagelata si volse, si chinò, le rotule
gli scricchiolarono nelle ginocchia, e il pescatore guardò in faccia il
prete.
"Quanto mi basta," disse. "Sei forse il gabelliere per fare queste
domande? E poi, guardati in giro: speri che qualcuno qui ti
risponda?", soffiò "No. Non basta certo la pesca del Corpus Domini,
a farmi vivere tutto l'anno."
Il prete si grattò la barba, sulle guance. Aveva le labbra sottili e i
denti forti. "E come campi, allora?".
Barbagelata si mise a cavalcioni della panca. "Facciamo conto di
essere in confessione?" Dondolò i piedi.
"Facciamo conto."
"Bene. Sono un pescatore, e dunque pesco. Nell'acqua e nel vento.
Guarda." Ficcò una mano nelle tasche sformate dei pantaloni,
frugugnò un attimo, poi ne trasse il pugno chiuso. L'aprì, ma in modo
che dentro potesse vederci solo fratello Andrea. "L'ho trovato
stamattina presto, nelle reti."
Il coleottero era ancora vivo. Muoveva lento le zampe e le antenne
a pinza, capovolto com'era sul palmo della mano. Era d'oro.
"Ha un colore che è una meraviglia, dorato com'è," disse il prete.
"No. È d'oro vero. Se lo squarti con una forchetta, vedi che dentro
è tutto d'oro. Ha le budella che brillano. A volte prendo anche
locuste, o mosconi, o farfalle. Ci sono delle cavolaie con le ali grandi
come questa mano, ma sottili sottili, d'argento."
Il prete non guardava più l'insetto scintillante, ma dritto in faccia a
Barbagelata. "E dove…"
"Quando tira il vento, da settentrione, e fischia giù per queste
valli, vado a stendere le reti fra gli ulivi, in un paio di posti che so io.
E dentro ci si trova sempre qualcosa. Sarà il buon Dio, o la
provvidenza, no?" E rise, sfiatato e rauco.

La Relia s'era preparata una bella confessione, questa volta.


Quando, un paio di mesi indietro, Guanito le aveva detto che per il
Corpus Domini sarebbe venuto un prete nuovo, s'era messa in
agitazione. Era andata a frugare in fondo agli armadi, e aveva dato
aria alle vesti di quand'era giovane, a pizzi e trine che sembravano
tela di ragno, tant'erano sottili. E aveva fatto riverniciare le quattro
paranze, tutte gialle e rosse che sulla spiaggia si vedevano da
lontano, e poi s'era messa alla finestra a guardare il mare.
Cos'avrebbe potuto confessargli, al prete nuovo?
In paese la chiamavano la Vedova, Relia la Vedova, con un po'
d'odio e tanta pietà. Odio perché la Vedova era la donna più ricca di
Sori e dalla sua casa sulla collina un tempo si vedeva soltanto terra
sua, oliveti a distesa, che tutti i monti sembravano d'argento, e si
vedeva anche il mare, che sembrava suo anch'esso, dal momento che
le paranze migliori erano le sue e per prendersele in affitto bisognava
pagare fior di soldi.
Ma la Vedova metteva anche pietà. Perché era vedova da una vita
dopo esser stata sposata solo un giorno, proprio il Corpus Domini di
mill'anni prima. Suo marito se n'era andato per la pesca del miracolo,
a notte fonda, ancora vestito da sposo, con la camicia rossa e un
nastro sul cappello a tesa ampia, e non era tornato più. E per mill'anni
la Vedova aveva aspettato che il giorno del miracolo il mare si fosse
riaperto, e gliel'avesse reso, quel marito rapito. Era invecchiata così,
nella speranza e nella delusione.
Così, alle due del pomeriggio, la Relia si presentò per prima alle
confessioni. Porse a Guanito, che stava di sentinella sull'uscio della
chiesa, la cesta di vimini con i doni, e andò a sedersi nel
confessionale nero, tirandosi fin sulla faccia la tendina di velluto.
Udì, nel silenzio del pomeriggio, i passi calmi e pesanti di fratello
Andrea che s'avvicinava, sentì sbattere la porticina
dell'inginocchiatoio. Il prete s'era portato dietro una gran puzza
d'aglio.
"Sia lodato Cristo," sussurrò subito la Relia, per fargli capire che
lei c'era già, lì dentro.
"Sia lodato," disse nel buio il prete.
"Sono Relia, la Vedova."
"Non c'è bisogno di presentarsi. Dio ti conosce."
"Ma lei no, fratello Andrea."
Il prete rise in silenzio, dietro la grata. "Cos'hai portato al
Signore?"
"Una tovaglia ricamata nuova, per l'altare maggiore."
Fratello Andrea s'accomodò meglio, sulla panca del confessionale.
Ci stava stretto, e la veste lunga che aveva dovuto mettersi per la
funzione gli tirava dappertutto. "Credi d'esser degna del miracolo?",
disse.
"Sì," sussurrò la donna. "Non ho tradito la memoria di mio marito.
Ho dato un'equa mercede a chi ha lavorato per me. Ho fatto dipingere
l'immagine di Sant'Erasmo sulla prua delle paranze."
"A quanto le affitterai, stanotte?"
"Secondo l'uso, il pescatore dividerà il pesce in parti uguali, e me
le porterà. Io sceglierò, a piacimento, l'una o l'altra."
"È molto, metà del pescato…"
"Oh, ma io sono vedova, e anche Iddio ha detto che…"
Il prete ebbe un moto di fastidio. "Bene. Lasciamo Iddio ai suoi
proverbi. Se questo è l'uso, che vada pure così."
E di là, oltre la grata, la Relia riprese a snocciolare virtù e crediti
nei confronti della Provvidenza, l'olio offerto alla lampada votiva
nell'oratorio, il muro del cimitero rifatto a calce e a sue spese, i
fuochi d'artificio, prima del miracolo, sparati dalle sue terrazze. Oh
bene. Che questa pia donna smettesse di seccarlo. "Ego te absolvo"
mormorò, e la liquidò con una breve penitenza. Poi, visto che gli si
era addirittura presentata, sbirciò fuori dal confessionale, per
guardarla in faccia, mentre s'alzava per cedere il posto.
Vide, con stupore, un volto candido, la pelle liscia ben tesa sulle
gote, e le mani che sembravano non aver mai subito l'urto del freddo
o del sole. Non riuscì a incontrare il suo sguardo, che ormai s'era
girata e sgambettava verso il portone socchiuso. Solo la voce, quella
sì che era voce da vecchia, ma il suo volto non aveva più di
trent'anni.
Attese che la Relia fosse uscita di chiesa, poi s'alzò, mezzo
indolenzito, e chiamò sottovoce Guanito, che venisse un attimo
prima che altre pie donne entrassero a confessarsi.
"Ho parlato con la Vedova," disse.
"Ho visto. Ha portato una buona tovaglia, ricamata con l'oro
zecchino. Naturalmente a lei ne spetta metà. Metà del valore,
almeno."
Fratello Andrea scosse il capo. "Non è questo." Indicò la porta
della chiesa. "Quanti anni ha la Vedova?"
La faccia di Guanito s'incupì, diventò quasi aguzza, come quella
d'una volpe. "Ottantacinque… novant'anni. Se vuole vado a vedere
nel registro dei battesimi."
"No. No." Il sole del pomeriggio filtrò attraverso una bifora, alta
lungo la navata, e disegnò d'ombre il pavimento. "Qui bisogna
spazzare, prima di stanotte," disse il prete. "Come fa la Vedova ad
avere l'aria d'una ragazzina?"
Guanito guardò per terra. "Scoperò appena finiscono le
confessioni," disse. "La Relia… è un mistero, o quasi. Ma non faccia
troppe domande, fratello Andrea. La gente qui è piena di segreti, e a
raccontarli tutti ci vorrebbe l'estate intera. Non è tutto oro quel che
luccica, però. La Relia ha la faccia da giovane, ma dentro è vecchia,
è marcia, ha il diabete e si piscia addosso. È come un bel bicchiere,
lavato di fuori e sporco di dentro," disse. "Ora faccio entrare le altre."

La banda attaccò a suonare alle nove di sera, un attimo prima che


il sole scendesse sotto l'orizzonte. Erano in dieci, e s'erano messi a
mezzaluna in mezzo alla piazza, con le giacchette verdescuro troppo
strette o troppo lunghe e gli alamari dorati. Avevano montato il
leggìo di latta e, radunati intorno, gli lanciavano occhiate sghembe,
anche se quella musica la conoscevano ormai a memoria. Il maestro,
smunto più degli altri, batté quattro volte un piede per terra,
s'ingrugnì, alzò la mano destra con la bacchetta d'osso di delfino fra
pollice e indice, alzò la mano sinistra, a palmo aperto, e attaccò.
Zumpapà. Zumpapà. La Traviata. Atto secondo. "Amami Alfredo,"
modulò con la voce invisibile, accompagnando la musica e i gesti.
La festa s'avviava così per consuetudine e la gente, e la natura
perfino, zittirono per un istante, il vento cadde e il sole s'inabissò. In
sacrestia Guanito girò l'interruttore che comandava la luminaria, e
nel buio che era venuto giù all'improvviso la piazza, il borgo e la
facciata bianca e rosa della chiesa si ricamarono di luce. E un lungo
oooh venne dalle finestre delle case, dove i bambini affacciati
avevano atteso quel rito.
Zumpapà. Zumpapà. "Aaamami Alfredooo." Non era una musica
sacra, anche se tutta la musica è sacra, a volerlo. Barbagelata
s'avvicinò alla banda, ormai circondata dalla gente, succhiando una
liquirizia come fosse un cigarillo. La musica gli piaceva, gli faceva
bollire il sangue nei polsi, lèggere sapeva poco e la pittura non la
capiva, a meno che non fossero gli ex voto con barche, piroscafi e
onde gigantesche. Ma la musica gli piaceva: arrivò a spintoni fino in
prima fila, proprio dietro al maestro. Ne vedeva le spalle secche, con
la giacchetta verde addosso, che lo facevano somigliare a un
attaccapanni storto. I suonatori, invece, li aveva di faccia, proprio
contro la facciata della chiesa, ricamata dai festoni di luce da
sembrare una cattedrale.
Zumpapà. Zumpapà. "Aaamami Alfredooo." Bum. Il maestro
restò con la voce sospesa, in punta di piedi, le braccia tese e irrigidite
fin nei polsi e nelle nocche. Poi si volse impettito, e sorrise con la sua
faccia di gomma cotta, e s'inchinò.
La gente applaudì. Barbagelata batté le mani, continuando a
succhiare la liquirizia. S'incominciava bene, quest'anno. Forse
fratello Andrea avrebbe fatto un buon miracolo. Il maestro attese che
l'applauso finisse, e che la pioggia dei petali di geranio buttati dalle
finestre si diradasse. Aveva gli anni di Barbagelata, forse più. Voltò la
pagina della musica, sfogliata dallo scirocco e indurita dal sale,
mentre i pescatori e i contadini che erano scesi da Sussisa e da
Capreno e da Lago per vedere la festa si davano di gomito.
Cos'avrebbero suonato, adesso?
Barbagelata sorrise, sdentato anche lui. Il programma era sempre
quello, da cent'anni. E sempre nello stesso ordine. E infatti braccia
alzate, bacchetta vibrante, quattro colpi di tacco sul selciato,
paraparapapara, Aida, atto secondo, "Marcia trionfale."
Barbagelata incrociò le braccia, assentì con il capo, e spinse
indietro con il culo quelli che premevano per vedere meglio.

Alle dieci e mezza Guanito andò a scrollarlo, tirandolo per un


braccio. Barbagelata s'era seduto per terra, insieme agli altri, s'era
succhiata altra liquirizia e un mezzo croccante, sputando poi in un
tombino le nocciole dure che gli facevano male alle gengive, e s'era
bevuto mezzo fiasco d'un vino aspro e chiaro, zolfigno, che due
contadine avevano portato giù dalle vigne di Sant'Apollinare e
vendevano su una bancarella. Gli occhi gli bruciavano un po', anche
per la gioia della festa che sembrava avviarsi così bene. Quando
parlava, la lingua gli andava un po' di traverso. "Sei già ubriaco,"
disse Guanito.
"Fatti gli affari tuoi. Quando ci sarà da mettere in mare gozzi e
paranze sarò pronto. Figlio d'un prete." E quelli che stavano intorno
risero. Guanito si piegò in avanti. "Fratello Andrea vuole vederti."
"Adesso? Mi vedrà a messa, fra un'ora."
"No. Adesso. È importante."
"Diocristo. Lui e il suo simbolo del pesce." Barbagelata s'alzò,
appoggiandosi a un altro pescatore che s'era accovacciato vicino a
lui, tirò ancora un breve sorso di vino, e disse, "andiamo."
Guanito se lo trascinò dietro, fra la gente che rideva e cantava e
faceva l'amore, anche l'amore molle e tenero dei vecchi, e mangiava
il torrone e le focacce.
Fratello Andrea era seduto in faccia al mare, dietro la chiesa, su
una panchina d'ardesia. Guardava fisso verso l'orizzonte nero, e non
sembrava felice: Barbagelata lo vide, e scordò il vino zolfìgno, che
gli seccava la gola. Lì, dietro la chiesa, non arrivavano che scoppi di
risa lontane, e un'eco di banda. "Eccomi," disse.
"Barbagelata, cosa sta succedendo qui?"
"Si fa festa, aspettiamo il miracolo. Che altro, se no?"
Il prete gli mandò un'occhiata torva. "Voglio dire, che razza di
gente vive qui? Oggi ho parlato alla Vedova, e mi hanno detto cose
strane di lei…"
"Uh, cose strane." Barbagelata gli si sedette accanto. "Forse qui
siamo davvero un po' strani. Ma è così dappertutto, no?"
"Come fa la Vedova a essere così…"
Barbagelata sorrise. "È questo il tarlo che ti rodeva… come fa a
essere così bella e giovane e fresca, vero?"
Il prete annuì. "C'è qualcosa di terribile, dietro questo mistero,"
disse.
"Terribile. È una parola troppo grossa. C'è qualcosa di strano,
ecco, qualcosa di strano."
"Che cosa, per Dio?"
"Facciamo conto d'essere in confessione?"
"No. Non facciamo conto. Ora io ti confesso davvero. E se non mi
dici la verità ti spezzo l'osso del collo, lo giuro su quelle ostie che
tengo di là."
"Ah, questo si chiama parlar da prete," disse Barbagelata. Sospirò.
Che bella notte: nel cielo s'erano accese le Pleiadi, e il gran Carro, e
la Luna, come un riflettore tondo che inargentava gli scogli. Con
tutto quel chiarore sarebbe stato come pescare di giorno.
"Ha la pelle da bambino, no? È questo che t'è sembrato, vero?"
Fratello Andrea annuì.
"E qui ti sbagli. Non da bambino, ma di bambino. Anzi di tanti
bambini." Dalla terrazza della Relia, persa fra gli uliveti, venne un
boato: poi una cascata di coriandoli luminosi fiori nel cielo.
"Cominciano i fuochi," disse Barbagelata. Si avvicinò al prete, faccia
a faccia, quasi sfiorandogli con le labbra la barba irrigidita. "La
Vedova compra i bambini, quelli nati da poco, i bambini di Sussisa,
di Capreno e di Lago, e gli succhia la vita. Almeno, così si dice. Gli
strappa la pelle e se la mette addosso, e un medico-mago amico suo
le riempie le vene decrepite di quel sangue in fiore. La Vedova non
morirà mai, perché è così ricca che si compra la giovinezza. Ed è così
ricca anche grazie a voi preti." Barbagelata si rizzò sulle reni che gli
dolevano, e puntò un dito addosso a fratello Andrea. "Voi preti che
fate il miracolo e le riempite la casa d'oro." Rise.
"Sei matto. Sei ubriaco," disse il prete.
"Tu hai voluto sapere. Ti sei ingolosito, e ora dividerai con noi
questo segreto. Oh, non è che uno dei tanti. Questo è un paese pieno
di misteri. Guanito, per esempio, sai lui non è mica un uomo, anche
se lo sembra. Hai visto com'è pallido? Guanito l'ha trovato tanti anni
fa una donna, sul greto del fiume. Era appena nato, piccolo e pieno di
lumache addosso, sulla testa, negli orecchi e in bocca perfino.
Guanito non è che una grossa lumaca con la faccia da uomo, e le
lumache gli strisciano nelle vene. Prova a ferirlo, e vedrai che bava
bianca gli esce da dentro."
Il prete si alzò. Nell'ombra sovrastava Barbagelata come un genio
oscuro, ma il vecchio si batté i pugni sul petto, facendo rimbombare
le ossa vuote, e continuò a voce ancora più alta. "E io non sono che
un pesce velenoso, il mio midollo è midollo di murena, e quando
morirò mi squarteranno e appenderanno la mia carcassa secca nella
vetrina del farmacista."
"Basta. Pazzo. Ubriaco."
"È finita la confessione?", gracidò Barbagelata.
Fratello Andrea si lasciò cadere di nuovo sulla panca d'ardesia:
annuì. "Vattene via," soffiò, e mosse le mani verso Barbagelata, come
per cacciare un demonio.

