Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
BOLLETTINO
Rivista annuale
COMITATO SCIENTIFICO
Giovanna Alfonzetti, Roberto Antonelli, Henri Bresc, Francesco Bruni, Rosario
Coluccia, Mari D’Agostino, Mario Giacomarra, Adam Ledgeway, Franco Lo Piparo
DIREZIONE
Margherita Spampinato (coordinatrice), Gabriella Alfieri, Luisa Amenta, Marcello
Barbato, Francesco Carapezza, Marina Castiglione, Alessandro De Angelis, Costanzo
Di Girolamo, Mario Pagano, Salvatore Claudio Sgroi, Salvatore C. Trovato
Iscrizione in data 9 marzo 1955 al n. 3 del Registro Periodici del Tribunale di Palermo
Direzione e redazione: Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Dipartimento di Scienze
umanistiche dell’Università di Palermo, Viale delle Scienze, ed. 12, 90128 Palermo, Tel. +39
091 23899213 - Fax +39 091 23860661, e-mail: csfls@unipa.it, sito web: www.csfls.it; Dipar-
timento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania, Piazza Dante, 32, 95124 Catania,
Tel. +39 095 7102705 - Fax +39 095 7102710
3
28
PALERMO
2017
4
ISSN 0577-277X
bussola per provare a capire l’attuale fase inedita della storia linguistica, italiana
e non italiana, e affrontare i problemi teorici, per buona parte pure essi inediti,
che le nuove conoscenze empiriche (dal funzionamento del cervello umano e non
umano all’organizzazione delle società) oggi pongono a linguisti e filosofi del lin-
guaggio. Per questo abbiamo voluto dare a questa riflessione collettiva il titolo A
partire da Tullio De Mauro.
terra di confine tra il prima e il dopo. La frattura, nel campo degli studi lin-
guistici, aveva anche un corrispettivo istituzionale e terminologico: da una
parte le cattedre di Glottologia (il passato), dall’altra le cattedre di Linguistica
generale (l’ipotetico futuro). Fa parte di questo vissuto il fatto che De Mauro
ricoprì la prima cattedra italiana di Linguistica generale: anno accademico
1967-68, Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo. Quando negli anni
settanta nelle università italiane inizia il boom delle richieste di insegnamenti
di Linguistica generale e di Semiotica la schiera dei glottologi inizialmente
proverà a contrastarlo.
Così in molti abbiamo vissuto quegli anni e però le cose non stanno esatta-
mente in questi termini. La storia vissuta quasi mai coincide con la storia reale.
Dal 1951 al 1961 il professore di De Mauro, Antonino Pagliaro – glotto-
logo, filologo classico, studioso di lingue orientali – tenne nell’Università di
Roma l’insegnamento di Filosofia del linguaggio. Successivamente, dal 1961
al 1967, il maestro fu sostituito dall’allievo. Erano tempi in cui la filosofia del
linguaggio era percepita, e anche praticata, come una sorta di cavallo di Troia
della linguistica generale nei territori accademici della Glottologia. Per ap-
prezzare questo gioco di novità ben ancorate nella tradizione ricordo che De
Mauro si laurea discutendo una tesi su L’accusativo nelle lingue indoeuropee 1
e si impone all’attenzione del mondo scientifico con lavori etichettabili, secon-
do la terminologia di quegli anni, come glottologici: Storia e analisi semantica
di classe, 1958; Il significato di ‘democrazia’, 1958; Il nome del dativo, 1965 2.
Ciò a conferma dell’intuizione di Tocqueville secondo cui le grandi rottu-
re rivoluzionarie se hanno successo hanno sempre solidi agganci col passato.
E l’approccio demauriano al linguaggio fu una innovazione conservatrice do-
ve l’aggettivo (conservatrice) non è negazione del sostantivo (innovazione) ma
sua precisazione e suo inveramento.
1
Una versione della tesi verrà pubblicata, nel 1959 e su presentazione dello stesso Pagliaro, col
titolo Accusativo, Transitivo, Intransitivo nei “Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e fi-
lologiche” dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
2
Tutti e tre i saggi sono stati ripubblicati in De Mauro, Senso e Significato. Studi di semantica
teorica e storica, Bari, Adriatica Editrice, 1971.
8 Franco Lo Piparo
Inizio con la Storia linguistica dell’Italia unita (1963). Nella seconda pagi-
na dell’Avvertenza campeggia una lunga citazione di Antonino Pagliaro. La ri-
porto per intero:
Ferdinand de Saussure, acuto teorico del linguaggio, si è richiamato più di una
volta al gioco degli scacchi per esemplificare le sue vedute sul congegno della lin-
gua e del suo divenire … Pure, il raffronto fra il gioco e il linguaggio, a prima vi-
sta così suggestivo ed evidente, ad un più attento esame si rivela del tutto ingiu-
stificato … Mentre il congegno funzionale del gioco è perfettamente indipenden-
te dai momenti soggettivi, poiché i pezzi dopo ogni mossa rimangono quello che so-
no con il loro valore stabilito, e tali sono ancora dopo innumerevoli generazioni di
giocatori … nel linguaggio, invece, il momento soggettivo della parola vive come
traccia o risonanza nel segno come oggettività, nella sua immagine acustica come
è presente nella coscienza linguistica di una comunità; tale momento si compone
necessariamente nel segno con la necessità funzionale, che fa di questo l’elemento
del sistema. Mentre nel gioco il simbolo è fisso e inattivo, quello fonico vive della
vita dei parlanti e trova nella coscienza linguistica, che è coscienza d’una storicità
ben definita, la sua legittimazione e la sua necessità.
3
Napoli 1952. Il libro verrà ripubblicato nel 1969 dalle Edizioni RAI Radiotelevisione Italiana.
4
Trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967.
A partire da Tullio De Mauro 9
5
Sraffa, Wittgenstein and Gramsci, “Journal of Economic Literature”, XLI (December 2003),
pp. 1240-1255; trad. it. in Vacca, Schirru (a cura di), Studi gramsciani nel mondo, 2000-2005, Bolo-
gna, il Mulino, 2007, pp. 23-53.
6
F. Lo Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, Roma, Donzelli,
2014.
10 Franco Lo Piparo
In Letteratura e vita nazionale si trova anche una nota che avrebbe potuto
essere il miglior commento possibile della Storia linguistica dell’Italia unita …
se Gramsci l’avesse conosciuta:
(…) in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lin-
gua unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della nazione italiana era a
ritmo troppo lento. Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione
della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la forma-
zione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più
intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorga-
nizzare l’egemonia culturale 8.
7
Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, p. 209; adesso in Quaderni del carcere, To-
rino, Einaudi, 1975, pp. 737-738.
8
Letteratura, cit., p. 201; adesso in Quaderni, cit., p. 2346.
9
Dell’Introduzione alla semantica esistono varie edizioni. Cito dalla prima del 1965.
A partire da Tullio De Mauro 11
tore palermitano Novecento, «il libro fu tradito dal titolo. Fosse stato intito-
lato Teoria e storia degli studi linguistici avrebbe avuto forse altra sorte dentro
e fuori d’Italia»10.
A parte Wittgenstein gli autori di riferimento di Pagliaro sono gli stessi
del libro del giovane allievo: Aristotele (da maestro e allievo eccessivamente
appiattito sull’aristotelismo), Vico, Kant, Humboldt, Saussure, Croce con cui
maestro e allievo non smetteranno mai di dialogare. È lo stesso soprattutto
l’asse portante dei due libri: la centralità del significare e del contesto socio-
storico nelle vicende del parlare. Pagliaro: «Ancor più che nella fonetica e nel-
la struttura grammaticale l’incessante rinnovarsi di ogni lingua si manifesta nel
lessico. In esso sono fedelmente registrati tutti i mutamenti che avvengono
nella vita di ogni popolo, di ogni gruppo sociale, così che può dirsi che fare la
storia di una lingua è lo stesso che fare la storia di una nazione nel senso più
completo» (p. 144).
Nell’Introduzione Gramsci non viene mai citato. E però è difficile non
sentire la presenza del pensatore sardo nelle asserzioni teoriche più impegna-
tive con cui il libro si conclude: «(…) il significare è un modo dell’agire nel
mondo. È, cioè, prassi» (p. 197). E ancora: «L’esperienza semantica riposa
dunque sulla possibilità d’azione dell’uomo. La nuova concezione che di essa
si è andata delineando (…) si fa incontro (…) alle filosofie che da Marx allo
storicismo e al pragmatismo del Novecento si sono costruite sul primato della
prassi» (p. 203).
Le corrispondenze Pagliaro-Gramsci-Wittgenstein-De Mauro sono tante
e il raccoglierle potrebbe essere utile per rileggere in chiave non nazionalistica
il dibattito linguistico nell’Europa del secolo scorso.
Lingua o parlanti/scriventi?
10
Premessa a A. Pagliaro, Storia della linguistica. Tomo primo. Sommario di linguistica arioeu-
ropea (ristampa anastatica dell’edizione del 1930), Novecento, 1993, p. X.
12 Franco Lo Piparo
Vendetta postuma
Quando, nell’aprile del 2010, gli mandai il testo della prima versione in-
glese 11 di quello che quattro anni dopo diventerà Il professor Gramsci e Witt-
genstein De Mauro mi scrisse una lunga lettera divisa in paragrafi. Trascrivo
la parte pertinente all’argomento che si sta qui discutendo.
Vendetta postuma. Negli anni sessanta, come forse ti ho già raccontato, il “Times
Literary Supplement” faceva lunghe e impegnative recensioni rigorosamente ano-
nime e recensì subito Storia linguistica dell’Italia unita molto gentilmente e con
conoscenze di prima mano delle cose linguistiche italiane. Giulio Lepschy mi ha
giurato che il recensore non era lui e gli credo, perché la sua prima reazione fu
freddina, perfino con qualche punta acida, prima che il libro assumesse ai suoi
occhi (e di sua moglie) il ruolo di dichiarata fonte centrale di Italian grammar e
tanti altri lavori ulteriori. Forse il recensore fu Joe Cremona, maestro di italiani-
stica dei linguisti generali inglesi, forse fu Luigi Meneghello. Comunque, la recen-
sione si chiudeva con un’unica riserva un po’ ironica: ma che c’entra col resto del
libro la citazione di Wittgenstein in prima pagina? Anch’io per parte mia come
11
Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, in A. Capone (ed.), Perspective on lan-
guage use and pragmatics, Muenchen, Lincom Europa, 2010, pp. 285-319.
A partire da Tullio De Mauro 13
sai ho cercato negli anni di rispondere. Adesso al recensore potrei mandare il tuo
lavoro, forse troverebbe la risposta.
F RANCO LO PIPARO
15
I
PARLANTI E SCRIVENTI IN ITALIA
CAPIRE (E FARSI CAPIRE) A SCUOLA
Introduzione
1
Lo studio per De Mauro è sempre stato interrelato con l’intervento. Ad esempio, la ricaduta
operativa del suo percorso di ricerca su comprensione, comprensibilità e leggibilità dei testi può rin-
tracciarsi nella redazione del mensile ad alta leggibilità Due Parole, nei lavori sulla comprensibilità dei
testi scolastici e sulla semplificazione del linguaggio burocratico e della pubblica amministrazione.
2
Relativamente all’impegno politico legato all’istruzione, come è noto, De Mauro è stato prima
Assessore regionale all’Istruzione del Lazio dal 1975 al 1980 e poi Ministro dell’Istruzione nel 2000-
2001.
18 Luisa Amenta
guaggio, sin dalla formulazione nelle Dieci Tesi per una educazione linguistica
democratica del Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione
Linguistica (GISCEL, 1975).
Scopo di questo contributo è proprio tenere insieme questi due aspetti
della sua ricerca e della sua azione: comprensione e scuola, tra loro profonda-
mente interrelati. E, a partire dalle innumerevoli suggestioni che derivano dal
pensiero di De Mauro su questi temi, offrire qualche spunto relativo a come
favorire i processi di comprensione a scuola.
In questa prospettiva, un indubbio e prezioso punto di riferimento conti-
nua ad essere il volume curato da Silvana Ferreri, Non uno di meno. Strategie
per leggere e comprendere (2002), che mostra inequivocabilmente, attraverso i
dati e i resoconti della sperimentazione condotta, come la scuola sia l’ambien-
te educativo per eccellenza in cui la comprensione possa svilupparsi con effet-
ti positivi sul processo di alfabetizzazione nel suo complesso sia degli alunni
meno bravi che di quelli più bravi.
Ciò diventa ancora più significativo nella realtà multietnica della scuola di
oggi, in cui non soltanto gli alunni italofoni devono confrontarsi con le diffi-
coltà insite nei testi dello studio delle varie discipline e l’acquisizione di ade-
guate competenze di lettura, attraverso la messa in atto di strategie cogniti-
ve per la comprensione di testi scritti, ma a maggior ragione gli apprendenti
che hanno l’italiano come L2 che si scontrano con una lingua che è al tem-
po stesso oggetto del loro apprendimento e veicolo di contenuti disciplinari
particolari.
Tuttavia, sviluppare la comprensione a scuola, non è solo un obiettivo le-
gato all’acquisizione di competenze negli anni della scolarizzazione, ma anche
uno strumento per guidare «i ragazzi nella comprensione critica dei messaggi
provenienti dalla società nelle loro molteplici forme» (cfr. Indicazioni nazio-
nali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione,
2012: 24), attraverso una padronanza del processo di comprensione dei testi
finalizzato ai propri bisogni e ai propri scopi di lettura.
In tal senso, compito della scuola è dedicare una attenzione costante alla
literacy, ossia alla capacità di: «comprendere, utilizzare e riflettere su testi
scritti al fine di raggiungere i propri obiettivi, di sviluppare le proprie cono-
scenze e le proprie potenzialità e di svolgere un ruolo attivo nella società»
(OCSE, a cura di, 2007: 56).
È indubbio che in questo ruolo formativo di cittadine e cittadini di doma-
ni, che possano avere competenze linguistiche adeguate per partecipare atti-
vamente alla realtà del mondo e della società, non si può non cogliere il senso
ultimo di quell’educazione linguistica democratica che, attraverso la teorizza-
zione di Lombardo Radice, le esperienze dei maestri Bruno Ciari e Mario Lo-
di, l’incontro con Don Lorenzo Milani, è stata per De Mauro l’unica educa-
zione linguistica possibile.
Capire (e farsi capire) a scuola 19
Nelle pagine che seguono in primo luogo si metteranno a fuoco alcune ca-
ratteristiche della comprensione a partire dalle pagine di alcuni scritti di De
Mauro (§ 1), poi si rifletterà su quanto viene espresso in merito alla compren-
sione nel primo ciclo della formazione della scuola nelle Indicazioni (2012) e
nel Quadro di riferimento della prova di italiano (Invalsi, 2013) (§ 2), infine si
porteranno alcuni dati relativi ai risultati dei quesiti sulla comprensione delle
prove Invalsi e ci soffermerà brevemente su una sperimentazione condotta in
un Istituto Comprensivo della provincia di Palermo che, pur non avendo nes-
suna rilevanza di tipo quantitativo, ci permette di avanzare qualche conside-
razione in relazione a ciò che viene fatto a scuola per lo sviluppo della com-
prensione dei testi scritti, alle possibili attività da svolgere in classe e all’attua-
lità che le letture di De Mauro possono avere anche per gli insegnanti di oggi
e di domani (§ 3).
3
In particolare tra i linguisti De Mauro fa riferimento a Saussure, von Humboldt, Jakobson,
Pagliaro (cfr. De Mauro 1999: 10).
20 Luisa Amenta
2. Comprensione a scuola
4
I due documenti in esame sono profondamente diversi tra loro, in quanto il primo ha un carat-
tere programmatico mentre il secondo è un supporto esplicativo metodologico per lo svolgimento della
prova di valutazione nazionale. Tuttavia, entrambi costituiscono testi chiave di riferimento per l’orien-
tamento della prassi didattica degli insegnanti; motivo per cui abbiamo deciso di considerarli insieme.
Capire (e farsi capire) a scuola 23
5
Dopo il superamento dei Programmi ministeriali del 1979 del 1985, a seguito anche dell’am-
pio dibattito che si ebbe alla fine degli anni Novanta su saperi e competenze e le Raccomandazioni
del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2006 in termini di competenze, le Indicazioni sono en-
trate in vigore nella forma attuale con il decreto ministeriale n. 258 del 2012 e costituiscono un testo
di riferimento univoco per tutte le scuole dalla primaria alla secondaria di primo grado in un’ottica
di continuità ed unitarietà del curricolo.
24 Luisa Amenta
6
L’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e forma-
zione) prevede una verifica degli apprendimenti sia di Italiano che di Matematica e, da quest’anno,
della prima lingua comunitaria al terzo anno della scuola secondaria di primo grado. Nel Quadro di
riferimento della prova di Italiano sono contenuti i presupposti teorici e gli obiettivi delle prove di
Italiano anche relativamente alla valutazione delle «competenze sottese alla comprensione della let-
tura» in modo da rendere «trasparente l’impostazione della prova» e favorire «la successiva analisi e
interpretazione dei risultati da parte delle scuole e dei docenti» (Quadro 2013: 3). In questa sede non
si intende assolutamente entrare nel merito delle prove ma ci si limiterà ad evidenziare gli aspetti re-
lativi al tema che stiamo affrontando.
26 Luisa Amenta
A tal fine, nel Quadro si elencano anche alcuni ‘compiti’ che possono es-
sere utili per lavorare con il testo per favorire i vari aspetti della comprensione
quali, ad esempio, ricostruire attraverso indizi testuali il significato di parole
o espressioni, individuare i lessemi che si riferiscono ad un determinato cam-
po semantico, cercare informazioni nel testo per un scopo specifico, fare infe-
renze relative a dove si svolge la storia o alle caratteristiche di un personaggio
a partire da un suo comportamento, lavorare sul significato e la funzione dei
connettivi frasali e testuali e dei segni di interpunzione, sintetizzare un testo,
riconoscere la successione temporale degli eventi, etc.
Si può osservare, pertanto, come il Quadro unisca l’esplicitazione sia della
prospettiva teorica che sta alla base del processo di comprensione – con recu-
peri anche di aspetti del pensiero demauriano sul tema, soprattutto per quan-
to concerne l’attenzione al lessico e al mettere in dialogo le conoscenze testua-
28 Luisa Amenta
I dati interpretati alla luce della variazione diatopica mostrano come sol-
tanto la macro-area del Nord-Ovest sia l’unica in cui si registri un punteggio
medio superiore alla media italiana mentre i punteggi per il Sud e il Sud e Iso-
le risultano significativamente inferiori alla media italiana. Questa difformità
territoriale nei risultati con picchi in positivo e in negativo che riproducono
l’asimmetria anche economica e sociale tra Nord e Sud induce a ritenere che
le condizioni in cui si trovano ad operare insegnanti e alunni continuano ad
essere difformi al punto da condizionare l’apprendimento. Da ciò si evince
come una valutazione nazionale che non tenga in adeguato conto le condizio-
ni di partenza sia destinata a fotografare soltanto le asimmetrie esistenti senza
contribuire a offrire spunti per superarle.
Relativamente alle tipologie delle prove, si osserva che gli alunni di secon-
da primaria hanno incontrato minori difficoltà nel rispondere alle domande
7
I risultati vengono poi restituiti alle singole scuole in modo da costituire un momento di ri-
flessione per i docenti.
Capire (e farsi capire) a scuola 29
di comprensione della lettura del testo narrativo rispetto agli esercizi lingui-
stici proposti nella seconda parte della prova; mentre in quinta primaria, le
domande della prova di Italiano risultate più difficili sono state quelle relative
alla comprensione del testo espositivo, seguite dalle domande di grammatica
e infine da quelle di comprensione del testo narrativo (cfr. Rapporto 2017: 37).
Analogamente anche i risultati della III secondaria di I grado permettono
di notare come vi sia una differenza considerevole di risultati tra Nord-Ovest,
per cui si registra un punteggio medio superiore alla media italiana statistica-
mente significativo, e le due macro-aree del Sud e in particolare del Sud e Iso-
le i cui punteggi sono significativamente inferiore alla media italiana.
Relativamente alle sezioni della prova si conferma, in linea con quanto
emerso per la scuola primaria, che la più difficile risultata quella di gramma-
tica. Analogamente, per ciò che concerne le tipologie testuali, la comprensio-
ne del testo narrativo è risultata più facile della comprensione del testo espo-
sitivo – argomentativo (cfr. Rapporto 2017: 43).
Altre due considerazioni vanno fatte a seguito della lettura dei risultati delle
prove INVALSI: a livello nazionale i maschi ottengono un punteggio più basso
delle femmine nella prova di Italiano e un punteggio più alto nella prova di Ma-
tematica e la qualità dell’ambiente familiare incide sui livelli di apprendimento
degli alunni e in generale sul loro successo a scuola (cfr. Rapporto 2017: 70).
Specialmente quest’ultimo dato ci sembra significativo perché sembra
confermare come ancora oggi, a distanza di cinquant’anni dalla Lettera a una
professoressa e a quarant’anni dalle Dieci Tesi per un’educazione linguistica de-
mocratica, la scuola non riesce a intervenire in modo significativo per superare
le differenze in ingresso degli alunni e soprattutto ‘i Pierini’ rimangono sem-
pre più avvantaggiati, perché nell’attivare le strategie di comprensione e le
competenze di tipo inferenziale possono indubbiamente far affidamento su un
più ricco bagaglio di conoscenze pregresse che viene dal background familiare.
