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TEORIA E STORIA DELLA TRADUZIONE

GEORGE MOUNIN

PARTE TERZA: PROBLEMI MODERNI

1. Linguistica e traduzione
Fino a questi ultimi anni la linguistica non si era mai occupata della traduzione in quanto operazione
linguistica. Fu con le prime ricerche sulla traduzione automatica che si creò bruscamente la necessi-
tà di considerare la traduzione dal punto di vista della linguistica.
I veri promotori di queste ricerche si accorsero ben presto che il punto debole dei loro piani era
l’analisi linguistica dei processi di traduzione.
In materia di linguistica generale della traduzione pochi linguisti hanno superato il livello delle con-
siderazioni generali. Nel 1959 Roman Jakobson richiama l’attenzione sul fatto che la linguistica non
esisterebbe senza la traduzione, e che nessun campione linguistico può essere interpretato senza ri-
correre in modo implicito o esplicito alla traduzione.
Tre traduttori hanno sollevato una nuovo problema: stabilire se la traduzione debba essere conside-
rata un’operazione che rientra nei confini dell’analisi linguistica.
Nella sua Stylistique comparée du français et de l’anglais, J.P. Vinay chiede che la traduzione sia
considerata come un soggetto di studio radicalmente legato alla linguistica. Ma si tratta ancora sol-
tanto di una timida rivendicazione.
Fedorov invece, a partire dal 1953, difende la necessità di creare una teoria scientifica della tradu-
zione basata soprattutto sulla linguistica, ed espone le sue ragioni:
- La traduzione è un’attività particolare che occupa un posto sempre più importante come mezzo di
cultura e di relazione. Quindi è naturale che un’attività di così notevole importanza abbia una base
teorica
- Una teoria della traduzione dovrebbe essere la generalizzazione delle osservazioni compiute su
traduzioni particolari; ma una volta stabilita, questa teoria dovrebbe escludere qualsiasi soluzione
arbitraria, qualsiasi intuizione
- Come tutti i fenomeni, la traduzione è un fatto che può essere studiato da molti punti di vista:
quello storico, letterario, linguistico, psicologico, ecc. Ma una teoria della traduzione deve fondarsi
sullo studio linguistico dei problemi, perché qualsiasi fatti di traduzione implica anzitutto un fatto fi
lingua. Il punto di vista linguistico dell’analisi della traduzione non esclude gli altri, ma li precede e
li condiziona
- Se l’impostazione linguistica dell’indagine non basta a porre né a risolvere tutti i problemi della
traduzione, essa fornisce almeno il solo terreno sicuro per la soluzione di questi altri problemi
- Una teoria della traduzione richiede quindi anzitutto che siano risolti, prima di ogni altra cosa, cer-
ti problemi linguistici, fondamentali per la teoria stessa.
Nel sistema costituito da tutti i rami della linguistica, dice Fedorov in sostanza, la teoria della tradu-
zione si lega da una parte alla linguistica generale e dall’altra alla lessicologia, alla grammatica, alla
stilistica e alla storia delle singole lingue date nella loro essenza e sotto tutti i loro aspetti particolari,
fra cui anche l’aspetto fonetico. Per lui, ciò che distingue la teoria della traduzione da tutte le disci-
pline linguistiche sopra citate, è l’attitudine per cui si considerano i fatti non sul piano di una sola
lingua ma su quello di due lingue date. Ma, fra tutte queste discipline linguistiche, la teoria della
traduzione deve avere relazioni ancora più intime con la stilistica.
Per Cary, la traduzione non è un’operazione linguistica, ma un’operazione sui generis, impossibile a
definirsi in altro modo che per se stessa, irriducibile a qualunque altro campo scientifico. La tradu-
zione letteraria non è un’operazione linguistica: è un’attività letteraria. La traduzione poetica non è
un’attività linguistica: è un’attività poetica.
Per tradurre le parole di una poesia bisogna essere poeti e per tradurre un’opera teatrale bisogna es-
sere scrittori di teatro (altrimenti si traduce il senso linguistico del teatro ma se ne perdono gli effetti
teatrali. Per essere interpreti, aggiunge infine Cary, ci vuole ben altro che la conoscenza linguistica

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di una lingua straniera: bisogna essere psicologi e diplomatici, oratori, uomini di teatro e mimi e co-
sì via.
Pare che Fedorov abbia ragione: la traduzione non è mai un’operazione unicamente né totalmente
linguistica, ma è prima di tutto e sempre un’operazione linguistica.

2. Traduzione e significato
Per millenni i traduttori hanno urtato contro difficoltà che riguardavano il senso delle parole da tra-
durre: pur vedendo chiaramente che non era quasi mai possibile tradurre parola per parola, non ne
capivano la ragione complessiva. I loro problemi, tuttavia (fatta eccezione forse per uno solo, quello
dell’espressività delle parole), trovavano sempre una soluzione soddisfacente:
- L’oggetto denominato nella lingua originale non esisteva nella comunità che parlava la lingua del
traduttore. Soluzione: introdurre in tale lingua la parola straniera sia sotto forma di imprestito sia
sotto forma di calco, accompagnandola con una nota esplicativa (la quale diveniva ben presto inuti-
le mano a mano che la nuova nozione si diffondeva in questa lingua o che il nuovo oggetto veniva
introdotto nell’uso insieme al vocabolo nuovo).
- Se accadeva invece, per certe opere esotiche, che il numero degli imprestiti e dei calchi fosse esa-
gerato, i traduttori ricorrevano sempre alla soluzione per cui si trasportava nella nuova lingua il sen-
so senza introdurre in essa la parola: ciò consisteva nel descrivere in nota (o addirittura nel definire)
l’oggetto o la nozione designati dalla parola nella lingua originale. E questo ogni volta che il conte-
sto della frase non rappresentava già da solo una descrizione o una definizione sufficienti.
- Di tutt’altra natura è, invece, il problema dei trasfert di significato, tanto dibattuto dai traduttori e
considerato come la grande difficoltà del lavoro di traduzione (per cui spesso si finiva per conclude-
re che è impossibile tradurre): è il problema dell’espressività delle parole, o almeno di certe parole.