Ora la banda suonava la musica d'una volta, i balli che venivano


dalla Padania con la musica dei trovatori, le monferrìne, i ruggeri, i
bergamaschi, musiche strascicate al ritmo d'una tuba solenne, suonata
da un contadino dai baffi bianchi, che sgocciolavano saliva nel
bocchino. Era un ritmo pieno di sussulti, e le spalle dei vecchi
ballerini tremavano un po', avevano movimenti rustici, un po'
sgraziati e un po' molli, i movimenti di chi non riesce a seguire con i
muscoli sfilacciati i trilli del clarino.
Eppure ballavano, con le giacchette di panno nero e i giponetti e le
camicie a scacchi, scialli c vecchie mantiglie, andando dietro agli
ottoni rauchi ma non stonati, al flicorno e al bombardino e al violino
d'un suonatore sottile e curvo, come devono essere i suonatori di
violini, che i trilli sembrano cavarseli da dentro il petto, e non dalle
corde. Aveva la fronte ampia, quel violinista, corsa dalle rughe, e le
mani secche che artigliavano le corde con le unghie, e li faceva
ballare proprio tutti, era soprattutto lui che ora dominava gli ottoni e
il clarino, e si accompagnava con il battere secco del piede destro
sull'asfalto.
Poi Guanito era comparso sulla porta della chiesa, aveva fatto un
gesto al maestro, e la musica s'era spenta piano, suonatori e ballerini
s'erano asciugati la faccia sudata nei fazzoletti, avevano bevuto altro
vino e s'erano aggiustati le cravatte. Alla fine, quando erano stati tutti
lì nella piazza, tutti zitti, Guanito aveva ritirato il catenaccio e
spalancato la porta, e un altro lungo sospiro di stupore s'era levato
dalla gente.
La navata era illuminata da centinaia di candele, intorno ai
pilastri, nelle cappelle, sui lampadari ai quali Guanito aveva tolto le
lampadine elettriche, fin sull'altare, che era tutto una gran fiamma
bianca. Fratello Andrea stava là, a guardarli dall'alto, con addosso i
paramenti verdi, in mezzo ai fumi dell'incenso che con un ciac ciac
petulante Guanito aveva ripreso a spandere. Alle sue spalle, sopra
l'altare, ben alta su un treppiede, c'era l'immagine scura della Signora
delle grazie.
Entrarono tutti, in quel presepio. Fratello Andrea li guardò e
giunse le mani. Inginocchiata nella panca di noce, in prima fila, la
Relia sorrise, cercando di incontrare il suo sguardo che correva
altrove.
"Cibavit eos ex adipe frumenti, alleluja. Et de petra melle
saturavit eos alleluja," gridò il prete.
Quieto, Guanito ripeté, "Iddio ha nutrito il suo popolo col fior di
frumento, e l'ha saziato di purissimo miele."
"Oculi omnium in te sperant, Domine, et tu das illis escam in
tempore opportuno"
"Gli occhi di tutti sono rivolti a te, o Signore, perché tu dai il
nutrimento necessario."
E qual'era il nutrimento necessario per quel popolo di mostri, di
lumache e di murene, di vampiri assetati? Possibile che l'altro prete,
quello di prima, l'avesse sempre ignorato? Oppure non l'ignorava, ma
ugualmente taceva? Si volse, e s'inginocchiò di fronte alla tavola
della Madonna. Posso io remare in senso contrario a questa
tempesta?
"Aperis in manum tuam et imples omne animai benedictione."
"Tu apri la tua mano, e fai sazio e contento ogni vivente."
L'incenso agre quasi gli soffocava la voce. Si girò nuovamente ai
fedeli, e vide Barbagelata in fondo alla chiesa, quasi sulla porta.
Aveva la faccia seria, pur se non s'era tolto il cencio che gli faceva da
cappello, e continuava a succhiare un bastoncino di liquirizia ormai
consunto. Non era venuto lì per sputare veleno, si vedeva.
Fratello Andrea girò le pagine del grande messale: era pergamena
vera, e i fogli erano spessi e pesanti. Guardò tutte quelle facce, le
facce della gente, e si sentì quasi trafitto dai loro sguardi. Oh sì, Dio,
erano davvero mostri, non erano lì per Cristo, ma per cavargli fuori
dal costato altro oro, non erano che fradici mostri del mare. Chiuse
gli occhi. "Quod non capis, quod non vides, animosa firmat fides
praeter rerum ordinem"
"Ciò che non comprendi e non vedi lo assicura la fede, anche se è
fuori d'ogni legge naturale."
Fratello Andrea s'inginocchiò di nuovo, e fece cenno a Guanito di
smetterla con l'incenso. Quasi si soffocava, ormai. Prese l'immagine
della Madonna, l'adagiò su un cuscino di velluto poi, tenendola
davanti a sé sulle braccia tese, percorse piano la navata centrale,
verso la porta, verso il mare, e tutti lo seguirono, vampiri, murene e
lumache, ognuno con una candela in mano, in un lungo serpente di
luce tremolante che uscì dalla chiesa e si snodò verso la spiaggia,
prima nel vicolo, poi sul ponte, poi sui ciottoli della grande riva di
Sori.
Qui fratello Andrea si fermò, in faccia al mare. Poi ci camminò
sopra.

Eccolo alla fine, il mare. Un deserto di pietra dura, un piano di


vetro nero e immobile, congelato da una maledizione antica. Un mare
morto e freddo, d'asfalto, puzzolente di petrolio secco e liquido, una
banchisa che lontano, verso il largo, imprigionava ancora lo scheletro
d'una nave che non era riuscita ad affondare del tutto.
"Il mare è diventato avaro," gli aveva detto Barbagelata. "Il mare
s'è chiuso." E ora toccava a lui fare il miracolo, il prodigio della notte
del Corpus Domini, spaccare quel mare e sciogliere le onde e far sì
che almeno quella notte Barbagelata, Guanito e tutti gli altri
potessero pescare.
Il prete si volse: tutta la gente di Sori s'era ammucchiata sulla
spiaggia, silenziosa ormai, mille volti illuminati da mille candeline
dalle quali la cera si scioglieva piano, e colava gocce bollenti sui
ciottoli e sulla sabbia sporca. Era il suo gregge, malgrado tutto,
perché avevano fede in lui, fiducia che compisse il miracolo.
Depose sul mare di granito l'immagine della Madonna, poi si
chinò a baciarla. "Ego clamavi, quoniam exaudisti me: inclina aurem
tuam, et exaudi verba mea"
Poi tornò sulla riva, spalancò le braccia come un gran gabbiano
pronto a spiccare il volo e attese, a fiato sospeso. La gente aveva
formato un gran ventaglio sulla spiaggia, dagli scogli a levante fino
alla foce del torrente, a ponente. Fratello Andrea udì uno scalpiccio
sui ciottoli. Colse un bagliore di candela, più vicino.
"Dai prete," gli sussurrò Barbagelata. "Prega il tuo Dio, come io
sto pregando il mio." Fratello Andrea restò immobile. Non avrebbe
mai pensato — quando la curia l'aveva assegnato a Sori — di dover
affrontare subito una tal prova. E supplicò davvero il proprio Dio,
inclina aurem tuam et exaudi verbo mea, supplicò a occhi chiusi
finché dal ventre del mare, al largo, non venne come un immenso
sospiro.
Gli fece eco un mormorio, dalla spiaggia. Poi fu come se un
gigantesco animale si fosse destato, un soffio di quel fiato gli
scompigliò la barba, "Ecco ecco," gridò Barbagelata, così vicino che
lo fece sobbalzare. Il mare sospirava. E il granito, il petrolio secco,
l'asfalto, la banchisa, la pietra dura, tutto si sciolse.
Fratello Andrea sentì il profumo del salmastro, e il fruscio d'una
risacca: aprì gli occhi. L'acqua era lì, fin quasi a lambirgli i sandali, si
rotolava in piccole onde di spuma, e spingeva verso terra la tavola
della Signora delle Grazie. "Alleluja," disse il prete.
La gente urlò. Poi scoppiò un gran putiferio. Barbagelata scalciò
via gli zoccoli, s'arrotolò al ginocchio i pantaloni frusti, e corse sulla
spiaggia, abbrancò la prua del proprio gozzo e si mise a tirarlo
furiosamente verso l'acqua.
I lumi e le candele non rimasero che nelle mani dei contadini, dei
ragazzi e delle donne. "Avanti, avanti," strillavano i capi barca. A
braccia decine di gozzi, di paranze, di lance, di zattere, perfino un
vecchio sciabecco appena incatramato, tutta la flotta di Sori fu spinta
in mare, gli scalmi vennero legati alle barche con lo spago, i
giovanotti portarono correndo fasci di remi e di vele, e mentre
fratello Andrea cadeva in ginocchio davanti alla tavola della
Madonna che s'arenava davanti a lui, l'intera flotta partì, fra le grida,
in quel buio illuminato dalla luna e dalle candele.
Barbagelata s'era preso a bordo Guanito. "Voga, figlio d'un prete,"
gli urlava, rizzando a prua la piccola vela aurica. "Voga."
Le barche s'allontanarono nella spuma dei remi sbattuti, e delle
prue che s'alzavano sulle onde. "Guarda," disse Guanito, accennando
a sinistra con il capo, "c'è anche la Relia. Saranno dieci anni che non
andava più per il mare."
C'era davvero. La Vedova s'era fatta costruire un baldacchino a
prua d'una paranza, un seggiolone inchiavardato sui paglioli, e il suo
volto chiaro splendeva come argento nella notte.
"Lascia perdere, voga," disse Barbagelata, e si mise ai remi anche
lui. "Il primo che arriva si prende il pesce migliore."
La notte s'era riempita di voci. A ponente qualcuno cantava. Poi
dallo sciabecco, che se n'era andato più a est di tutti, venne un coro di
grida, e si alzò un lampo rosso e bianco, e un altro bengala
s'arrampicò fischiando nella notte. Il primo pesce era stato tirato a
bordo. E poi un altro. E un altro.
Tutte le barche si fermarono, furono gettate lenze e reti, tremagli e
palamiti, mentre sulle prue si accendevano le fiaccole, le lampade, i
lumi a carburo, e i pesci venivano su a dozzine e a centinaia, d'ogni
tipo, acciughe e aguglie, pesci luna e verdesche, ghiozzi e rombi e
ombrine, tutti insieme nel vacuo dibattere delle code, e tutti d'oro e
d'argento, pesci preziosi, con denti di smeraldo e occhi di rubino, e le
squame trasformate in smalti cerulei e grigi. Barbagelata li fiocinava
uno a uno, mano a mano che venivano su attaccati all'amo, poi li
gettava a Guanito che gli cavava occhi e denti e branchie (che
metteva in una scatolina scura) e li gettava in fondo al gozzo.
Nel mare le voci tacevano ora. S'udiva l'urlo degli animali, e i
colpi secchi delle fiocine, e lo sciabordio, le onde schiaffeggiate dalle
pinne d'oro, e un grande ansimare: il mare apriva il suo ventre e
bisognava pescarci dentro, a mani piene e nude, prima che si
chiudesse di nuovo. Cefali e storioni con la pancia gonfia di perle,
sgombri e pesci vela, con quella membrana d'argento così ricercata,
sui mercati del nord.
Barbagelata sentiva il cuore montargli in gola, e i polmoni in
fiamme.
I muscoli gli dolevano, eppure bisognava continuare a lanciare la
lenza a quattro ami, e tirar su, e dar colpi di fiocina e di mazzuolo.

Ma dal fondo del mare venne un gran ruggito. Guanito guardò i


paglioli del gozzo coperti d'oro come la stiva d'un galeone, poi si girò
verso la terra. La riva non era lontana, e la spiaggia era ancora
disegnata dai lumini accesi, e fratello Andrea stava ancora là con i
piedi nella risacca e la tavola della Madonna fra le mani. Ci sarebbe
restato fino all'alba, e fino all'alba il miracolo sarebbe andato avanti.
Era sempre avvenuto così, con tutti i preti.
Ma dall'abisso il mare ruggì ancora, e l'acqua ribollì. "Che cosa
succede Guanito?", disse Barbagelata.
"Non lo so. Ma forse ci conviene tornare."
"Tornare? Con tutto questo ben di Dio che viene su?", disse il
pescatore, indicando altre pinne che s'agitavano nella schiuma.
"Torniamo Barbagelata. Siamo nelle mani di fratello Andrea, lo
sai.
Il miracolo avviene perché lui ha la sua fede, e se ne sta lì sulla
spiaggia abbracciato alla sua Madonna. Ma se, anche solo per un
attimo, quella fede vacilla…"
"Balle. Balle."
Il ventre del mare urlò più forte. "Torniamo. Ne abbiamo già più
delle altre volte."
Barbagelata si girò a guardarlo, sconcertato, poi guardò verso la
spiaggia. Il vento era caduto e le onde s'erano calmate. "Torniamo,"
urlò Guanito, così forte che tutti lo sentirono, perfino dallo sciabecco
che era ormai così carico da inclinarsi a babordo. E tutti risero.
"Sei matto?", venne una voce dal buio. "Una pesca così non
l'avevamo mai fatta. E c'è ancora tempo, fino all'alba."
"Io torno a riva,", gridò all'improvviso Barbagelata. S'era ricordato
della faccia di fratello Andrea, poco prima, quando gli aveva
spiattellato i misteri del paese. Lo sguardo cupo del prete gli era
restato nelle pupille.
"Io torno," gridò ancora, verso le altre barche. "Incomincia a
remare, Guanito." Gli era venuta addosso una inquietudine strana.
Sentì ridere ancora, in qualche barca vicina. Poi, nello sciabordio,
trillò anche la voce della Relia: "O vecchio Barba, cosa ti piglia?"
E poi basta. Fu come se mille capodogli avessero spinto dal basso,
con gran forza, le onde che si gonfiarono all'improvviso, e ruggirono,
fra loro si aprirono gli abissi e le creste di schiuma salirono fin quasi
davanti alla luna. Barbagelata guardò in alto, strizzando le vecchie
palpebre: e in giù, sopra di lui e sulle paranze piene d'oro, sullo
sciabecco, sulla Vedova e su Guanito, ricadde non acqua di mare ma
ghiaia, sabbia, vetro, asfalto e granito, e il mare si chiuse con un
rumore di tuono.
Seduto sui ciottoli, con la tavola della Madonna stretta sul petto,
fratello Andrea scoppiò a piangere.
GIAIME CHE GIOCA A SCACCHI

Freddo. Non aveva mai sentito tanto freddo. Forse a Milano il


termometro era sceso anche più in basso, certo l'avrebbe fatto quella
notte, ma il vento tagliente gli portava il nevischio e il gelo dentro le
maniche della giubba, dentro gli abiti, e gli mandava lunghi brividi in
tutto il corpo.
Giaime si schiacciò contro il pilastro della sopraelevata, come a
cercare un po' di calore, ma sul cemento s'era formata una crosta di
ghiaccio, e si scorticò la pelle, sui polpastrelli. Era così freddo che il
sangue gli si gelò sulle dita, in una buccia scura.
Nel cielo bianco il sole era come una moneta di ghiaccio sopra i
pennoni, le ciminiere, le braccia delle gru merlettate di neve. Erano
già due ore, che stava lì a guardare quel disco gelato lassù: alle
cinque, cinque e mezza al massimo, sarebbe venuto il buio. Il profilo
dell'Esperanza si scorgeva appena, nella bruma. La nave sembrava
appoggiata al molo, pendeva a tribordo, forse l'avevano caricata
male, e le gomene erano ghiacciate, dure, tese verso la banchina. Alle
otto ci avrebbero versato addosso l'acqua bollente, poi l'argano a prua
avrebbe tirato, e l'Esperanza se ne sarebbe andata. La sua rotta, a
pagina tre dell'Avvisatore marittimo, indicava Livorno, e poi Tunisi, e
Porto Said: ma il porto di Livorno — diceva anche il giornale — era
chiuso per il ghiaccio, e forse l'Esperanza avrebbe tirato dritto per
l'Africa.
Giaime s'acquattò, le ginocchia quasi a terra, infilò una mano nella
tasca interna della giubba, dove la fodera di finto pelo era sdrucita e
non teneva più il caldo d'una volta, e strinse il calcio del revolver.
Non gli rimanevano che tre pallottole.
La Lanterna s'era accesa, quasi a perpendicolo sul suo capo, cento
metri più in su: di giorno, nella foschia, la sua sagoma si sperdeva, e
dai moli era quasi invisibile. A sera però, quando s'illuminava, la si
vedeva come un tempo: a venti, anche trenta miglia al largo, come
l'occhio d'un grande serpente ritto sulle sue spire, sopra le calate.
Il vento ravvivò il fuoco, alle spalle di Giaime. L'uomo si volse:
rovesciato, con le ruote corazzate rivolte all'insù e il carapace
schiantato, il camion bruciava ancora. Era precipitato dalla
sopraelevata, infrangendo il parapetto, e s'era capovolto. Là sotto,
nell'acciaio accartocciato come latta, c'era ancora Peter.
I fori della mitraglia erano fioriti senza preavviso, nella porta di
legno. Non avevano neppure bussato, o urlato alto là, dal ballatoio.
Gli uomini dello Squadrone s'erano riuniti zitti zitti a pianterreno,
erano saliti senza far rumore, con gli anfibi di gomma, poi qualcuno
aveva puntato l'arma contro la porta.
Paco era morto sul colpo, i colpi gli avevano spaccato la faccia e
la testa, e l'avevano ricacciato in aria come una marionetta con i fili
recisi. Rebecca dormiva, invece, nell'altra stanza, la stufa a cherosene
tirata fino ai piedi del letto, e le pallottole della mitraglia, trapassando
anche quell'altra porta, s'erano schiacciate contro il dorso d'amianto
del radiatore.
Così Rebecca s'era svegliata urlando.
"Esci camminando all'indietro, con le mani aperte, sopra la testa",
le gridavano da fuori, gli uomini dello Squadrone. Rebecca s'era
schiacciata la mano sinistra sul collo, s'era quasi soffocata prima di
sentire il grumo di metallo che portava in gola aderire perfettamente
alla laringe. "Giaime," aveva sussurrato. Poi aveva cercato la pistola,
sotto il cuscino.
"Tocca a voi venire. Vi aspetto," aveva urlato, ancora.