In questo senso sembra ci sia ancora molto da fare sulla strada del dare a tutti
il «possesso della lingua» che De Mauro individuava come uno degli obiettivi
costanti che deve avere una scuola dell’obbligo (cfr. Ferreri-Guerriero 1998),
dal momento che in merito, se da una parte una didattica sbagliata può cri-
stallizzare le disuguaglianze sino a farle diventare svantaggio incolmabile, una
didattica consapevole può trasformare le diversità in fattori di arricchimento
(cfr. De Mauro 1996).
In questa direzione, un’indagine sul campo condotta in una scuola secon-
daria di primo grado della provincia di Palermo ci ha permesso di avere un
piccolo spunto per un’analisi qualitativa 8.
8
Il periodo di osservazione si è svolto da ottobre alle fine di gennaio dell’a.s. 2016-2017 nelle
sei sezioni delle classi III di una scuola secondaria di primo grado. Il campione comprendeva 99
alunni parimenti distribuiti tra maschi e femmine.
30 Luisa Amenta
nel testo le informazioni che potevano guidare nella formulazione del signifi-
cato globale attraverso l’identificazione di parole-chiave, di interventi sul testo
con sottolineature e con uno smontaggio del testo funzionale alle comprensio-
ne, secondo quanto esplicitato nelle Indicazioni (2012: 32) relativamente alle
«tecniche di supporto alla comprensione».
Un ruolo centrale in questo percorso è stata l’attenzione al lessico sia nel-
la ricostruzione dei significati delle parole attraverso il cotesto sia attraver-
so l’attenzione alla morfologia della parole, per attivare una riflessione meta-
linguistica che potesse agevolare la comprensione del significato del singolo
lessema.
Si è potuto osservare come spesso gli studenti nel processo di lettura non
sembravano abituati a rileggere porzioni di testo che potevano essere signifi-
cative per rintracciare, di volta in volta, le informazioni utili per comprende-
re, modificando anche la propria strategia di lettura in funzione degli scopi
per cui leggevano. La mancanza di rilettura comportava anche una tentazio-
ne ad abdicare al compito della comprensione alla prima difficoltà, proprio
per l’incapacità di dialogare con il testo stesso, o a fermarsi alla prima infor-
mazione rintracciata nel testo senza valutarne attentamente l’adeguatezza ri-
spetto al quesito.
In questa prospettiva, è assolutamente fondamentale che la scuola abitui
a diventare lettori consapevoli, che sappiano usare consapevolmente le pro-
prie strategie di lettura, come primo passo per interagire in modo costruttivo
e attivo con il testo.
Conclusioni
Da quanto sin qui esposto, in primo luogo, risulta evidente come le prove
INVALSI relative alla comprensione potrebbero essere l’ennesima occasione
mancata a scuola e ciò soprattutto se tutto il lavoro da svolgere durante l’anno
nelle classi si riduce ad una somministrazione di prove fac-simile per ‘allenar-
si’ in vista del test nazionale, senza svolgere una adeguata riflessione sulla
comprensione dei suoi vari aspetti, a causa di un’ansia da prestazione in vista
della valutazione. In proposito, si condivide pienamente quanto sostenuto da
Bertocchi (2010: 245) circa l’importanza che la preparazione per il test IN-
VALSI non si riduca al «far compilare decine di questionari più o meno mec-
canici» ma si realizzi lasciando liberi gli alunni di dialogare con il testo, for-
mulando e argomentando le proprie ipotesi di comprensione.
D’altra parte, come abbiamo osservato, il Quadro in linea con le Indicazio-
ni presenta tutta una serie di spunti sulla comprensione che sono sicuramente
frutto di quanto in questi anni, grazie anche all’apporto di altre discipline,
quali la psicologia cognitiva, si è andato via via mettendo a fuoco, non ultimo
32 Luisa Amenta
tica della comunicazione linguistica che elegga a suo principio regolativo quello
che la comunicazione linguistica sia appunto degna del suo nome: un modo, il
più diffuso e primordiale e umano dei modi, per mettere in comune i sensi, le
esperienze che ci è dato di cogliere nella nostra vita.
BIBLIOGRAFIA
1
La citazione è tratta dal sito htpp://osp.provincia.pisa.it/primo_piano.asp?ID_PrimoPiano=970
(29 gennaio 2011).
36 Mari D’Agostino
solo tema, per quanto centrale e ricorrente nella sua enorme produzione
scientifica e nel suo impegno civico. Chi sono gli analfabeti? Come individuar-
li? Cosa significa alfabetizzazione? La prospettiva è quella di fare dialogare le
riflessioni demauriane con temi dell’oggi, una prospettiva chiaramente propo-
sta da Franco Lo Piparo nella lettera con cui invitava a contribuire a questo
numero del “Bollettino” del Centro di studi filologici e linguistici siciliani del-
la quale riportiamo qui di seguito un ampio stralcio:
Riceviamo in eredità un enorme patrimonio di idee e di ricerche. Ma anche di
suggestioni e spunti che attendono di essere metabolizzati e adeguatamente ela-
borati.
Un’eredità può essere amministrata in due modi possibili. Farne un oggetto di
culto difendendola da tutto ciò che ci sembra estraneo. Il rischio che si corre è di
trasformare il patrimonio ereditato in oggetto sacro. Oppure dialogare con esso,
farne il punto di partenza per proseguire la ricerca con lo stesso spirito critico di
chi ha costruito l’edifico che ci è stato consegnato. Con la speranza magari di ri-
petere l’esperienza del nano che, collocato sulle spalle del gigante, vede qualcosa
che il gigante non poteva vedere.
2
Unesco (1959: 91) segnala che questo è solo uno dei metodi per individuare le due diverse ca-
tegorie di soggetti alfabeti vs soggetti analfabeti: «To determine the number of literates and illitera-
tes, any of the following methods could be used:
(a) Ask a question or questions pertinent to the definitions given above, in a complete census
or sample survey of the population.
(b) Use a standardized test of literacy in a special survey. This method could be used to verify
data obtained by other means or to correct bias in other returns.
Analfabeti nell’Italia di ieri e di oggi 39
Nel primo Censimento della popolazione italiana, quello del 1861, a cui
Tullio De Mauro fa continuo riferimento nella Storia linguistica e che è bene
tornare a guardare da vicino, troviamo un elemento interessante. La scheda di
raccolta dei dati (riportata nella Tav. 2) 3 distingue infatti due capacità diverse:
il sapere leggere da una parte e il sapere scrivere dall’altra (e nelle istruzioni
per la somministrazione si ribadisce «Rispondere sì o no per ognuna delle due
colonnine dell’istruzione»).
(c) When none of the above is possible, prepare estimates based on.
(d) Special censuses or sample surveys on the extent of school enrolment.
(e) Regular school statistics in relation to demographic data.
(f ) Data on educational attainment of the population».
3
Le schede dei Censimenti sono riportate nel numero monografico degli Annali di Statistica
(1959, anno 88, serie VIII, vol. 8) dedicato ai modelli di rilevazione dei Censimenti dal 1861 al 1956.
In tale rivista sono presentati anche dei questionari compilati.
40 Mari D’Agostino
4
Seppure nel Censimento del 1861 il dato relativo all’alfabetizzazione sia stato raccolto sul to-
tale della popolazione, fin da subito sono stati resi pubblici i dati per fasce di età rendendo quindi
possibile lo scorporamento dalla classe degli analfabeti dei bambini non in età scolare.
5
Nel 1891 il Censimento non si svolse per ragioni legate alla finanza pubblica.
6
Nelle istruzioni alla compilazione del questionario del censimento del 1921 si legge ad esem-
pio: «Quesito IX. - Istruzione. - Questo quesito mira ad accertare quanti sappiano leggere, senza ri-
cercare se essi sappiano anche scrivere. Al quesito, il censito deve rispondere semplicemente con un
sì od un no».
Analfabeti nell’Italia di ieri e di oggi 41
La indicazione separata delle due diverse abilità “sa leggere” / “sa scrivere”
ricompare di nuovo nel Censimento del 19517, accanto al dato sul titolo di
studio conseguito, rilevato con una casella a campo libero (vedi Tav. 5).
7
Nel 1941 il Censimento non si svolse per la guerra. In occasione del “piccolo censimento”, nel
1936, il dato non venne raccolto.
8
Il dato di chi “sa soltanto scrivere” non viene mai riportato. Si tratta effettivamente di una
condizione quasi impossibile da realizzarsi se si intende con il sapere scrivere altro dall’apporre la so-
la firma.
9
Per comodità presento i dati con la percentuale a 100 e non a 1000 come è nel testo originario
(Maic, DirStat. 1865).
42 Mari D’Agostino
Tab. 1 - Dati relativi all’alfabetizzazione; variabili sesso ed età. Censimento del 1861.
10
A partire dal censimento del 1921 alla domanda sulla capacità di lettura rispondeva solo chi
avesse compiuto i 6 anni. Nella relazione finale al censimento del 1931 si legge che “L’indagine è sta-
ta limitata ai censiti di età superiore ai 6 anni, ed è stato convenuto di ritenere alfabeti anche gli iscrit-
ti alla prima classe elementare”.
Analfabeti nell’Italia di ieri e di oggi 43
mente dalla fonte è poco più alta rispetto al 78% riportato nella Storia lingui-
stica e citato anche in questo articolo al paragrafo 2).
Numeri assoluti %
I dati censuari del 1861 ci mostrano una realtà di grande interesse cioè la
consistenza della classe di coloro che sapevano solamente leggere nel 1861
(4,707%). Se guardiamo più in profondità all’interno di questa categoria sco-
priamo che chi sa leggere ma non sa scrivere appartiene a particolari tipolo-
gie di persone. Sono soprattutto le donne 11 che vivono in piccoli centri e in
campagna e che hanno più di 19 anni. Guardando la Tab. 3 si rileva infatti
che nei centri piccoli e in campagna il numero delle donne sopra i 19 anni che
sanno solo leggere è più della metà di quante sanno sia leggere che scrivere
(vedi Tab. 3).
11
Il tasso di analfabetismo femminile è assai più alto di quello maschile nel primo Censimento
e pur diminuendo di 39 punti percentuali, passando dall’81% al 42% del 1911, lo scarto fra i generi
rimane invariato. Per alcune considerazioni su donne e alfabetizzazione in Italia si vedano Roggero
2001 e Marchesini 1989.
44 Mari D’Agostino
Per venire a capo di una incontrollabile pluralità di situazioni mutevoli nel tempo
e nello spazio, per segnare altresì l’alterità, il distacco netto rispetto al mondo
contemporaneo è forse opportuno muovere da una definizione in negativo: in
questa fase l’alfabetizzazione non deve essere ricondotta o identificata con la sco-
larizzazione; né può considerarsi legata o limitata alla sola realtà infantile. Non
possiamo infatti dimenticare che la scuola non rappresentava una tappa obbliga-
ta, ma soltanto una delle strade possibili di formazione. Per molti ragazzi e so-
prattutto per le fanciulle di un’Italia in larga parte rurale si trattava di apprendere
ancora il mestiere dei genitori sotto la loro guida e al loro fianco. […] Un altro
luogo comune è però necessario sfatare fin dall’inizio. La triade “leggere, scrivere
e far di conto” – che oggi si tende a considerare inscindibile – costituisce di fatto
una configurazione storica complessa, che si compose e si consolidò gradualmen-
te nel corso del tempo. (Roggero 1999: 25-26).
Non è questa la sede per esplorare alcune piste di lettura dei dati di quanti
sapevano solamente leggere, che ovviamente può essere indagato solo relati-
vamente ai Censimenti nei quali viene raccolto e presentato questo segmento
della popolazione separatamente da quanti non sanno né leggere né scrivere.
Ciò che ci interessa qui sottolineare è la complessità, anche in termini pura-
mente quantitativi, della rilevazione di quanti erano (e come vedremo più sot-
to, ancor di più sono oggi) analfabeti e di come i dati censuari possono essere
ancora una volta un punto di partenza prezioso, così come ci ha insegnato
Tullio De Mauro.
Sulla base di alcuni degli elementi su cui abbiamo fin qui ragionato cer-
cheremo ora di analizzare la situazione odierna.
Il nostro punto di partenza è ancora una volta Tullio De Mauro che pur
ragionando assai spesso di “analfabetismo funzionale” non smette di focaliz-
zare l’attenzione sulla realtà di chi non sa leggere e scrivere. Ricordiamo a
questo proposito che una decina di anni dopo avere scritto la Storia linguistica
dell’Italia Unita, gli analfabeti tornano in primo piano nel suo documentario
Parlare, leggere, scrivere (realizzato per Rai 3 nel 1973 insieme a Umberto Eco
e Piero Nelli). La prima puntata si apre infatti con le indimenticabili immagini
degli immigrati meridionali che arrivano alla stazione centrale di Milano total-
mente analfabeti e incapaci di parlare e capire l’italiano 12. Il quadro teorico ri-
mane costantemente rivolto a collocare insieme alfabetizzazione e diritti sociali
e linguistici:
La realtà dell’analfabetismo in una grande città come Palermo alla fine degli anni ’60 è stata
12
La lotta per l’alfabeto non ha successo fuori di una complessiva politica di rico-
noscimento dei diritti linguistici, di promozione di tutte le potenzialità linguisti-
che […] e fuori di una complessiva politica di promozione e liberazione delle ca-
pacità culturali e critiche di tutte le persone che, insieme, fanno la disprezzata
massa (De Mauro 1986: 27).
In anni più recenti in una Conversazione alla Scuola Mauri per Librai, a
Venezia, nel gennaio del 2006 Tullio De Mauro si domandava13:
Ma ci sono gli analfabeti? Ci sono ancora? E dove? Stupore se se ne parla. Gior-
nalisti assalgono Avveduto (n.d.t. Saverio Avveduto, in quegli anni presidente
dell’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo) assalgono me, quando
ne parliamo, chiedendoci un po’ aggressivamente: “ma dove stanno gli analfabe-
ti?” E aggiungono: “Io non ne vedo mai nessuno”.
Un magistrato di Firenze, Silvia Garibotti, li vede, se ne accorge e lo ha detto al
convegno di Firenze Dalla legge alla legalità. Un percorso fatto anche di parole,
il 13 gennaio scorso. Ci ha raccontato dei molti casi in cui i testimoni non sono in
grado di leggere la formula di rito sul dir la verità e di quanti, leggendola, arrivati
alla “mia deposizione” restano smarriti (pensano a Gesù Cristo deposto dalla cro-
ce o, i più colti, a qualche sovrano) e lei deve aiutarli e anzi, ci ha detto, ha deciso
di lasciare da parte la sacra formula e di suggerire di dire, come diremmo io e voi,
qualcosa come “Dirò la verità e so che potrò essere punito se dico il falso”. Ma
questo magistrato è eccezionale. Altri, magistrati e non, degli analfabeti non si ac-
corgono o non si preoccupano.
Come si dice dei trucchi, l’analfabetismo c’è ma non si vede. E, naturalmente,
non si vede specie se non lo si vuole vedere e far vedere.
Gli analfabeti certo bisogna cercarli e volerli trovare. Ormai più di ven-
ti anni fa io li ho incontrati fra le persone che si rivolgevano alle sezioni di
alfabetizzazione dei corsi sperimentali di licenzia media della città di Paler-
13
L’intervista è consultabile sul sito di Annamaria Testa alla pagina https://nuovoeutile.it/
istruzione-tullio-de-mauro-se-un-mattino-di-primavera-un-governante/
46 Mari D’Agostino
mo. Lì ho raccolto alcune testimonianze di come si vive dentro una città per-
meata di scrittura non decifrandone i segni e cosa cambia nel momento in cui
una persona adulta acquista la dimensione scritta del linguaggio (cfr. D’Ago-
stino 1996). Una fra queste testimonianze è quella di Giuseppe, un vendito-
re ambulante completamente analfabeta (incapace anche di mettere la pro-
pria firma), che a trentadue anni decide di uscire da quella che ha sempre sen-
tito come una gravissima menomazione e si iscrive così a un corso di alfabe-
tizzazione.
Mi sono messo in testa “ma io ê imparari a llièggiri e scrivri”. Era brutto guardare
certe cose che come figura erano bellissime però quelle scritte, quelle vocali che
c’erano scritte, non saperle comporre era bruttissimo. Mi sentivo come avere le
gambe, avere le mani, avere la testa per potere ragionare però senza potere guar-
dare. Gli occhi li avevo per potere guardare però guardavo ma non vedevo nien-
te, per me le cose che vedevo erano ombre, tutto.
[A scuola] eravamo otto ragazzi, fra donne e ragazzi, a metà anno siamo rimasti
in cinque. In un mese, non sono stati più di trentacinque giorni mi sono imparato
a leggere. Ho riacquistato la vista, come ho imparato a leggere e scrivere. Sono
stato il primo della classe che mi sono imparato a leggere e scrivere. È stato faci-
lissimo, è stata una cosa meravigliosa. Il professore è stato di un aiuto magnifico,
non c’era mai un momento che era agitato, lavorava sempre con il sorriso in boc-
ca, lui mi faceva componere le lettere a poco a poco “ra” “re”, mi ricordo ancora
queste lettere. Prima mi ho imparato l’alfabetario, io neanche sapevo dire la “i”,
io non la conoscevo. In un mese ho fatto un dettato, divisioni, numeri. In tanti
anni senza sapere leggere né scrivere e poi…
Quando mi sono imparato a leggere e scrivere io a casa ci arrivavo sempre verso
le nove e mezzo, le dieci. Mi passava tutta la serata andare a leggere tutti i mani-
festi che non ho potuto mai leggere in vita mia, tutti. Al cinema, in tutti i cinema
andavo a vedere tutti i manifesti e leggere tutti. (…) Quello era il mio passatem-
po, ho recuperato quello che non ho mai potuto leggere in passato, infatti io con
mia moglie sera per sera avevo discussioni, lei si immaginava che io andavo a fare
una scaminata, a fare cose abbastanza curiose, invece non era questo era soltanto
che io mi sono sentito rinascere. Guardavo la mia città.
Imparandomi a leggere mi sono sentito un’altra persona ho capito meglio la vita.
Sensazioni molto simili sono quelle che ha raccontato Aicha, una ragazza
marocchina di 16 anni. Al suo paese aveva frequentato solo per pochi mesi la
scuola, ed era arrivata a Palermo al seguito di un padre venditore di tappeti,
analfabeta come lei. Aicha dopo due anni di smarrimento e di angoscia dei
luoghi e delle persone si presenta spontaneamente a una scuola vicino casa.
Spiega così il suo bisogno di scrittura:
Questo voglio: leggere strade, via, giornale per lavoro. Non so leggere. Una volta
sono stata lontano, c’era signora, non ho visto strada sono stata di mattina alli set-
ti, alla sera alle otto. Ho preso l’auto, da una parte io lasciato, sono aspettata tan-
to. Passata mia amica portata qui a casa mia. Io non andata più lavoro.
Analfabeti nell’Italia di ieri e di oggi 47
Per strada guardo, visto questo, visto quello, ricordo dove passato, questo io co-
nosco strade. Vedo niente, vedo disegni belli, nelle strade, solo vedere, leggi nien-
te. Sono arrabbiata dentro perché io voi leggere, voi scrivere, voi fare tutto.
Grado di istruzione
Analfabeta Alfabeta Licenza Licenza Diploma Diploma Titoli
privo di scuola di scuola di scuola terziario universitari
di titolo elementare media secondaria non
di studio inferiore superiore universitario
o di del vecchio
avviamento ordinamento
professionale e diplomi
Provenienza A.F.A.M.
Tab. 5 - Popolazione straniera residente di 6 anni e più per grado di istruzione e prove-
nienza. Toscana. Dati del Censimento del 2011.
tere (in alfabeto latino o altro alfabeto), capacità di apporre la firma, lenta de-
cifrazione di alcune parole, etc.
La configurazione dei diversi profili dei migranti in arrivo, sui quali come
si è detto non abbiamo alcun dato complessivo, è una informazione indispen-
sabile per la costruzione di politiche educative e scolastiche rivolte alla loro
inclusione.
Alcune elementi di conoscenza, seppure ancora assai poco precisi, stanno
giungendo da scandagli esterni alle aule scolastiche. Il Rapporto Annuale
SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) del 2016
(chiuso ad aprile del 2017 e on line il 27 giugno), redatto a cura del servizio
centrale SPRAR, segnala, ad esempio, che dei 19.263 frequentanti corsi di lin-
gua italiana ben 4.569 (cioè quasi il 25%) sono stati inseriti in corsi di pre-al-
fabetizzazione, una etichetta attribuita a corsi nei quali insieme alla lingua ita-
liana vi è un percorso di apprendimento della lettura e scrittura.