Ferdinand de Saussure. Il modo ed il perché dei significati delle parole è un vecchio problema fi-
losofico che ha percorso nella storia un cammino molto lungo. Saussure lo riprende come un pro-
blema centrale, mettendo prima di tutto in luce la concezione tradizionale che aveva dato per sottin-
tesa, fino a quel momento, la nozione di significato.
Concezione tradizionale: teoria per cui l’insieme delle parole di una lingua è una specie di “nomen-
clatura”, cioè una lista costituita meccanicamente attribuendo un nome ad ogni cosa nell’inventario
di tutto ciò che compone il mondo materiale o psicologico.
Secondo questa ingenua concezione, le cose e i concetti sono già dati in precedenza e non esiste un
problema di significato che non sia solubile.
Saussure dimostra invece che il rapporto di significazione che unisce la cosa o il concetto (non lin-
guistici) alla parola non è così semplice e pone in evidenza il fatto che la denominazione delle cose
e dei concetti non ubbidisce a leggi universali.
Esempio: il termine francese mouton ha un unico segno per due nozioni (animale e carne)
il termine inglese si serve di due segni per due nozioni (sheep - animale, mutton - carne)
Questo genere di fatti prova, secondo Saussure, che ogni parola fa parte di un sistema e non di una
nomenclatura in cui sarebbe un’unità isolata, un’etichetta ben definita posta su di una cosa definita
in eterno.
Se si affidasse alle parole il compito di rappresentare concetti già dati, ciascuna di esse avrebbe, da
una lingua all’altra, i suoi corrispondenti esatti per quanto riguarda il senso - dice Saussure.
Ogni civiltà divide il mondo in oggetti secondo i propri bisogni: dato che alleviamo ancora qualche
cavallo, diciamo cavallo, giumenta, puledro, puledra, stallone, ecc., termini che indicano sei oggetti
“non linguistici” per noi distinti. Ma poiché non alleviamo rondini, tutte le rondini per noi sono
semplicemente rondini.
Saussure apre così il ciclo dei grandi dibattiti della linguistica moderna sul problema del senso delle
parole. La sua analisi mostrava che le difficoltà poste dalla traduzione dipendevano dalla descrizio-
ne di tutta una civiltà, di cui una lingua è l’espressione.
Egli giustificava tuttavia le soluzioni empiriche dei traduttori: l’imprestito, che i puristi rimprovera-
vano ai traduttori come una corruzione di una lingua da parte di un’altra, era a parer suo il mezzo

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legittimo, corretto e pienamente soddisfacente (come anche il calco), ogniqualvolta si doveva intro-
durre, appunto, una nozione estranea alla lingua in cui si traduceva.
Condannava però la traduzione parola per parola per ragioni epistemologiche: la traduzione parola
per parola è impossibile perché ogni gruppo sociale fa l’inventario delle cose del mondo in modo
diverso, e le nomenclature particolari di questi inventari non possono quindi corrispondere a pieno
fra loro, termine per termine.

Louis Hjelmslev. Con questo grande linguista danese ci troviamo di fronte ad una critica della no-
zione di significato condotta in modo più radicale e da un punto di vista linguistico.
Prendendo spunto dalle idee di Saussure, Hjelmslev attacca vivacemente la concezione secondo la
quale “un segno è prima di tutto e anzitutto un segno di qualche cosa”. Il segno linguistico non è
qualcosa che indichi a dito un contenuto esteriore al linguaggio, ma è al contrario un’entità generata
dalla relazione fra un’espressione e un contenuto.
Se non per tutta la lingua nel suo complesso, almeno per alcune delle sue parti il traduttore non è
mai sicuro che l’analisi della realtà di cui parla una data lingua corrisponda esattamente all’analisi
della realtà congeniale alla lingua da lui usata nella sua traduzione.

Leonard Bloomfield. Bloomfield cerca di analizzare il linguaggio in funzione del behaviorismo,


cioè attraverso una pura descrizione del comportamento del parlante e dell’ascoltatore. “Nella divi-
sione scientifica del lavoro - spiega - il linguista si occupa unicamente dei segnali linguistici. Non
ha la competenza per occuparsi di problemi di fisiologia o di psicologia”.
Il behaviorismo gli forniva come base il comportamento elementare di due essere che entravano in
comunicazione linguistica tra loro. Secondo Boomfield:
- Il significato di una forma linguistica è la situazione in cui l’enuncia il parlante e la risposta che
essa ottiene dall’ascoltatore
- il significato di un’enunciazione per un parlante o per un ascoltatore non è niente di più che il ri-
sultato delle situazioni in cui questi ha concepito tale forma.
Questa definizione di significato di un’enunciazione è assolutamente corretta sul piano dello studio
oggettivo del linguaggio, ma sconvolge completamente la nozione di senso, a) perché non ci sono
mai due situazioni esattamente uguali, b) perché, per poter definire esattamente il senso
dell’enunciato, la situazione deve essere corredata da “una conoscenza scientificamente stabilita di
tutto quello che c’è nel mondo del parlante” e in quello dell’uditore nel momento in cui l’enunciato
è espresso. Ne consegue che la conoscenza esatta dei significanti degli enunciati linguistici impli-
cherebbe l’onniscienza.
Presa così alla lettera, la teoria bloomfieldiana giungerebbe dunque a negare qualsiasi possibilità di
traduzione, per l’impossibilità di accedere al senso completo degli enunciati. Bloomfield ha perciò
corretto la sua intransigenza teorica con degli accomodamenti pratici:
1) nella comunicazione delle situazioni vi sono aspetti che non hanno alcuna importanza dal punto
di vista semantico (della parola mela, l’ascoltatore non ha bisogno di sapere la sua grandezza, il suo
colore, ecc.). Il linguaggio traduce infatti, di una situazione, solo la parte utile alla comunicazione
2) per vasti settori della nostra esperienza delle situazioni, “possiamo definire con esattezza il signi-
ficato di una forma linguistica quando esso si riferisce a qualcosa di cui si possieda una conoscenza
scientifica (possiamo definire i minerali in termini di chimica o mineralogia, per es. sale è cloruro di
sodio)
3) in molti altri casi il parlante e l’ascoltatore s’intendono sul significato che essi danno agli enun-
ciati, sia per definizione deittica (dimostrazione), sia per definizione linguistica (circonlocuzione1) o
anche per definizione bilingue (traduzione).