Si svegliò che aveva in testa l'idea della morte. Sudava, e il


pigiama gli si appiccicava addosso, sulle gambe e sulla schiena.
Allungò le braccia, tutt'e due, come aveva fatto fin da ragazzo, verso
la sveglia. La trovò, frugò dietro, fra le viti d'ottone, e si accorse che
non stava suonando.
"Giaime, è la fine. Registra questo. Nove maggio, la Colonna
chiude. Chiude. Addio, Giaime."
La voce di Rebecca, un po' roca, affannata, gli si stampò nelle
orecchie. Non ebbe bisogno di sentirla di nuovo: ogni volta che
Rebecca parlava gli si sgombrava la testa, anche quand'era ubriaco, e
le parole di lei gli si incidevano indelebilmente nel cervello. "Addio,
Giaime," ripeté lei.
S'alzò dal letto, con quell'idea di morte ancora in testa, la
giacchetta del pigiama aperta sul petto. Andò scalzo verso il telefono.
Era buio, la mattina non s'era ancora imbiancata di nebbia, era ancora
buio: a chi avrebbe potuto telefonare, a quell'ora? Il numero di
Rebecca non l'aveva mai avuto. E la voce di lei gli era venuta distinta
ma debole, come se avesse trasmesso da lontano.
"Giaime…" Udì un soffio soltanto, un mormorio: poi la
microradio, nella tempia, appena sopra l'orecchio, mandò un ronzio
sottile, un sibilo, e si spense.
Giaime restò fermo e dritto, ancora al buio, pieno di paura. Poi
tornò in camera da letto: sull'armadio c'era la borsa da viaggio,
preparata per metà. In dieci minuti l'avrebbe riempita del tutto.

Aveva traversato la brughiera che era ancora notte, scostando con


le mani gli arbusti che il freddo aveva fatto diventare come rasoi di
ghiaccio. Poi era arrivato all'autostrada: oltre il reticolato vedeva
sfilare i camion, ormai sull'autostrada non passavano che i camion.
S'accucciò sotto una pianta secca: spiegò la cartina che gli avevano
preparato, e che ognuno nella colonna portava sempre con sé.
L'illuminò con la lampada tascabile, e bestemmiò: il varco stava più
in là, almeno cento metri più a sud, verso il Po, altri cento metri nel
fango gelato, con quelle scarpe leggere e la tomaia di cartone.
Ripiegò la carta e camminò verso l'apertura, affondando i piedi fra le
zolle, fino alla caviglia. La trovò, più facilmente di quanto avesse
creduto, e si infilò nel varco fra i reticolati, divincolandosi, per
evitare le grosse spine di metallo. Quel passaggio era già servito ad
altri, si vedeva dal filo di ferro ritorto con le pinze, e dal fango ben
battuto al suolo. Dunque avevano rinunciato a turarli, tutti quei buchi
che si aprivano lungo l'autostrada. S'appiatti, e scivolò sull'asfalto.
Non nevicava più, ma l'aria era umida, come una coperta di gelo che
s'era posata sulla pianura.
I camion non correvano all'impazzata, ora che era scesa la notte.
Non erano nemmeno numerosi: li sentiva venire, udiva il rombo dei
cingoli che tritavano il ghiaccio, e vedeva i lumi di posizione, e lo
scintillio del radar, sul tettuccio. S'alzò in piedi: il camion sbagliato, e
tutta la sua avventura sarebbe finita lì, il camion giusto e — entro
cinque, o quattro ore — sarebbe arrivato a Genova. Agitò la torcia
elettrica, ma il motore del camion che s'avvicinava ruggì, e
l'automezzo passò oltre, schizzandogli addosso fango lurido e
ghiaccio.
Giaime si pulì il viso con il dorso della mano, continuando ad
agitare la torcia. Un faro l'illuminò, fermo com'era sulla corsia
d'emergenza, poi un altro mastodonte puntò dritto addosso a lui,
rombando. Il cuore gli balzò in gola, cercò di tirarsi indietro, buttò la
torcia, ma il rombo salì e il camion gli andò addosso, mentre
l'illuminava con il faro di prua, come un immenso occhio al neon.
Poi il camion si fermò. La luce tremolò, si spense, e dal cofano
che fumava venne un grido, amplificato dall'altoparlante. "Cosa
aspetti? Monta. Prima che arrivi la Stradale."
Giaime sospirò. Girò intorno all'immenso muso del veicolo: le
ruote anteriori erano chiodate, e gli arrivavano fino alle spalle. Era un
camion vecchio: dietro avevano montato i cingoli. Il portello s'aprì.
"Presto, che fa freddo." La scaletta d'alluminio si snodò, e Giaime
pote arrampicarsi a bordo. C'era puzza dentro, di sudore e di
deodorante da quattro lire, di cibo precotto. L'autista rise: "Ti sei
spaventato, eh? C'è gente che si caga addosso, quando gli faccio
questo scherzo. Però io vi tiro su, a voi teppisti."
Il portello sbatté, si chiuse. Nell'ombra della cabina la faccia di
quell'uomo si vedeva a stento. Aveva la barba lunga, e un riso privo
di denti, e le mani grosse, Giaime gli guardò le mani che stringevano
il volante come fosse stato un giocattolo, le dita enormi, e le unghie
lunghe e sporche. Le luci del cruscotto, blu e verdi, incredibilmente
blu e verdi in quella notte così buia, illuminavano solo quelle grosse
mani.
"Fai l'autostop?"
"Grazie. Grazie." Giaime ansimava ancora. "Vai a Genova?"
chiese.
"Genova. L'aria del mare. Certe volte credo di andare a Genova
solo per vedere il mare," ruggì l'uomo. "Certo che vado a Genova,"
ripeté. "Hai fame?" chiese, e rise ancora.
Era un'animalità feroce la sua, forse l'odore della vita era proprio
quello. Giaime disse: "Sì, ho fame."
"E allora aspetta." L'uomo staccò le mani dal volante, schiacciò a
palmo aperto due pulsanti sul cruscotto, e due luci presero ad
accendersi, intermittenti, due scritte gialle abbaglianti, "laser on",
"radar on".
"Cos'è?" domandò Giaime.
L'uomo s'era voltato, girando le spalle alla strada, e frugava in un
cesto di vimini. "Prendi, mangia, finché ce n'è…" Tese a Giaime un
barattolo consumato a metà, con la cannuccia ancora infilata nel
coperchio di stagnola. "Sono omogeneizzati. No… non per bambini.
È roba tedesca, per adulti. Se ne vende da morire, in Germania." Gli
faceva schifo, in fondo; forse quel camionista sganasciato ci aveva
sbavato dentro, ma Giaime succhiò dalla cannuccia una pappina
chiara, saporita, anche se il sapore preciso non riusciva a
distinguerlo, era sedano, o finocchio, o lattuga, o mele grattugiate.
"Cos'è che cosa?" disse l'uomo.
Giaime indicò i quadranti, che lampeggiavano "laser on" e "radar
on."
"Ho speso lo stipendio di due mesi, a farli mettere su. Però adesso
il camion va da solo. Il laser sta dritto sul guard rail, e tiene la rotta.
E il radar blocca tutto, anche il motore, se incontra un ostacolo
davanti. Potrei perfino dormire, se volessi. Ma preferisco guardar
fuori." L'uomo sbatté ancora la mano sul cruscotto, e le luci si
spensero. Il buio tornò nella cabina.
L'autostrada era deserta e cominciava a contorcersi, avvicinandosi
all'Appennino. Soltanto il lieve riflesso del guard rail, e la luce della
luna quasi piena, illuminavano la pianura livida nel gelo, e i monti
stagliati là davanti, un profilo netto contro l'orizzonte. Giaime
osservava incantato quel presepio: gli sembrava di non averlo mai
visto, gli sembrava che gli ultimi anni nelle case di Milano, le porte
sbarrate, le finestre sbarrate, gli occhi sbarrati, avessero cancellato il
resto del mondo, spianando l'orizzonte. E ora quella neve, l'aria che
odorava di gelo e che s'infilava nella cabina del camion… era come
se a Milano non ci fosse mai vissuto. Quella città era una bestia
lontana e ostile.
"Come ti chiami?" disse.
"Peter. Pietro. Peter… se mi faccio chiamare così, alla tedesca, al
nord mi danno più credito. Sai cosa ho, dietro?"
"E come faccio, a saperlo?"
"Bah." L'uomo rise, sgangherato. "Giusto. Sai perché faccio
sempre domande? Perché quando viaggio parlo da solo. E se non mi
faccio le domande, come faccio a rispondermi? Dietro ho duemila
litri di alcol. Bollati regolarmente. Ci si può fare la grappa. A Genova
l'alcol lo pagano benissimo."
Peter sterzò verso destra, poi a sinistra: l'autostrada si contorceva
adesso, inerpicandosi. Il pulsante "radar on" s'illuminò di nuovo.
"È bello, qui in giro. Come panorama, dico," fece Giaime, e girò
intorno un braccio. Peter annuì.
Poi il suo orizzonte s'incrinò. Era come se una ragnatela bianca
fosse fiorita sul parabrezza, e Peter bestemmiò. La visuale se n'era
quasi andata, ma l'uomo non accennò a frenare. Sbatté il pugno sul
"laser on", e strinse il volante a due mani. "Cristo. Cristo," sembrava
aver gusto, a bestemmiare. "Banditi. Ce n'è sempre di più, in queste
gole." Poi frugò in una tasca, sul fianco del cruscotto, e tirò fuori un
revolver. "Sai adoperarlo?" disse.
Giaime guardava oltre i vetri laterali, intimorito. Forse lì il vetro
non era corazzato, e le pallottole sparate di fianco avrebbero potuto
inchiodarlo sul sedile. Si volse. "No…sì," disse. Prese l'arma. Era
grossa, pesante, il tamburo già carico. "È una pistola militare,
questa… come fai a portartela dietro, così?" Era come se nella sua
mente, all'improvviso, avessero tirato su un sipario: era tornata
Rebecca, e Paco, e quel senso di morte. E lo Squadrone: non doveva
assolutamente essere coinvolto in sparatorie. Farsi trovare così, con
quel cannone fra le mani…
"Oh, altroché se posso," disse Peter. "Sono stato nello Squadrone,
proprio, fino a poco tempo fa." Giaime fremette: per la prima volta il
nemico che tante volte aveva catalogato, del quale conosceva a
memoria mille indirizzi, aveva un volto. Le istruzioni che Rebecca
gli aveva messo in testa, di giorno e di notte, io spingevano a odiarlo.
Ma l'odore dei precotti, quella faccia che sembrava di gomma
masticata, gli era simpatica, e stare lì con le ginocchia ripiegate fin
quasi sul petto, quasi come un grande feto con la pistola in mano, io
faceva sentire più vicino a Peter che al passato che aveva
abbandonato, da poche ore. L'uomo lasciò che il camion se ne
andasse sull'autostrada per conto proprio, guidato da quelle due luci,
"laser on" e "radar on." Giaime l'osservò incuriosito: Peter stava
montando una strana arma, come un mitra con la canna tozza, con un
gran bulbo scuro sull'estremità. "E spara, sacramento," gridò.
Giaime guardò fuori: la luna gelata illuminava la valle e le pendici
ritte dei monti, dove i castagni s'erano spezzati sotto il carico della
neve, e apparivano come giganti a gambe all'aria, giganti nudi e
ischeletriti. "Ma dove sono?" disse.
"Davanti."
Il parabrezza stridette, e un'altra rete di rughe lo percorse. Nel
bosco, proprio di fronte, un lampo di luce rossa s'era acceso un solo
istante. "Visto?" ruggì Peter.
Giaime sparò, un po' a caso, là davanti. Il revolver gli sussultò in
mano, e una vampata gli bruciò la pelle, fra pollice e indice. "Guarda
qui," disse Peter, e sparò con il suo fucile. L'intera vallata s'illuminò,
come se un enorme spettro fosse calato sull'autostrada, e un gran
crac sovrastò il rombo del motore. Peter sparò ancora, e una lingua di
fuoco incendiò fulmineamente un albero, sulla pendice della
montagna, malgrado l'umido, malgrado il gelo.
"Chi sono?" disse Giaime.
"Chissà. Sbandati, contadini che non riescono più a vivere in
questa terra ghiacciata. O gente della Colonna. O perfino ragazzini
dorè… come si dice. Partono da Milano, al tramonto, vengono qui
con le loro Ice-Rover, e giocano a fare i banditi… mica tutti le sanno
queste cose, a Milano.
Giaime sparò ancora. Peter invece aveva riposto il fucile. "Non ce
n'è più bisogno," disse. "O sfasciano tutto al primo colpo, e il camion
si pianta fuori strada, o non ne fanno niente. Basta un parabrezza
corazzato, per farla franca… in genere, almeno." I cingoli, dietro,
stritolavano la coltre di ghiaccio e il camion sobbalzava sulle buche
che il sale e il cloro, buttati per sciogliere il gelo, avevano aperto
nell'asfalto. Le nuvole e la foschia se n'erano andate: c'era adesso una
luna immensa e il cielo era quasi bianco, e l'Appennino sembrava un
immenso drago che apriva le sue gole nere, dove l'autostrada andava
a cacciarsi.
"Su, dammi indietro la pistola," disse Peter.
"No," disse Giaime.