Dati significativi, e che vanno nella stessa direzione, provengono da uno
studio commissionato da UNICEF e realizzato da REACH (rapporto del giu-
gno 2017)14. Su un campione statisticamente rappresentativo composto da
570 minori stranieri non accompagnati (msna)15 (per la stragrande maggioran-
za maschi fra i 15 e i 17 anni) sbarcati in Sicilia nel 2016, il 13% dichiara di non
saper per nulla leggere, il 29% poco e il 58% di sapere leggere fluentemente;
per la capacità di scrittura il 14% dichiara di non sapere scrivere per nulla, il
32% così così e il 54% di sapere scrivere fluentemente. Tali numeri sono per-
fettamente in linea, per altro, con la realtà scolastica del paese di provenienza
come possiamo vedere dalla Tab. 6. In essa sono confrontati i dati percentuali
sulla alfabetizzazione dei msna giunti in Sicilia nel 2016 dalla Guinea, dal Gam-
bia e dalla Nigeria (aree dalle quali i flussi sono stati assai consistenti), con il da-
to dei bambini non inseriti nel sistema scolastico nelle nazioni di provenienza16.
14
Nel rapporto si specifica che «REACH è un’iniziativa congiunta di due organizzazioni non
governative internazionali, IMPACT Initiatives e ACTED, e di un programma per l’acquisizione e
l’analisi delle immagini satellitari, UNOSAT, dell’agenzia delle Nazioni Unite UNITAR. REACH
contribuisce allo sviluppo di strumenti di raccolta e analisi dei dati, e di prodotti d’informazione, de-
stinati a migliorare la capacità decisionale degli attori umanitari, e della cooperazione allo sviluppo,
in contesti di emergenza, ricostruzione post-emergenza e sviluppo. Ogni attività di REACH è realiz-
zata nel quadro di meccanismi ufficiali di coordinamento umanitario e con un approccio mirato alla
creazione di partenariati tra diverse agenzie e organizzazioni attive sul territorio» (cfr. sito www.reach
- initiative.org).
15
Vengono definiti “minori stranieri non accompagnati” (msna), i «minori stranieri, presenti
nel territorio dello Stato, non aventi cittadinanza italiana o di altri Stati dell’unione europea che, non
avendo presentato domanda di asilo, si trovano in Italia, privi di assistenza e di rappresentanza da
parte di genitori o di adulti per loro legalmente responsabili». Il 92% dei minori arrivati in Italia nel
2016 sono msna (cfr. UNHCR, UNICEF and IOM, Refugee and migrant children – including unac-
companied and separated children – in Europe, April 2017).
16
Sono qui riportati i dati UNICEF (aggiornati 2017) relativi a “Education: Out-of-school rate
for children of primary school age – Percentage” (cfr. htpps://data.unicef.org).
Analfabeti nell’Italia di ieri e di oggi 51
Come si vede in tutti e tre i Paesi circa un terzo dei bambini sono esclusi dal
sistema dell’istruzione.
Tab. 6 - Msna arrivati in Sicilia nel 2016 per livelli di alfabetizzazione confrontati con
bambini fuori dal sistema scolastico nei paesi di provenienza (dati percentuali).
A quanto fin qui segnalato è utile aggiungere un altro dato ricavato questa
volta da test di lettura e scrittura. Su 570 migranti dai 16 ai 30 anni che hanno
chiesto l’accesso ai corsi della Scuola di Lingua italiana per Stranieri dell’Ate-
neo di Palermo 17 dal giugno all’ottobre del 2017, per l’ottanta per cento arri-
vati in Italia via mare con i nuovi flussi migratori, poco più di un quarto risul-
tavano al test (quindi non secondo autodichiarazione) pochissimo o per nulla
alfabetizzati, cioè incapaci di leggere e/o scrivere parole isolate o frasi elemen-
tari in un qualsiasi sistema di scrittura 18. Se controlliamo gli anni di scolariz-
zazione dichiarata troviamo che 74 indicano di non essere mai andati a scuola
né nel loro paese né in Italia, molti segnalano 1 o 2 anni, mentre un gruppo
non esiguo segnala una scolarizzazione significativa (fino a 5 anni) 19.
Interessante è anche la situazione opposta, cioè la presenza di migranti
pienamente alfabetizzati che dichiarano nessuna o bassissima frequenza sco-
lastica. Dei 360 migranti risultati pienamente alfabetizzati al test di ingresso
una decina dichiarano di non avere frequentato percorsi scolastici né al loro
Paese né in Italia.
17
Su questa realtà che ha accolto nei propri corsi più di 2000 msna negli ultimi anni e che ha
sviluppato un programma specifico per l’apprendimento della lettura e scrittura insieme alla lingua
italiana si veda Amoruso, D’Agostino, Jaralla 2015 e il sito www.pontidiparole.com
18
Il test è predisposto per essere somministrato nelle lingue materne dei migranti (arabo, bam-
bara, bangla, francese, inglese, spagnolo, mandinka, wolof, pular) e verifica le competenze di letto-
scrittura, oltre che in alfabeto latino e arabo, anche in alfabeto bengali e tamil.
19
Non è stata considerata fra gli anni di scolarizzazione la frequenza alla scuola coranica. Pochi,
comunque, dichiarano esplicitamente la frequenza di tale scuole al momento dei test probabilmente
per paura di essere segnalati come “fondamentalisti islamici”, come ci è stato confessato più volte.
In fase successiva, durante i corsi e nelle interviste effettuate a percorsi formativi conclusi, la frequen-
za per uno o più anni alle madrasse appare invece generalizzata, specie per i ragazzi provenienti da
alcune aree come il Gambia.
52 Mari D’Agostino
4. La scuola per adulti nell’Italia di oggi: vietata a chi non sa leggere e scrivere
20
La presenza di utenti a scarsa e scarsissima alfabetizzazione è prevista ora nelle Linee guida
per la progettazione dei Piani regionali per la formazione civico linguistica dei cittadini di Paesi terzi fi-
nanziati a valere sul FAMI - OS 2 - ON 2 - Azioni formative specifiche - percorsi sperimentali - Tra-
smissione protocollo di sperimentazione (nota MIUR 2303.2016, prot. N. 3298). In tale ambito è
previsto un percorso pre-A1 che contiene un massimo di 25 ore per attività di alfabetizzazione. Gli
“Obiettivi di alfabetizzazione pre-A1 sono così declinati: Comprendere l’idea di frase e iniziare a
comprendere l’idea di testo • Utilizzare le convenzioni di scrittura e di punteggiatura, pur con errori
• Orientarsi nell’oggetto-libro utilizzando l’indice • Leggere globalmente e analiticamente parole fa-
miliari e/o semplici • Scrivere le medesime parole • Leggere una frase legando i componenti • Scri-
vere brevissime frasi, pur con errori • Iniziare a utilizzare strategie per l’apprendimento • Compren-
dere le principali tecniche di insegnamento in aula e trarne profitto. Si veda la nota 21 per il rapporto
monte ore/obiettivi da raggiungere.
21
Per avere un qualche parametro di valutazione relativamente alle 20 ore di recupero delle
competenze previste dalla normativa italiana, segnaliamo che in Germania per i soggetti a bassa sco-
larizzazione sono previsti percorsi di 1200 ore per raggiungere il livello B1, mentre per chi è piena-
mente alfabetizzato si prevedono corsi di 645 ore. Si considera quindi che una adulto scarsamente
alfabetizzato il percorso di apprendimento della lingua del paese ospitante nella sua dimensione scrit-
ta e orale deve essere raddoppiato.
54 Mari D’Agostino
22
Nelle Raccomandazioni adottate alla fine della General Conference of the United Nations
Educational, Scientific and Cultural Organization, meeting in Paris from 24 October 1978 to 28 No-
vember 1978 sono state adottate le seguenti definizioni di «literate and functionally literate» (citate
qui di seguito dal Portale dell’Unesco www.unesco.com):
(a) A person is literate who can with understanding both read and write a short simple state-
ment on his everyday life.
(b) A person is illiterate who cannot with understanding both read and write a short simple sta-
tement on his everyday life.
(c) A person is functionally literate who can engage in all those activities in which literacy is re-
quired for effective functioning of his group and community and also for enabling him to con-
tinue to use reading, writing and calculation for his own and the community’s development.
(d) A person is functionally illiterate who cannot engage in all those activities in which literacy
is required for effective functioning of his group and community and also for enabling him
to continue to use reading, writing and calculation for his own and the community’s deve-
lopment.
Per importanti riflessioni critiche sul concetto di functionally literate (literacy) si veda, fra gli altri.
Levine (1982:250): «current notions of functional literacy (…) obscure the identification of appro-
priate targets, goals, and standards of acheviement in the education of adults by proomising, though
failing to produce, a quantitatively precise, unitary standard of ‘survival’ literacy (…). These varyng
conceptions of functional literacy encourage the idea that relatively low levels of individual achieve-
ment (…) will directly result in a set of universally desidered outcomes, such as employment, perso-
nal and economic growth, job advancement, and social integration». Anche Burgess and Hamilton
(2011: 14) dopo avere esaminato come functional literate (literacy) viene utilizzato in Gran Bretagna,
Stati Uniti e Canada concludono che «by examining its history, we can see how it oversimplifies the
relationship between literacy and economic prosperity and thereby perpetrates long - standing myths
in the field (…) as well as supporting unrealistic expectations of what policy investment can achieve».
23
In direzione del tutto diversa vanno, per fortuna, altri testi di indirizzo generale della Scuola
italiana come le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e primo ciclo d’istruzione
del 2012 dove la terminologia è del tutto chiara. Infatti, oltre a parlare chiaramente di analfabetismo
56 Mari D’Agostino
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., 2016. Rapporto Annuale SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo
e Rifugiati). Chiuso ad aprile del 2017 e on line il 27 giugno (http://www.interno.
gov.it.).
e di suo ostacolo alla cittadinanza (“In questa situazione di grande ricchezza formativa sono presenti,
al contempo, vecchie e nuove forme di emarginazione culturale e di analfabetismo. Queste si intrec-
ciano con analfabetismi di ritorno, che rischiano di impedire a molti l’esercizio di una piena cittadi-
nanza”, p. 4), in tale testo si chiarisce sempre in quale accezione si usa il termine alfabetizzazione con
quattro diverse opzioni: alfabetizzazione culturale di base, alfabetizzazione strumentale, alfabetizza-
zione funzionale, prima alfabetizzazione. Con l’ultima locuzione ci si riferisce chiaramente all’appren-
dimento della lettura e scrittura nella scuola primaria (“La pratica della scrittura viene introdotta in
modo graduale: qualunque sia il metodo usato dall’insegnante, durante la prima alfabetizzazione il
bambino, partendo dall’esperienza, viene guidato contemporaneamente a leggere e scrivere parole e
frasi sempre legate a bisogni comunicativi e inserite in contesti motivanti. L’acquisizione della com-
petenza strumentale della scrittura, entro i primi due anni di scuola, comporta una costante attenzio-
ne alle abilità grafico-manuali e alla correttezza ortografica”). I gradi di padronanza della lingua, se-
guendo una terminologia del tutto omogenea a livello internazionale, vengono chiamati sempre livel-
lo (A1, A2, livello elementare, etc.).
Analfabeti nell’Italia di ieri e di oggi 57
Amoruso Marcello / D’Agostino Mari, 2017. «Teenage and adult migrants with low
and very low education level. Learners profile and proficiency assessment tools,
(Council of Europe Symposium)», in Jean-Claude Beacco / Hans-Jürgen Krumm
/ David Little / Philia Thalgott (eds.), The Linguistic Integration of Adult Mi-
grants: Some Lessons from Research. Berlin, De Gruyter Mouton in cooperation
with the Council of Europe, pp. 347-352.
Amoruso, Marcello / D’Agostino Mari / Jaralla Latif Yousiff (a cura di), 2015. Dai
Barconi all’Università. Percorsi di inclusione linguistica per minori stranieri non ac-
compagnati, Palermo, Scuola di Lingua italiana per Stranieri.
Burgess, Amy / Hamilton Mary, 2011. «Back to the future?: functional literacy and
the new skills agenda», in Discussion paper, pp. 1-18.
D’Agostino, Mari, 2018. «Giocare a calcio a Palermo. Parole e segnali», in Vito Luigi
Castrignanò / Francesca De Blasi / Marco Maggiore (a cura di), “In principio fuit
textus”. Studi di linguistica e filologia offerti a Rosario Coluccia, Firenze, Franco
Casati, pp. 493-499.
—, 2017a. «L’italiano e l’alfabeto per i nuovi arrivati», in Testi e linguaggi, 11, (nume-
ro monografico L’italiano migrante, a cura di Sergio Lubello), pp. 141-156.
—, 2017b. «“Chiamo uomo chi è padrone delle sue lingue”. Modelli di plurilingui-
smo da Lampedusa in su», in Loredana Corrà (a cura di), Educazione linguistica
in classi multietniche, pp. 131-141, Roma, Aracne.
—, 1996. «Spazio, città, lingue. Ragionando su Palermo», in Rivista Italiana di Dialet-
tologia. Lingue dialetti società, XX, pp. 35-88.
De Mauro, Tullio, 2014. «Pour une linguistiques d’intervention. Des usages socio-po-
litiques des savoirs sur le langage et les langues», in Dossiers d’HEL, SHESL, p.
7. <http://dossierhel.hypotheses.org/>.
—, 2011. «Istruzione e democrazia» Intervista di Giuseppe D’Ottavi e Christian Rai-
mo in Alfabeta2, n° 12 - settembre 2011.
—, 1994. Capire le parole, Roma-Bari, Laterza.
—, 1986. «Per una nuova alfabetizzazione», in Stefano Gensini e Massimo Vedovelli
(a cura di), Teoria e pratica del glotto-kit: una carta d’identità per l’educazione lin-
guistica, Milano, Franco Angeli, 19-29.
—, 1982. Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Roma-Bari, Laterza.
—, 1980. Guida all’uso delle parole, Roma, Editori Riuniti.
—, 1963 (2011). Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza.
Harrison, Gualtiero / Callari Galli Matilde, 1971. Né leggere né scrivere La cultura
analfabeta: quando l’istruzione diventa violenza e sopraffazione, Milano, Feltrinelli.
Istat 1959. «Le rilevazioni statistiche in Italia dal 1861 al 1956. Modelli di rilevazione.
1. Censimenti - Statistiche demografiche e sociali», in Annali di statistica, anno
88, serie VIII, vol. 8.
—, 2012. «I censimenti nell’Italia unita. Le fonti di stato della popolazione tra il XIX
e il XXI secolo», in Annali di statistica, anno 141, serie XII, vol. 2.
Levine, Kenneth, 1982. «Functional Literacy: Fond Illusions and False Economies»,
in Harvard Educational Review, September Vol. 52, No. 3, pp. 249-266.
Maic, DirStat., 1903. Numero delle famiglie e numero degli abitanti classificati secon-
do la qualità della dimora, il luogo di nascita, il sesso, l’età, lo stato civile e l’istru-
zione. Ciechi e sordomuti. Stranieri. Lingue parlate. Vol. II di Censimento della po-
58 Mari D’Agostino
ne che ormai e finalmente usa molto la sua lingua nel parlare ma solo per meno
di un terzo la possiede e usa con quel sufficiente livello di padronanza che sol-
tanto la consuetudine con la lettura può dare. Se è la lingua che ci fa eguali, co-
me dicevano don Lorenzo [Milani] e i suoi allievi, ci troviamo dunque dinanzi a
un paese che, più di altri, nel suo linguaggio è ancora segnato da diseguaglian-
ze che possono sfuggire ai più se chi le conosce e studia non sa chiarirne ad altri
la portata.
1
In F. Musarra et alii (a cura di), “Noto a chi cresciuto tra noi ”. Studi di lingua e letteratura ita-
liana per Serge Vanvolsem, Firenze, Cesati, 2014, p. 23.
64 Claudio Marazzini
2
Cfr. la strenna per il 2017, fuori commercio, UTET il laboratorio della parola, Torino, Utet
Grandi Opere, 2016; e T. De Mauro, «Memorie dal Gradit», in Lingua e Stile LII 2017, pp. 7-17,
preceduto da un editoriale firmato da C. Marazzini a nome della Direzione della rivista, In memoria
di Tullio De Mauro, pp. 3-5.
Dall’Italia unita all’Italia repubblicana: lezioni di stile e di metodo… 65
Qualunque sia il metodo che adottano, o l’ordinamento, per generi o per se-
coli o per tipologie testuali, qualunque sia il livello di raffinatezza tecnica di
queste opere, comunque la lezione di De Mauro dovrà far ricordare sempre a
tutti, agli autori ai lettori, che la storia linguistica è prima di tutto storia civile,
e non è fine a se stessa, perché serve come bussola per orientare l’azione all’in-
terno della società. Ce lo ricorda De Mauro con la citazione di Gramsci posta
in esergo, con altre, ad aprire la Storia linguistica dell’Italia repubblicana, dove
si riporta un passo in cui quel grande si interroga sulla funzione della gram-
matica in quanto descrizione linguistica, fotografia di una situazione di fatto.
Ma poi si chiede: «a che fine tale fotografia? Per fare la storia di un aspetto
della civiltà o per modificare un aspetto della civiltà?».
1. Introduzione
La riflessione italiana dei primi decenni del Novecento sulla storia delle
lingue e la linguistica storica è stata segnata da momenti significativi, in cui
linguisti di primo piano come Terracini, Devoto e Pagliaro hanno sviluppa-
to un dibattito originale e vivace, spesso entrando in dialogo tra loro. Que-
sti studiosi si trovarono a vivere una stagione della linguistica densa di fer-
menti e cambiamenti, in cui in vari ambienti europei le strade sicure indica-
te dalle dottrine neogrammaticali avevano perso, o stavano perdendo, il lo-
ro smalto, con la crisi del positivismo e l’avvento del nuovo modo di conce-
pire la storia e le Geisteswissenschaften. Essi ebbero come orizzonte un qua-
dro intellettuale europeo complesso, in cui alle nuove correnti dello stori-
cismo venivano a sovrapporsi, e a volte opporsi, le prime ondate del pensie-
ro strutturalistico. In Italia, dovettero confrontarsi con la perdurante influen-
za dell’eredità di Ascoli, e con un clima culturale e politico reso più difficile
dal fascismo, un contesto particolarmente problematico per Terracini, mem-
bro della comunità ebraica torinese, e per Devoto, di idee socialiste libera-
li. Furono sensibili al pensiero di Croce, e tuttavia ne rimasero indipenden-
ti, da linguisti che ritenevano che la loro fosse una scienza con propri principi
e metodi.
Il dibattito italiano su lingua e storia del primo Novecento, di notevole in-
teresse storiografico, acquista una luce e contorni particolari se analizzato, ol-
tre che di per sé, anche rispetto al panorama delle ricerche linguistiche tra le
due guerre. È possibile vedere in tal modo che gli studiosi che abbiamo men-
zionato affrontarono in solitudine delle tematiche che alla lunga si sarebbero
68 Rosanna Sornicola
Nel 1932 nel primo volume delle Indogermanische Forschungen (pp. 147-
153) Leo Spitzer pubblicò una recensione alla Silloge dedicata alla memoria di
Ascoli, un’opera imponente, di quasi settecento pagine, curata da Goidànich,
Bartoli, Nallino, Devoto e Terracini, a cui avevano contribuito i più autorevoli
linguisti italiani del primo Novecento. La recensione di Spitzer metteva in ri-
lievo il ruolo centrale di Ascoli negli ambienti di ricerca italiani, e sollevava la
questione di giustificare l’influenza del maestro goriziano, la cui impostazione,
considerata tradizionalistica, appariva durevole e pervasiva (Spitzer 1932:
148). Tra le tesi di particolare interesse dei vari contributori del volume, lo
studioso tedesco sottolineava il punto di vista di Terracini, secondo cui la pa-
leontologia storica ascoliana aveva poco di veramente storico e conduceva alla
costruzione di entità del tutto astratte come il ladino e il francoprovenzale. In
Ascoli Spitzer ravvisava un rappresentante dell’esprit de géométrie piuttosto
che dell’esprit de finesse, sensibilità tipica delle scienze dello spirito. Evidente
a suo avviso la contrapposizione con la concezione crociana della lingua come
creazione artistica ed espressione spirituale, concezione che gli sembrava squi-
sitamente italiana. Spitzer si chiedeva pertanto le ragioni dello scarso seguito
di Croce negli ambienti linguistici del paese e quelle della sua affermazione in
Germania: «Wie soll man also die sprachwissenschaftliche Wirkung Ascolis
1
Per una analisi più puntuale di queste tesi mi permetto di rinviare a Sornicola (in stampa).
Il problema della storia linguistica:… 69
in einem Lande erklären, das von vornherein Croce zujubeln sollte?» 2. A suo
avviso la risposta era che sebbene il paese spontaneamente sentisse e pensasse
come Croce, rendeva poi tributo all’ideale scientifico di Ascoli, per una sorta
di compensazione in eccesso («es handelt sich… um eine jener Überkompen-
sationen, die wie im Leben des Einzelnen so auch in dem der Völker zu beo-
bachten sind»)3. Egli riteneva inoltre che la felicità di espressione del popolo
italiano fosse in controtendenza alla scienza linguistica italiana ed enumerava
le caratteristiche di quest’ultima responsabili di tale situazione: la ricostruzio-
ne astratta, l’osservazione di materiali linguistici avulsi dall’espressione delle
singole persone e considerati mattoni di costruzione della “Storia”, il tratta-
mento “anestetico” ed oggettivo dei fenomeni linguistici, libero da giudizi di
valore, il vincolo di scuola ad una dottrina tradizionale, sovraindividuale. A
queste caratteristiche, secondo Spitzer, la ricerca linguistica italiana assegnava
un valore di moralità scientifica in sé 4.