3. Semantica e “visioni del mondo”


Wilhelm von Humboldt (1767-1835). Il pensiero di Humboldt conteneva idee come:
- la lingua, strumento della comunicazione, è anche lo strumento grazie al quale, a partire dalle pri-
me nozioni acquisite nell’infanzia, l’uomo crea letteralmente il suo modo di guardare;
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Giro di parole usato per esprimere un concetto che potrebbe essere espresso più sinteticamente. SIN: Perifrasi
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- la visione del mondo di ogni uomo è in un certo qual modo predeterminata dalla sua lingua.

Edward Sapir. Sapir aveva saputo formulare le tesi humboldtiane con ben maggiore chiarezza del-
lo stesso Humboldt:
- il linguaggio e le nostre abitudini di pensiero sono uniti fra loro in modo inestricabile
- gli esseri umani sono per gran parte alla mercé di quella particolare lingua che è divenuta il mezzo
di espressione della loro società.
Gran parte del mondo reale è modellata inconsciamente secondo le abitudini linguistiche del grup-
po. Noi infatti vediamo e sentiamo o facciamo l’esperienza del mondo in questo o quel modo guida-
ti quasi esclusivamente dalle abitudini linguistiche della nostra comunità, che ci predispongono a
certe scelte nella nostra interpretazione.

Benjamin Lee Whorf. Whorf ha di nuovo formulato minuziosamente la tesi humboldtiana. Secon-
do lo studioso, è il nostro linguaggio a fornirci la forma dell’esperienza che pensiamo di avere del
mondo. La riduzione del mondo in cose e in processi separati è determinata unicamente dalla nostra
grammatica. Per lui, i fatti sono diversi per ogni parlante perché i suoi strumenti linguistici gli forni-
scono modi diversi di esprimerli.
Whorf ha contribuito in modo sistematico e con esempi tangibili a dimostrare che gli uomini, pro-
babilmente, non vedono sempre il mondo nello stesso modo (e quindi non ne concepiscono sempre
la stessa rappresentazione).

Jost Trier. Ricorrendo all’esempio della denominazione dei colori in greco, il tedesco Leo Wei-
sgerber ha mostrato come la “visione del mondo” riflessa da una lingua trovi difficilmente il suo
corrispettivo in un’altra.
Ipsen, Jolles e soprattutto Jost Trier hanno creato la nozione di campo semantico.
Trier ha messo in evidenza che le parole di un campo semantico costituiscono una specie di mosai-
co che ricopre il campo del concreto. Così la nozione di cavallo si riferisce sempre a un medesimo
oggetto, cioè a un animale ben definito e ben noto nel mondo degli oggetti. Ma per il bambino que-
sto campo concettuale è ricoperto da un mosaico fatto da una sola componente; il termine cavallo.
Per un adulto, invece, la stessa superficie è suddivisa in un mosaico di sei termini: cavallo, cavalla,
puledro, ecc. Per l’allevatore compaiono nel mosaico altre suddivisioni specifiche: sauro, baio, roa-
no, ecc.

4. Etnografia e semantica
Gli etnografi sono giunti a concludere che, pur vivendo nello stesso pianeta, ogni civiltà vive in un
modo diverso a causa della sua diversa cultura. Tale scoperta sembrò di poco conto ai linguisti e an-
cora di più ai traduttori. L’imprestito e il calco servivamo precisamente da ponte per assicurare co-
munque la possibilità di comunicazione sui punti in cui cose e concetti differivano da una lingua
all’altra. La posizione degli etnografi rappresenta una novità in quanto essi hanno dimostrato che
queste difficoltà di comunicazione tra civiltà o culture diverse non sono marginali, ma sono impor-
tanti e costituiscono un ostacolo quasi insormontabile alla comunicazione completa.
Come tradurre, per esempio, “bianco come la neve” in un paese dell’America centrale dove la neve
è totalmente sconosciuta, anche solo per sentito dire?
L’agricoltura può sembrare universale, mentre è piena di tranelli per il traduttore etnografico: tutto
ciò che riguarda la vigna e il grano, infatti, se non è presentato con lunghe spiegazioni, resta incom-
prensibile alle popolazione dell’America centrale, proprio perché non possiedono queste piante.
Secondo Nida, lo studio più utile dei problemi semantici in una lingua qualunque è lo studio etno-
grafico.
Secondo il linguista Léon Dostert, il grado di traducibilità di una qualunque enunciazione in una da-
ta lingua è in rapporto diretto con la somiglianza fra le due culture in questione; più grande è la di-
stanza culturale, maggiore diventa l’intraducibilità di una data enunciazione.