E chi l'aveva mai vista, Rebecca? Ne conosceva solo la voce roca,


dolce e roca, e ci aveva fantasticato per un sacco di tempo, per mesi;
come poteva esser fatta, una donna con una voce così? Forse era alta
e bella, con la faccia bianca e il naso sottile e un po' adunco, come la
faccia di un'antica compagna d'università che ancora gli tornava in
mente, ogni tanto. O, piuttosto, una faccia di vecchia? Forse era
vecchia davvero e la sua voce roca che gli svegliava il sesso nei
pantaloni, era così solo per l'affanno degli anni. S'era chiesto, una
volta, se Rebecca non lo conoscesse, se non l'avesse mai visto, s'era
anche illuso che lei l'avesse spiato per strada, mentre gli parlava nella
testa. Anche le parole di lei non erano mai state più dolci di quanto
non avesse richiesto la militanza comune. Lei gli parlava nella testa,
dava notizie, trasmetteva nomi, e lunghi brani di lettere, codici
cifrati, e il cervello di Giaime catalogava ogni cosa, metteva in
archivio. "Ciao, Giaime," diceva Rebecca, quando terminava il
messaggio. "Stai meglio, Giaime?" aveva detto un giorno che lui era
stato male, e lui s'era illuso di trovare un soffio d'interesse in quelle
parole. Ma lui non le aveva mai parlato. Quando l'archivio che si
portava dentro serviva alla Colonna, il telefono di casa sua prendeva
a squillare, di notte sempre, anzi non c'era neppure uno squillo, ma
un ronzio sommesso, che non andava oltre le pareti di casa, e una
voce pronunciava un numero di tre cifre, sempre diverso (ma sempre
uguale a quello che lui ricavava in base a una formula matematica,
che gli avevano comunicato il primo giorno), il numero che era la
chiave per aprire la sua testa. Poi una voce faceva domande e lui —
come ipnotizzato, ritto davanti al telefono — rispondeva, frugando
chissà come nel suo archivio mentale, tirando fuori dalla memoria
tutto quanto quella voce fredda gli chiedeva.
Rebecca non gli aveva mai telefonato: lei gli parlava soltanto in
testa, non per chiedere, ma per dare notizie, da quel grumo di ferro e
di rame che un giorno gli avevano messo sotto la pelle, nella tempia,
con una operazione clandestina, breve e dolorosa.

Ora il camion non bruciava più, e la notte era scesa del tutto. Il
gran tentacolo di luce della Lanterna si allungava ogni venti secondi,
in alto, e frustava il buio. In quel momento i bracci delle gru, le
gomene, i cavi, tutto s'imperlava d'argento e rifletteva quel raggio sui
moli e sul cancello della cinta portuale: poi la luce se ne andava, e la
notte tornava giù.
Giaime tirò la cerniera lampo del giubbotto fin sotto la gola. La
pistola adesso la teneva nella destra. Attese un'altra volta il lampo del
faro: quando esso venne, cercò ancora la sagoma grigia
dell'Esperanza, in fondo al molo. Era ancora là, inclinata e immobile
come se l'acqua tutt'intorno fosse diventata ghiaccio. Già capitava,
nelle notti più fredde. Le luci dei magazzini, sulle calate, erano
spente: solo una scritta al neon brillava sulle garitte, sopra i cancelli
aperti. Passate quelle, sarebbe stato al sicuro: non gli restava molto
tempo, ormai, L'Esperanza avrebbe ritirato la passerella e sganciato
l'ormeggio entro mezz'ora.
Sentiva un dolore cupo nella tempia, la microradio era come un
tumore nella sua testa, un cancro di ferro: l'aveva sentita sempre più
estranea, mano a mano che il tempo passava. Già s'era trovato a
fregare le dita contro la pelle, e a grattare con le unghie, quasi a
cercare di strapparsi di dosso quel ragno malefico.
Il raggio passò ancora, il porto si coprì d'argento, poi tornò il buio.
Giaime uscì dall'ombra della sopraelevata. Senza correre: non era
importante far presto, era più importante non far rumore. Camminò
sul piazzale, a ridosso d'una fila di container. Poi ebbe davanti solo
uno spiazzo, così immenso in quel buio. S'irrigidì, appoggiandosi a
quel ferro gelido, la guancia contro i chiodi sparati nelle lamiere. Il
raggio passò ancora. Non aveva che venti secondi, ora.
Prese a correre, sperando che la neve e il ghiaccio gli avessero
talmente ammollito le scarpe da farle diventare silenziose come
pezza. Corse, e si mise a ridere: era un gioco mortale, ma era un
gioco. Se ne era reso conto quando Peter era morto, e il camion
aveva preso fuoco. Rebecca, e Paco, e gli altri l'avevano sempre
saputo: il terrorismo è come il gioco degli scacchi. Non puoi
compiere alcuna mossa, non puoi smuovere pedine, senza sapere
come reagirà l'altro, se sposterà un alfiere o una torre. La Colonna e
lo Squadrone non erano che giocatori di scacchi, lo erano sempre
stati, ma lui se ne rendeva conto adesso.
Traversò il cancello spalancato, e una sirena urlò. La garitta era
proprio sopra di lui, alta, vide il riflettore e il nido delle mitragliatrici,
e la finestra tonda come un oblò, illuminata. Continuò a correre verso
i moli, tesi nel porto vecchio come denti di un pettine sghembo.
Probabilmente era stato un rivelatore a infrarossi, o a ultrasuoni, o a
chissàchecosa, ad accorgersi di lui. La sirena continuò a suonare
l'allarme. Poi Giaime udì sbattere la porta della garitta, udì anche un
grido e un faro s'accese proprio in faccia a lui, inondandolo di luce
gialla. "Fermo o sparo," fece una voce di metallo.
Giaime s'arrestò con il cuore a pezzi e il fiato che bruciava, puntò
la pistola e sparò nella luce: il faro esplose, ma la sentinella
automatica continuò a ripetere "fermo o sparo", "fermo o sparo",
come se la sua revolverata ne avesse bloccato il cervello.
L'Esperanza si profilò davanti a lui, vicina ormai. Sarebbero bastati
pochi secondi d'oscurità ancora. Ma i soldati erano saliti sul nido
delle mitragliatrici, e altri fari s'erano accesi a scivolavano lingue di
luce sullo spiazzo, sui moli. Giaime udì una raffica di passi, stivali
che correvano sul cemento. "Alza le mani," gridò un'altra voce, così
umana ora che l'amplificatore era stato staccato.
Giaime le alzò le mani, ma con il revolver teso verso i soldati.
Addio Esperanza, addio Rebecca, addio tutto. Però prima di calar le
braghe, qualcuno se lo sarebbe tirato dietro… ma non fece in tempo a
prendere la mira. Sentì due, tre schiocchi, e l'odore acido della
cordite. Un gran dolore alla schiena, e ai fianchi, e cadde giù come
un sacco sul cemento della banchina, si scorticò i gomiti e la faccia,
mentre le reni gli andavano a fuoco, si rivoltò come un gatto
impazzito e sparò, con le dita irrigidite, da terra. Uno, due colpi, gli
ultimi. Vide, con infinito sollievo, due soldati che ruzzolavano sul
selciato.

Peter era rimasto a bocca spalancata. "Come, non me la


restituisci?"
"Questa me la tengo io. A costo di schiacciartela nella pancia fino
a Genova," aveva detto Giaime, e aveva agitato un attimo la
rivoltella. Peter s'era incupidito. "Tientela, allora… e cosa te ne
farai?"
"Mi serve."
Il camion scendeva verso Genova, ormai: s'era arrampicato fin sui
Giovi, aveva traversato le due gallerie, e ora scendeva, frenando.
"Stai attento, che me la riprendo quando voglio, quella là," rise Peter.
Il camion sbandava, nelle curve più strette, e le spalle e i fianchi
dell'uomo ondeggiavano, e a volte perfino s'appoggiavano a Giaime.
"Di', sei uno della Colonna? Ne hanno preso qualcuno a Milano…
e qualcun altro è scappato. Sarai mica te?"
Giaime scosse la testa. "No."
"E allora perché fai l'autostop di nascosto, e strisci sotto i
reticolati?"
"C'è un sacco di gente che striscia sotto i reticolati. Ormai non si
può far altro, in questo paese. Tutti strisciano e si arrangiano."
"Così parlano quelli della Colonna."
"Macché. Accosta il camion," disse Giaime, e spinse la canna
della pistola nel fianco di Peter. "Accosta."
Il camion aveva frenato piano, sbandando un poco, mentre i
cingoli tritavano l'asfalto ghiacciato, e s'era messo a destra, in una
piazzola di sosta. Poi Giaime aveva sfilato la chiave dal cruscotto.
"Ora dormiamo. Non possiamo arrivare a Genova all'alba. Ora
dormiamo, e stasera si riparte."
Peter s'era rivolto a lui torcendosi sul sediolo, con un mezzo
sorriso sulle labbra. "Tu sei matto," aveva detto.
"Te lo faccio vedere io, se sono matto," aveva detto Giaime. E gli
aveva sparato in una spalla, un colpo solo. E Peter aveva gridato
come un matto, "no, no". Giaime aveva sentito le sue ossa rompersi,
con un crac che era forte quasi come il botto del revolver, e Peter gli
era morto lì davanti, forse d'infarto o di paura o di sorpresa. Certo
non era morto — aveva poi cercato di giustificarsi Giaime — per
quella pallottola stupida in una spalla. Ma chi mai avrebbe potuto
dimostrarlo?
Peter s'era accasciato sul sediolo in una posizione strana, le mani
sul volante, proprio come un camionista assopito. Giaime lo guardò,
pieno di spavento: poi spense tutte le luci di bordo, tranne quelle di
posizione a prua e a poppa. Chiuse da dentro i portelli: si rannicchiò
sul seggiolino, appoggiandosi alla portiera. Ora era tutto sbarrato, era
come stare nel ventre d'una cassaforte. Regolò la sveglia digitale del
cruscotto. Poi chiuse gli occhi.

Ah, quel suo mondo di follia. Dormire, non poteva: l'ombra di


Peter, come un fagotto di stracci insozzato appena da un filo di
sangue, stava lì, occhi chiusi e immobili, e non l'avrebbe lasciato
dormire mai, come se un bel momento avesse potuto risvegliarsi e
prenderlo per il collo.
Così Giaime aspetta il mattino, e poi il giorno, con l'anima
disintegrata, ha perso Rebecca, e ha perso gli ultimi cinque anni di
vita, tutti incasellati in testa, ha la memoria piena di nomi e di date,
un immenso calendario e l'archivio della Colonna che adesso gli
ingombra l'anima e gli fa paura. Ci sono fin troppe droghe e fin
troppe macchine per far parlare un prigioniero, e lo Squadrone non
ha mai usato scrupoli. Ora il freddo, e la coscienza di quello che
porta dentro di sé, gli fanno battere perfino i denti, nell'abitacolo del
camion, mentre il giorno continua a crescere piano piano e Peter sta
sempre lì, impercettibilmente più rattrappito e infagottato dalla
morte.
E mentre decide di spostarlo, di metterlo di traverso nell'abitacolo
e di sedersi al posto suo, gli viene di nuovo in mente Rebecca, e si
ricorda del primo giorno, quando all'università, dopo l'esame,
qualcuno gli dice che il suo QM, il quoziente di memoria, è il più
alto che abbiano mai registrato, che passa il 190 (mentre la memoria
d'un individuo normale arriva a malapena a 110), e aggiunge che se
lui volesse educarlo, quel cervello, passerebbe quota 200.
Rebecca gli telefona a casa quella sera, ha saputo chissà come la
faccenda della memoria, e gli propone un affare: stamparsi dentro
delle informazioni, materiale che scotta, in cambio d'un mucchio di
soldi. Giaime scoppia a ridere, al momento, perché gli sembra
impossibile, roba da fantascienza, e poi vorrebbe parlarle di persona,
ma lei no, nessuno deve saper nulla — a proposito, lui ha mica avuto
noie con lo Squadrone, in passato, è mica schedato da qualche parte?
no? bene — e poi, prima di rifiutare, perché Giaime non prova?
Intanto, ecco un assegno che domattina finirà sul suo conto, alla
Commerciale.
È così era entrato a far parte della Colonna, s'era fatto educare il
cervello all'istituto di psicometria, e aveva regalato a Rebecca la sua
testa. Non aveva mai potuto sapere nient'altro, di loro. E quando la
voce secca degli speaker al radiogiornale, raccontava di quelle
bombe, degli agguati, dei colpi di pistola nella notte e di tutti quei
morti, Giaime sentiva solo un brivido, s'inquietava e andava a
mischiarsi fra la gente, a perdersi sulle strade mobili, nella
metropolitana, a San Siro, per sentirsi confuso e indistinguibile dagli
altri.
Passa il mezzogiorno e passano le prime ore del pomeriggio,
tiepide appena, il sole è stinto fra le nuvole già gonfie di neve.
Genova sta in fondo alla discesa contorta dell'autostrada. Giaime
avvia il motore. Raggiunge il casello in meno di mezz'ora, "Genova
ovest" sta scritto su un enorme cartello tinto di verde, ma Giaime non
ferma il camion, non rallenta neppure, e il paraurti corazzato scardina
la sbarra che gli hanno calato davanti, e l'automezzo va oltre,
inseguito solo da due, tre schiocchi d'una pistola.
Poi, dietro a una curva, spunta l'ombra vaga della Lanterna e
Giaime comprende ormai che il viaggio è finito, la fuga s'è conclusa,
e che Peter lì non è che un fagotto ingombrante. Non gli resta che
raggiungere l'Esperanza a calata San Benigno. Dio buono, il piano
d'emergenza che Rebecca ha studiato per lui è preciso come i cristalli
d'un orologio a quarzo, preciso da stupirsene, come la carta dei buchi
nei reticolati delle autostrade, così esatta, e quell'elenco delle linee
per l'Africa, aggiornato con l'Avvisatore marittimo… è tutto così
preciso che proprio Giaime non capisce come lo Squadrone abbia
potuto prenderli come merli, l'altra notte.
Il camion s'infila sulla fettuccia grigia della strada sopraelevata,
proprio a ridosso delle calate. Ecco, Giaime rallenta, punta il muso
del bestione di ferro contro il guard rail, poi, una manciata di secondi
prima dell'urto, salta giù e ruzzola sul terreno gelato, si fa male alle
ginocchia e resta a guardare il camion che sfonda guard rail e
parapetto, sembra inerpicarsi per un istante nel vuoto, e poi sbatte di
sotto con un boato, e va a fuoco.
Troveranno soltanto Peter, in quella trappola arsa, se mai lo
troveranno, e si metteranno l'animo in pace. Non gli rimane che
nascondersi da qualche parte, adesso, sotto le arcate della
sopraelevata o dietro qualche pilone, e aspettare che cada un'altra
notte.

Quando la porta dell'unità operatoria s'aprì, il tenente si alzò in


piedi di scatto, prese l'elmetto che aveva posato sulla panca di ferro,
e andò incontro al chirurgo. Lo conosceva, aveva già lavorato per
conto dello Squadrone. Il tenente aveva ancora addosso l'uniforme da
combattimento. Era venuto all'ospedale direttamente dal porto.
"È vivo?" chiese sottovoce.
Il chirurgo gli andò vicino. "È vivo," rispose.
"L'abbiamo identificato. Era uno importante, nella Colonna, forse
il più importante. È l'archivio, cioè l'uomo-archivio. Non so com'è,
ma quello conosce a memoria nomi, indirizzi, tutta la storia della
Colonna, insomma. È una fortuna enorme, che sia vivo."
Il chirurgo sorrise. C'era una piega amara, sulle sue labbra. "È
vivo, sì," ripeté.
La porta s'aprì di nuovo, e gli infermieri spinsero fuori Giaime. Il
lettino a rotelle sembrava un infernale aggeggio di tortura: le
apparecchiature della vita artificiale, le cannule della fleboclisi e i
tubi dell'ossigeno, erano come tanti strumenti da Torquemada, un
grande ragno bianco e grigio che stringeva Giaime fra le zampe.
"Ma non credo che potrà aiutarvi."
Il tenente gli andò vicino. Il segno del cardiogramma scorreva
lento ma costante nel piccolo schermo, a un capo del letto. Il chirurgo
prese il tenente per un braccio. "Può anche aver dentro i più grandi
misteri del mondo, ma noi non potremo farci nulla. Le pallottole
l'hanno paralizzato nelle braccia, nella bocca, nelle gambe. Può solo
ascoltare, forse, e vedere, ma non so fino a che punto vi servirà.
Quest'uomo porterà ogni suo segreto nella tomba."
Il tenente osservò Giaime. Dormiva, stordito dalle droghe, ma
sulla sua bocca sembrava fiorire un riso di scherno.