Alcune osservazioni della recensione sono dotate di una certa finezza psi-
cologica, come quando Spitzer definisce Ascoli un tradizionalista che cerca
strade nuove e cita l’espressione di Terracini «un musicista che ami racchiude-
re un’anima nuova entro gli schemi tradizionali di una melodia», riportandola
in maniera più generale agli ebrei della diaspora. Sembra suggestiva anche la
sua analisi della Silloge come un’opera in cui si riflette una tensione tra «l’anima
nuova» dell’Italia e i «canoni» di Ascoli, segnati da uno sviluppo in senso clas-
sico 5. Altre osservazioni suonano come una critica aspra e senza sconti dell’Ita-
lia fascista. Per Spitzer la compensazione eccessiva della scienza linguistica e
il rifarsi al classicismo erano da porre in relazione ad altre compensazioni della
vita pubblica e ad altre riesumazioni di tradizioni antiche. Benché asserisca di
non voler dare l’impressione di stabilire un rapporto tra il disciplinamento
della linguistica italiana e il disciplinamento pubblico dell’Italia, egli non si
astiene dal dire che in entrambe le manifestazioni vede delle reazioni sovra-
compensate «a quello spirito umano aperto al mondo e agile che sinora cono-
scevamo come italiano» e conclude che la Silloge dunque potrebbe avere come
titolo: «Ascoli oder die Selbstdisziplin der italienischen Sprachwissenschaft»6.
2
Spitzer 1932:149 (riporto in originale qui come altrove nel testo alcune citazioni che mi sem-
brano particolarmente pregnanti). Lo studioso austriaco notava anche che Croce non era quasi mai
citato nel volume.
3
Ibidem.
4
Ivi: 149-150.
5
Ivi: 150.
6
Ibidem. L’allusione al fascismo è evidente anche in un altro passo della recensione, in cui Spit-
zer critica il carattere scolastico e dogmatico degli studi italiani: «Sembra quasi come se “la Scuola”
servisse più alla conservazione di un corpus di dottrine che all’esplorazione di nuove strade, per cui
una massa di giovani talenti di belle speranze sta a disposizione e la nazione è tutta presa in questa
nuova costruzione giovanilistica» (Spitzer 1932: 152).
70 Rosanna Sornicola
7
È esplicitamente criticato al riguardo Goidànich, si veda Spitzer 1932: 150.
8
Ivi: 150-151.
9
Ivi: 151.
Il problema della storia linguistica:… 71
10
Ivi: 152.
11
Ibidem. Il richiamo univoco alla sistematicità francese per Jakobson e Trubetzkoj è discutibile
in sede storica, dal momento che nelle posizioni degli studiosi russi è possibile ravvisare un comples-
so intreccio di filoni culturali e scientifici.
12
La ripresa in toto e in maniera di citazione di queste argomentazioni di Spitzer da parte di
Croce potrebbe far ipotizzare che la stretta consonanza di vedute fosse stata agevolata da scambi di
opinione epistolari, ipotesi che al momento non posso comprovare.
13
Spitzer 1932: 152.
14
Ivi: 153.
72 Rosanna Sornicola
Nel 1933, nel suo discorso presidenziale di apertura del Terzo Congresso
internazionale dei linguisti, a Roma, Paolo Emilio Pavolini, indianista e glot-
tologo di spicco tra i linguisti italiani del tempo, prese posizione frontalmente
rispetto alla critica di Spitzer, che aveva agitato alcuni ambienti accademici
italiani, nell’intento di sottolineare davanti ad un uditorio internazionale alcu-
ne caratteristiche della ricerca linguistica italiana in maniera contrappositiva
rispetto a punti di vista a suo modo di vedere erronei, e soprattutto con l’o-
biettivo di appoggiare la politica culturale del fascismo 15:
«Uno dei pochissimi lavori collettivi cui parteciparono non solo quanti hanno nel
regno responsabilità cattedratica di questa disciplina ma, si può dire, quasi tutti i
suoi cultori in Italia, è la Silloge linguistica dedicata alla memoria di G. I. Ascoli,
del 1929. Essa ebbe generalmente accoglienze ottime, ma fu fraintesa da un criti-
co tedesco, nella presunzione che quel volume dovesse segnare i limiti entro cui
si svolge l’attività dei nostri glottologi. Egli ci vide, per di più, un segno di arresto
che sarebbe tanto più pericoloso in quanto negli altri paesi vi corrisponderebbe
uno sviluppo più o meno notevole, ma sempre sintomatico; poiché, secondo il
pensiero del critico stesso, tale sviluppo tenderebbe ovunque al superamento di
metodi e di tendenze tradizionali. Dalle parole dei prefatori alla Silloge affermanti
che l’Ascoli è riconosciuto come il maestro e il capo di tutta la scuola linguistica
italiana si dedusse, molto a torto, che da noi fossero eliminati quei contrasti che
sono il lievito della scienza. Che questi abbiano mancato da noi, certamente nes-
suno vorrà asserire; taluno converrà che alle volte essi furono anzi tanto forti da
richiedere parecchio tempo prima di poter essere superati. Forse altrove questio-
ni teoriche, quali la valutazione della legge fonetica, i limiti e gl’indirizzi della geo-
grafia linguistica, e pratiche, quali per esempio le discussioni sui modi, sui meto-
di, sulle finalità degli atlanti linguistici non furono svolte con altrettanta ampiezza
come in Italia». (Pavolini 1933: 5)
15
La critica di Spitzer al clima culturale del fascismo non viene lasciata cadere nel silenzio e vie-
ne ribattuta parola per parola. L’appoggio al regime è pieno e incondizionato: «Che in questo pre-
sunto classicismo, o meglio “tradizionalismo”, della fase odierna degli studi linguistici nel nostro pae-
se, sia da vedere una conseguenza e un parallelismo con la disciplina della vita pubblica italiana (…)
per cui la scienza cercherebbe nel ritorno alle tradizioni e all’astratto una “compensazione eccessiva”
contro “quello spirito umanistico, aperto al mondo reale e mobile, che noi conoscevamo finora come
specificamente italiano”, merita d’esser rilevato come indice di una conoscenza superficiale del no-
stro spirito, dei movimenti scientifici italiani e del recente ambientamento agli ideali spirituali del Fa-
scismo, che appunto preferisce il concreto e vuole e raggiunge il contatto della scienza con la vita.
Astrazione scientifica nella fase attuale della linguistica italiana ce n’è forse meno che altrove» (Pa-
volini 1933: 7).
Il problema della storia linguistica:… 73
16
«Di esatto, quando si parla di una scuola linguistica italiana derivante dall’Ascoli, resta solo
che tutti i glottologi italiani si sentono solidali nel carattere storico-comparativo impresso in Italia ai
nostri studi dall’immortale Maestro. Viceversa, se il volume doveva rappresentare lo sviluppo di cui
il pensiero ascoliano fu ed è suscettibile, è ovvio che esso dovesse o trascurare o accennare molto di
sfuggita ad altre tendenze che pur si rispecchiano nella linguistica italiana, ma sono estranee alla pre-
messa dei collaboratori della Silloge» (Pavolini 1933: 5-6).
17
Pavolini 1933: 6.
74 Rosanna Sornicola
come Terracini, Devoto e Pagliaro, entrati tra loro in uno stretto dialogo. In-
stancabile agitatore di problemi, Terracini fu l’anima del dibattito.
18
Mi permetto di rinviare al riguardo a Sornicola (in stampa).
19
Questo clima umano è ben evidente nell’articolo di Terracini «Linguistica e archeologia»,
una recensione a Gli antichi Italici di Devoto, pubblicata sotto forma di lettera aperta: «La lettura
del tuo libro su “Gli antichi Italici” m’è venuta via via suggerendo alcune osservazioni e commenti,
come sempre accade ad un libro che meriti di essere letto con attenzione e con simpatia: pagine e
spunti ora mi strappavano un fregaccio marginale di consenso per un’idea nuova e ben dimostrata,
or anche suggerivano punti interrogativi per segnalare a me stesso dubbi su ciò che leggevo e per do-
mandarmi perché nel tuo libro non c’è quello che ch’io mi aspettavo che ci fosse; ma soprattutto era
la sorpresa di trovare un argomento che da anni è materia al nostro studio comune, concepito da uno
spirito che si mostra talvolta addirittura agli antipodi con le più radicate abitudini del mio pensiero.
Anche a lettura finita e a mente riposata, mi è parso che qualcuna di queste impressioni valesse la pe-
na di discuterla in pubblico; ma a farla da censore e recensore a te, amico mio carissimo, non mi rie-
sce davvero; niente recensione dunque: ma, se vuoi, continuiamo in pubblico una di quelle discus-
sioni come siam soliti di fare a quattro occhi, ragionando dei nostri studi con fraterna discordia, la
quale è il lievito spirituale della nostra amicizia» (Terracini 1933: 137).
Il problema della storia linguistica:… 75
20
Ivi: 138.
76 Rosanna Sornicola
tolo di storia di una lingua non concorrono a facilitare questa definizione essen-
ziale. Il puro grammatico vede nella storia di una lingua nient’altro che lo svolgi-
mento della sua struttura grammaticale e in prima linea quello dei suoi elementi
primordiali, i suoni. Il filologo vede nella storia di una lingua soprattutto il succe-
dersi di modelli stilistici, un contributo alla individuazione degli autori, una parte
non di primo piano della storia letteraria. Lo storico della cultura, approfonden-
do i concetti, vede o vorrebbe vedere nella storia di una lingua un aspetto della
storia della cultura ed applica alla lingua criteri di giudizio analoghi a quelli pro-
pri di altre manifestazioni dello spirito: ma è portato a trascurare quello che nella
lingua vi è di inconscio, o a vedere echi di manifestazioni spirituali in manifesta-
zioni linguistiche tipicamente inconsce». (Devoto 1940: 371)
Ma c’è un secondo tema che occupa una parte centrale della lettera-recen-
sione di Terracini a Devoto, il tema della identità linguistica. Il tema precorre
interessi dello studioso torinese che troveranno più ampia formulazione nei
lavori dell’età matura. In «Linguistica e archeologia» esso si pone in rapporto
alla definizione della individualità degli Italici data da Devoto. Il patrimonio
linguistico italico infatti, a suo avviso, è descritto in forma statica 21. La vera in-
dividualità degli Italici va cercata nelle complesse dinamiche di adozione, as-
sorbimento e adattamento di tratti culturali e linguistici mediterranei, etru-
schi, greci e del mondo romano 22. Attraverso la testimonianza di dubbi, che
manifestano un pensiero critico vigile e sempre all’opera, Terracini dice con
chiarezza di ritenere che il concetto di “individualità italica” è un portato del-
la linguistica ricostruttiva:
«V’è in questo libro una frase pensosa, in forza della quale ondeggiamenti e con-
traddizioni si elevano all’espressione di un dubbio metodico, uno di quei dubbi
che più mi tormentano quando io consideri qualsiasi libro che tratti di una lingua
con l’intenzione di tracciarne alla brava la storia: “sicché… l’indagine linguistica
compie il ciclo che le è assegnato, di estrarre prima di tutto, quello che costituisce
la personalità linguistica degli Italici, di situare però questi popoli nella realtà sto-
rica dell’ambiente in cui si sono trovati, dal quale e al quale completamente di-
menticando le nebulose origini, hanno preso e hanno dato”. È cioè certo che a
creare il concetto di individualità italica ha molto contribuito il periodo ricostrut-
tivo e evolutivo della linguistica». (Terracini 1933: 145)
Vale la pena discutere ancora alcuni aspetti del pensiero di Terracini, che
a mio avviso costituiscono il punto più avanzato degli studi italiani degli anni
’30 in merito alla riflessione sulla storia linguistica.
21
Ivi: 141.
22
Ivi: 144-145.
Il problema della storia linguistica:… 77
23
Ivi: 247.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
78 Rosanna Sornicola
delli della variazione e del cambiamento elaborati dalla linguistica romanza tra
la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, frutto di una mutata consape-
volezza della complessità della diffusione nello spazio e nel tempo dei feno-
meni linguistici e di una nuova visione della storia come studio dello straordi-
nario e problematico intreccio di vicende che hanno a fondamento gli uomini
e le loro società:
«Quanto poi alla diacronia, la linguistica contemporanea, specie sotto quella for-
ma che suol chiamarsi linguistica geografica, mirò soprattutto a studiare il movi-
mento linguistico, concepito non più come rappresentazione di uno sviluppo
grammaticale, ma come espressione delle vicende storiche e delle correnti cultu-
rali sulle quali si rinnova il linguaggio; e dall’analisi del movimento linguistico
trasse più rigorosi criteri di cronologia relativa, giungendo anzi a distruggere il
concetto statico di lingua». (Terracini 1929: 248)
È soprattutto di lì a poco nello studio «Di che cosa fanno la storia gli sto-
rici della linguistica?», pubblicato in due parti sull’Archivio Glottologico Ita-
liano, che Terracini affina ulteriormente il suo punto di vista sugli obiettivi e
i metodi della linguistica storica, a partire dalla considerazione delle idee di
studiosi che tra anni ’20 e anni ’30 avevano avuto un ruolo propulsore al ri-
guardo, ponendo il problema di un ripensamento dei metodi ricostruttivi e di
una rappresentazione del movimento linguistico non come mera successione
di fatti linguistici. Egli ricorda con assenso l’opinione di Bartoli secondo cui
26
Ivi: 140.
Il problema della storia linguistica:… 79
27
Terracini 1935-1936: 180. Si veda la nota 10 a p. 180 per i numerosi riferimenti ai lavori di
Bartoli.
28
Ibidem. Si veda la nota 9 con i l riferimento a Meillet.
29
Ibidem.
30
Ivi: 181.
31
Ivi: 230.
32
Ivi: 178.
33
Non è un caso che in questo lavoro Terracini sottolinei l’importanza della romanistica e dello
studio delle lingue vive (1935-1936: 231) e osservi le nuove possibilità per la linguistica storica aperte
dalla geografia linguistica (Terracini 1935-1936: 180).
80 Rosanna Sornicola
niera originale per dare attualità e concretezza alla enunciazione del principio
generale. L’analisi della complessa storia del betacismo latino tiene conto
dell’esame delle oscillazioni ed esitazioni dei parlanti che si possono produrre
in una fase linguistica 34.
Il principio generale enunciato nel lavoro del 1935-1936 mostra una ma-
turazione della riflessione sul senso della linguistica storica e una consapevo-
lezza delle linee di sviluppo storiografiche al riguardo: «per le vie più diverse
è dunque tutto un riferire il fatto storico allo spirito di chi parla» 35. Il mutato
panorama scientifico intervenuto tra l’epoca di Ascoli e quella di Meillet,
Schuchardt, Gillieron,Vossler è chiaramente individuato nelle sue linee essen-
ziali e descritto con una formulazione critica di portata teorica: «I linguisti si
trovano ormai davanti una lingua fluida, viva, nelle cui vicende non l’imper-
sonale ‘Werden’ dello Humboldt minore, o il ‘tempo’ del Saussure, ma gli uo-
mini con il loro pensiero e i loro sentimenti hanno lasciato una mutevolissima,
ma non labile impronta» 36.
Si delinea qui con chiarezza quella nozione di «sentimento linguistico»
che tanta importanza avrà nel pensiero di Terracini, su cui egli continuerà a
riflettere ancora per anni: «È un fatto che noi oggi, oltre al parlare di fatti lin-
guistici e delle loro connessioni e successioni, ci riferiamo volentieri, sempre
più volentieri, a un fattore di carattere soggettivo e sentimentale, che a prima
vista può parere alquanto vago e indefinito, ma che, a ben riflettere, si lascia
chiaramente determinare come il sentimento che ciascun parlante nutre verso
la tradizione in cui volta a volta si attua il suo linguaggio» 37. È una definizione
che non appaga completamente l’inquieta ricerca dello studioso, tant’è che
nel saggio del 1935-1936 egli ritorna più volte sulla possibilità di una sua più
chiara riformulazione 38. È un fatto, peraltro, che la nozione di sentimento lin-
guistico viene a costituire la chiave di volta dell’analisi storica del betacismo
latino, il problema centrale affrontato nel lavoro: «La complessa storia del be-
tacismo ci insegna che una complessa innovazione latina, seguita nella sua
continuità diacronica, si colora di una interferenza storica diversa a seconda
che vari il sentimento che i Romani avevano della propria lingua» 39. Alla fine
34
Ivi: 230.
35
Ivi: 179.
36
Terracini 1935: 179.
37
Terracini 1935-1936: 182. Questa formulazione si accompagna anche ad una riconsiderazione
critica delle idee di Saussure, Meillet, Gillieron, Bartoli e Vossler che possono essere messe in rap-
porto con la definizione di «sentimento linguistico».
38
Si veda ad esempio la discussione relativa alla comunicazione sul concetto di «sentimento lin-
guistico» presentata da Lindroth al Quarto Congresso internazionale dei linguisti a Copenhagen.
Terracini sintetizza la posizione di Lindroth come «la ricerca di una formula che definisca quel senso
di coesione, di padronanza, di equilibrio, con cui ciascun parlante possiede e maneggia il complesso
sistema della propria lingua», rispetto a cui fa dei rilievi (si veda Terracini 1935-1936: 228, nota 147).
39
Ivi: 227-228.
Il problema della storia linguistica:… 81
BIBLIOGRAFIA
Croce, Benedetto, 1933, «Recensione alla “Silloge linguistica dedicata alla memoria
di Graziadio Isaia Ascoli nel primo centenario della nascita”», a cura di Benvenu-
to Aron Terracini e Giacomo Devoto, in La Critica. Rivista di Letteratura, Storia
e Filosofia, 31, p. 52.
Devoto, Giacomo, 1940, Storia della lingua di Roma, Bologna, Licinio Cappelli.
Pagliaro, Antonino, 1930, Sommario di linguistica ario-europea, Roma, L’Universale.
Pavolini, Paolo Emilio, 1935, «Discorso inaugurale», Atti del III Congresso interna-
zionale dei linguisti a Roma (19-26 settembre 1933), Firenze, Le Monnier.
Sornicola, Rosanna, (in stampa), «Storicismo e strutturalismo nella linguistica italiana
del Novecento», Atti del L Congresso internazionale della Società di Linguistica
Italiana (Milano, 22-24 settembre 2016).
Spitzer, Leeo, 1932, «Recensione alla “Silloge linguistica dedicata alla memoria di
Graziadio Isaia Ascoli”», in «Indogermanische Forschungen» 50, pp. 147-153.
40
Ivi: 228-229.
82 Rosanna Sornicola
Come dice Cicerone, l’essere umano può influenzare con il suo discorso i
sentimenti della gente e ottenere consenso. I parlanti debbono creare pertanto
dei testi linguistici adeguati per convincere il proprio uditorio. Secondo Cice-
rone, Crasso afferma che: “Nulla … è più insigne della capacità di avvincere
con la parola l’attenzione degli uomini, guadagnarne il consenso, spingerli a
piacimento dovunque e da dovunque a piacimento distoglierli” (Cicerone
1994, p. 139)1.
E lo stesso Crasso, sempre secondo Cicerone (1994, p. 141) continua:
“Tanto gradevole allo spirito e all’orecchio, quanto un discorso è elegante e
adorno di saggi pensieri e nobili parole” 2. Dire le cose in modo pertinente e
se è possibile anche dirle in modo piacevole, questo è il compito del parlante!
Dunque organizzare il proprio discorso in funzione di quello che si vuol
dire in modo che il messaggio sia efficace e pertinente e organizzarlo in modo
strategicamente adeguato. Ciò vuol dire che oltre a valutare l’occasione del
messaggio, bisogna scegliere come strategicamente usare la lingua adottando
la forma più efficace, elegante e adeguata possibile, non soltanto rispetto alle
circostanze, ma anche rispetto allo specifico uditore /destinatario. In tutto
questo, va fatta una differenza tra messaggio che serve a comunicare qualcosa
e messaggio che invece tende a cercare l’adesione del proprio uditorio.
La prima condizione è comunque parlare o scrivere in modo pertinente.
Non è sufficiente allo scopo adoperare le parole, ma soprattutto combinarle
1
Il testo latino dice: neque vero mihi quicquam praestabilius videtur quam posse dicendo te-
nere hominum mentis, adlicere voluntates, impellere quo velit, unde autem velit deducere.
2
Il testo latino dice: tam iucundum cognitu atque auditu quam sapientibus sententiis gravibu-
sque verbis ornata oratio et polita?
86 Vincenzo Lo Cascio
1. Il lessico
È noto che nella comunicazione, un grande ruolo viene ricoperto dal lessi-
co, dalle parole e le loro combinazioni. I modi con cui in un sistema linguisti-
co il lessico viene organizzato e disposto è di fondamentale importanza reto-
rica. Ogni parola in una lingua è contestualizzata e posta nel dovuto contesto,
deve essere adeguata ad esso, consona con esso e deve avere l’efficacia neces-
saria. Il parlante a sua volta deve impossessarsi di questi meccanismi, in modo
da servirsene nell’interazione con gli altri. L’interesse di De Mauro per la com-
petenza linguistica dei parlanti, per il rispetto verso di essa, per le parole e i
dizionari, sono una testimonianza chiara del ruolo che da linguista ha svolto.