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5. Stilistica e traduzione
Charles Bally. Il Traité de Stylistique française di Bally solleva il problema dell’esistenza di un
“linguaggio affettivo” diverso dal “linguaggio intellettuale”. Egli ha dunque un merito storico: quel-
lo di aver posto per primo i termini esatti di un problema, lasciando ad altri l’impegno di risolverlo.

Edward Sapir. Sapir riconosce l’esistenza di un senso affettivo delle parole, ma esclude dall’analisi
linguistica i problemi che quella constatazione implica.

Leonard Bloomfield. Per Bloomfield i valori affettivi del linguaggio passano in secondo piano: so-
no quelli che giustificano l’impossibilità assoluta di accedere al significato totale di un enunciato.
Linguisticamente parlando, questo significato è rappresentato dall’insieme delle situazioni in cui
l’enunciato è stato utilizzato e inteso da parte di un dato parlante.
Egli chiama denotazione di un termine il minimum dei tratti oggettivi comuni grazie ai quali può
definire tale termine per tutti i parlanti.
Definisce come connotazione di un termine tutti gli altri tratti distintivi del significato che possono
essere o non essere aggiunti alla denotazione, essere o non essere percepiti dall’ascoltatore, essere
voluti o non esserlo nell’atto della comunicazione.
Certi autori americani preferiscono opporre l’uso referenziale dei segni all’uso emotivo, altri i segni
referenziali a quelli evocativi, altri ancora i segni informazionali a quelli non-cognitivi. La maggior
parte di essi ha però adottato l’espressione uso denotativo e uso connotativo.
Qualunque sia il nome con cui li si definisce ed in qualunque settore li si voglia classificare, esisto-
no dei fatti di linguaggio che in un enunciato manifestano l’atteggiamento affettivo del parlante e
talvolta dell’ascoltatore di fronte a quello stesso enunciato.
Al traduttore, le analisi di Bloomfield danno la prova e la ragione di tante difficoltà rimaste miste-
riose, ed in particolare di tutte quelle che rendono la poesia “intraducibile”.

6. Traduzione e comunicazione
Gli elementi del linguaggio, - scrive Sapir, - i simboli che sono per così dire le etichette di quello
che conosciamo, devono essere applicati a gruppi interi, a categorie ben definite dell’esperienza,
piuttosto che ad una sua unica produzione. Solo così è possibile la comunicazione, poiché
l’esperienza resta in fondo alla coscienza individuale ed è incomunicabile nel vero senso del termi-
ne.
Universali linguistici: elementi comuni all’esperienza di tutti gli uomini, con denominazioni equiva-
lenti in tutte le lingue.
Etnografia: descrizione completa dell’intera cultura di una data comunità
Culture: complessi omogenei di attività e di istituzioni con i quali quella comunità si manifesta
L’etnografia ha il compito di descrivere tutte le situazioni e tutti i contesti in cui il traduttore può
aver bisogno per inquadrare gli enunciati che cerca di tradurre.

Vecchia idea sulla traduzione, vigorosamente sostenuta fino all’epoca rinascimentale: per tradurre
non basta conoscere le parole, ma si debbono conoscere anche le cose di cui parla il testo da tradur-
re.
Vecchio principio già vivo in Cicerone, quando contrapponeva la traduzione del significato alla tra-
duzione delle parole; e in Etienne Dolet, quando poneva la conoscenza del senso e dell’argomento
di un testo come la condizione primaria di qualsiasi buona traduzione.

Per tradurre un testo scritto in una lingua straniera, bisogna dunque rispettare due condizioni: cono-
scere la lingua e conoscere la civiltà di cui parla questa lingua (e ciò significa la vita, la cultura,
l’etnografia più completa del popolo di cui questa lingua è il mezzo d’espressione).
Il traduttore non deve accontentarsi di essere un buon linguista, ma deve essere anche un etnografo
eccellente: ciò significa che si esige da lui una conoscenza perfetta non soltanto della lingua che
traduce ma anche del popolo che di quella lingua si serve.

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PARTE QUARTA: LE TRADUZIONI

1. La traduzione religiosa
Probabilmente quello religioso non è il più antico genere di traduzione; la traduzione diplomatica
infatti, per la sua utilità pratica, esiste da almeno quattro millenni. Solo con lo sviluppo delle reli-
gioni universali la traduzione religiosa divenne il più importante genere di traduzione.
La Bibbia ne è certo l’esempio più stupefacente, anche se non l’unico.
67 d.C.  traduzione dei libri buddisti in cinese
I secolo  traduzione dei libri buddisti in sanscrito
Tra VIII e IX secolo  traduzione dei libri buddisti in tibetano
XIII  traduzione dei libri buddisti in mongolo

La traduzione della Bibbia vanta più di 22 secoli di pratica ininterrotta, a partire dalla versione dei
Settanta. L’istituzione della Vulgata come unico testo cattolico autorizzato arrestò per lunghi secoli
la traduzione della Bibbia nei paesi controllati dalla chiesa romana. In compenso, tutte le confessio-
ni protestanti furono e sono tutt’ora instancabili artefici di nuove traduzioni della Sacra Scrittura.
Così la versione tedesca di Lutero (1522-34) ha conosciuto continue revisioni di cui, in particolare,
tre a partire dal 1800 in poi.
Anche la Bibbia calvinista, nata a Ginevra nel 1535, ha conosciuto varie revisioni, e in particolare
quella apparsa nella stessa Ginevra nel 1712. Numerose sono le traduzioni, fra cui la più conosciuta
(in lingua francese) è quella di Segond.
I Paesi Bassi possiedono la loro (1637), la cui versione più recente è del 1951.
L’Inghilterra ha invece la Authorized (King James) Version (1611), periodicamente aggiornata.