Remo Guerrini
S.F.B.C.
Science Fiction Book Club

1. Silverberg-Vance-Knight-Simak: Terrestri e no (esaurito), L. 1.650.


2. Bradbury: La fine dei principio (esaurito), L. 1.200.
3. Van Vogt: L'impero dell'atomo (esaurito), L. 1.600.
4. Asimov: Dodici volte domani (esaurito), L. 1.400.
5. Leiber: Le argentee teste d'uovo, L. 1.300.
6. Sturgeon: Profumo d'infinito (esaurito), L. 1.400.
7. Miller Jr: Un cantico per Leibowitz (esaurito), L. 1.600.
8. Burroughs: Perduti su Venere (esaurito), L. 1.200.
9. Bradbury: Le auree mele del sole (esaurito), L. 1.400.
10. Heinlein: Straniero in terra straniera (esaurito), L. 2.000.
11. Aldiss: La lampada del sesso (esaurito), L. 1.100.
12. Vonnegut: Le sirene di Titano (esaurito), L. 1.800.
13. Van Vogt: La città immortale (esaurito), L. 1.100.
14. Sturgeon: Venere più X, L. 1.000.
15. Dick: La svastica sul sole (esaurito), L. 2.200.
16. A cura di Conklin e Asimov: L'altare a mezzanotte (esaurito), L. 2.700.
17. Franck: Addio Babilonia (esaurito), L. 600.
18. Pangborn: Davy, l'eretico (esaurito), L. 2.000.
19. Pohl e Kornbluth: L'anno del presidente (esaurito), L. 600.
20. Bradbury: Il gioco dei pianeti (esaurito), L. 1.100.
21. Christopher:… E venne una cometa (esaurito), L. 2.000.
22. Dick: I simulacri (esaurito), L. 600.
23. Wyndham: I vortici dell'assurdo (esaurito). L. 1.500.
24. Heinlein: La via della gloria (esaurito), L. -2.000.
25. Moore: La polvere degli dei (esaurito), L. 600.
26. Farmer: Un amore a Siddo (esaurito), L. 2.000.
27. Janifer: Questo mio mondo di follia (esaurito), L. 600.
28. Simak: Stranieri nell'universo (esaurito), L. 2.000.
29. Jones: La fine del silenzio (esaurito), L. 600.
30. Bester: La tigre della notte (esaurito), L. 2.000.
31. Box: Il futuro al guinzaglio (esaurito), L. 600.
32. Vonnegut: La società della camicia stregata (esaurito), L. 2.000.
33. Vance: Gli Amaranto (esaurito), L. 600.
34. Del Rey: Robot e folletti (esaurito), L. 2.000.
35. Dick: La penultima Verità (esaurito), L. 600.
36. A cura di Wollheim e Carr: Il vento del sole (esaurito), L. 1.500.
37. A cura di Sandrelli: Civiltà domani, prima antologia celebrativa di Galaxy
(esaurito), L. 2.300.
38. A cura di Wollheim e Carr: Metamorfosi 1970, L. 2.700.
Essenzialmente dedicata alla miglior produzionc fantascientifica americana
del 1968. questa antologia, curata da Donald A. Wollheim e Terry Carr. è
una significativa testimonianza non soltanto delle nuove idee e dei nuovi
umori della science-fiction, ma del modo in cui oggi si scrive fantascienza: i
racconti assumono un'architettura nuova, particolarmente ellittica, allusiva,
che ha tratto la sua lezione dalle più moderne tecniche dello scrivere ma che
a sua volta contribuisce a crearle. Abbiamo qui autori vecchi e nuovi,
esordienti perfino, ma tutti egualmente portano il loro contributo a questa
testimonianza estremamente viva del nostro tempo. La scelta dei racconti è
abbondante, e sono presenti tutte le direttrici della narrativa fantascientifica,
tecnologica di domani, nuove forme di socialità, avventure spaziali perfino,
ma raccontate, o meglio, vissute in una profonda interiorizzazione. La
disumanità della science-fiction è ormai lontana, come del resto sono
lontani da questi racconti le schematizzazioni che rendevano inefficace
troppa della prima fantascienza sociale, e il tono didascalico di buona parte
della fantascienza tecnologica.
39. Bradbury: Le macchine della felicità, L. 2.200.
Nostalgia d'un mondo perduto, irremissibilmente perduto perché in realtà
mai esistito, ma disperatamente possibile. Un ricordo perduto nel futuro,
un'attesa impossibile, una speranza, una rassegnazione e un ammonimento?
Tutto questo, ed altro ancora, nei ventuno racconti di Bradbury che
compongono questa antologia. In una irripetibile molteplicità di temi,
Bradbury sa miracolosamente suscitare un incanto, anche quando desidera,
e sa, suscitare il dolore.
Nessuno come lui sa trasportare il meraviglioso nella banalità quotidiana, e
colorare di assurdo la stessa banalità. Soave e crudele, Bradbury non ci
lascia tranquilli, e c'inquieta, e ci rivela a noi stessi. Il suo significato si
arricchisce, al di là delle sue favole cosmiche, in quanto "egli ama suscitare
nei suoi racconti certe evidenze che l'uomo d'oggi, perduto nei nuovi deserti
della società moderna, tende a dimenticare".
40. Simak: Tempo senza tempo, L.1.800.
The Goblin Reservation si può leggere, come ogni romanzo fantascientifico
che si rispetti, da diversi angoli di visuale. Innanzitutto si tratta di un
romanzo pieno di garbato umorismo, in cui lo scrittore ha voluto divertirsi
un po', creando alcune spassose figure, dal gatto Silvestro divoratore di
bistecche (e parente di certi felini di Heinlein) al rissoso folletto O'Toole,
fino alla comparsa beffarda di William Shakespeare in persona, pronto a
dichiarare pubblicamente di non essere stato lui a scrivere le sue commedie
(e risolvendo così l'antica controversia che, il lettore si rassicuri, non esiste
più, perchè Shakespeare le sue opere le ha scrìtte sul serio). Ma poi, lo
scrittore ormai anziano ha voluto, in questo romanzo, celebrare proprio la
sua terra, la sua regione, la cui natura autunnale viene revocata con una
straordinaria minuzia di particolari che fa volutamente da contrasto con il
nudo, cosmico paesaggio del pianeta di cristallo. Dall'incontro dei due
mondi antitetici, le verdi distese del Wisconsin e la liscia superfìcie
metallica dell'antico pianeta, riemergerà questa volta l'equilibrio della
realtà.
41. Kuttner-Moore: Il Twonky, il tempo e la follia, L. 1.000.
Cosa fareste se, trovandovi soli in casa, il vostro grammofono si
avvicinasse e vi accendesse una sigaretta? E se, volendo uccidere la persona
che più odiate al mondo, sapeste che ogni vostro gesto può essere osservato
da un occhio capace di viaggiare nel passato? Se poi foste pazzi, e vi
accorgeste che le vostre allucinazioni sono ben più che semplici fantasie
della vostra mente malata? Sono questi alcuni degli spunti che Catherine L.
Moore e Henry Kuttner, l'ingegnere-scrittore di S.F. prematuramente
scomparso nel 1958, hanno scelto per donarci una delle più splendide e
terrificanti antologie di fantascienza mai pubblicate.
Racconti lucidi e spietati le cui radici affondano nel nostro presente o nel
prossimo futuro, ad illustrare fantasie che solo con difficoltà possiamo
definire tali, dopo aver esaminato la plausibilità di queste storie.
L'ultimo passo verso il futuro che ci attende.
42. Daniel Drode: Superficie del pianeta, L. 1.000.
All'improvviso il sistema va in frantumi: le tavolette alimentari piovono
troppo in fretta, le Visioni s'interrompono, manca l'aria. Dopo secoli (o
millenni?) di sottosuolo, l'umanità è costretta a tornare sulla superficie del
pianeta. E, vagando tra immense foreste, tra spettrali rovine di città,
riscopre un mondo ormai estraneo, selvaggio, impenetrabile. La paura e il
desiderio di sicurezza sono gli unici sentimenti certi.
Ma il protagonista-osservatore-narratore di questo straordinario romanzo
decide d'intraprendere una sua personale ricerca, che lo porterà, prima, a
contatto con le nuove, enigmatiche creature che il pianeta ha generato; e gli
consentirà, poi, di arrivare ad una fusione quasi totale con l'ambiente e la
logica aberrante del Sistema che ha abbandonato. Daniel Drode ha costruito
un'opera polivalente, splendida nella sua ssoluta novità. Rifiutando qualsiasi
compromesso di carattere avventuroso, riallacciandosi direttamente ai
moventi più profondi del pensiero umano, egli ci narra l'affascinante
odissea d'un uomo che tenta di riallacciare, a posteriori, i fili d'una logica
serratissima. Lo stile è tutt'uno con la trama, e avvolge nelle sue spire il
lettore senza concedergli tregua. Un romanzo d'avanguardia e classico nello
stesso tempo. Un capolavoro letterario destinato a fare scuola. Un modo
nuovo di concepire la fantascienza e i suoi significati. Prix Jules Verne per
il 1959.
43. Brunner: Le finestre del cielo, L. 1.000.
Dieci racconti di John Brunner: una panoramica rappresentativa di un
autore che non è mai banale: dieci racconti nei quali non mancano il
paradosso, o la ricerca d'avanguardia, ma in cui. soprattutto, sono delineate
con amore, competenza e minuziosità di particolari, la vita quotidiana, la
mentalità dell'uomo nello spazio, intento a costruire la sua seconda - e forse
più vera - casa, senza per questo dimenticare, anzi!, la Terra. Non le 'verdi
colline' cui ritornano gli spericolati eroi di Heinlein. ma la quotidiana fatica
dell'uomo comune, capace di disegnare, da un pianeta all'altro, da una stella
all'altra, la sua trama sottile ma più resistente dell'acciaio. Non mancano
indovinate previsioni sul futuro stesso del nostro pianeta: Brunner adotta un
insolito artificio: antiutopia passiva. Cioè, con l'espediente della doppia
negazione, l'uomo, invece di sprofondare nella cattiveria e nella perdizione,
si riscatta. L'uomo, sì. può essere salvato, ma non di rado è necessario
sospingerlo con una certa energia (per non dire rudezza) sulla via della
salvazione. Infine, Brunner disserta sull'infelicità dei maghi, quand'essi
presumono della loro sapienza e s'invischiano talmente nei loro finti
incantesimi che quando, per accidente, s'imbattono in un incantesimo vero,
allibiscono increduli, pronti a soccombere. Non c'è avvenire nel mestiere di
mago, dice Brunner: oggi meno che mai. E strizza l'occhio.
44. A cura di Wollheim e Carr: Il computer sotto il mondo, L. 1.000.
L'affiatata coppia Donald A. Wollheim-Terry Carr ha curato questa
antologia di science-fiction che rappresenta sostanzialmente la 'World's Best
Science Fiction1968': una rassegna di eccellenza di cuifanno parte in buon
numero autori giova-ni e agguerriti e altri, meno giovani ma ancora
indubbiamente all'avanguardia: a di-mostrare quanto la fantascienza sappia
rinnovarsi quanto ad attualità e mordente, sono presenti in questa rassegna
Disch ed Ellison, con una problematica dolorosa e attualissima, mentre Ron
Goulart affronta il ritratto in costume. Offutt e Lafferty ci inquietano con i
loro paradossi (quello di Offutt meriterebbe davvero l'Oscar della
cattiveria). Compton, a sua volta, analizza un caso di coscienza. Kapp e
Niven rinnovano in modo eccellente la casistica dei contatti dell'uomo con
gli abitanti di altri mondi (tanto più ora. che l'uomo col Pioneer 10 ha
lanciato nel Cosmo il primo messaggio ufficiale alle civiltà extraterrestri).
Questo contatto che in Zelazny diventa favola.
Altre favole ci raccontano, ognuno nel proprio originalissimo modo.
Roberts e Wilson (tra i cui ascendenti c'è perfino H. C. Andersen). Infine,
uno sguardo sull'intrinseco futuro dell'uomo, e sulle sue trasformazioni
fisiche e psichiche sotto la guida di Delany e Aldiss. Quattordici e sempi,
dunque, della fantascienza com'è oggi, con idee sempre nuove, penetranti,
in una narrazione chiara, senza sterili avanguardismi (di cui. ormai le
dimostrazioni abbondano, la science-fiction non ha bisogno). Una antologia
da 'specialisti', che può rappresentare anche un ottimo modo, da parte dei
neofiti, di avvicinarsi per la prima volta alla fantascienza.
45. Lafferty: Il diavolo è morto, L. 1.500.
Raphael Aloysius Lafferty ha fatto da poco la sua comparsa sulla grande
scena della fantascienza mondiale: i suoi primi racconti, oltre ai primi due
romanzi, risalgono al 1960, ma solo ultimamente il suo nome ha preso ad
apparire con una certa risonanza sulle pubblicazioni specializzate.
Dopo aver derubato la storia ufficiale, in Past Master, del personaggio di sir
Thomas More, ora Lafferty ci presenta Finnegan il marinaio; non
discutiamo se sia il caso di chiedere scusa a James Joyce e alle Mille e una
Notte. Perchè davvero Finnegan (alias John Solli) sembra voler ripercorrere
un ideale itinerario ispirato a Sindbad. Da un porto degli Stati Uniti
meridionali fino alle isole greche del Mediterraneo, e poi ancora indietro, a
terrorizzare i suoi ex compagni in una missione di vendetta, Finnegan offre
a Lafferty l'estro di creare splendide ed orrìbile fiabe moderne, bugie
colossali e mitologie esasperanti nella loro suggestività.
E non si tratta neppure di un autore facile; Lafferty fa un uso spietato di
giochi verbali, di allitterazioni, alterna versi e prosa, si inserisce in una
prospettiva che offre infinite possibilità di decrittazione. Diavoli, Sirene e
Orchesse esistono, possiedono vita e morte; il Diavolo è già stato ucciso ed
è ancora vivo. Ma si tratta di un Diavolo la cui vita e la cui morte sono
confinate solo a queste pagine?
46. Dick: Labirinto di morte, L. 1.500.
Philip Dick, autore prolifico come pochi altri, è senza dubbio destinato a
restare uno dei casi più eccezionali dell'intera fantascienza. A maze of
death, il suo ultimo romanzo a tutt'oggi, si presenta come un grosso
romanzo avventuroso, ricco di colpi di scena e ribaltamenti di situazione.
Ma come sempre, la struttura esterna del lavoro serve solo da piattaforma
per il discorso sotterraneo che coinvolge gli elementi più tipici della
narrativa di Dick: il binomio realtà/illusione, il problema religioso, la droga,
i confini fra la vita naturale e quella artificiale. In piena coscienza con le sue
opere precedenti, ed utilizzando anche qui un suo contatto con gli
allucinogeni che gli permettono di raggiungere un diverso livello di
coscienza, Dick non si limita a sfruttare le sue indubbie capacità narrative
per fornire un prodotto piacevole; egli si immerge personalmente nel
dramma dei suoi personaggi, relegati su un pianeta estraneo, e lo interpreta
come se questo dramma fosse anche il nostro, alla luce di quella violenza
tecnologica che oggi più che mai è diventata sinonimo di alienazione
umana, di sconfitta e di inutilità esistenziale.
47. Leiber: La guerra e i labirinti, L. 1.600.
Fritz Leiber non ha bisogno di troppe presentazioni per i lettori italiani di
fantascienza; dopo la ristampa del romanzo che gli meritò il suo primo
premio Hugo, The Big Time, sono pochi i lettori che ancora non conoscono
la Guerra del Cambio, combattuta in tutte le epoche fra Ragni e Serpenti per
mutare il corso della storia. Ma forse sono più numerosi i lettori che
vogliono saperne di più, sulla Guerra del Cambio e sui suoi combattenti
immortali.
Questa antologia comprende appunto i racconti che Leiber scrisse per
completare il ciclo dei Ragni e dei Serpenti, oltre ad una selezione di altre
opere quasi tutte inedite sul mercato italiano. Il romanzo breve ed i racconti
qui presentati appartengono al decennio più attivo e fruttuoso dello scrittore
americano, essendo apparsi fra il 1950 e il 1962, e sono corredati di una
bibliografia italiana completa. Che Leiber appartenga di pieno diritto alla
schiera dei grandi della fantascienza mondiale è risaputo, ma forse mancava
l'occasione per una verifica dettagliata delle sue meravigliose qualità. Con
questa antologia diamo inizio ad un tentativo di colmare una lacuna nella
conoscenza di un autore mai imprevedibile ed eclettico.
48. Brunner: L'orbita spezzata, L. 1.600.
Fra trent'anni il mondo non sarà molto diverso da com'è ora. Almeno in
apparenza. La popolazione sarà aumentata, gli attriti fra i due blocchi russo
e americano troveranno altri sbocchi in Asia, l'automazione ed il
consumismo raggiungeranno ovunque i loro mercati. Ma un fenomeno che
già oggi si rivela quanto mai preoccupante rìschierà di esplodere in un
conflitto sanguinoso: il razzismo. Gran parte del genere umano è troppo
affezionata ai suoi odii insensati che trovano sempre qualcuno disposto a
sfruttarli per il proprio tornaconto. Nelle nazioni e nelle riserve americane
negre serpeggia una furia vendicatrice che da secoli chiede soddisfazione. E
quando il più potente gruppo corporativo mondiale in fatto di armi, i
Gottschalk. decidono di sfruttare la situazione per aumentare le vendite, si
può stare certi che il futuro dell'umanità corre un gravissimo pericolo.
John Brunner. inglese quarantacinquenne e autore ben noto nel campo della
fantascienza mondiale, presenta in questo gigantesco romanzo
un'agghiacciante ipotesi futura che affonda le sue radici nei più scottanti
problemi della realtà quotidiana. "Questo enorme romanzo tentacolare
riesce ad afferrare in men che non si dica l'attenzione del lettore. È
un'opera superba, compiuta con sorprendente bravura e prova di doti
artistiche molto superiori a quelle finora mostrate da Brunner"(Philip. K.
Dick).
49. Aldani: Quando le radici, L. 2.500.
Era inevitabile che prima o poi lo SFBC ospitasse autori italiani, e c'erano
fortissime probabilità che il nome più indicato ad inaugurare la serie fosse
quello di Lino Aldani. Noto in Italia e forse anche più all'estero per una
quasi ventennale carriera di scrittore e critico (suo fu il primo testo critico
italiano sulla fantascienza, edito dalla CELT nel 1962), Aldani ha preparato
per il suo ritorno un romanzo magistrale. In un'Italia del 1998 che ormai ci
tocca da vicino, dove paesi e città di provincia hanno lasciato il posto a
megalopoli smisurate e disumananti, fra i sussulti di una classe politica che
oscilla da destra a sinistra, si muove la storia di Arno, complessa figura alla
ricerca di un ruolo più umano nella società che tenta di soffocare ogni
ribellione (conscia o meno). Legato per volontà paterna al nome di un
fiume e nato sulle sponde di un altro corso d'acqua essenziale all'economia
del romanzo. Arno ritorna alla terra dell'infanzia con speranze e disillusioni,
soffrendo sulla propria pelle la profondità di certe radici sociali e
individuali. Ma quando le radici sono profonde, non c'è vento, bufera o
cataclisma che possa schiantare l'albero: esso perirà solo quando verrà
meno la linfa vitale della terra che lo ha generato. Nella sua operazione di
analisi di queste radici Aldani sa costruire una storia che parla una lingua
uni versale. Forse è in questo il merito principale e nuovo del romanzo: nel
sapersi erigere a parabola generale di un'alienazione che è ormai dentro di
noi, e nei suoi contenuti che risuonano nelle nostre radici.
50. Sturgeon: Un fruscio d'ombre, L. 1.600.
Theodore Sturgeon ha sempre subito una sorte bizzarra, per quanto
concerne le sue opere tradotte in Italia: se si escludono i tre soli romanzi
lunghi ed una splendida antologia (Profumo d'infinito, SFBC n. 6), i suoi
racconti sono sempre apparsi a pizzichi, quasi centellinati da tutte le
pubblicazioni specializzate. Forse, come per Fritz Leiber. il guaio di
Sturgeon riposa nel suo rifiuto di una precisa specializzazione, e nella sua
preferenza per decantare nel tempo le proprie ispirazioni. I romanzi brevi ed
i racconti di questa antologia sono stati scritti fra il 1946 e il 1956. e
forniscono uno spaccato ideale delle tendenze e dei gusti di questo autore:
dai temi della fantascienza classica a quelli dell'orrore, dal fantasy al puro
gusto per l'insolito (spesso quotidiano). Sturgeon riesce a dilatare la sua
lente poetica e sovente crudele su situazioni svariate in moltissimi campi.
Non gli è tuttavia difficile, neppure con una cosi vasta scelta di temi,
riconfermarsi ogni volta grande scrittore e incline ad un approfondimento
esperto nell'intera gamma dei valori umani. Con stile a volte allusivo ma
sempre penetrante. Sturgeon scava a fondo dell'animo umano per estrarne la
materia primitiva di ogni sua storia, impegnandosi in una ricerca di
soluzioni o suggerimenti che possano servire a chiunque. Un'antologia,
quindi, che offre un'occasione unica per la ricomparsa di uno Sturgeon
ormai raro e inedito con alcune delle sue opere più affascinanti.
51. Pohl-Kornbluth: La civiltà dell'incubo. L. 1.600.
Proseguendo nella nostra operazione di proporre alcuni degli autori migliori
della fantascienza mondiale con i loro racconti e romanzi brevi più
significativi, non potevamo evitare la presenza di Frederik Pohl e Cyril
Kornbluth. che per un intero ventennio hanno rappresentato la coppia più
prestigiosa dell'intera fantascienza. Dire Pohl-Kornbluth significa parlare
inevitabilmente di quella corrente che da diversi anni si definisce
'sociologica', e che proprio dalle opere di questi due scrittori prese le mosse
con un piglio aggressivo che mutò profondamente tutta la fantascienza
successiva. Significa anche parlare di quattro abili mani che senza eccessivi
timori o ripensamenti incidono a fondo le viscere pulsanti del proprio paese,
estraendone con perìzia chirurgica molti mali sociali che ormai non sono
più solamente patrimonio di un'America consumista e tecnicizzata, ma
hanno già fatto la loro maligna comparsa su terreni più prossimi a noi.
Dire Pohl-Kornbluth equivale inoltre a sommare le qualità di due eccellenti
narratori in storie che offrono alcuni degli aspetti più positivi della
fantascienza; il taglio satirico o crudelmente dissacratorio si unisce infatti
ad anticipazioni sul nostro stesso futuro formulate con uno strumento
accattivante (il buon senso), senza scordare mai le leggi basilari di una
narrativa destinata spesso ad essere goduta, prima ancora che meditata. Dire
Pohl-Kornbluth, insomma, significa dire ottima fantascienza… con
l'aggiunta di un sonoro campanello d'allarme per molte coscienze.
52. Harness: Il futuro alla sbarra, L. 1.600.
In Italia ci si è accorti dell'esistenza di Charles Harness dopo la
pubblicazione su Galassia di due suoi splendidi romanzi, L'odissea del
Superuomo e Ritornello, che rivelavano un talento inventivo fra i più
originali ed uno stile a dir poco affascinante. Tuttavia, dopo un terzo
romanzo. Paradosso Cosmico, il flusso della sua produzione verso il nostro
paese si è arrestato per anni. Il motivo lo si può ritrovare nello stesso
giudizio entusiasta di Brian Aldiss premesso ad uno dei romanzi: 'È un
peccato che i buoni scrittori producano così poco.'
Questa antologia nasce dunque inaspettata dopo un lungo lavoro di ricerca e
dopo operosi contatti diretti con l'autore; sono qui riuniti i migliori racconti
e romanzi brevi che Harness scrìsse e pubblicò fra il 1948 e il 1966, raccolti
da dietro il velo di insoliti pseudonimi e dalle pagine di gloriose riviste. E si
potrebbe quasi affermare che questa è all'incirca tutta la produzione
fantascientifica di Harness; altri racconti rimangono inediti per il momento,
ma non si tratta purtroppo di un numero molto grande. Il purtroppo è
necessario, diremmo indispensabile, perchè le opere dì questo mefistofelico
avvocato texano, specializzato in brevetti industriali e laureato anche in
chimica, si servono ogni volta di poche righe per catturare — volente o
nolente — l'attenzione di qualsiasi lettore. Forse perchè il Texas, con i suoi
cactus e le tempeste di sabbia, è cosi vicino al Messico; e nella terra di
Montezuma, lo sanno tutti, cresce un altro cactus di nome peyotl. Con
Harness la faccenda è però più grave, perché subentra l'assuefazione.
53. Farmer: Un amore a Siddo, L. 1.600.
Nessun'altra opera meglio di questo romanzo di P. J. Farmer poteva
inaugurare la comparsa di alcune ristampe nella collana dello SFBC:
presentato su queste stesse pagine dodici anni fa, Un amore a Siddo fece
conoscere ai lettori italiani una delle opere più discusse e più acclamate
della fantascienza americana. L'inesorabile storia d'amore tra il terrestre Hal
Yarrow e la latitha Jeannette Rastignac nasce su un lontano pianeta, ma
all'interno di un problematica religiosa e politica che affonda le sue radici in
una Terra del futuro teatro dei più profondi sconvolgimenti. Affrontando
con coraggiosa franchezza la tematica religiosa e sessuale che negli anni
intorno al 50 la fantascienza americana considerava quasi intoccabile.
Farmer non produsse certo un'opera valida solamente per lo scalpore
suscitato allora (e che oggi verrebbe senz'altro ridimensionato), ma bensì
una storia sincera che esaminava un 'realistico' rapporto umano.
Sullo sfondo di uno Stato-Chiesa che opprime ogni istanze della sua
esistenza, dunque, Hal Yarrow si riscatta con il coraggio di un atto d'amore
che assume le dimensioni di una totale rivolta contro il crudele sistema
sociale che lo ha creato, e la sua ribellione coincide amaramente con la fine
del rapporto che lo lega a Jeannette.
54. Roberts: Pavana, L. 1.600.
Supponiamo che Elisabetta I sia stata assassinata nel 1588 e che la Grande
Armada abbia avuto successo nella sua invasione: l'Inghilterra di
Shakespeare e di Edmund Spenser sarebbe così caduta nelle mani del
cattolicissimo sovrano di Spagna, Filippo II, e l'autorità della Chiesa
Cattolica (cum Inquisizione) si sarebbe rinsaldata in tutta Europa. Pochi
ostacoli avrebbero poi potuto frapporsi all'allargamento di questo dominio
al Nuovo Mondo… ma cosa sarebbe successo dopo? Costruire un universo
parallelo al nostro e al tempo stesso completamente diverso non è certo
un'operazione da poco, in special modo quando l'obiettivo di uno scrittore
decide di indagare una possibilità affascinante nata da due spunti storici
'incrinati' come quelli esposti sopra. Eppure Keith Roberts é riuscito
magnificamente nel suo intento di tessere una storia alternata, utilizzando
una maestria stilistica che é davvero rara nella fantascienza moderna:
sempre in equilibrio fra una sottile vena lirica e un amaro realismo, questo
non é un romanzo che si possa dimenticare facilmente. Anche perchè non si
potrà mai cancellare dalla mente la sensazione che i personaggi del libro,
allacciati nelle austere movenze di una pavana seicentesca, percorrano i
sentieri di una storia troppo plausibile per essere solamente inventata.
55. Leiber: Neri araldi della notte, L. 2.500.
Ecco finalmente l'attesa edizione italiana della celebre antologia che nel
1947 impose all'attenzione del pubblico americano il nome di Fritz Leiber.
Fra gli otto racconti e romanzi brevi che compongono questo volume (testi
apparsi in gran parte fra il 1940 e il 1947 su collane ormai mitiche come
Weird Tales e Unknown Worlds) figurano i due classici I sogni di Albert
Moreland e L'uomo che non divenne mai giovane, oltre a sei inediti che
formano ancora oggi il meglio della produzione di questo autore,
magicamente in bilico fra l'horror e la fantascienza. Nell'analisi attenta e
spesso sfiduciata che Leiber dedica ai moderni punti focali della paura
emerge una sensibilità capace di dare nuovi corpi ai terrori e alle alienazioni
umane, anticipando di gran lunga le attuali voghe orrorifiche che non
sempre dispongono della acuta vena critica esibita da Leiber. Conclude il
volume un inedito di Jack Williamson, Lupi dalle tenebre, un romanzo
breve che oscilla a sua volta fra orrore e fantascienza e risale ai tempi d'oro
della rivista Weird Tales.
Completano il volume le bio-bibliografìe italiane degli autori.
56. Sturgeon ed altri: Il creatore di lune, L. 2.500.
Un inedito romanzo breve di R.W. Chambers, Il creatore di lune, apre
questa antologia dedicata ad opere fra il fantastico e l'orrorifico. Il raffinato
creatore de Il re in giallo costruisce stavolta un'insolita vicenda silvestre
dove, sul finire del secolo scorso, una nota di agghiacciante poesia si
miscela al tocco magico di uno stregone della lontana Cina. Vengono cosi
anticipate le speculazioni fantastiche di Algernon Blackwood, presente con
l'inedito L'abito vecchio, e di Theodore Sturgeon, con Il lettore dì cimiteri e
Il begozio di nottiglie. Leonid Andreyeff compare qui con il racconto che è
ormai ritenuto un classico fantastorico, Lazarus, mentre August Derleth si
occupa degli sforzi di un patetico arrampicatore sociale nel macabro Il
trionfo di Potts e Robert Lowndes ci presenta l'allucinante contatto con
un'altra dimensione in L'abisso. Seabury Quinn aggiunge un'inaspettata
risposta all'accorata disperazione di una madre patriottica in Restituiscici il
passato, e Gianni Montanari conclude il volume con l'amara parabola di
Lassù, sul fondo. Completano il volume le bio-bibliografie italiane degli
autori.
57. Guerrini: Pelle d'ombra, L. 2.500.
È l'ultima notte di Carnevale nella ciclopica città degli abissi e Valdemaro
viene ucciso. Potrebbe essere un delitto come tanti nella complicità di una
notte votata alle più irreparabili sfrenatezze, ma c'è un particolare, uno solo,
che rende questa morte un crimine inaudito: Valdemaro è un uomo, in
questa città dove soltanto gli Squali sono soggetti a tale genere di violenza.
Tutto sì complica quando si scopre che quella stessa notte la bellissima
Lady Mamoudy, moglie del padrone della città, è stata accecata da un
raggio laser.
Inizia così la difficile indagine di Lorna lo Squalo, costretto a muoversi fra
gli schiavi suoi simili e fra gli uomini stessi come pedina di un gioco che
per lui può avere una sola conclusione: la morte. Ma il gioco del potere è
più complesso di quanto Lorna o lo stesso assassino possano immaginare, e
il loro confronto è destinato a risolversi in modo quantomeno inatteso.