Come parlanti, quale che sia la lingua, il sistema linguistico, cioè, di cui ci
serviamo, non usiamo le parole in funzione alfabetica ma le registriamo e le
Retorica e lessicografia: il processo combinatorio 87
2. Persuasione
3
L’eloquenza, consiste di cinque parti: invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, declama-
zione. Importante tra queste è la disposizione, ma anche il modo come pronunciamo: l’elocuzione
(cfr. Mortara Garavelli 1989).
4
Seguo la distinzione tra persuasione e convincimento proposta da Perelman & Tyteca (1958:
30): “ci proponiamo di chiamare persuasiva un’argomentazione che pretende di valere soltanto per
un uditorio particolare e di chiamare convincente quella che si ritiene possa ottenere l’adesione di
qualunque essere ragionevole”.
Retorica e lessicografia: il processo combinatorio 89
Se passiamo poi alla retorica linguistica e cerchiamo di capire come anche la lin-
gua giochi un ruolo importante nel rapporto con gli altri, allora l’organizzazione
linguistica diventa centrale strumento per ottenere un processo persuasivo se
non un processo di convincimento. In ogni caso è necessario parlare ed espri-
mersi in modo pertinente, appropriato, garanzia del successo. Oggi giorno ci
sono diversi strumenti per farlo. Un’area importante di comunicazione retorica
è fornita appunto dagli strumenti multimediali che forniscono un modello nella
società della conoscenza. Ovviamente al di fuori della lingua ci sono tanti mezzi
suasivi e efficaci per convincere o almeno persuadere un destinatario/interlo-
cutore. Lo strumento però onesto, leale è comunque quello linguistico e la mag-
gior parte della nostra comunicazione e del nostro lavoro retorico è piuttosto in
funzione della persuasione piuttosto che del convincimento, arduo da ottenere.
Senza lessico è difficile comunicare, o convincere, o persuadere un udito-
rio. In ogni caso è una procedura approssimativa. Il modo con cui il lessico
viene organizzato è dunque di fondamentale importanza retorica. La retorica
si compone di copie verborum e copie figurarum, cioè “dell’insieme delle idee
adatte al discorso, ma anche delle parole e delle figure “retoriche” delle quali
si serve l’oratore per formare ed esporre il suo discorso retorico al fine di per-
suadere il suo interlocutore” (Arduini e Damiani 2010).
Ma come funziona? Possiamo supporre che non appena evocata, una pa-
rola, per esempio la parola discorso, si attivi subito nella nostra memoria tutto
l’apparato combinatorio proprio ad essa parola (affrontare, tenere, ascoltare,
complicato, difficile, lungo ma non *discutere, *rompere, *respingere, duro, te-
nero). Come parlanti abbiamo però una memoria corta per cui nella memoria
immediata riusciamo ad evocare solo un insieme minimo e non esauriente di
combinazioni. Nella nostra competenza linguistica a lungo termine (quella
cioè totale e libera da emozioni) conosciamo invece più combinazioni anche
se non tutte quelle possibili. Va notato inoltre che a livello produttivo il siste-
ma combinatorio è molto più ridotto di quello ricettivo. Sul piano ricettivo,
infatti, riconosciamo molte più combinazioni di quelle che riusciamo a pro-
durre ogni volta che è necessario attivare la competenza combinatoria.
L’organizzazione del messaggio è lo strumento fondamentale per comuni-
care e interagire con gli altri parlanti. Ma essa non è fissa o stereotipa. Cambia
continuamente e secondo una serie di fattori:
• tipo di lingua e conoscenza di essa;
• intenzioni del parlante;
• valutazione dell’uditorio;
• valutazione della finalità del messaggio e i risultati che si vogliono otte-
nere;
• strumenti che la lingua mette a disposizione;
• capacità di trovare le combinazioni lessicali per dare l’adeguato profilo
al messaggio.
90 Vincenzo Lo Cascio
Quasi tutte le teorie che hanno messo al centro la sintassi non riescono, a
dar conto del fatto che l’assegnazione degli elementi lessicali ai nodi sintattici
non è arbitraria. E non è questione di prendere da un elenco lessicale la paro-
la o l’unità lessicale che conviene. Non è nemmeno sufficiente cercare di os-
servare le regole di compatibilità logica e semantica. In realtà, una volta scelto
un elemento lessicale, la presenza del resto del lessico, nella struttura frasale,
è decisa dallo stesso elemento lessicale scelto (cfr. Lo Cascio 2012b).
Si consideri per esempio che per un’entità lessicale come conto, nell’acce-
zione di “deposito bancario”, una combinazione lessicale come:
(8) accendere un conto
non è permessa dalla natura fisica di conto. La scelta lessicale esula infatti da
questa proprietà fisica, tanto è vero che in altre lingue un conto non si accende.
La natura di conto in italiano permette l’interpretazione metaforica di accen-
dere. E questo è un fenomeno socio-culturale, non adottato da altre lingue.
5
Su Google le occorrenze sono molto basse.
92 Vincenzo Lo Cascio
Come in più sedi ho sostenuto (cfr. Lo Cascio, 1991, 1996, 1997, 2001,
2007, 2009) il nostro parlare/scrivere è principalmente stereotipo, fatto di for-
mule fatte, di espressioni e pacchetti belli e pronti.
In più siamo condizionati dalle combinazioni pertinenti. La creatività lin-
guistica è condizionata perché socializzata. È la società che ha creato le regole
combinatorie di uso.
Il lessico è effettivamente una rete potentissima e infinita. A partire da un
nodo scelto, si raccolgono e diramano percorsi, si raccolgono le combinazioni.
Si può supporre che la registrazione del lessico nel nostro cervello, la sua dispo-
sizione, il modo in cui lo usiamo, sia dunque anche, e soprattutto, fraseologi-
ca, cioè che non combiniamo le parole sul momento ma che le abbiamo, e
usiamo, belle e pronte, combinate, come tasselli del discorso, come nodi ac-
coppiati e adiacenti.
Quando parliamo, quando pensiamo o decodifichiamo, quasi mai faccia-
mo un’operazione di accoppiamento dei singoli elementi lessicali. Forse nei
momenti di creazione linguistica, di produzione poetica, ma non nel normale
iter comunicativo.
Il linguaggio, si può ipotizzare, è, cioè, fatto di pezzi di lingua belli e pron-
ti per l’uso!
Questo si verifica anche nel momento in cui ci serviamo di un’altra lingua.
Il problema nel confronto tra le lingue non è il legame che si stabilisce tra un
elemento lessicale di una lingua e quello dell’altra, ma nel confronto tra le co-
struzioni.
5. I profili testuali
adeguato di essi nei vari contesti comunicativi. Tali profili vengono appresi
man mano e con l’uso. Una grammatica adeguata definisce questi profili e ri-
cerca le regole che sottendono ad essi, anche per formulare ipotesi sui proces-
si di apprendimento.
Sul piano diacronico è possibile poi che profili ammessi dal sistema risul-
tino particolari o marcati perché caduti in disuso. È il primo segno di una ten-
denza a sparire, per far posto nel codice linguistico in questione ad altri para-
metri che man mano sono andati acquistando, retoricamente, più forza. Si ve-
dano per esempio forme obsolete come: ordunque, eziandio.
6
Andrea Camilleri scrive che un assistente dice al commissario Montalbano: «… Allora ho ca-
pito quello che lei, dottore, voleva da me e l’ho fatto …
– E che volevo da te?
– Che facessi scarmazzo, casino, rumorata. Mi sono fatto tutte le case vicine, ho domandato a ogni
persona che incontravo. Avete per caso visto un picciliddro così e così? Nessuno l’aveva visto, ma intanto
tutti hanno saputo che era scappato. Non era questo che voleva?
Montalbano si commosse. Quella era la vera amicizia siciliana, la vera, che si basa sul non detto,
sull’intuito: uno a un amico non ha bisogno di domandare, è l’altro che autonomamente capisce e agisce
di conseguenzia». (Il Ladro di merendine: 172-173).
96 Vincenzo Lo Cascio
pensiero e ad una diminuzione della complessità del gioco dialettico tra infor-
mazione secondaria e informazione principale.
Lo schema moderno e funzionale e la diluizione individuale postmoderna
si contrappongono e nello stesso tempo sono, l’ultima, la continuazione e lo svi-
luppo della prima nel contesto retorico italiano, dove la lingua nazionale final-
mente si fa espressiva dopo essersi con tanta fatica fatta prima comunicativa.
In letteratura questa contrapposizione è stata sottolineata in modo chiaro da
Renato Barilli (1987 e 1990). In altri termini, alla tendenza tutta moderna verso
un linguaggio comune, stereotipo, fatto di paratassi, all’americana e all’anglo-
sassone verso testi tipo “istruzione per l’uso” elencativi, si contrappongono oggi
tendenze invece in cui il gioco linguistico e la sperimentazione, l’espressione in-
dividuale e la creatività linguistica, permessa ed ammessa proprio per l’esistenza
e la diffusione di quel linguaggio comune, portano a caricare di significati, le
espressioni linguistiche. Tale operazione, liberandolo da ogni angusta schema-
ticità, porta a quel fenomeno per cui il testo argomentativo finisce per mimetiz-
zarsi con quello descrittivo, narrativo, e viceversa (Lo Cascio 1995, 1996, 2009).
Se però è vero che queste due contrapposte tendenze si fanno sentire nella
narrativa o nel linguaggio giornalistico o scientifico legato alle discipline uma-
nistiche o a quelle sociologiche o politiche, minore diversificazione si nota nei
linguaggi settoriali più tecnici come quello dell’economia o della giurispru-
denza dove l’impalcatura sintattica del ragionamento anche se risponde agli
schemi nuovi di chiarezza e semplicità sintattica tendente verso l’elencativo,
pur sempre rispetta i canoni della tradizione e si affida poco alla creazione e
all’inventività linguistica individuale ed espressiva, rispettosa come è di un iter
retorico molto legato alla natura stessa della disciplina.
Si arriva così ad alcune discipline dove il ragionamento ha la struttura di
sempre: il discorso tecnico scientifico (a carattere elencativo) o quello ancora
più rigido, il discorso matematico (a carattere dimostrativo). O a linguaggi fu-
mosi e poco chiari come quello burocratico, vera croce e delizia della comu-
nicazione all’interno della società italiana.
7. Le emozioni
Ma la comunicazione è marcata e determinata da emozioni. La mente si
organizza in sistema, relazionando “sequenze” e non “elementi isolati”, rela-
zionando unità, pezzi di lingua, e non categorie semplici messe insieme da
strutture. Sul piano cognitivo, una teoria linguistica può ora formulare un’i-
potesi sul modo in cui conserviamo le informazioni linguistiche nel nostro cer-
vello e come le utilizziamo, anche in rapporto ad altre strutture come quelle
emotive o auditive.
Si può sostenere dunque che il lessico sia di per sé, nel suo aspetto fraseo-
logico, un’unità che ha un corrispondente emotivo. Una forma, un modo di
98 Vincenzo Lo Cascio
dire, una locuzione, un’espressione sono tasselli di memoria unitaria che han-
no un’estensione fonologica e soprattutto un corrispondente emotivo, connes-
so con eventi, situazioni, sentimenti ecc. (Damàsio 1999).
9. La lingua regionale
Gli italiani però oggi capiscono e in parte parlano la lingua nazionale.
Molti sono però ancora i dialettofoni, molti anche coloro che leggono poco.
L’uso del dialetto dunque non è sparito. Ma man mano si sta affermando
7
Ogni parola della batteria combinatoria nella rete può diventare a sua volta il punto di par-
tenza, la testa o base di un’altra rete.
Retorica e lessicografia: il processo combinatorio 99
un’altra realtà. Molti parlanti e molti scrittori usano la lingua nazionale spesso
frammischiata a dialetto. In questo caso spesso le collocazioni vengono dal
dialetto e caratterizzano il termine della lingua nazionale. Arricchiscono cosi
la lingua con nuove immagini, con nuove forme. Come si è detto, le colloca-
zioni variano da lingua a lingua. In questo nuovo sistema ibrido nazionale, il
termine centrale, il capo del nodo della rete, spesso viene fornito dalla lingua
nazionale mentre il termine collocato, la diramazione, viene dal dialetto dando
in questo modo una nuova e specifica valenza al termine linguistico nazionale.
Così la lingua nazionale si estende e si arricchisce. Ovviamente si tratta di aree
linguistiche “private”. Non si può scrivere, almeno fino ad oggi, un trattato
inserendo termini dialettali. Si può invece scrivere un romanzo con queste for-
me ibride, ma efficaci, servirsi cioè di un’altra forma di comunicazione.
La definizione di “lingua regionale”, va precisato, è varia. Va dall’uso in-
cidentale di forme dialettali o regionali a una lingua nazionale integrata e fusa
con buona dose di dialetto.
Per “lingua regionale” si dovrebbe, pertanto, intendere una lingua essen-
zialmente nazionale ma ravvivata, colorita, insaporita di forme che sono di uso
regionale, spesso provenienti dal dialetto locale. Rimanendo però sempre una
lingua che dovrebbe essere comprensibile. Si verrebbe a formare in altri ter-
mini una lingua pregna di forme regionali in qualche modo italianizzate 8, do-
ve le interferenze sono coscienti o inconsce ma pur sempre costituiscono so-
lamente un ritocco, una cosmetica e non stravolgimenti lessicali o semantici.
La maggiore apertura alla regionalità in letteratura, si deve al fatto che si è
acuito il senso dell’identità regionale, sollecitato anche dalle istanze locali, so-
prattutto dove per esempio tale bisogno di identità è più forte. Nella regione
sarda ancora di più, mi sembra (ma forse mi sbaglio), che in quella siciliana.
L’italiano regionale verrebbe a «costituire quell’insieme di produzioni lin-
guistiche che oscillano fra i due poli rappresentati dall’italiano standard e dal
dialetto, ma che a seconda della vicinanza all’uno o all’altro polo presentano
peculiarità tanto differenti che solo forzatamente possono essere incluse sotto
la medesima etichetta» (Loi Corvetto 1983: 4)9.
Il popolo italiano ormai si è sempre di più abituato alla pluri-regionalità,
anche perché è sempre di più caduta la barriera della norma linguistica.
8
Si pensi per esempio, al libro di Andrea Camilleri Il colore del sole dove lo scrittore costruisce
un documento del Seicento, il diario di Caravaggio, inventandosi il testo, e quindi il linguaggio sei-
centesco. O a La canzone di Colombana, una storia piemontese del Cinquecento, in cui lo scrittore
Alessandro Perissinotto, in analogia alla sicilitudine o alla sardità, rivela una vera “piemontesità”
usando molto il dialetto piemontese.
9
Scrive Lavinio 2014: 177 “il mondo sardo narrato è molto spesso ribadito dalle stesse scelte
linguistico-espressive, con numerosi inserti di espressioni e vocaboli presi di peso dai dialetti sardi
e/o con il ricorso a forme di italiano regionale di Sardegna. Si pensi ad autori come Marcello Fois o
Salvatore Niffoi.
100 Vincenzo Lo Cascio
10
Un esempio ne è il seguente brano: «Il vecchio interruppe Amalia entrando con la sedia a
motore nel salotto. Era vestito con una giacca e un panciotto di tweed e sembrava allegro». «Allora?
Viene o no ‘stu grand’omme ‘e Andrea? Ferina’, ‘e telefonato?». «Non risponde, papà, tiene il cel-
lulare staccato. Ma sta venendo, sta venendo». Il vecchio restò un momento silenzioso, poi chiese a
Ferdinando se era vero che Andrea si fidanzava con la nipote del ministro. Ascoltò le assicurazioni
di Ferdinando passandosi impaziente una mano sul mento, poi annuì. «Ma nin adda fà tardi, ci sia-
mo spiegati? Io devo mangiare a orario» dove lo scrittore Montesano (2003: 148) usa, per narrare,
l’italiano standard, mentre fa parlare i suoi personaggi in napoletano.
Retorica e lessicografia: il processo combinatorio 101
le, a partire dalla prima, cioè il dialetto (p. 49). Ora la lingua nazionale deve so-
stenere la concorrenza di quella regionale. Si è sviluppato man mano un nuo-
vo codice, soprattutto nell’ambiente letterario. Molti scrittori adoperano la
lingua nazionale intercalandovi al posto appropriato parole dialettali creando
una forma di lingua molto espressiva e ricca, perché nuova rispetto alla lingua
nazionale ed elegante rispetto al dialetto. Una forma di operazione linguistica
che arricchisce enormemente il potere espressivo delle parole e delle forme.
Per poter registrare questi fenomeni nuovi si può allora desiderare di di-
sporre di un’opera lessicografica organizzata come dizionario elettronico e
Retorica e lessicografia: il processo combinatorio 105
non cartaceo. Il futuro sempre di più richiede, cioè, che il sistema lessicale sia
rappresentato dal dizionario nella sua forma digitale, nel senso però di una
lessicografia che lavori non sulla digitalizzazione delle strutture rigide dei di-
zionari cartacei, puri elenchi di parole che non stanno in relazione tra di loro,
ma dei dizionari nati su database relazionali, che permettano la navigazione,
in particolare di andare dal lemma alla sua spiegazione e dalla spiegazione al
lemma, di costruire e ricostruire infinite reti, sia sintattiche che semantiche,
grazie anche al fatto che ogni parola ha le sue marche di riferimento (categoria
grammaticale, appartenenza al tipo di linguaggio, carattere figurato o dialet-
tale ecc. e le combinazioni lessicali preferite). Un dizionario quindi che simuli
con la sua struttura il funzionamento della competenza linguistica dei parlanti
e presenti la lingua come una dinamica rete.
Con le sue informazioni combinatorie, un simile dizionario servirebbe a
ricostruire il sistema retorico. Le combinazioni lessicali preferite dal parlante
rivelano in particolare come egli intende influenzare e persuadere il suo udi-
torio. Principalmente le collocazioni formano l’ossatura fondamentale del di-
scorso (cfr. Lo Cascio 1997, 2000; Heid 1997; Stubs 2001). Importante infatti
sapere per ogni parola e in ogni lingua quali combinazioni lessicali sono am-
messe anche per vedere, nei dizionari bilingui, l’eventuale differenza (combi-
natoria) tra una lingua e l’altra.
I dizionari elettronici moderni e sofisticati costituirebbero così le sedi
adatte per ricostruire il sistema linguistico di una lingua e mostrare come le
parole si combinano in modo appropriato non soltanto nella lingua comune,
ma anche nelle specifiche aree di comunicazione: diritto, economia, arreda-
mento, cucina ecc. In questo modo sarebbe possibile anche dare conto della
struttura di questa nuova di lingua regionale.
In realtà, oggi, il dizionario non è tanto importante, perché offre una nor-
ma, ma proprio perché indica come la lingua si organizza al di là anche delle re-
gole grammaticali o stilistiche imposte in una determinata comunità linguistica.
Pustejovsky (già nel 1995: 5) ha osservato che “fra breve” sarà difficile
condurre studi linguistici senza l’aiuto di dizionari elettronici e risorse lingui-
stiche computazionali. Ovviamente, bisogna precisare che deve trattarsi di
“dizionari elettronici moderni”.
La rete nel dizionario elettronico moderno, trasforma il lessico in struttura
dinamica, per la capacità che ha di mettere in collegamento tutte le parole del-
la lingua, permettendo di costruire un sistema e una rete infinita in cui agisco-
no le singole parole con le loro combinazioni stereotipe. Un dizionario, quello
elettronico moderno, che presentandosi come sistema favorisce anche l’ap-
prendimento per il suo forte potere di recuperare ogni rete a partire da qua-
lunque nodo. Un dizionario, insomma, che proprio perché “sistema” fornisce
le premesse per una descrizione adeguata del lessico costituendosi anche co-
me metodo per l’apprendimento.
106 Vincenzo Lo Cascio
BIBLIOGRAFIA
Aitchinson, Jean, 2003. Words in the Mind: An Introduction to the Mental Lexicon,
Oxford, Blackwell.
Alinei, Mario, 1974. La Struttura del lessico, Bologna, il Mulino.
Arduini, Stefano / Damiani Matteo, 2010. Dizionario di Retorica, Labcom Books.
Barilli, Renato, 1987. «Il problema della Lingua nella Narrativa Italiana Contempo-
ranea», in Vincenzo Lo Cascio (a cura di), L’Italiano in America Latina, Firenze,
Felice Le Monnier, pp. 66-78.
—, 1990. «La lingua della narrativa italiana sperimentale e i suoi rapporti con le aree
francese e anglosassone», in Vincenzo Lo Cascio (a cura di), Lingua e Cultura Ita-
liana in Europa, Firenze, Felice Le Monnier, pp. 279-289.
Camilleri, Andrea, 1996. Il ladro di merendine, Palermo, Sellerio.
—, 2007. Il colore del sole, Milano, Mondadori.
Camilleri, Andrea / De Mauro Tullio, 2013. La lingua batte dove il dente duole, Bari,
Laterza.
Cicerone, Marco Tullio, 1994. De Oratore, Milano, RCS.
Consolo, Vincenzo, 1999. Da un’isola di narratori. La voce di Vincenzo Consolo, inter-
vista a cura di Grazia Casagrande.
Cowie, Anthony (a cura di), 1998. Phraseology: Theory, analysis, and applications,
Oxford, University Press.