La traduzione della Bibbia si è trasformata, nel mondo non-cattolico, in una specie di grande indu-
stria. Nei paesi protestanti esistono delle Società bibliche che traducono e diffondono la Bibbia in
più di 1000 lingue.
Queste traduzioni coprono il 95% della popolazione di tutto il mondo (ma Nida sostiene che restano
ancora 1000 lingue o dialetti nei quali non è mai stata tradotta nessuna parte della Bibbia).

Dopo essere stata, inizialmente, un fermento di progresso in questo campo, la traduzione religiosa
ha rischiato di trasformarsi invece in un freno, poiché il rispetto della parola divina immobilizzava
la tecnica della versione letterale. Ma a partire dal Rinascimento, la traduzione protestante ha finito
per far trionfare il punto di vista contrario, dato che ogni traduzione della Bibbia deve essere fedele
tanto allo spirito quanto alla lettera del testo.
Si legge nell’introduzione della New English Bible: “il nostro compito consisteva nel capire
l’originale nel modo più esatto possibile e quindi dire nella nostra stessa lingua quello che pensa-
vamo avesse espresso nella sua l’autore del testo biblico”. Questa preoccupazione di dare della Sa-
cra Scrittura una traduzione fedele sì, ma intelligibile al lettore di ogni epoca (privo di cultura filo-
logica e teologica) ha condotto il Congresso internazionale dei traduttori della Bibbia, tenuto nei
Paesi Bassi nel 1947, a suggerire che la revisione della Bibbia sia obbligatoria ogni vent’anni, al
massimo ogni cinquanta.

Un altro aspetto notevole delle traduzioni della Bibbia è il carattere spesso collettivo dell’impresa, a
partire dai Settanta fino alla Bibbia di Ginevra, e fino alla Bibbia del re Giacomo, con tutte le revi-
sioni che l’hanno seguita, oppure la Bibbia francese della Scuola biblica francese di Gerusalemme,
alla quale hanno collaborato almeno 50 persone.
Non c’è dubbio che un falso cristiano non potrebbe mai tradurre la Bibbia.

2. La traduzione letteraria
Per la sola massa della sua produzione, la traduzione letteraria occupa quantitativamente il primo
posto fra tutti i generi di traduzione suscettibili di una classificazione statistica.

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Il vecchi problema della traduzione letteraria, già formulato da Cicerone, fu alimentato soprattutto
dal conflitto fra la traduzione sacra della versione letterale e l’abitudine profana del libero adatta-
mento (che fu la regola seguita dal Medioevo fino al secolo XVIII). È l’annoso problema della fe-
deltà opposta alla bellezza, e viceversa.
Quando Cary rinnova la discussione affermando che la traduzione letteraria non è un’operazione
linguistica ma un’operazione letteraria, si limita semplicemente a porre questo nuovo principio cor-
rispondente alle esigenze moderne in materia di traduzione letteraria.
La linguistica moderna permette di rispondere con precisione scientifica a quell’interrogativo fon-
damentale: che cosa, di un testo, si deve tradurre? Cioè...che cosa si deve rendere in un’altra lingua?
La vecchia risposta è che bisogna tradurre il testo, solo il testo e tutto il testo.
Ma solo la linguistica contemporanea sa rispondere a quest’altro interrogativo: in che cosa consiste
tutto il testo? Di che cosa si compone la totalità del messaggio trasmesso da un testo?
La vecchia intuizione di tutti i buoni traduttori aveva già fornito da tempo la risposta: dal contesto.
Il contesto è l’insieme degli indizi che nella totalità di un certo testo ne chiariscono una delle parti.
Se il contesto di una pagina di romanzo è il romanzo stesso, esiste anche un contesto del romanzo,
che è la totalità dell’opera del romanziere. Ecc.
Accanto a quel contesto propriamente linguistico che si dilata già in modo così smisurato, il conte-
sto della nostra pagina di romanzo è anche, da un lato, il suo contesto geografico (cioè il luogo del
romanzo), dall’altro il suo contesto storico (cioè il secolo, il mezzo secolo e persino il decennio);
questo contesto ne include anche un altro, quello sociale, e anche quello culturale.
In breve il contesto, muovendo da un corpus di due o trecento parole, si amplifica a cerchio fino al
contenuto, nello spazio e nel tempo, di tutta una civiltà.
Per stabilire appunto una distinzione precisa fra tali nozioni troppo imprecise di contesto geografi-
co, storico, sociale e culturale, la linguistica è indotta a proporre altre definizioni, più nuove e più
esatte.
Messaggio: insieme di quei significati dell’enunciato che si fondano essenzialmente su una realtà
extralinguistica (geografica, storica, sociale, culturale).
Il messaggio, nella sua totalità, è più vasto della semplice somma dei segni (linguistici) che lo com-
pongono.
Contesto: tutte le indicazioni fornite esplicitamente dal testo (scritto, letterario)
Situazione: tutte le indicazioni geografiche, storiche, sociali, culturali non sempre incluse
nell’enunciato linguistico, e che sono tuttavia necessarie per una traduzione completa e totale del
messaggio contenuto in tale enunciato.

La linguistica ci ha dato anche l’analisi esatta di tutte le diverse “lingue” presenti in una stessa lin-
gua, cioè dei registri di una lingua.
Dalla stilistica, impariamo che una traduzione letteraria manca di qualità anche qualora non si sia ri-
spettata il più possibile la fedeltà a questi registri di lingua, così come si è fatto rispetto al testo, al
contesto e alla situazione.