Bigalassia
Volumi a L. 700:
1. Van Vogt: Anno venticinquemila — Le storie delle Lune (esaurito).
2. Dick: Utopia, andata e ritomo — Vedere un altro orizzonte (esaurito).
3. Malaguti: La ballata di Alain Hardy — L'odissea di Alain Hardy.
4. Hamilton: Pianeta perduto — Inciderne nello spazio (esaurito).
5. Russel: Una voce dal nulla - Azione di disturbo.
6. Piper: Lord Kalvan d'altroquando — / vichinghi dello spazio (esaurito).
7. Farmer: Gli anni del precursore — Un universo tutto per noi.
8. Williamson: L'impero dell'oscuro — Luci nell'infinito.
9. Simak: Infinito — Il villaggio dei fiori purpurei.
10. Leinster-Brunner: I pirati di Zan — Sogna, superuomo.
11. Aldiss-Piper: Descalation - Crisi nel 2140.
12. Campbell-Del Rey: I conquistatori delle stelle — Fratelli mostri.
Volumi a L. 800:
13. Dick: Mr. Lars, sognatore d'armi — Follia per sette clan.
14. Heinlein: Starman Jones — I miei mondi.
15. SF italiana: Destinazione uomo — A-more a quattro dimensioni.
16. Disch: Terra all'infinito — Campo Archimede.
20. Silverberg Leiber: Padrone della vita, padrone della morte — Le donne
della neve.
21. Aldiss-Brackett: Anonima intangibili — Storie marziane.
22. Pangborn-Miller Jr. ed altri: Il giudizio di Eva — C'era una volta un
mondo.
Volumi a L. 1.000:
17. Norton Hamilton: I corridoi del tempo — L'invasione della galassia.
18. O'Donnel-Jones: Guerra finale — Cancro 2000.
19. Simak Bush: L'anello intorno al sole — Lascia questo cielo.
Volumi a L. 1.200:
23. Janifer e Treibich: Missili e serpenti blu — Il satellite stregato.
24. Farmer: Notte di luce — Una questione di razza.
25. Panshin: Star well — La rivoluzione Thurb.
26. Gillon — Moore e Davidson: Mondo senza sonno — Joyleg.
27. Kornbluth-Livingston: Idioti in marcia — L'emozionarnetro.
28. Delany: La ballata di Beta 2 — Babel 17.
29. Harness: L'odissea del superuomo — Ritornello.
30. Brunner: La società del tempo — Sotto il segno di Marte.
31. Moorcock: Programma finale — Il veliero dei ghiacci.
32. Smith: L'uomo che comprò la terra — L'uomo che regalò la terra.
33. Herbert: Gli occhi dì Heisenberg — Stella innamorata.
34. Io, l'immortale — Signore dei sogni.
Volumi a L. 1.400:
35. Montanari-Prosperi: Nel nome dell'uomo — Autocrisi.
36. Young: Trenta giorni — Coppa di stelle.
37. Dick-Platt: Amici di Frolix 8 — Asteroide dei paria.
38. Disch: Thomas l'incredulo — 102 bombe H.
39. Koontz-Miglieruolo: Sinfonia delle tenebre — Ladro di notte.
40. Gunn-Catani: Tempo di streghe — Eternità e mostri.
41. Moorcock-Rambelli: Corridoio nero — Ministero della felicità.
42. Dick-Curtoni: Ubik, mio signore — Dove stiamo volando.
Volumi a L. 1.600.
43. Lovecraft-Delany: Chi di vampiro ferisce — Einstein perduto.
44. Farmer-Lauder: I cancelli dell'universo — Il nostro uomo per Ganimede.
45. Fanta Italia-Prosperi: 16 mappe del nostro futuro — Seppelliamo Re John.