Damásio, Antonio, 1999. The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the
Making of Consciousness, San Diego, New York, London, Harvest Books Har-
court, Inc.
De Mauro, Tullio / Lo Cascio, Vincenzo (a cura di), 1997. Lessico e Grammatica, Ro-
ma, Bulzoni.
Eco, Umberto, 1979. Lector in fabula, Milano, Bompiani.
11
Si veda per esempio www.locasciodictionary.com
Retorica e lessicografia: il processo combinatorio 107
—, 2004. «La lessicografia e il lessico nella mente 2», in Incontri (1), Amsterdam-
Utrecht, APA Holland-University Press, pp. 17-30.
—, 2006 (a cura di). Lo Cascio Grande Dizionario Elettronico Italiano Neerlandese/
Neerlandese-Italiano, Amstelveen, Italned Foundation.
—, 2007 (a cura di). Parole in rete. Teorie e apprendimento nell’era digitale, Novara,
Utet Università.
—, 2009. Persuadere e Convincere Oggi: Nuovo Manuale dell’Argomentazione, Milano,
Academia Universa Press.
—, 2012a. (a cura di). Dizionario Combinatorio Compatto Italiano, Amsterdam, John
Benjamins Publishing Company.
—, 2012b. «Nelle reti del lessico», in Ferreri, Silvana (a cura di), Lessico e Lessicolo-
gia, Roma, Società di Linguistica Italiana/Bulzoni, pp. 3-27.
—, 2013. (a cura di). Dizionario Combinatorio Italiano (2 voll.), Amsterdam, John
Benjamins Publishing Company.
—, 2014. «Lingua Regionale e Filoni Narrativi» in Dettori, Antonietta, Dalla Sardegna
all’Europa: lingue e Letterature Regionali, Milano, Franco Angeli, pp. 379-397.
—, 2017. www.locasciodictionary.com, Amstelveen, Fondazione Italned.
Lo Cascio, Vincenzo / Jezek Elisabetta, 1999. «Thematic-Role Assignment and
Aspect in Italian Pronominal Verbs», in Mereu, Lunella (a cura di), Boundaries
of Morphology and Syntax, Amsterdam, John Benjamins Publishing Company,
pp. 253-270.
Lo Piparo, Franco, 2007. «La parola è proposizione», in Lo Cascio, Vincenzo (a cura
di) Parole in Rete: Teorie e apprendimento nell’era digitale, Novara, Utet Univer-
sità, pp. 45-59.
Mortara Garavelli, Bice, 1989. Manuale di Retorica, Milano, Bompiani.
Perelman, Chaim / Olbrechts-Tyteca Lucie, 1966. Trattato dell’argomentazione, To-
rino, Einaudi.
Perissinotto, Alessandro, 2000. La canzone di Colombana, Palermo, Sellerio.
Pustejovsky, James, 1995. The Generative Lexicon, Cambridge (Mass.), The MIT Press.
Quintiliano, Marco Fabio, 1979. L’Istituzione Oratoria, Torino, Utet.
Satta, Salvatore, 1979. Giorno del giudizio, Nuoro, Ilisso.
Sgroi, Salvatore, 2014. «Vincenzo Consolo, una sfida al lettore con una lingua sofisti-
cata», in Dettori, Antonietta, Dalla Sardegna all’Europa: lingue e Letterature Re-
gionali, Milano, Franco Angeli, pp. 145-176.
Sinclair, John, Corpus, Concordance, Collocation, Oxford, OUP.
Stubs, Michael, 1991. Words and Phrases. Corpus studies of Lexical Semantics, Oxford,
Blackwell Publishing.
Tomasello, Michael, 2004. Constructing a Language: A Usage-Based Theory of Langua-
ge Acquisition, Cambridge (Ma), Harvard University Press.
Zale˛ska, Maria, 2014. Retorica della Linguistica: Scienza, struttura, scrittura, Frankfurt
am Main, Peter Lang.
www.locasciodictionary.com
TULLIO DE MAURO LINGUISTA-LESSICOGRAFO
1
Cfr. Marazzini (2009: 402-409 (GRADIT), 347-348, 349-350, 352, 354-355, 357-358, 364-367
(diz. dei sinonimi)), Bisconti 2012, Marazzini 2016, Marello in c. di st.
2
Una bibliografia demauriana, selettiva, di un cinquantennio (1954-2003), in occasione dei suoi
70anni, è fornita dalla Ferreri 2003. Una bibliografia (selettiva) degli anni 2010-2017 è quella in rete
di Anon./c 2017.
110 Salvatore Claudio Sgroi
poi «promotore, nel 1966, del Lessico Intellettuale Europeo», la prima opera
strettamente lessicografica – Il vocabolario di base della lingua italiana – è repe-
ribile in appendice alla sua Guida all’uso delle parole, 19801 e 198910. E prose-
gue poi per quasi un quarantennio di attività (1980-2016) fino alla sua inattesa
scomparsa, concludendosi con la messa in rete della lista dei lemmi-significanti
con le qualifiche grammaticali del Nuovo Vocabolario di base della lingua italia-
na (2016), di cui si attende l’edizione completa (De Mauro-Chiari in c. di st.).
Ecco dunque la lista della articolata produzione lessicografica più che cin-
quantenaria dell’A.:
1963-76. «redattore per la linguistica, le trascrizioni fonetiche e le etimologie» del
Diz. Enc. It., LUI (DeM 2016 [2017]: 196, rist.: 8; Anon./b 2017).
19801, 19892. Il vocabolario di base della lingua italiana (in coll. con S. Gensini e
E. Passaponti), «Appendice», in DeM Guida all’uso delle parole, pp. 147-
170; 1989: 149-183. L’appendice non appare più nella XII ed. 1997, con
floppy disk.
1989. Consulenza scientifica, per il VELI.
1993. Lessico di frequenza dell’italiano parlato-LIP (con F. Mancini / M. Voghera
/ M. Vedovelli).
1996 /a, 19982/a. DIB. Dizionario di base della lingua italiana (con G.G. Moroni),
1
«Prefazione» (p. iii) di DeM.
1996 /b, 19982/b. Dizionario visuale [del ] DIB (con A. Cattaneo), «Prefazione»
1
cofirmata (pp. iii-iv).
1997/a. DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente, «Prefazione» (pp. vii-ix)
di DeM.
1997/b. Dizionario visuale [del ] DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente
(con A. Cattaneo), «Prefazione» cofirmata (pp. iii-iv).
1997/c. Prime parole. Dizionario illustrato di base della lingua italiana (con G.
Moroni / E. D’Aniello), «Prefazione» di DeM (p. iii) (= DIB illustrato).
1999, 2003, 2007; 20072. GRADIT = Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e
diretto da Tullio De Mauro, con la collab. di G.C. Lepschy e E. Sanguine-
ti, Torino, Utet 1999, 6 voll. con CD-Rom; Appendici I-II Nuove parole
italiane dell’uso (vol. VII) 2003 e (vol. VIII) 2007, e nuovo CD-Rom; ried.
20072, 8 voll., «Introduzione» (pp. xi-lxxiii), con penna USB.
2000. Il dizionario della lingua italiana «Introduzione» (pp. v-xi) di DeM, con
CD-Rom.
2000. Dizionario etimologico (con M. Mancini), «Prefazione e caratteristiche
dell’opera» cofirmata (pp. ix-xii).
2001. Dizionario delle parole straniere nella Lingua italiana (con M. Mancini),
«Presentazione e caratteristiche dell’opera» di DeM (pp. vii-xii).
2002. Il dizionario dei sinonimi e contrari con sinonimie ragionate e tavole nomen-
clatorie, «Introduzione» di DeM (pp. iii-xiii).
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 111
Diz. gener.
GRADIT. Diz. parole straniere (DeM-M 2001)
1999-2003-2007
(6 voll. + 2 App.),
Diz. Etim. (DeM-M 2000)
20072 (8 voll.)
parlato: LIP
(lista di lemmi) (con corpus) (DeM 1993)
Come opera non strettamente scolastica, anche per le sue dimensioni, ri-
volta alle persone «colte», particolarmente attente ai problemi della lingua,
senza essere specialisti, ma anche agli specialisti, è il GRADIT 1999-2003-2007,
20072, in 8 voll., con 260.709 lemmi. Ma a ben vedere il GRADIT si presenta
come il dizionario rappresentativo della lingua di una comunità nazionale di
60milioni (o quasi) di parlanti, al 95% italofoni-italografi: la «carta d’identità
lessicografica» nazionale dell’Italia moderna e contemporanea.
Soprattutto agli specialisti sono invece rivolti il Primo Tesoro della lingua
letteraria italiana del Novecento 2007, dizionario settoriale della lingua lettera-
ria, costituito dai 100 romanzi del premio Strega pubblicati nel sessantennio
1947-2006 (DeM 2007), con 65.875 lemmi: dalla forma ai contesti in cui il vo-
cabolo è stato adoperato, con la possibilità quindi di verifica dei sensi conte-
stuali; e il LIP 1993, con 15.641 lemmi dell’italiano parlato a Milano, Firenze,
Roma, Napoli nel biennio 1990-1992, con il corpus delle registrazioni.
114 Salvatore Claudio Sgroi
3.1. Tabella comparativa delle marche d’uso (e lemmi in cifre) dei 19 dizionari
lessemi. 2.000
illustr.
Poli NVdB 67 mila c.30 c. 12 + c. + + + 12
rema- + 678 mila mila 500 mila
tiche 916
! !
115
Sin- FO 1947- IX XI 20 1947
116
! !
RE ! 5407// 3727 n.? + 2 n.? n.? n.? Mi 943
118
[gio 7124 Fi
nale] Roma
(dia Na
top.)
DI ! 338// 171 n.? + + n.? n.? n.? 3.688
[alet 592
tale]
ES + 6938// 3762 n.? c. 500 400 + 10648 n.? n.? n.? c. 83 8803
[oti 9389 "paro- + 200 E
smo] le 1000 S+
stran." assi- as
strate mil. si
giche mi
l.
BU ! 22.550 19323 n.? 10 n.? n.? n.? +
[Ba //
sso 32 mila
Uso] 515
OB 13.554 14879 n.? 12 n.? n? n? +
[so //
Salvatore Claudio Sgroi
leto] 20mila
391
AF ! 94 94 + pref. ! ! 25
FIS pref., pref. n.? suff.
SI 261 ;257 conf.
Pref. suff., suff., c.
Suff. 2.635 2437 2600
Conf. conf. conf
! !
DER- ! + ! ! + + !
COM + + +.
P
SIN.- ! + + ! + ! + +. + !
CON ! + + ! + ! Iper. Iper. Iper.
TRA- Ipo. Ipo. Ipo.
RI Cont Cont Cont
Inver. Inver. Inver.
TO- VdB: + + gli vs le; + + + + + + +
NO censu- a me mi
DE- rato;
SCRI --------
TTI- NVdB
VO 11
parole
volgari
im- ! 169 voci 135 + ! !
propr. voci
ETIM. ! + + ridotti etimi ! + + - ! ! ! + !
DA ! del 1° del ! del + - ! ! + + +
TA sign. 1° 1°
sign. sign.
Tullio De Mauro linguista-lessicografo
Non c’è dubbio che il modello lessicologico di 11 «marche d’uso» del les-
sico costituisca lo zoccolo duro della lessicografia demauriana, grazie a cui tut-
ti i lemmi con i loro significati sono classificati ed etichettati.
Rispetto al modello variazionale di tipo coseriano, tali etichette possono
essere così ripartite:
Vocabolario di base:
FO[ndamentale] con copertura del 96% di un testo
AU [Alto Uso] con copertura del 4% di un testo frequenza (alta)
AD [Alta Disponibilità] («pensate con grande frequenza»)
BU[Basso Uso]: «rari ma circolanti» ancora nel ’900 frequenza (bassa)
CO[mune] (note a diplomati e laureati) DIASTRATIA (alta): livelli culturali medio-alti
(vs «pop.», registro per 427 lemmi nel DeM 2000 e 620 in GRADIT)
TS [Tecnico-Specialistico]: DIAFASIA: linguaggi settoriali
LE[tterario] (usati da AA. classici) DIAMESIA (Dante, Petrarca, Boccaccio,
Poliziano, Ariosto, Tasso,
Machiavelli, Parini, Foscolo,
Leopardi, Manzoni, Carducci,
Pascoli, D’Annunzio, Croce)
RE[gionale]
(non panitaliani ma locali: macro e micro-region.) DIATOPIA
DI[alettale]: (dialettismi percepiti come tali grafo-fonologic.)
ES[otismo]: (grafo-fono-morfologic. non adattati) DIACRONIA (Etimologia)
OB[soleto]: presenti in «dizionari molto diffusi» DIACRONIA
Il VdB presenta due diverse liste (c. 7000 e c. 7400 lemmi di segni mono-
facciali, soli significanti) basate su diversi campioni di usi (occorrenze, scritte
e parlate) dell’italiano e su due diversi stati di lingua (1947-1978 e 2000-2012).
3
Cfr. Sgroi (1994, cap. 4, § 2.6: 220-221) «Lessici di circa 7.000 lemmi: C.N.U.C.E.-De Mauro
et al. (1980, 19892)»; Thornton / Iacobini / Burani 1994, Gensini / Vedovelli 1983, 19913.
4
Cfr. Sgroi (1994 cap. 4, §§ 2.5-2.5.1: 218-219) «Lessici di circa 5.000 lemmi», «Bortolini-Ta-
gliavini-Zampolli (1971, 19722)».
122 Salvatore Claudio Sgroi
nella X edizione 1989, o più esattamente 4.741: cfr. Lucisano 1992: 134), do-
po un’inchiesta che ha consentito di accertare «la reale comprensibilità […]
da parte di ragazze e ragazzi di terza media e di adulti con non più che la li-
cenza media» (p. 148; 198910: 150); come ha ora chiarito DeM 2016, «nel VdB
le tremila parole del LIF furono filtrate attraverso un test di comprensibilità
(curato da Massimo Vedovelli): furono accolte nel VdB solo quelle comprese
da almeno la metà di alunni e alunne di terza media di varie regioni italiane e
costituiscono il vocabolario di alto uso» (p. 2); il tutto e stato quindi arricchito
di altre 1.753 parole di alta disponibilità, diventate circa 2.300 nella X edizio-
ne 1989, o più precisamente 2.337 (Lucisano 1992: 134). Queste ultime sono
parole cioè che «diciamo o scriviamo raramente, ma che pensiamo con grande
frequenza» (ibid.), selezionate, isolate e controllate in vario modo, attraverso
un paziente «interrogare gruppi diversi di parlanti» (p. 149; 198910: 151; cfr.
anche Gensini-Passaponti 1980, Lucisano (1992: 46-47, 126-128, 133-137).
La lista alfabetica dei 6.690 lemmi del vocabolario di base (pp. 151-170),
diventati circa 7.050 nella X edizione 1989 (pp. 153-183) o più esattamente
7.078 (Lucisano 1992: 134), comprensivo delle parole grammaticali risulta co-
sì costituita da:
(i) un sotto-insieme di parole «di maggior uso»: 2.000 termini stampati in
neretto (o più precisamente 1.991: cfr. Lucisano 1992: 134), che formano il
«vocabolario fondamentale»,
(ii) un sotto-insieme di parole «di alto uso»: 2.937 termini stampati in
grassetto, ridotti a 2.750 nella X ed. 1989, e
(iii) un sotto-insieme di parole di «alta disponibilità»: 1.753 termini stam-
pati in corsivo, diventati circa 2.300 nella X ed. 1989, o più esattamente 2.337
(Lucisano 1992: 134).
Non è stato naturalmente lì ripreso tutto l’apparato statistico di Bortolini-
Tagliavini-Zampolli (1971, 19722), relativo a indici di frequenza, dispersione
e uso, e mancano anche indicazioni precise sugli informatori interrogati (ma
cfr. Thornton-Iacobini-Burani 1994).
Il NVdB (DeM 2016) è diverso dal precedente VdB 1980, perché si basa
su un diverso e ben più ampio corpus – 18.843.459 occorrenze di parole, che,
tralasciate le parole di frequenza minima, sono state lemmatizzate in 33 mila
parole, relative a 6 subcorpora (stampa, letteratura, nonfiction, mass media,
CMC, parlato) – ed è inoltre relativo a un diverso stato sincronico dell’italia-
no: 2000-2012 5.
5
Cfr. DeM 2016, Chiari-De Mauro 2012, Chiari-De Mauro 201?.
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 123
6
Cfr. Sgroi (1990 cap. 4, § 2.8: 228-229) «II VELI (1989) con circa 10.000 lemmi».
124 Salvatore Claudio Sgroi
5.1. DeM (con G. Moroni - E. D’Aniello) 1997/c, Prime parole. Dizionario il-
lustrato di base della lingua italiana
7
Malgrado l’ampiezza del corpus non mancano strane sorprese come l’assenza della parola ot-
tobre.
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 125
ne» (p. 3) sullo sviluppo del linguaggio infantile, con lemmario di circa 6000
lemmi (non dichiarati), (rispetto ai 7 mila del VdB, c’è per es. suicidio ma non
suicidarsi, e neppure officina, ma c’è hot-dog ‘panino imbottito con würstel…’
con una breve storia della parola), ed è ulteriormente potenziato da c. 800 il-
lustrazioni (significati referenziali) e da 25 «Tavole di Nomenclatura». Qui i
tre nuclei lessicali sono distinti con tre diversi simboli a colori: luna piena
(FO: c. 2000, con copertura del 92,50% di un testo), mezza luna (AU: c.
3000, con copertura del 4%) e quarto di luna (c. 2000 AD, ovvero «voci stra-
tegiche», di cui c. 400 esotismi). Sono naturalmente tralasciati sinonimi con
contrari, ed etimi.
5.2. DeM (con G.G. Moroni) 19961/a, 19982/a, DIB. Dizionario di base della
lingua italiana; – DeM (con A. Cattaneo) 19961/b, 19982/b Dizionario vi-
suale [del] DIB 8
Il VdB, con i tre nuclei lessicali sempre distinti con i tre diversi simboli a
colori: luna piena (FO), mezza luna (AU «frequenti») e quarto di luna (AD
«strategici»), è nel DIB 19961/a, 19982/a, con «Prefazione» di DeM (p. iii),
per ragazzi di 8-11 anni, arricchito di c. 8 mila lemmi di voci settoriali «indi-
spensabli» (per contrasto senz’alcun particolare simbolo a colori). In totale, il
DIB comprende così c. 15 mila lemmi («50 mila spiegazioni ed esempi»),
comprensivo di c. 400 «parole straniere» (quarta di copertina), con l’equiva-
lente italiano, per es. abat-jour, break, ouverture, yacht, yack, yankee, e anche
di polirematiche, con sinonimi e contrari, con sublemmi per la formazione
delle parole (per es. rettifica, riassunto), e con etimi sincronici e diacronici.
Il Visuale del DIB 19961/b, 19982/b, «Prefazione» cofirmata (pp. iii-iv),
comprende c. 2000 illustrazioni di 8 nuclei referenziali, e 55 «riquadri», e re-
lativa nomenclatura, con indicazione di azioni e attori per i verbi e i nomi, in
grado di stimolare una produzione linguistica.
Invece c. 13 mila sono le voci CO aggiunte nel DAIC 1997/a, con «Prefa-
zione» di T. De Mauro (pp. vii-ix), per i ragazzi di 12-16 anni, in totale c. 20
mila lemmi, anch’esso corredato di un Visuale con «Prefazione» cofirmata
(pp. iii-iv), che offre c. 2500 illustrazioni con 9 nuclei referenziali e relativa no-
menclatura in 80 inserti, sempre con indicazione di azioni e attori per i verbi
e i nomi, in grado di stimolare una produzione linguistica.
8
Su cui cfr. Sgroi 1997.
9
Cfr. supra n. 8.
126 Salvatore Claudio Sgroi
Anche qui i tre nuclei del VdB (FO, AU «frequenti», AD «strategici») so-
no preceduti dai 3 simboli a colori su indicati, mentre c. 1000 voci settoriali
sono accompagnate dal simbolo di una chiave a sottolineare la loro particolare
rilevanza («importanti nell’uso comune»). Gli ES i.e. le «parole straniere» so-
no c. 500. Alla fine dei lemmi sono indicati Sin. e Contr., e come sottolemmi
derivati, composti ecc., nonché gli etimi, ma non le date di prima attestazione.
Ritroviamo il modello delle 11 marche d’uso nei dizionari settoriali dei si-
nonimi e contrari.
Due sono essenzialmente i tipi di dizionari di sinonimi: i) i dizionari di pu-
ri significanti, spesso una sfilza di significanti, privi di definizioni e di frasi, di-
zionari quindi puramente ‘paradigmatici’ o ‘associativi’ (cfr. il Gabrielli) e ii)
i dizionari di segni bifacciali, corredati cioè di definizioni (cfr. Tommaseo
1830, Cesana), magari ii.a) contestualizzati con esempi, dizionari a un tempo
paradigmatici e sintagmatici.
Il DeM 2002 (non si indica l’estensione del lemmario) è costituito dalle in-
dicazioni di sinonimi e contrari e «analoghi» presenti in GRADIT, DeM 2000,
nonché in DeM-M 2000 e DeM-M 2001.