Oggi tradurre significa non solo rispettare il senso strutturale (o linguistico) del testo (cioè il suo
contenuto lessicale e sintattico), ma anche il senso globale del messaggio (con il suo ambiente, il
secolo, la cultura e, se è necessario, la civiltà, magari completamente diversa, da cui esso proviene).

Secondo la vecchia tesi, non si poteva ottenere la qualità (la bellezza, si diceva allora) se non a spe-
se della fedeltà, concepita come servitù al testo letterale.

Vinay e Darbelnet distinguino sette modi leciti di procedere in materia di traduzione, la quale non è
più concepita solo come il rispetto della forma linguistica (traduzione letteraria, o fedele) o come il
rispetto del contenuto (traduzione libera, infedele) ma come la trasmissione il più esatta possibile
“del preciso rapporto tra la forma e il contenuto dell’originale”.
1) imprestito: possibilità di riempire una lacuna importando una parola straniera
2) calco: copia parola per parola della forma straniera
3) traduzione letterale

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4) trasposizione: traduzione del testo violando il preteso spirito della lingua, insito nelle diverse par-
ti del discorso
5) modulazione: traduzione fatta cambiando punto di vista rispetto ad una stessa situazione
6) equivalenza: traduce una situazione con un’altra perfettamente identica
7) adattamento: si traduce una situazione con un’altra, che sia analoga o semplicemente simile.

La prima componente della qualità in materia di traduzione è la fedeltà, mentre la seconda è


l’estetica, la bellezza “letteraria”.

Per tradurre i poeti bisogna sapersi dimostrare poeta. Per tradurre un testo letterario, il traduttore
deve avere stile, non essere mai piatto, incolore, impersonale.
Per essere un buon traduttore, si deve evitare l’infedeltà e la supertraduzione, l’adattazione libera.
Sul piano letterario, i maggiori pericoli sono le disparità, ossia la mancanza di unità linguistica nel
testo tradotto: quando cioè in uno stesso testo, e senza esservi costretti dall’originale, si passa dallo
stile elevato alla lingua popolare o addirittura volgare.

3. La traduzione poetica
Difficoltà della traduzione letteraria: come scoprire e poi rendere tutte le sfumature delle connota-
zioni, dei contesti e delle situazioni?
Ogni volta che si tratta di tradurre una data opera tornano a formarsi due campi: quello dei professo-
ri ossessionati dalla fedeltà letterale, esterna, a tutti gli elementi linguistici formali del testo; e quel-
lo degli artisti, preoccupati di una fedeltà più profonda, interna, difficile a raggiungere.

Oggi tutti affermano, almeno in via di principio, che anche la traduzione poetica deve essere fedele.
Ma fedele a che cosa? Che cosa va tradotto esattamente? Forse il lessico? Il lessico, la maggior par-
te delle volte, è molto banale. I professori, che anzitutto si preoccupano della esteriore fedeltà lin-
guistica, attribuiscono grande importanza alla fedeltà grammaticale. Ma la cieca fedeltà grammati-
cale assassina il testo. La fedeltà meccanica allo stile (alle apparenze esteriori dello stile) porterebbe
ad analoghi abbagli.
La fedeltà musicale, secondo Valéry, dovrebbe essere il vero segreto della fedeltà nella traduzione
poetica. “In poesia - scrive Valéry - la fedeltà limitata al significato è una sorta di tradimento. I versi
più belli sono insignificanti e sciocchi quando sono resi da un’espressione priva di intrinseca neces-
sità musicale delle risonanze”.
In sue secoli ci si è accorti invece che questa fedeltà esteriore alla esteriore musicalità di una com-
posizione poetica è bruttissima o banale e che spesso può essere più insignificante o sciocca della
traduzione in prosa.
Lo spirito non trasmissibile delle lingue consisterebbe nella loro fonetica.

Si conclude insomma che la fedeltà della traduzione poetica non è né la fedeltà meccanica a tutti gli
elementi semantici, né l’automatica fedeltà grammaticale, né quella fraseologica assoluta, né la fe-
deltà scientifica alla fonetica del testo: è la fedeltà alla poesia.
La poesia non si sottrae alla prima regola enunciata da Etienne Dolet: che cioè il traduttore debba
anzitutto intendere il senso e il contenuto dell’autore che traduce. Anche per la traduzione poetica
vale questo precetto: solo dopo aver sentito e compreso non soltanto la lingua ma la poesia, il tra-
duttore saprà discernere, di quella poesia, i mezzi che debbono essere allora integralmente tradotti.
Non tutte le parole d’uso del linguaggio comune ma solo le parole-chiave della composizione poeti-
ca. Non tutte le forme grammaticali ma solo quelle che conservano o acquistano un valore espressi-
vo qui e ora. Non tutte le espressioni stilisticamente classificate, tutte le allitterazioni, ma solo quel-
le che concorrono alla vera musicalità della poesia.

“Siccome ogni lingua - scrive Sapir - ha le sue specifiche particolarità, le possibilità non saranno in-
teramente le medesime di un’altra. La traduzione poetica, quindi, non può essere interamente possi-
bile.

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Traduziante: malattia acuta dei traduttori. È la paura di non riuscire mai a tradurre il significato inte-
ro di un testo, paura che poi li spinge ad aggiungere qualcosa a quel significato, a supertradurre.

Basta aver enunciato tutte le varie specie di fedeltà cui deve soddisfare la traduzione poetica per
ammettere che, anche se nessuno ha il diritto di chiamarla sempre impossibile, si può concordare
con Cary quando afferma che è e rimane difficilissima.