Galassia
1. De Camp: Le Amazzoni di Avtinid (esaurito).
2. Brown: Marziani, andate a casal (esaurito).
3. Tubb: Anero-Tanap, zona proibita (esaurito).
4. Bush: I guerrieri dei pianeta Giorno (esaurito).
5. Wellman: Due volte nel tempo (esaurìto).
6. De Camp: La torre di Zanid (esaurito).
7. Tubb: La tribù dei verdi (esaurito).
8. Bush: L'asso di coppe (esaurito).
9. Rambelli: Parricidio ed altri racconti (esaurito).
10. Del Rey: Noi verso le stelle (esaurito).
11. Rambelli: Il libro di Fars (esaurito).
12. Osborne: Stranieri dallo spazio (e-saurito).
13. Russel: Missione su Jaimec (esaurito).
14. Asimov: Veleno per la Terra (esaurito).
15. Vance: Il pirata dei cinque mondi (esaurito).
16. Kuttner: I robot non hanno la coda (esaurito).
17. Simak: All'ombra di Tycho (esaurito).
18. Kuttner: Mr. Gallegher, supergenio (esaurito).
19. Anderson: Le nevi di Ganimede (esaurito).
20. Heinlein: Waldo, o dell'impossibile (esaurito).
21. Anderson: Lo Stormo e la Flotta (esaurito).
22. Asimov: Struttura anomala (esaurito).
23. Dickson: Il mercenario di Dorsai (esaurito).
24. Heinlein: La sesta colonna (esaurito).
25. Wollheim: Il segreto del nono pianeta (esaurito).
26. Efremov: Il cuore del serpente (esaurito).
27. Blish: I Tetraploidi (esaurito).
28. Belaiev: Elephas sapiens (esaurito).
29. Williamson: Un mondo da giudicare (esaurito).
30. Dick: Il dottor Futuro (esaurito).
31. Aldiss: Segregazione (esaurito).
32. White: Stazione Ospedale (esaurito).
33. Efremov: Incontro su Tuscarora (esaurito).
34. White: Settore generale ^esaurito).
35. Garret: Il robot minorenne (esaurito).
36. Merril: Gente di domani (esaurito).
37. Harrison: L'ingegnere etico (esaurito).
38. Budrys: La torcia cadente (esaurito).
39. Laumer: I mondi dell'Impero (esaurito).
40. Ernsting: L'erede di Hiroshima (esaurito).
41. Del Rey: L'undicesimo comandamento (esaurito).
42. Van Vogt: Gli schiavi del Non-A (esaurito).
43. Dick: Redenzione immorale (esaurito).
44. Tubb: La finestra sulla luna (esaurito).
45. Van Vogt: L'ultima fortezza della Terra (esaurito).
46. Christopher: L'inverno senza fine (esaurito).
47. Harrison: Un eroe galattico (esaurito).
48. Brunner: Il santuario nel cielo (esaurito).
49. Heinlein: Anonima Stregoni (esaurito).
50. Dick: Il mondo che Jones creò (esaurito).
51. Malaguti: Il sistema del benessere (esaurito).
52. Charbonneau: E su di noi le stelle (esaurito).
53. Pohl: Processo al domani (esaurito).
54. Heinlein: Il mestiere dell'avvoltoio (esaurito).
55. Harrison: La fine della paura (esaurito).
56. Henneberg: Le notti di smeraldo (esaurito).
57. Hubbard: L'ultimo vessillo (esaurito).
58. Charbonneau: Il problema della libertà.
59. Leiber: L'alba delle tenebre (esaurito).
60. Hamilton: La valle della creazione (esaurito).
61 Farmer: L'inferno a rovescio (esaurito).
62. Aldiss: Galassie come granelli di sabbia.
63. Rambelli: La pietra di Gaunar.
64. Budrys: Incognita uomo.
65. Leiber: I tre tempi del destino.
66. White: Ospedale da combattimento.
67. Kornbluth: Domani la luna.
68. Aldiss: Il mio mondo bruciato.
69. Malaguti: Satana dei miracoli.
70. Williamson: La gemma della stella verde.
71. Leinster: Eroi su commissione.
72. Reynolds: Guerra totale.
73. Dick: I giocatori di Titano (esaurito).
74. Farmer: Il fabbricante di universi (esaurito).
75. Hamilton: I soli che si scontrano.
76. Morgan: Attori si muore.
77. Scerbanenco:… Di tutti i futuri del mondo.
78. Neville: Non della terra.
79. Gunn: Si garantisce la felicità.
80. Autori vari: A un passo dal pianeta domani.
81. Simak: Ingegneri Cosmici (esaurito).
82. Bradbury: Il popolo dell'autunno (esaurito).
83. Clement: Coesistenza pacifica.
84. Smith: Sabbie, tempeste e pietre preziose.
85. Malaguti: La ballata di Alain Hardy (esaurito).
86. Russel: Una voce dal nulla (esaurito).
87. Piper: Lord Kalvan di altro-quando (esaurito).
88. Malaguti: L'odissea di Alain Hardy.
89. Van Vogt: Anno XXV (esaurito).
90. Leinster: I pirati di Zan (esaurito).
91. Hamilton: Pianeta perduto (esaurito).
92. Piper: I vichinghi dello spazio (esaurito).
93. Dick: Utopia, andata e ritorno (esaurito).
94. Farmer: Gli anni del precursore (esaurito).
95. Brunner: Sogna, superuomo! (esaurito).
96. Aldiss: Descalation (esaurito).
97. Van Vogt: Le storie delle lune (esaurito).
98. Williamson: L'impero dell'oscuro (esaurito).
99. Dick: Vedere un altro orizzonte (esaurito).
100. Simak: Infinito (esaurito).
101. Hamilton: Incidente nello spazio.
102. Rusell: Azione di disturbo.
103. Farmer: Un universo tutto per noi.
104. Williamson: Luci nell'infinito.
105. Simak: Il villaggio dei fiori purpurei.
106. Piper-McGuire: Crisi nel 2140.
107. Campbell: I conquistatori delle stelle.
108. Del Rey: Fratelli Mostri.
109. Dick: Mr. Lars, sognatore d'armi.
110. Norton: I corridoi del tempo.
111. Heinlein: Starman Jones.
112. Harness: L'odissea del superuomo.
113. Autori vari: Destinazione uomo.
114. Brunner: La società del tempo.
115. Hamilton: L'invasione della galassia.
116. O'Donnel: Guerra finale.
117. Jones: Cancro 2.000.
118. Disch: Terra all'infinito.
119. Janifer a Treibich: Missili e serpenti blu.
120. Simak: L'anello intorno al sole.
121. Janifer & Treibich: Il satellite stregato.
122. Delany: La ballata di Beta-2.
123. Moorcock; Programma finale.
124. Dick: Follia per sette clan.
125. Farmer: Notte di luce.
126. Blish: Lascia questo cielo.
127. Panshin: Star Well.
128. Silverberg: Padrone della vita, padrone della morte.
129. Leiber: Le donne della neve.
130. Aldiss: Anonima intangibili.
131. Farmer: Una questione di razza.
132. Brackett: Storie marziane.
133. Pangborn: Il giudizio di Eva.
134. Miller Jr.: C'era una volta un mondo.
135. Smith: L'uomo che comprò la terra.
136. Panshin: La rivoluzione Thurb.
137. Autori vari: Amore a quattro dimensioni.
138. Gillon: Mondo senza sonno.
139. Herbert: Gli occhi di Heinsenberg.
140. Moore-Davidson: Joyleg.
141. Kornbluth: Gli idioti in marcia.
142. Livingston: L'Emozionometro.
143. Delany: Babel-17.
144. Zelazny: Io, l'immortale (esaurito).
145. Heinlein: I miei mondi.
146. Pratt-De Camp: Le dimensioni del sogno.
147. Delany: Einstein Perduto.
148. Zelazny: Signore dei sogni.
149. Clifton-Riley: La macchina dell'eternità.
150. Prosperi: Autocrisi.
151. Young: Trenta giorni aveva settembre.
152. Dick: Il cacciatore di androidi.
153. Anderson: Tre cuori e tre leoni (esaurito).
154. Smith: L'uomo che regalò la terra.
155. Montanari: Nel nome dell'uomo.
156. Heinlein: Rivolta 2.100 (esaurito).
157. Farmer: I cancelli dell'universo.
158. Young: Una coppa piena di stelle.
159. Miglieruolo: Come ladro di notte.
160. Disch: Campo Archimede.
161: Platt: L'asteroide dei paria.
162. Rambelli: Il ministero della felicità.
163. Moorcock: Il veliero dei ghiacci.
164. Gunn: Tempo di streghe.
165. Fanta-Italia: Sedici mappe del nostro futuro.
166. Dick: I nostri amici di Frolix 8.
167. Herbert: Stella innamorata.
168. Cat ani: L'eternità e i mostri.
169. Koontz: La sinfonia delle tenebre.
170. Disch: Thomas l'incredulo.
171. Harness: Ritornello.
172. Moorcock: Il corridoio nero.
173. Nourse: Psi-High e gli altri.
174. Curtoni: Dove stiamo volando.
175. Dick: Ubik, mio signore (esaurito).
176. Lauder: Il nostro uomo per Ganimede.
177. Margroff-Anthony: Quel caro bruco ereditario.
178. Lovecraft e altri: Chi di vampiro ferisce…
179. Franke: La psicorete.
180. Compton: Synthajoy.
181. Vance: Le avventure di Magnus Ridolph.
182. Prosperi: Seppelliamo Re John.
183. Disch: 102 bombe H.
184. Brunner: Sotto il segno di Marte (esaurito).
185. McCaffrey: La nave che cantava.
186. Laumer: Il giorno prima dell'eternità.
187. Conrad: Macchine dell'estasi.
188. Franke: Bare di cristallo.
189. Panshin: Mondo in maschera.
190. Versins: Fanciullo per lo spazio.
191. Montanari: Sepoltura.
192. Bunck: Moderan.
193. O'Donnel: Grande incubo.
194. Bunch: Ritorno a Moderan.
195. Siegel: Agente dell'entropia.
196. Moskowitz: Zero umano.
197. Kurland: Unicorno scomparso.
198. O'Donnel: Nuove apocalissi.
199. Geston: Signori della nave.
200. Laumer: Retief.
201. Geston: Bocca del drago.
202. Roberts: Volti del futuro.
203. Cooper: Anni della furia.
204. Goulart: Ingoiatore di spade.
205. F. Brown ed altri: Vieni e Impazzisci.
206. Geston: La stella del giorno.
207. Finney: Storia del tempo.
208. Laumer: La guerra di Retief.
209. Compton: Marte, colore di sangue.
210. Russel ed altri: L'uomo che fu dimenticato.
211. Spinrad: Cristalli di futuro.
212. Disch: Umanità al guinzaglio.
213. Laumer: Retief c i signori della guerra.
214. Goulart: Dopo la catastrofe.
215. Schmitz: Il gioco del leone.
216. Lafferty: Cantata spaziale.
217. James ed altri: I mostri in soffitta.
218. Compton: I missionari.
219. Snyder: L'ultimo testamento.
220. Knight: I mondi dell'abisso.
221. Sturgeon ed altri: Oltre le tenebre.
222. Lafferty: Le scogliere della terra.
223. Sturgeon ed altri: Maturità, L. 1.000.
Questo ennesimo appuntamento con T. Sturgeon, rappresentato stavolta da
un romanzo breve fra i più celebri e più poetici della sua intera produzione
(Maturity, 1947), riconferma la nostra volontà di scavare fra i capolavori
inediti in Italia. La strana vicenda di Robin English, superuomo quasi
fortuito, ci presenta uno Sturgeon deciso a definire alcuni suoi personali
concetti sulla maturità umana e più che mai padrone di uno stile
ineguagliabile, sempre minuziosamente attento all'intaglio di delicate
psicologie. A fianco di Sturgeon ricompare finalmente un membro della
vecchia guardia italiana, Maurizio Viano, con un racconto lungo (Un Bagno
di Stelle), che lo conferma di nuovo come uno dei nostri autori più validi:
sullo sfondo di una dispotica società matriarcale si snoda la doppia presa di
coscienza di un uomo e di una donna, uniti dal matrimonio ma separati da
diverse classi culturali, permettendo all'autore di stendere un'amara
parabola, futura ma non troppo.
Accanto a Viano compaiono altri due italiani. Mauro Miglieruolo
(L'Agenzia Riparatorti) e Livio Horrakh (Tutto l'Acido dell'Impero); due
racconti diversi per tema e struttura narrativa, ma accomunati dalla chiave
personalissima del risultato stilistico, sia che si parli di 'difetti' italiani o si
'esperienze' americane.
224. Rogoz: Pianeta Morphy, L. 1.000.
Morphy, Capablanca, Petrosian, Fischer… ogni buon appassionato di
scacchi che conosca questi nomi illustri e il loro apporto personale al gioco
magico non potrà fare a meno di trovare affascinante questo romanzo, così
come ogni buon lettore di fantascienza che rispedi gli clementi più puri del
genere non potrà evitare la stessa impressione.
Dav Bogar è un ragazzo nato nello spazio, costretto a vivere tutta la sua
giovinezza su astronavi o in spazioporti sempre diversi, ma é anche un
formidabile giocatore di scacchi, forse il più grande mai esistilo; nessuno
può sconfiggerlo, e questa invincibilità conduce lentamente il giovane a
dubitare persino della propria umanità. Per lui, gli scacchi non sono
semplicemente un gioco, e il confronto con un'abilità superiore o almeno
pari alla sua diventa l'unico mezzo per verificare le ragioni della sua
esistenza. Ma dove trovare un simile avversario, se non nelle viscere del
leggendario pianeta Morphy, il mondo che ospiterebbe l'ultima creazione
scacchistica del più grande giocatore esistito? Adrian Rogoz, autore,
curatore e scacchista rumeno, ha davvero scritto un romanzo che forse per
la prima volta unisce in modo completo e stupefacente la fantascienza più
classica al gioco degli scacchi, rivelando una fantasia e una maturità degni
di vera ammirazione.
225. Hamilton: La valle degli dei, L. 1.000.
Edmond Hamilton é giustamente considerato uno dei nomi più popolari
della fantascienza americana e un autore che ha collaborato attivamente alla
creazione dei modelli più classici di space opera, ma qui vogliamo
ricordarlo con due esempi piuttosto particolari della sua produzione che ha
coperto quasi mezzo secolo: abbiamo scelto infatti due lunghi racconti di
heroic fantasy ancora inediti, per osservare Hamilton in un contesto
insolito. Il punto di avvio quasi comune — due individui che per vie
traverse si trovano ad indossare i panni di due antiche divinità, il nordico
Tyr dalla Spada e il maya Kukulcan - segue in entrambi i casi un'evoluzione
parallela che trasporta le due storie sulla linea di confine fra fantasy e
fantascienza propriamente detta, ottenendo il risultato di una narrazione
singolare e avvincente. Per i fans di Robert Bloch è presente anche un
inedito orrorifico (Return to the Sabbath), dove il magistrale autore di
Psyco spiega come possano andare le cose sul set di un film del terrore
quando il primo attore è troppo pratico del mestiere… mentre per quanto
riguarda la parte critica questo volume riserva una sorpresa che speriamo
gradita.
226. Heinlein: Il mestiere dell'avvoltoio, L. 1.000.
Questo celeberrimo romanzo di Heinlein apparso per la prima volta in Italia
più di dodici anni fa sulle pagine di questa stessi collana, in un fascicolo da
tempo ormai e saurito, inaugura doverosamente le ristampe che Galassia ha
deciso finalmente di distillare per i suoi lettori. Perché la scelta di Il
Mestiere dell'Avvoltoio per tagliare il nastro augurale? Il motivo è
abbastanza semplice: nella vasta produzione di Heinlein questo romanzo
occupa un posto a parte, situandosi a mezza strada fra la fantascienza e
l'horror con una vena di fantasy, senza dimenticare alcuni moduli classici
del romanzo poliziesco. Pubblicato su Unknown nel 1942, Il Mestiere
dell'Avvoltoio è davvero uno dei romanzi 'magici' di Heinlein, dove l'autore
sembra districarsi finalmente da certe preoccupazioni ideologiche per
concentrarsi nella costruzione di un romanzo magistrale ed elegante
caratterizzato da una fantasia a dir poco infernale, e che non risente affatto
dei suoi trentacinque anni di età. È l'unico romanzo di Heinlein. anzi, il cui
inizio é ormai considerato un classico a parte: perché Jonathan Hoag si
ritrova sempre una patina marrone sotto le unghie? E perché egli crede che
si tratti di sangue? Soltanto Heinlein, forse, poteva rispondere in modo cosi
sorprendente ad entrambi questi interrogativi.
227. Merritt: Striscia, Ombra, L. 1.000.
Ormai, l'opera di A. Merritt incomincia ad essere abbastanza nota anche in
Italia, e la propensione di questo autore per le storie fantasy-horror