Si indicano «Sinonimi, Iperonimi, Iponimi, Contrari e Inversi» in corri-
spondenza delle diverse accezioni numerate dei dizionari generali, accompagna-
te dalle 11 marche d’uso (FO, AU, AD, CO, TS, ES, RE, DI, LE, BU, OB) e da
«indicatori di registro» (p. xiii), p.e. colloq., elev., enf., fam., gerg., iron., scherz.,
spreg., ma senza definizioni, né esempi. Alla fine del lemma, come sublemmi,
sono indicate in ordine alfabetico le eventuali polirematiche (locuzioni, ecc.).
Un’opera quindi utile ai nativofoni (più che agli stranieri), quale stimolo
a richiamare alla mente segni suscettibili di sostituirne altri in determinati con-
testi. Per esplicitare i vari significati occorre invece ricorrere al dizionario ge-
nerale, con lemmario di segni bifacciali, definiti anche con le marche d’uso e
contestualizzati con esempi.
Come puntualizza DeM nell’«Introduzione», sinonimi e contrari non so-
no qui «affastellati», ma ordinati «secondo gli usi effettivi, in modo da offrire
una bussola attendibile» per una «utilizzazione e scelta responsabili e sorve-
gliate delle parole di cui intendiamo avvalerci» (p. xii).
«L’indicazione sistematica delle marche d’uso, unita alla ricchezza nume-
rica dei lemmi, – sottolinea ancora DeM – è il tratto saliente, specificatamente
innovativo, di questo Dizionario dei sinonimi» (p. xi).
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 127
L’ed. compatta del DeM 2003 è una «riduzione a cura di Elena Baiotto,
Gabriella Giaccone, Grazia Toschino» (p. ii) del DeM 2002, e registra c.
350.000 sinonimi e contrari e «analoghi» (Pref.) per c. 25.000 voci. «I sinoni-
mi e contrari sono ordinati in base al livello d’uso nella lingua reale, con 11
marcatori che aiutano a scegliere la parola giusta», esplicita l’editore.
128 Salvatore Claudio Sgroi
10
Su cui cfr. Sgroi (2016: 180-182) «La parola è mobile».
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 129
7.2. DeM-M 2001 Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana
Il lemmario delle «parole straniere», stranierismi cioè non adattati, non as-
similati orto-fono-morfologicamente alla struttura dell’italiano, del DeM-M
2001, è tratto dal GRADIT 1999, ma comprende anche «un notevolissimo nu-
mero di neologismi assenti nella fonte maggiore, e ricavati in massima parte
da ulteriori spogli di quotidiani e settimanali: […] soprattutto […] parole del
linguaggio dell’informatica, dell’economia, delle gastronomie esotiche» (p.
viii). In totale, il lemmario registra 10.648 voci (pp. 1-614), nel GRADIT 2007
gli ES essendo invece 9389. In percentuale, rispetto al lemmario del GRADIT
2007 con 260.709 lemmi (c. 240 mila voci nel GRADIT 1999), si tratta del
4% c. di «doni stranieri».
Il corpus degli ES è stato a sua volta analizzato rispetto alla vitalità dei sin-
goli stranierismi secondo le altre 8 marche d’uso: 3 soltanto sono FO (bar, film,
sport), 10 AU, 19 AD, – 2285 CO, 85 BU, 12 OB, 2 RE, 8696 TS articolato in
vari settori [1327 (etnol.) + 724 (inform.) + 223 (econ.) + 254 (gastr.), ecc.].
Distribuzione per lingue: Ingl. (4320), Fr. (1669), Sp. (401), Ted. (328),
Ar. (235), Russo (132), Port. (117), ecc.
Storicamente: ’300 (12 lemmi), ’400 (10), ’500 (72), ’600 (48), – ’700 (177
lemmi: 83 fr., 47 ingl., 3 ted., ecc.), – ’800 (1577 lemmi: 452 fr., 385 ingl., 70
ted., ecc.), – ’900 (7784 lemmi: 3752 ingl., 1090 fr., 253 ted., ecc.), – 2000-
2001 (161 lemmi: 138 ingl., 5 fr., 0 ted., ecc.).
A parte l’Indice delle voci ripartite per lingue (63) da albanese a zingaro
(pp. 615-676), e secondo le 11 marche specialistiche (pp. 677-734), rilevante
è (i) l’Appendice (pp. 735-791) dei doni adattati, ovvero voci «italianizzate
130 Salvatore Claudio Sgroi
nella morfologia, grafia e pronunzia» (p. 735), o «connesse con lingue stranie-
re» («cfr.») non più facilmente riconoscibili come doni stranieri, seguiti dalla
data di prima attestazione, e distinti per lingue (da albanese a zulù): c. 455 vo-
ci, a cui segue (ii) l’Appendice di calchi di polirematiche (pp. 792-800), circa
500. Per ogni lemma, si indica non solo la pronuncia originale ma, in un’ottica
descrittiva, non puristica, anche quella italianizzata. In totale il DeM-M 2001
registra così c. 12 mila «doni stranieri» (tra esotismi, voci adattate e calchi).
8. Dizionari generali (GRADIT 19991, 20072 e DeM 2000, DeM 2003 compatto)
11
Cfr. Sgroi (2016: 158-161) «Il 2000: anno mirabilis della lessicografia».
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 131
Oppure:
1leI. art.det.f.pl. (es. le donne) dal “lat. (ı̆l)lae, nom. femm. pl. di ille ‘quello’” VS
2lepron.pers. di terza pers.f.pl. (es. le ho telefonato ieri ) dal “lat. *(ı̆l )lae, dat.
femm. sing. di ille ‘quello’”.
1investire 1a. v.tr., investire qcn. del titolo di duca; 1b investire qcn. di una respon-
sabilità; 2. v.tr. TS econ.: investire i propri risparmi in immobili, 3. v.tr. AU inve-
stire tutto il proprio tempo; 6. v.tr. CO TS psic. investire molto in un rapporto.
2investire [I] 4a. v.tr. AU investire qcn. con una scarica di pugni; 4b. v.tr. TS milit.:
investire una piazzaforte, 5a. v.tr. AU è stato investito da una moto; 5b. v.tr. TS
mar. abbordare; [II] 9. v.intr. (avere) TS mar. di un’imbarcazione, urtare contro
un ostacolo.
3investire 7. v.tr. OB rivestire, coprire | mettere a coltura.
4investire 8. v.tr. OB LE capitare, giungere a proposito: ogni dolore t’è bene inve-
stito (Boccaccio).
8.2. DeM 2000, Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio 12
Il DeM 2000 è tratto dal GRADIT 1999 in 6 voll. come dizionario mono-
volume per le scuole e «per le famiglie», con una nomenclatura di 129.432
lemmi, dimezzata rispetto al GRADIT, senza che l’analisi qualitativa della mi-
crostruttura dei lemmi sia stata alterata. Le accezioni del lemmario sono state
infatti individuate applicando il modello delle 11 marche d’uso stampate in
rosso: FO(ndamentale), A(lto)U(uso), A(lta)D(isponibilità), CO(muni), note
a diplomati e laureati, B(asso)U(so), OB(solete), LE(tterarie), T(ecnico)S(pe-
cialistico) con c. 2000 suddivisioni tematiche, RE(gionalismi), DI(alettalismi),
ES(otismi). La descrizione della struttura semantica del lessico è completata
dall’indicazione di Sinonimi e Contrari in corrispondenza dei singoli significati
(anziché alla fine del lemma come nel GRADIT), ma è stata omessa l’indica-
zione dei Derivati e Composti.
La riduzione più significativa riguarda non il VdB (circa 7.000 lemmi), ma
il corpus dei TS da 126.216 a 53.602 (oltre la metà), le voci CO da 55.797 a
39.707 (quasi un terzo in meno), e in misura inferiore gli altri lemmi: quelli di
BU da 32.515 a 19.323 (un terzo in meno), le voci OB da 20.391 a 14.879 (un
quarto in meno), le voci di BU da 32.525 a 29.323 (meno di un quarto in me-
no), i termini RE da 7124 a 3762 (più che dimezzati), i DI da 592 a 171 (oltre
un terzo in meno), gli ES da 9398 a 3763 (oltre un terzo in meno).
Per contro, il numero degli affissi (prefissi e suffissi) rimane pressoché
identico, con una riduzione modesta dei confissi (da 2635 a 2487), garantendo
così all’utente la possibilità di capire anche termini complessi non registrati
nel dizionario. Il dizionario accoglie polirematiche (c. 30 mila) in ordine alfa-
betico, alla fine dei singoli lemmi.
12
Cfr. Sgroi (2016: 153-157) «Un anno di vocabolari».
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 135
Il DeM 2003 compatto è a sua volta ricavato dal DeM 2000, ovvero si trat-
ta della «versione ridotta» del DeM 2000, «Riduzione a cura di Daniela Osso-
la, Daniela Savinio» (p. iv) con la «revisione» di Grazia Toschino. Un’edizione
136 Salvatore Claudio Sgroi
Se è noto il numero dei lemmi del VdB (circa 7 mila), non è invece espli-
citato il numero dei diversi lessemi secondo le altre 8 marche d’uso, su ricor-
date, non rilevabile data anche la mancanza di un CD-Rom del dizionario.
La facies sincronica del dizionario è accresciuta in seguito al forte ridimen-
sionamento della parte storico-etimologica, assai limitata e nel contempo è sta-
ta ridotta in seguito alla eliminazione dei S(inonimi) e C(ontrari).
Il tono del DeM 2003 compatto è ampiamente descrittivo, cfr. gli ess. os-
sequiente, complementar-ietà «var. pop.», gli ‘loro’, ‘a lei’, c’ho; a me mi, a lui
gli tra i caratteri dell’italiano dell’uso medio a noi ci vanno tutte storte (p. 429),
o l’inserto su «La pronuncia dell’italiano» con il giudizio di accettabilità (p.
1052) per le diverse varietà regionali.
Ma mancano redarre, dècade ‘decennio’, elementar-ietà. E resta più attac-
cato alla tradizione normativista del Duro-Volit nell’uso dell’etichetta «impro-
pr.[amente]» presente in lemmi quali arancio ‘frutto’, sottomarino ‘sommergi-
bile’, sterzo ‘volante’: dare un colpo di s., suora ‘monaca’, televisione ‘televiso-
re’: accendere la televisione).
8.4. Tabella comparativa di GRADIT 19991, 20072 e DeM 2000, DeM 2003
compatto
can.[onico]» (99), (g) «TS bibl.[ico]» (38), (h) «TS st.[oria] eccl.[esiastica]»
(10), per un totale di poco più di 2000 voci (2044).
Si sono così potuti distinguere (i) voci che spaziavano dal linguaggio set-
toriale (settorialismi segnici mono- e polisemici) alla lingua comune (settoria-
lismi segnici con estensioni semantiche) e dalla lingua comune al linguaggio
settoriale (settorialismi semantici ).
È stato altresì possibile stabilire una classificazione formale (in classi di pa-
role: nomi, aggettivi, verbi, avverbi, locuzioni, confissi), identificare i processi
di formazione (composti, composti con confissi, derivati: prefissi e derivati-
prefissati, suffissi e derivati suffissati in -zione, -ione, e conversioni), e quindi
stabilire una stratificazione diacronica degli otto sottoinsiemi.
con il lemmario del DeM 2000 (p. 14). Ogni parola del corpus letterario è in-
dividuata nel suo contesto ed è quindi etichettata con qualifiche grammaticali
(sost., agg., pron., verb., part. pres., part. pass., avv., cong., art., fonosimb.
prep., inter.) (p. 17) e con le 11 marche d’uso.
In particolare, il corpus dei 100 romanzi è risultato lungo 8.076.576 oc-
correnze, ricondotte a 157.670 forme diverse, lemmatizzate in 94.254 lemmi
(ibid.), disposte per rango (p. 51 n. 24), tra cui 25 prefissi, suffissi e confissi
(p. 15), 229 parole inventate. Il tutto, sottoposto ad ulteriori filtraggi (di c. 26
mila nomi propri, p. 46, ecc.), ha fornito un lemmario di 65.875 voci (p. 15),
così articolato:
(i) Dialettismi 3.688 (voci romanesche 1436, napoletanismi e parole laziali
912), (ii) Regionalismi 943 (settentrionalismi 338, regionalismi meridionali
231, toscanismi 196, voci di area romano-centrale 178) e (iii) Esotismi 8803
(latinismi 1983, francesismi, anglismi, tedeschismi, russismi, ispanismi, ecc.).
Le polirematiche, per lo più grammaticali, sono 12.916 (p. 17).
Dal lemmario del Tesoro emergono neologismi, «occasional words» (p.
18), assenti nei dizionari e un centinaio sono indicati alle pp. 18-25, insieme
con altri (pp. 26-36), spesso dialettismi. I primi 5000 lemmi sono disposti in
ordine di uso decrescente (pp. 53-120) indicando per ogni voce Uso = Freq.
X Dispersione 13.
13
Sorvoliamo sulla fine analisi dei 100 romanzi in base al loro livello di leggibilità (indice Gul-
pease) (pp. 37-46).
14
Su cui cfr. Sgroi (1994, § 2.10: 228-229) «LIP (1993) con 15.641 lemmi», Cardinale 1998.
15
Su cui cfr. De Mauro 1994, «Premessa: il LIP», e per varie applicazioni del LIP cfr. il vol. a
cura di De Mauro 1994.
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 141
A differenza di tutti gli altri dizionari, il LIP riporta, in due dischetti IBM,
i testi delle registrazioni trascritte ortograficamente. Il che consente di poter
verificare all’occorrenza il contesto d’uso e l’esatta valenza semantica di ogni
parola-occorrenza, ovvero la varia polisemia dei lemmi 16.
Gli autori si soffermano altresì sulle differenze tra l’italiano parlato e scritto (pp. 102-111,
16
124-140, 153-160), la fluenza (pp. 41-45), la presenza di dialettismi ed esotismi (pp. 148-151), ecc.
Tullio De Mauro linguista-lessicografo 143
Intanto, non possiamo non essere grati a Tullio De Mauro per il suo plu-
ridecennale impegno scientifico e civile, e l’eredità che ci ha lasciato, i cui frut-
ti attendono ancora di essere pienamente utilizzati.
Sommario
1. L’elenco degli item bibliografici: l’anima scientifica di un autore allo specchio
1.1. Produzione lessicografia di T. De Mauro (1963-2016)
1.2. Progetto lessicografico pluri-articolato
2. I destinatari dei dizionari
2.1. Il mondo della scuola
2.2. Il GRADIT: «carta d’identità lessicografica» dell’Italia moderna e conteporanea
2.3. Gli specialisti
3. Il Dizionario? Una foto parziale
3.1 Tabella Comparativa delle marche d’uso (e lemmi in cifre) dei 19 dizionari
3.2. Il modello di 11 marche d’uso
3.2.1. Il Vocabolario di base (FO, AU, AD)
4. Il Vocabolario di base
4.1. Il Vocabolario di base [VdB] 19801, 19892
4.2. Nuovo Vocabolario di base della lingua italiana [NVdB] 2016
4.3. Il VELI 1989
5. Dizionari (settoriali) «di apprendimento» (DIB illustrato 1997/c, DIB 1996/a-b e
DAIC 1997/a-b)
5.1. DeM (con G. Moroni - E. D’Aniello) 1997/c, Prime parole. Dizionario illustra-
to di base della lingua italiana
5.2. DeM (con G.G. Moroni) 19961/a, 19982/a, DIB. Dizionario di base della lin-
gua italiana e DeM (con A. Cattaneo) 19961/b, 19982/b, Dizionario visuale
[del] DIB
5.3. DeM 1997/a, DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente – DeM (con A.
Cattaneo) 1997/b, Dizionario visuale [del] DAIC
6. Dizionari settoriali: Il dizionario dei sinonimi e contrari
6.1. DeM 2002 Il dizionario dei sinonimi e contrari
6.2. DeM 2003 Il dizionario dei sinonimi e contrari compatto
7. Dizionari settoriali per specialisti
7.0. DeM 2010
7.1. DeM-M 2000 Dizionario etimologico
7.2. DeM-M 2001 Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana
7.3. DeM 2006 Dizionarietto di parole del futuro
8. Dizionari generali (GRADIT 19991, 20072 e DeM 2000, DeM 2003 compatto)
8.1. GRADIT 1999-2003-20071; 20072
8.2. DeM 2000, Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio
8.3. DeM 2003, Il dizionario di italiano compatto
8.4. Tabella comparativa di GRADIT 19991, 20072 e DeM 2000, DeM 2003 com-
patto
8.5. Ricerche possibili grazie al CD-Rom del DeM 2000
144 Salvatore Claudio Sgroi
BIBLIOGRAFIA
De Mauro, Tullio, 19801, 19892 (in coll. con Stefano Gensini e Emilia Passaponti). «Il
vocabolario di base della lingua italiana», in T. DeM Guida all’uso delle parole, Ro-
ma, Editori Riuniti, «Appendice», pp. 147-170; 1989 decima edizione aggiornata,
pp. 149-183; l’appendice non appare più nella XII ed. 1997, con floppy disk.
—, 1989. «I vocabolari ieri e oggi. I vocabolari oggi e domani», in VELI, pp. 7-40.
—, 1993 (con Federico Mancini / Miriam Voghera / Massimo Vedovelli). Lessico di
frequenza dell’italiano parlato-LIP, «Presentazione» degli AA. (pp. 11-12), e cap.
1 (pp. 15-28), § 2.1 (pp. 29-32), § 6.3 (pp. 148-151) e «Conclusioni» (pp. 152-
160) di DeM, Milano, Etas-Libri.
—, 1994. «Premessa: il LIP», in DeM 1994, (a cura di), pp. xi-xxvi.
—, 1994, (a cura di). Come parlano gli italiani, Firenze, La Nuova Italia.
—, 19961/a, 19982/a (con Gian Giuseppe Moroni). DIB. Dizionario di base della lin-
gua italiana, «Prefazione» (p. iii) di DeM, Torino, Paravia.
—, 19961/b, 19982/b (con Angela Cattaneo). Dizionario visuale [del] Dizionario di ba-
se della lingua italiana, «Prefazione» cofirmata (pp. iii-iv), Torino, Paravia.
—, 1997/a. DAIC. Dizionario avanzato dell’italiano corrente, «Prefazione» (pp. vii-ix)
di DeM, Torino, Paravia.
—, 1997/b (con Angela Cattaneo). Dizionario visuale [del] DAIC. Dizionario avanzato
dell’italiano corrente, «Prefazione» cofirmata (pp. iii-iv), Torino, Paravia.
—, 1997/c (con Gisella Moroni / Elio D’Aniello). Prime parole. Dizionario illustrato
di base della lingua italiana, «Prefazione» di DeM (p. iii), Paravia, Milano.
—, 1999-2003-2007 (6 voll. + 2 Appendici) e 20072 (8 voll.) vedi: GRADIT.
—, 2000. Il dizionario della lingua italiana, «Introduzione» (pp. v-xi) di DeM, Torino,
Paravia, con CD-Rom.
—, 2000 (con Marco Mancini). Dizionario Etimologico, «Prefazione e caratteristiche
dell’opera» cofirmata (pp. ix-xii), Milano, Garzanti.
—, 2001 (con Marco Mancini). Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana,
«Presentazione e caratteristiche dell’opera» di DeM (pp. vii-xii), Milano, Garzanti.
—, 2002. Il dizionario dei sinonimi e contrari con sinonimie ragionate e tavole nomen-
clatorie, «Introduzione» di DeM (pp. iii-xiii), + App. «Scegliere i sinonimi par-
lando e scrivendo» di Silvana Ferreri (pp. 1092-1105), Torino, Paravia.
—, 2003. Il dizionario dei sinonimi e contrari compatto, «Prefazione» di DeM, Torino,
Paravia.
—, 2004. Il dizionario di italiano compatto, «Nota dell’Editore» (pp. v-vi), Torino, Pa-
ravia.
—, 2005. La fabbrica delle parole. Il lessico e problemi di lessicologia, Torino, UTET
(ristampa le varie prefazioni e postfazioni del GRADIT 1999, 2003).
—, 2006. Dizionarietto di parole del futuro, «Nota dell’autore» (pp. v-viii), Roma-Bari,
Laterza.
—, 2007. Primo Tesoro della Lingua Letteraria Italiana del Novecento, Torino, UTET-
Fondazione Bellonci, con DVD (Introduzione anche su carta).
—, 2010. Grande dizionario italiano dei sinonimi e contrari. Con un’appendice di olo-
nimi e meronimi, «Introduzione» di DeM (pp. vii-xix), Torino, UTET, 2 voll.,
con CD-Rom.
—, 2014. Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni, Roma-Bari,
Laterza.
146 Salvatore Claudio Sgroi
VELI 1989 = Il Vocabolario del 2000. VELI. Vocabolario elettronico della lingua italia-
na, Milano, IBM Italia.
Zingarelli 197010 = N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, a cura di Miro Do-
gliotti / Luigi Rosiello / Paolo Valesio, Bologna, Zanichelli 197010.
—, 198311, 1987, 199312, 1995, 1996, 1997, 1998 = Zingarelli, Nicola, Vocabolario del-
la lingua italiana, a cura di M. Dogliotti / L. Rosiello (†1993), Bologna, Zanichelli
198311, 1987, 199312, fino al 1998; con CD-Rom a partire dall’ed. 1998; il CD-Rom
dell’ed. 2008 contiene anche il TB, cui si è aggiunta nell’ed. 2016 la Crusca 1612.