“Bisogna esser poeta per tradurre la poesia”. Se ci vuole un poeta, è soprattutto per capire il testo
poetico, per capirne tutti i valori, le connotazioni, le vibrazioni emotive. Il poeta ha più possibilità di
altri traduttori di possedere le capacità di comprensione totale o quasi totale del testo, senza della
quale si conosce soltanto la lingua.
Una compiuta traduzione poetica diventa possibile quando il poeta traduttore viene incontro a quel-
lo tradotto per analogia di temperamento, di indole e di concezione del mondo.

4. La traduzione dei libri per bambini


Il più evidente carattere della traduzione per ragazzi è nella sua difficoltà. Il contenuto della lettera-
tura, soprattutto di quella destinata alla prima età, pone gli stessi problemi della traduzione poetica.
Questo genere letterario si avvicina invece alla traduzione teatrale.

5. La traduzione teatrale
La traduzione teatrale può mostrare quale sia l’importanza di quei complessi elementi che abbiamo
chiamato i diversi contesti di un enunciato. L’enunciato teatrale è concepito proprio in vista di quei
contesti, perché è sempre scritto in funzione di un dato pubblico, che in sé racchiude quei contesti e
conosce quali situazioni essi esprimano, quasi sempre per allusione: contesto letterario (la traduzio-
ne teatrale del paese nel quale l’opera teatrale viene scritta), contesto sociale, morale, culturale in
senso largo, geografico, storico; contesto dell’intera civiltà presente in ogni punto del testo, sulla
scena e in platea.
Questo spiega perché il teatro straniero penetri le culture nazionali più lentamente del resto della
letteratura. La “commedia dell’arte” ebbe una sua sala a Parigi (nel Teatro degli Italiani), ma vi si
recitava in italiano. Per apprezzare quelle recite, o bisognava saper l’italiano o accontentarsi del lin-
guaggio universale della mimica. La Mandragola non ha mai avuto a Parigi il posto che avrebbe
dovuto meritare, perché, per goderla veramente, bisognava conoscere a fondo tutto il contesto stori-
co-culturale che ogni italiano impara a scuola e nella vita quotidiana. Il teatro veneziano di Goldoni,
pur tradotto a Parigi dallo stesso autore, non incontrava favore.
Il teatro, con la sua ricchezza di situazioni che esprimono la vita più immediata e totale di un popo-
lo, rimane a lungo la forma letteraria meno adatta all’esposizione.
Il teatro è diventato un valore culturale internazionale solo nel nostro secolo, grazie all’integrazione
culturale resa possibile dal moltiplicarsi di rapide comunicazioni. Per fare un esempio, dopo la se-
conda guerra mondiale, un decimo degli spettacoli teatrali messi in scena a Parigi erano traduzioni.

Tradurre un’opera teatrale straniera ha voluto dire e vuol dire ancora oggi vincere tutte le resistenze
sorde e inconfessate che una cultura oppone alla penetrazione di un’altra cultura al momento in cui
non si tratta più di comunicazione puramente intellettuale.

Prima della fedeltà al vocabolario, alla grammatica, alla sintassi e persino allo stile di ogni singola
frase del testo, deve venire la fedeltà a quel che, nel paese d’origine, ha fatto di quell’opera un suc-
cesso teatrale. Bisogna tradurre il valore teatrale prima di preoccuparsi di rendere i valori letterari o
poetici. Come diceva Merimée, bisogna non già tradurre il testo (scritto) ma l’opera (recitata).
Ecco perché il traduttore di un’opera teatrale - e più spesso si parla di adattamento - farà quasi sem-
pre ricorso ai processi di traduzione meno letteralmente fedeli, a quei procedimenti che Vinay
chiama transposizione e soprattutto equivalenza; perché non deve soltanto tradurre enunciati bensì
anche contesti e situazioni, in modo che sia possibile comprenderli.

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6. La traduzione per il cinema
Il doppiaggi merita veramente il titolo di traduzione totale e può considerarsi come il grado più ele-
vato di traduzione. In realtà, l’isocronia delle articolazioni visibili della bocca non basta per fare un
buon doppiaggio: si deve anche ottenere l’isocronia fra le espressioni mimiche e il testo tradotto. È
anche necessario ottenerla fra i gesti e il testo tradotto.

Postulato fondamentale di Etienne Dolet: ciò che bisogna tradurre è il senso e il contenuto del mo-
mento cinematografico. E il senso, qui, è di far reagire il pubblico del film doppiato proprio come
avrebbe reagito quello della versione originale, anche se per far questo bisogna inventare.

“L’intensità della reazione del pubblico ad una parola comica è di gran lunga più importante di qua-
lunque fedeltà letteraria”, dice Rowe.
“Di una battuta violiamo solo il significato letterale, mai il suo valore cinematografico”, dicono i
buoni dialoghisti.

7. Le traduzioni tecniche
La traduzione tecnica, e cioè tutto quello che non è traduzione letteraria (poetica, teatrale, cinema-
tografica), è la più vecchia del mondo.

La traduzione diplomatica. Questo tipo di traduzione è senz’altro la decana di tutte le altre, poiché
risale ai primi imperi che abbiano avuto qualche rapporto internazionale, e cioè dall’Antico Regno
d’Egitto, agli ittiti e agli assiri. Nell’Europa occidentale il latino fu la lingua della diplomazia inter-
nazionale fin tanto che si mantenne la sua supremazia.
La traduzione diplomatica si dovette sviluppare anche per le relazioni con i paesi non-europei, come
l’impero turco e il mondo arabo.
Se il nostro punto di vista europeo ci porta a considerare la creazione degli Enfants de langue (fra il
1669 e il 1721) come l’atto di nascita della traduzione diplomatica, nella stessa epoca e all’altro ca-
po del mondo nasce un’istituzione del tutto analoga: nel 1727 Pietro il Grande crea a Pechino un ve-
ro seminario di lingue orientali.
In Europa, a partire dal Congresso di Vienna (1814-15) che vede nascere l’istituzione di intermina-
bili conferenze internazionali, la figura dell’interprete prende maggior rilievo.