ambientate in un contesto urbano moderno è già stala riconosciuta come
un'importante anticipazione dell'attuale filone orrorifico americano. Chi
conosce già l'ambiente ed i personaggi del celebre Brucia, strega, brucia
(1932), ritroverà in questo romanzo alcuni nomi e ricordi destinati a
renderne ancor più stimolante l'intreccio, ma si accorgerà al tempo stesso
che la penna di Merritt, in questa storia, ha saputo spingersi in una
dimensione diversa. Quattro suicidi misteriosi, apparentemente provocati
dalla presenza di 'ombre', spettrali làmie sussurranti, sono sufficienti a
destare l'interesse di un giovane antropologo. Alan Caranac, e a spingerlo
ad accettare un pericoloso gioco investigativo sul conto di due enigmatici
personaggi che sembrano tolti di peso da leggende bretoni antiche di
millenni, il Dr. De Keradel e la sua affascinante figlia Dahut. Ma la
memoria di Alan conserva altri segreti, oltre a quelli appresi fra maghi e
stregoni di tutto il mondo: perché un antenato della sua stirpe aveva già
conosciuto e ostacolato la splendida Dahut, Regina delle Ombre nella
perduta Città di Ys, lottando per abbattere l'abominevole adorazione per
Colui Che Raccoglie nel Tumulo… Non sarà comunque esagerato
affermare che. nell'ultimo romanzo da lui scritto. Merritt dimostra di essersi
conquistato a ragione il titolo di 'Lord of Fantasy'.
228. Horrakh: Grattanuvole, L. 1.000.
Il nome di questo giovane autore italiano é già noto nel campo della
fantascienza, grazie ad un buon numero di racconti apparsi in maggior parte
su questa collana: in tutte le sue opere precedenti Horrakh ha rivelato un
interesse sempre vivo per gli spunti inusitati e per una ricerca linguistica
volta a rendere in chiave personale e originale una visione dell'uomo
estrema mente lirica.
Nel suo primo tentativo con il romanzo. Horrakh ci presenta un'opera di
ampio respiro e di sorprendente maturità: sullo sfondo di una Terra futura
alle soglie del terzo millennio si levano gli ultimi resti della civiltà
tecnologica, le novelle torri di Babele che da quasi mille anni ospitano
l'estrema discendenza di una razza che ha scelto la via del genocidio per
consentire a pochi eletti la possibilità di guardare al futuro. Ma le poche
centinaia di giganteschi Grattanuvole sparsi su un mondo ormai
irrimediabilmente mutato incominciano a rivelare anch'essi, dopo dieci
secoli, la loro fragilità agli attacchi di un pianeta divenuto insofferente
verso la presenza dell'uomo. Tuttavia, se la leggenda della mitica Casa
dell'Uomo, nebuloso miraggio fiabesco che offre una misteriosa alternativa
alle paure dell'Anno Tremila, si rivelasse fondata, in qualche uomo potrebbe
riaccendersi la volontà di sognare e lotta re…
229. Lundwall: King Kong Blues, L, 1.000.
Le previsioni per il nostro futuro prossimo, in fantascienza, sono raramente
improntate a ottimismo e fiduciosa aspettazione; moltissimi autori
americani e inglesi hanno tentato di anticipare in un modo o nell'altro gli
anni e le catastrofi che ci a-spettano… e cosi pure hanno fatto diversi autori
europei. Sam Lundwall è infatti svedese, ma il suo nome è notissimo anche
ai lettori di lingua inglese, grazie a diversi romanzi e a un testo critico ben
documentato (SF: What it's All About, ACE 1971) apparsi negli Stati Uniti.
Nell'opera che proponiamo, comunque, Lundwall si è fatto un punto
d'onore di restare con i piedi ben radicati agli elementi di una realtà che
conosce molto bene, quella del suo paese, utilizzando inoltre stimoli
ambientali che fanno ormai parte di un patrimonio comune; ci sono quindi
religioni promozionali, inquinamenti, principi arabi che vogliono dominare
il mondo, movimenti rivoluzionari in lotta contro i computer governativi,
sovrappopolazione e iper-erotismo, nonché una miriade di nemici sublimali,
il tutto amalgamato da una prosa mordente che raramente manca un
bersaglio. Ma perchè King Kong Blues? Perchè dal suo romanzo (subito
inseritosi nella lista dei best-seller svedesi) Lundwall ha composto e inciso
un LP omonimo, che ora spettiamo di vedere giungere anche sul mercato
discografico italiano…
230. Del Rey: L'undicesimo comandamento, L. 1.000.
Che Lester Del Rey sia sempre stato un autore affascinato dai temi religiosi
è cosa risaputa, grazie ai numerosi racconti e romanzi brevi di questo
genere apparsi parzialmente anche nel nostro paese. La gemma di tale
produzione è senza dubbio que sto Undicesimo comandamento, che
presentiamo come seconda ristampa di Galassia. Nell'anno 2190, la Terra
sta ancora cercando di riprendersi a fatica dagli orrori di una guerra
nucleare scatenata incidentalmente, e quest'opera di ricostruzione è guidata
e controllata da una Chiesa scismatica americana: questa è la situazione che
un colono marziano, Boyd Jensen, si trova ad affrontare quando scende sul
nostro pianeta in virtù di un ipotetico programma di 'scambi culturali'.
L'umanità appare soffocata dall'oppressivo condizionamento religioso che
investe ogni campo, da quello politico a quello scientifico, all'insegna
dell'Undicesimo comandamento che sembrerebbe un retaggio di secoli
altrettanto bui: Crescete e moltiplicatevi. Se questa è la prima impressione,
tuttavia, occorre un certo tempo perchè Jensen si renda conto dei reali
motivi di molte apparenti durezze e incongruenze, e giunga infine a
comprendere il vero segreto della Chiesa Eclettica Americana. Non per
nulla. Del Rey aveva posto come sottotitolo a questa sua splendida opera:
Romanzo di una Chiesa e del suo Mondo.
231. Ellison: Se il cielo brucia, L. 1.000.
Ellison è un autore di cui si parla spesso, ma le sue opere vengono tradotte
in Italia davvero con il contagocce; a parte un pugno di racconti, l'unica
antologia apparsa da noi risale al 1966 (Dolorama e altre delusioni), e da
anni è introvabile. Con la raccolta qui presentata si è cercato dunque di
ampliare la conoscenza di questo discusso autore attraverso dieci racconti
inediti e un certo numero di brani sciolti — idee o inizi di racconti — che
Ellison stesso ha riunito nella sua Introduzione. È alquanto difficile parlare
qui diffusamente dei singoli testi dell'antologia, anche perchè i temi trattati
vanno dall'horror (Tempo dell'occhio) alla satira ("Piangiamo per tutti" e La
voce nel giardino), dal soggetto 'spaziale' (Se il cielo brucia e Mio fratello
Paulie) all'impegno antirazzista (Battaglia senza bandiere) e antimilitarista
(Soldato, l'opera certo più incisiva), ma si può commentare che tutti questi
racconti contribuiscono a chiarire alcuni dei motivi nascosti dietro la
violenta aggressività di un autore la cui produzione rappresenta ancora oggi
un fatto singolare sul mercato americano.
232. Coney: Certi strani amici, L. 1.000.
Nel corso del XXI Secolo il problema della sovrappopolazione vien risolto
dai governi di tutto il mondo con un colpo davvero maestro; non appena
ogni cittadino raggiunge l'età di quarantanni, il suo cervello viene rimosso e
trasferito nel cranio adattato di un bambino di sei mesi, per ricominciare da
capo un nuovo ciclo vitale di quaranta primavere. Con la prospettiva di tale
surrogato d'immortalità, è comprensibile come ogni cittadino 'rispettabile'
abbia interesse a non compiere anche il minimo gesto criminale… perché
ciò vorrebbe dire la perdita del suo diritto al Trasferimento. Inoltre, ha tutto
l'interesse ad aspettare con calma, magari per anni, nell'apposito contenitore
che ormai tutti chiamano Scatola dell'Amicizia, il suo turno per l'inizio di
una nuova vita… perché i bambini disponibili, con la nuova legge sul
Trasferimento Obbligatorio, sono in numero sempre minore, e i corpi degli
androidi non vanno a genio a tutti. Vi sono poi alcuni irresponsabili che non
denunciano la nascita della rispettiva prole, e questo complica ulteriormente
le cose; per non parlare poi del Mestiere Preferito, che consente un
Trasferimento immediato, e della scarsa volontà dei cittadini rinati ad
occuparsi degli Amici forzatamente racchiusi nelle loro scatole. Ma come
può reggersi — e andare a finire — un cosi crudele gioco delle parti? Con
l'estinzione del genere umano? O con un radicale mutamento della
situazione?
233. Zuddas: Amazon, L. 1.000.
Diecimila anni or sono, come é ben noto, il bacino dei Mediterraneo si
riduceva all'enorme lago conosciuto come Mare Interno, e sulle sue coste -
nonché sulle sue numerose isole - la fauna umana presentava alcune
differenze rispetto a quella che oggi calpesta le dorate spiagge. Nell'isola di
Kos, per fare un esempio, il dominio del sommo Argone (che predilige gli
Uomini Cavallo) é subordinato al potere dei Preti del Gelo, creature capaci
di scatenare tempeste grazie alla loro forza mentale, mentre in quel di
Coralyne la crudele Diaconessa Lugunda imbandisce silenziosi Banchetti
dei Profumi, e nel Palazzo di Nedda alcuni Sacerdoti di Marduk cercano di
comprendere lo strano funzionamento di un gruppo di antichissimi gong
che hanno la facoltà di trasportare in luoghi lontanissimi chiunque capiti fra
le loro vibrazioni… Aggiungiamo che fra questo gong vengono a trovarsi
due bellicose Amazzoni impegnate in una missione di spionaggio, Ombra di
Lancia e Goccia di Fiamma, e a questo punto non resterà altro da fare che
godersi le loro avventure nel gustosissimo mondo sword and sorcery che la
sbrigliata fantasia di Gianluigi Zuddas ha saputo creare, a mezza strada fra
gli esempi di certi illustri precedenti angloamericani e una vena personale di
salutare (e ironica) dissacrazione.
234. Sturgeon: A doppio taglio, L. 1.000.
Theodore Sturgeon e Fritz Leiber sono due autori che ritornano spesso, in
questi ultimi tempi, sulle pagine delle collane della CELT, e non potevano
mancare a questo appuntamento: il primo con un romanzo breve inedito.
Un piede e la tomba, e il secondo con un racconto, Ai raggi X. Fra horror e
fantascienza, sulla scia di Sturgeon e Leiber, segue poi Daniele Ganapini
(con lo splendido Cassandra senza Egisto). Più propensi al gioco
schiettamente fantascientifico, annoveriamo in questa antologia gli altri
inediti di Charles Harness (con la crudele beffa di L'avvelenatore), Algis
Budrys (e il desolato ritratto di superuomo di Homo nondescriptus), Lino
Aldani e Maurizio Viano (che lavorando a quattro mani compongono il
delicato quadro di Gesti lontani), Gianluigi Pilu (che ritorna con
l'affascinante enigma di Gioco di specchi), e Jean-Pierre Fontana (con la
crudele satira 'medica' di Ora ti apro, amore mio!). Se dunque il Primo
Taglio può accontentare coloro che si ritengono più legati al lato 'oscuro'
della fantascienza, il Secondo non mancherà di soddisfare gli adepti del lato
'speculativo'.
235. Dick: Giù nella cattedrale, L. 2.000.
In quest'opera del 1969 che costituisce l'ultimo romanzo di questo autore
ancora inedito in Italia, Philip Dick fornisce un'ennesima prova delle qualità
che lo hanno reso uno dei massimi autori della fantascienza mondiale. Joe
Fernwrìght è l'ultimo riparatore di vasi della Terra, in un futuro dove ormai
le ceramiche, le terracotte e le porcellane costituiscono soltanto dei pezzi da
museo, ma un'inaspettata offerta di lavoro gli permette di uscire dai suoi
soliti guai per infilarsi in un'impresa che promette una favolosa ricompensa
oppure guai ancora maggiori. Assoldato insieme a molti altri esperti scelti
in tutta la galassia da una misteriosa creatura chiamata Glimmung, Joe deve
recarsi sul Pianeta del Contadino per collaborare al recupero della mitica
Cattedrale di Heldscalla inabissata da millenni sul fondo del Mare Nostrum.
L'impresa si annuncia non solo ardua ma sconcertante, specialmente dopo
che Joe incontra nelle acque del Mare Nostrum il proprio cadavere che lo
mette in guardia contro i Doppi Neri del Glimmung e della Cattedrale…
Il volume é completato da un'intervista all'autore e dalla consueta bio-
bibliografìa italiana integrale, nonché da un'intervista a Lester Del Rey.
236. Piper: Torna il piccolo popolo, L. 2.000.
Zarathustra, lo sappiamo bene, era un pianeta molto tranquillo prima che
arrivassero gli uomini e le loro macchine. Ospitava una flora commestibile
e alcune razze di creature capacissime di sbrigare da sole le loro faccende.
Ma con l'arrivo degli uomini si scopre che una di queste razze, battezzata
Tuttopelo per la morbidissima pelliccia, può servire magnificamente per
l'industria della moda terrestre; si scopre anche che il sottosuolo di
Zarathustra é ricco di preziosissime pietre-sole. L'unico ostacolo, a questo
punto, lo offrono proprio alcuni uomini che sono convinti dell'intelligenza
dei piccoli e graziosi Tuttopelo, e che lottano affinché essa venga
riconosciuta. Fin qui la storia ormai nota, apparsa in Italia nel 1962 sulle
pagine di Urania, ma che cosa è successo dopo che i Tuttopelo sì sono visti
riconoscere la proprietà dell'intero pianeta? Sono successe alcune cose
strane, come l'insorgere di una misteriosa mutazione che minaccia di
sterminare i Tuttopelo, o la scomparsa di alcuni di loro per scopi altrettanto
misteriosi, senza contare poi i soliti intrallazzi di troppi umani interessati
allo sfruttamento magari indiretto di Zarathustra e dei suoi indigeni…
237. Compton: E scese la morte, L. 2.000.
L'anno é il 1979. Le superpotenze ai dedicano ad un macabro minuetto
dove lo spionaggio e la politica occhieggiano beffardi su una Terra
sovrappopolata, ma ecco che qualcosa sembra minacciare questo snervante
e inconcludente gioco di posizioni. È l'M.V.P., un morbo sconosciuto che
nel giro di pochi anni ha mietuto milioni di vittime dietro ogni confine:
all'est come all'ovest l'ombra della violenza di massa sfocia già in aperte
dimostrazioni dinanzi all'impotenza dei governi e della scienza contro
questo flagello che non risparmia nessuna latitudine. Eppure, esistono
luoghi isolati dove gli abitanti sembrano immuni dal male; una base aerea
americana in Inghilterrra è uno di questi, ma si tratta di un caso fortuito? O
non è piuttosto la dimostrazione che una volta di più l'uomo ha voluto dare
una mano al corso naturale della morte, spingendolo nell'atroce direzione
che maggiormente gli conveniva? Il dubbio serpeggia già nelle menti più
aperte di alcuni privilegiati militari. Un dubbio scomodo, certo, perchè
comporta una sola e spaventosa conclusione.
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