Le traduzioni amministrative. La traduzione amministrativa non deve essere molto più recente di
quella diplomatica: due forme della stessa attività che, d’altro canto, spesso si confondono a vicen-
da. La traduzione giudiziaria è oggi quasi completamente meccanizzata, salvo che per l’intervento
di interpreti nel corso di un processo. La traduzione militare è nata relativamente tardi (almeno co-
me servizio organizzato).

La traduzione commerciale. La traduzione commerciale, al pari di quella giudiziaria, si presenta


come un’attività sufficientemente meccanizzata.

La traduzione tecnico-scientifica. La traduzione tecnico-scientifica ha i suoi problemi, che si ri-


portano tutti all’esattezza del senso e del contenuto.
Il traduttore tecnico è ossessionato dagli errori di significato che provocano conseguenze materiali
drammatiche o rovinose. Mentre il traduttore letterario diffida al massimo dell’uso del dizionario, il
traduttore scientifico e tecnico lo considera come il proprio strumento di lavoro per eccellenza.
Questo genere di traduzione alimenta un’industria di dizionari specializzati che è molto più impor-
tante di quella dei normali dizionari.
I più abili traduttori sono giunti ormai da tempo alla convinzione che il miglior dizionario tecnico,
anzitutto, è un’opera sull’argomento: “quando mi si domandava di tradurre un’opera di geologia,
scrive Paolo Ronai, non aprivo nessun dizionario, ma consultavo un manuale di geologia per acqui-
sire velocemente il lessico necessario”.

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8. Il lavoro dell’interprete
La forma orale è una forma istantanea di traduzione. Non basta essere un eccellente traduttore per
essere un onesto interprete. L’interprete deve essere anche un oratore e persino un attore.

Secondo Jean Herbert (uno dei pionieri dell'interpretazione di conferenza per la Società delle Na-
zioni), per esempio, la qualità fondamentale dell’interprete è “una possibilità di essere passivamente
ricettivo”, cioè di assorbire docilmente e senza reagire le idee espresse dell’oratore e, allo stesso
tempo, “una vivacità di spirito in quello che potremmo chiamare un rapido tennis mentale”.
L’interprete deve avere una memoria eccellente, ma molto particolare: la memoria immediata, che
gli fa cancellare dalla lavagna mentale tutto quello che vi ha appena immagazzinato per poterlo re-
stituire quasi subito. L’interprete deve possedere la rapidità dell’intuizione, il senso e persino la pa-
dronanza delle sfumature, un orecchio estremamente fine e la padronanza non solo della lingua che
traduce ma della cultura che vi è legata.
Egli deve possedere le qualità dell’oratore, una voce chiara dotata di un buon timbro e di vivacità e
un’esposizione disinvolta; deve potere e saper rendere l’emozione di un certo passaggio.
L’interprete non può essere la primadonna delle riunioni in cui presta la sua opera.

La traduzione in consecutiva. È la vecchia forma di traduzione usata nei congressi: l’interprete


ascolta e annota l’intero intervento dell’oratore, riproducendolo poi subito dopo da un posto a lui ri-
servato nella sala. Nella traduzione consecutiva, è il modo di prendere appunti a determinare la qua-
lità se non proprio dell’interprete, almeno del suo lavoro. Il modo di prendere appunti si basa su un
codice simbolico, fatto di parole-chiave, di abbreviazioni, disegni e di simboli grafici, codice fonda-
to sulle leggi generali ma che ogni interprete ricostruisce secondo le sue attitudini, il tipo della sua
memoria, la sua esperienza e le sue esigenze specializzate:
1) prendere direttamente gli appunti non nella lingua source, ma nell’altra lingua, quella in cui
l’interprete farà la traduzione
2) servirsi di un sistema di simboli visuale
3) l’annotazione deve fondarsi su un’analisi logica del contenuto della frase e su un’analisi delle
idee.

Il metodo Rozan. È un metodo di annotazione basato su 7 principi:


1) trasporre l’idea più che la parola
2) servirsi di abbreviazioni molto evidenti per le parole importanti e correnti
3) curare in modo particolare la visualizzazione dei simboli che indicano il concatenarsi, le articola-
zioni del testo (cioè le parole-cerniera)
4) la negazione è un elemento capitale del discorso, e la si deve quindi simbolizzare in un modo
economico e senza possibili ambiguità. Così, se OK simbolizza approvare, OK simbolizzerà tutte le
forme negative corrispondenti
5) con la stessa attenzione si dovranno simbolizzare l’accentuazione o l’insistenza (o il loro contra-
rio)
Ma i due grandi principi dell’annotazione sono, secondo Rozan, due principi che utilizzano non più
il carattere lineare del discorso parlato, ma la sua trascrizione grafica su uno spazio a due dimensio-
ni: la pagina bianca usata non linearmente come in tipografia, ma graficamente come nel disegno
tecnico:
6) il primo di questi principi capitali è quello che lo studioso chiama verticalismo: esso consiste nel
prendere gli appunti in “altezza” e non in “larghezza” come nel modo di scrivere comune
7) la scrittura scalata consiste nell’utilizzare una dopo l’altra, nella stessa impaginazione verticale,
parecchie verticali per le idee subordinate le une alle altre, e la cui subordinazione diventa in tal
modo visuale.

La traduzione simultanea. È la forma moderna dell’interpretariato, nata a Ginevra verso il 1927


alla Conferenza internazionale del lavoro.
La traduzione simultanea elimina tutti i problemi posti dalla necessità di prendere appunti.

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