III
SIGNIFICARE E PARLARE
“UN ATTEGGIAMENTO IRENICO”
SU ALCUNE PAGINE CULIOLIANE DI TULLIO DE MAURO
0. Introduzione
1
De Mauro (1982: 153 n. 39).
2
Ivi (2014: 10).
3
Ibidem.
152 Francesco La Mantia
Minisemantica (d’ora in poi MS) riserva a TOPE due brevi cenni riferiti a
talune operazioni dell’attività di linguaggio: a. i commenti del parlante sui
propri e sugli altrui artefatti enunciativi – o produzione di glosse 4; b. il lavoro
dell’enunciazione – o costruzione dello spazio enunciativo. Riporto i passi inte-
ressati:
Ma consideriamo più da vicino quello che abbiamo finora chiamato il piano delle
realtà linguistiche. […] i commenti o glosse a ciò che veniamo dicendo («i com-
menti ai nostri enunciati, ciò che A. Culioli chiama ‘glosse’, sono fisiologici nel
funzionamento reale delle lingue») 5.
Nel momento in cui proferiamo una parola cercando con essa d’afferrare un sen-
so dandogli forma linguistica creiamo uno spazio enunciativo, entro cui l’enun-
ciatore offre a un destinatario la parola come mezzo per reperire il senso; la paro-
la, e con la parola, se medesimo 6.
4
Rispetto a ciò che MS parrebbe suggerire, diamo un’interpretazione estesa del vocabolo. Leg-
giamo glosse intendendo «commenti ai nostri enunciati» nel senso sia di «commenti che diamo ai no-
stri enunciati» sia di «commenti che i nostri enunciati ricevono dagli altri». Come si mostrerà (cfr. §
4.2), questa lettura è prevista tanto dalla riflessione demauriana quanto da TOPE.
5
De Mauro (1982: 130).
6
Ivi (1982: 153).
7
Ivi (1982: 160).
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 153
di forme significanti tra gli attori dello scambio. Le seconde si attivano nel far-
si stesso dell’interlocuzione e corrispondono a una mossa fisiologica nello spa-
zio di gioco dell’enunciazione: la possibilità per ogni interlocutore di parlare
di parti del proprio discorso o di parti di quello altrui. Il nesso tra i due mo-
menti dell’attività interlocutoria sta tutto qui. Il proferimento di una forma
istituisce un campo di relazioni, uno «spazio enunciativo», nella misura in cui
la forma proferita è – come suggerisce l’Autore – destinata a un altro. Nel gio-
co dell’interlocuzione, dunque, ogni forma messa in circolazione può essere
lavorata dall’altro tramite commenti che lo confermano nel ruolo di interprete
di proferimenti altrui. D’altra parte, però, non vi è forma proferita che il locu-
tore non possa lavorare a sua volta. E ciò per mezzo di commenti che ne fan-
no in certa misura il proprio co-interprete. Si potrebbe dire che il legame tra
spazi enunciativi e glosse risieda in una possibilità empiricamente attestata
dell’interlocuzione: la duplice disponibilità di locutori ed allocutori a interve-
nire tanto sui propri enunciati quanto su quelli altrui. L’identificazione di
questa disponibilità è gravida di conseguenze epistemologiche. Al fine di chia-
rirne l’impatto sull’architettura generale della riflessione demauriana, si pro-
verà ad approfondire il significato delle nozioni di glossa e spazio enunciativo.
Come si tenterà di mostrare, esse presentano aspetti formali la cui esplicita-
zione è fondamentale per una conoscenza adeguata del nesso individuato. Si
tratterà pertanto di procedere a ritroso e di rintracciare nel lessico demauria-
no le radici di un apparato metalinguistico, quello di TOPE, che gioca un
ruolo strategico nel contesto teorico di MS.
2. Spazi enunciativi
18
Culioli (2000a: 189).
19
Ivi.
10
Desclés (1982: 64-66).
154 Francesco La Mantia
ego». Sotto «S1 », invece, l’allocutore come altro nel quale il locutore non si ri-
conosce: «l’altro-da-me» o «alius». Naturalmente, i due estremi ammettono
casi intermedi (o «gradienze»)11. Per averne un’idea, anche approssimativa,
basta esaminare qualche esempio. Da sequenze come «Esattamente!» [a],
«Neanche per sogno!» [b] e «In parte sono d’accordo con te» [c] è possibile
risalire a immagini differenti dell’allocutore e perciò a istanze o varianti alter-
native del costrutto metalinguistico. Presumendo che [a], [b] e [c] siano for-
me proferite da qualcuno in risposta a proferimenti altrui, ciascuna di esse
presenta l’altro in un certo modo. La prima, manifestando un totale assenso
alle parole dell’allocutore, ne dà un’immagine conforme a «S0’». La seconda,
esprimendo un secco dissenso, ne dà un’immagine conforme a «S1 ». L’ultima,
infine, che esprime un accordo parziale con quanto detto dall’altro, ne offre
un’immagine intermedia tra quanto è riconducibile a «S0 » e quanto a «S1 »:
Così […] se mostro il mio assenso tramite enunciati del tipo «È così!» o […]
«Esattamente!», reagisco in un certo modo a quanto sento dire dall’altro, ricon-
ducendolo al mio doppio: l’altro me. L’orientamento s’inverte nel dissenso allor-
ché rigetto quanto detto, potendo fare di S1 un totalmente altro da me. Si verifica
dunque che io non mi riconosco in ciò che mi sento dire, dissociandomi allora da
una parola che mi sembra estranea. […] Una variazione contestuale minima […]
può modificare il gradiente e l’orientazione della relazione 12.
11
Ducard (2001: 201).
12
Ivi (2009: 200-201). Corsivi nel testo.
156 Francesco La Mantia
Tra i più citati e dibattuti della produzione culioliana, il testo addensa nel-
lo spazio di poche righe questioni di grande complessità teorica. Fra tutte, la
distinzione tra glossa e parafrasi è la più impegnativa. Ragioni di opportunità
contestuale inducono a rimandarne l’analisi altrove. Ai fini dell’indagine, è
preferibile concentrarsi sulle parti che attestano il duplice uso di «glossa», e,
semmai, accennare superficialmente alla distinzione menzionata.
3.1.1. Approfondimenti
Glossa come processo e glossa come prodotto, dunque. I due aspetti coesi-
stono simbioticamente nel lavoro teorico dell’Autore: c’è la realtà di processo,
dal momento che glossa è «una pratica di linguaggio del soggetto enunciato-
re». C’è la realtà di prodotto, dal momento che glosse sono i «testi» o segmen-
ti discorsivi generati da tale attività. Gli usi alterni del vocabolo, reperibili in
altre pagine culioliane, non sollevano particolari difficoltà interpretative. Salvo
rare eccezioni, il lettore, purché disposto a tollerare talune ambiguità, potrà
districarsi facilmente tra le diverse accezioni del termine. Privilegiando, per il
momento, la seconda accezione, in questa sede si opterà per una definizione
di glossa come “testo prodotto dal locutore a commento di testi anteriormente
prodotti”. Si potrebbe così identificare ogni glossa con un caso particolare di
meta-testo. A dissuadere tuttavia da simili generalizzazioni è una proprietà
13
Culioli (2000b: 74).
14
Hacking (2000: 25-26).
15
Culioli (2000b: 74).
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 157
3.1.2. Un esempio 18
L’esempio ha la forma seguente:
D: Che ne pensa di questo passo?
S: Beh, quel che in esso vi è di originale, originale no, ma direi assolutamen-
te cruciale… (A)
16
Ivi (2000b: 19).
17
Paillard (2005: 176).
18
Le annotazioni rielaborano osservazioni enucleate in La Mantia (2015; 2017).
158 Francesco La Mantia
19
Culioli (2000b: 74). Corsivo nostro.
20
Authier-Revuz (2003: 67).
21
De Vogüé (2000: 78).
22
Ivi.
23
De Vogüé (2000: 79).
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 159
24
Grize (1997: 102).
25
Vion (2000: 185).
26
Ivi (2006: 11).
27
Authier-Revuz (2012 2: 154).
28
E sulla scia di Ducrot molti altri. Tra questi, Horn (20012: 363-444).
160 Francesco La Mantia
29
Ducard (2015: 228-229).
30
Culioli (2000: 74).
31
Culioli Normand (2005).
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 161
Poco più avanti, l’imbarazzo cede il posto alla cautela. L’Autore opta per
una soluzione di compromesso suggerita da Normand e accetta di adoperare
il vocabolo «epilinguistico» in riferimento a un’attività cognitiva generica
(«ciò che gira nella nostra testa») che spetta al linguista descrivere sul piano
metalinguistico: «NORMAND: «Ciò vuol dire che “ciò che gira” sono quelle
operazioni che lei cerca di formulare a livello […] meta? CULIOLI: «Proprio
così» 33. Fin qui le fonti consultate. Per quanto pertiene all’indagine, è neces-
sario integrarle con due rilievi di diversa estensione.
32
Corsivo nostro.
33
Culioli Normand (2005: 110).
34
De Mauro (2011a: 44).
35
Ivi (2011b: 20).
162 Francesco La Mantia
36
Hadot (2013).
37
Rosenthal (2012: 54-57).
38
Bergounioux (2005: 101-116).
39
De Mauro (1980: 116-117); (1982: 147-148); (2007: 5-6).
40
Per un lavoro futuro, cfr. perlomeno Leontev (1968); Lo Piparo (2003); Rosenthal (2012).
41
Hadot (2013: 43).
42
Ivi.
43
Hadot (2013: 52).
44
Authier-Revuz 2003 p. 68.
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 163
45
Coursil (2015: 45).
46
Mondrian (2008: 25).
164 Francesco La Mantia
terni alla lingua e all’uso della lingua che parla della lingua. Il pregio euristico
delle differenze tra glosse e meta-testi (cfr. § 3.1.1) è così spiegato sulla base
di un tratto peculiare delle glosse: di essere forme esposte all’imprevedibilità
della catena parlata 47. Anche i meta-testi potrebbero esserlo, date le fluttua-
zioni epi-linguistiche dell’analista, ma in misura notevolmente minore: un me-
ta-testo è pur sempre una forma costruita nel corso di pratiche linguaggio sog-
gette a parametri operatori espliciti e perciò maggiormente prevedibili. Insom-
ma, riformulare un enunciato e verificare le affinità tra questo e i suoi equiva-
lenti parafrastici è attività assai più controllata del modificare improvvisamen-
te quanto si è detto.
Per i commenti sugli artefatti enunciativi altrui (o eteroglosse) rispetto al parametro dell’im-
47
48
De Mauro (2005a: 11).
49
Ivi (1982: 145).
50
Franckel & Paillard (1998: 52).
51
Ivi.
52
Culioli in Culioli & Ducard (2004: 10).
53
Franckel & Fisher (1983: 14).
54
Culioli (1992: 6).
55
Ivi (1981: 7).
166 Francesco La Mantia
56
Cfr. Culioli in Culioli & Ducard (2004: 10).
57
Cfr. Ivi.
58
Cfr. La Mantia (2014).
59
De Mauro (1984: 23). Ma cfr. anche De Mauro (2002b: 91-93). Per una più ampia analisi,
cfr. Ferreri (2012: 118-119).
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 167
cabolo agli interventi del parlante sui propri artefatti enunciativi: la locuzione
«i commenti a ciò che veniamo dicendo» (cfr. § 1) è affine alla locuzione
«commentare, nel parlare, ciò che stiamo dicendo» adoperata da De Mauro
(2011a: 44) in riferimento alle stesse questioni di cui discute MS nel passo
menzionato. L’ultima annotazione invece ne estende sensibilmente il campo
di riferimento. Come si ricava dalla chiusura del rilievo demauriano e come si
era già detto all’inizio di questo lavoro, sotto «glossa» cadono anche interventi
del parlante sugli artefatti enunciativi altrui. L’estensione beninteso è parte in-
tegrante del repertorio concettuale di TOPE. Per esserne certi, basta ritornare
sulla definizione di «glossa» introdotta da Culioli (2000b: 74). Se glosse sono
«quei testi che un soggetto produce quando […] commenta un testo prece-
dente», il testo anteriore che si commenta può essere il proprio o quello al-
trui 60. Così in uno scambio interlocutorio come «X: «Non fa altro che piange-
re!» [1]; Y: «Piangere?…ma dì pure che si lamenta tutto il giorno!» [2] 61, la
sequenza enunciativa che Y articola in risposta alle parole di X è una glossa.
Si tratta di un testo che il parlante, in questo caso Y, produce a commento di
un testo anteriormente prodotto, il testo di X. Dunque, di «un enunciato che
verte su un enunciato»62 e da cui è possibile risalire a un’attività epilinguistica
soggiacente. Anche [2], come [AA ], è forma della lingua usata per parlare di
altre forme della lingua, e, come tale, è «metalingua nella lingua». Essa è cioè
prodotto di un «dire sul dire» che presenta caratteri di «immediatezza e non
premeditazione» affini a quelli discussi in § 3.1.5.2. Tuttavia, le affinità, am-
messo che vi siano, non costituiscono un’identità. Anzi, a un secondo sguar-
do, lasciano spazio a differenze rilevanti. La prima, per riprendere un’osser-
vazione già fatta, riguarda il tipo di materiale testuale da cui dovrebbe emer-
gere l’epilinguisticità della glossa. Nell’ultimo esempio, questa agisce non solo
su un dire altrui, ma su un testo che è un «discorso autonomo»63 dall’ἐπιλέγειν.
Come ogni «dialogo interlocutorio»64, i turni di parola di X e Y formano seg-
menti distinti, e in tal senso autonomi, dello scambio verbale. Lo stesso può
dirsi per i turni di S e D, ma, in questo caso, la glossa non opera su un discor-
so autonomo. La forma che in [A] commenta una forma anteriormente pro-
dotta costituisce con questa un tutt’uno: è un «dire sul dire» che prevede mar-
gini di indistinguibilità tra commento e testo commentato. Al contrario, il «di-
re sul dire» di Y, o meglio, il «dire» di Y sul «dire» di X, non presenta margi-
ni analoghi. Il commento e il testo commentato non formano un tutt’uno. La
glossa è un’eteroglossa, o glossa interlocutoria, che si distingue dall’auto-glossa,
60
Canut (2000: 75).
61
Libero riadattamento tratto da Culioli (2000a: 141).
62
De Vogüé (1992: 101).
63
Canut (2000: 74).
64
Authier-Revuz (2012 2: 207-209).
168 Francesco La Mantia
65
Y non conosce le parole di X, prima che X parli.
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 169
statuto cognitivo della glossa, deve perciò misurarsi con difficoltà non banali
che investono i metodi e le modalità di verifica sperimentali di tali gradienze.
Eppure, problemi di questo tenore, che condizionano o addirittura compro-
mettono la tenuta empirica di molte indagini, non intaccano la bontà qualita-
tiva dell’intuizione. Durante l’enunciazione, l’affiorare di glosse, di commenti
che ritornano su discorsi anteriormente prodotti, passa attraverso gradi di epi-
linguisticità che variano non solo da parlante a parlante ma anche nello stesso
parlante. E questo perché la reazione epilinguistica di S, gesto improvvisato al
sopraggiungere di forme impreviste, acquisisce via via consapevolezza in ra-
gione delle porzioni testuali che permette di manipolare in forma relativamen-
te controllata. Essa è perciò pratica di linguaggio epimetalinguistica: improv-
visa e immediata sul nascere (ἐπὶ ), acquisita e quasi routinaria al suo svanire
( µετὰ). E quel che vale per S vale mutatis mutandis per Y come per qualsiasi
altro parlante che liberi il proprio gesto epilinguistico. Sullo sfondo, l’ipotesi
di lavoro che «vi siano continuità e gradienze nella riflessività all’opera nel
corso dell’enunciazione» 66. L’osservazione di De Mauro (2005b: 13), riportata
in apertura di paragrafo, si inscrive in questo ordine di idee. Presentando la
glossa come «commento esplicativo epilinguistico o metalinguistico», l’Autore
condensa in questo prodotto della prassi enunciativa aspetti di entrambe le
sfere del linguaggio. La glossa è cioè «commento esplicativo epilinguistico o
metalinguistico» perché forma di linguaggio che transita lungo gradienti di ri-
flessività compresi tra massimi e minimi relativi di consapevolezza. Pertanto,
pur conscio delle molte e insopprimibili differenze tra epilinguistico e meta-
linguistico, De Mauro non può non riconoscere che «il salto [tra epilinguisti-
co e metalinguistico] è minimo in una più generale prospettiva semiotica» 67.
E questo perché «tra epilinguisticità e metalinguisticità si scorge, osservando
gli esempi, un continuum» 68. Forse, il Nostro non avrebbe parlato di «epi-me-
talinguisticità», dato che «altro è la riflessione ineliminabile dal vissuto del ver-
bal instinct, altro la riflessione analitica […] sui fatti della propria o delle altre
lingue» 69. È certo però che osservazioni di questo tenore sono simpatetiche
con il punto di vista TOPE e confermano che la ricezione demauriana di
«epilinguistico» sia passata attraverso il vaglio di attente valutazioni. Da qui
un ritratto della glossa come forma di linguaggio all’incrocio tra epilinguistico
e metalinguistico. Si può così ritornare ai rapporti tra spazi enunciativi e glos-
se abbozzati in § 1: i campi di relazioni istituiti dalla circolazione dialogica
delle forme enunciative sono disponibili all’esercizio di risorse epimetalingui-
stiche che si particolarizzano nella produzione di auto-glosse ed etero-glosse.
66
Ducard (2015: 229).
67
De Mauro (2011b: 20).
68
Ivi.
69
Ivi (2011b: 21).
170 Francesco La Mantia
70
Ivi (1982: 155).
71
Ivi (1982: 128).
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 171
E questo perché «Le lingue consentono anche questo: che si parli e ci si capi-
sca male. E che dal parlare approssimativo e dai fraintendimenti si possa usci-
re fuori dialogicamente, disfacendo i cammini che vanno dalle espressioni ai
sensi, e dai sensi alle espressioni»72. Molto si potrebbe dire al riguardo: an-
drebbe indagata la forma dei depositi memoriali su cui prolifera la circolazio-
ne dialogica degli spazi enunciativi e andrebbe altresì approfondita la funzio-
ne delle glosse nei fragili equilibri che l’interlocuzione fabbrica per porre ri-
medio ai fraintendimenti, alle approssimazioni e alle incomprensioni di cui è
lastricata la via delle parole. E ancora una volta il repertorio concettuale di
TOPE potrebbe fornire mezzi e strumenti necessari per soddisfare simili com-
piti. Tuttavia, il congedo va mantenuto. Ma non per sempre: giusto il tempo di
meditare un po’ e riprendere il discorso ove lo si era interrotto.
Università di Palermo F RANCESCO LA MANTIA
BIBLIOGRAFIA
72
Ivi (1982: 146).
172 Francesco La Mantia
De Mauro, Tullio, 1980. Guida all’uso delle parole, Roma, Editori Riuniti.
—, 1982. Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Bari-Roma, Laterza.
—, 1984. Ai margini del linguaggio, Roma, Editori Riuniti.
—, 2002. Prima lezione sul linguaggio, Bari-Roma, Laterza.
—, 2005a. «Crisi del monolitismo linguistico e lingue meno diffuse», in Moenia, pp.
3-22.
—, 2005b. «Introduzione» in Tullio De Mauro-Isabella Chiari (a cura di), Parole e nu-
meri. Analisi quantitative dei fatti di lingua, Roma, Aracne, pp. 1-17.
—, 2007. Linguistica elementare, Bari-Roma, Laterza.
—, 2011a. «Indeterminato e determinato nel linguaggio: la metalinguisticità riflessi-
va», in Elena Gagliasso / Rosanna Memoli / Maria Elena Pontecorvo (a cura di),
Scienza e scienziati, Milano, Franco Angeli, pp. 38-44.
—, 2011b. «Due grammatiche per la scuola (e non solo)», in Loredana Corrà / Wal-
ter Paschetto (a cura di), Grammatica a scuola, Milano, Franco Angeli, pp. 17-22.
—, 2012. Lezioni di linguistica teorica, Bari-Roma, Laterza.
—, 2014. «Prefazione» in A. Culioli, L’Arco e la freccia, Bologna, il Mulino, pp. 9-13.
Desclés, Jean-Pierre, 1982. «Programme interdisciplinaire de traitement formel et au-
tomatique des langues et du langage», Mathématiques et Sciences Humaines, 77,
pp. 43-91.
De Vogüé, Sarah, 1992. «Culioli après Benveniste», in Linx, 26, pp. 77-108.
—, 2000. «L’épilangue au pied de la lettre», in Le grè des langue, 16, Paris, Harmattan,
pp. 78-110.
Ducard, Dominique, 2009. «Se parler à l’autre», in Jacques Brès (éd.) Dialogisme,
Bruxelles, Peter Lang, pp. 107-129.
—, 2015. «Une “sémantique de l’énonciation”, sans doute», in Alain Rabatel (ed.) La
sémantique et ses interfaces, Limoges, Lambert-Lucas, pp. 225-242.
Ducrot, Oswald, 1984. Le dire et le dit, Paris, Les éditions de Minuit.
Ferreri, Silvana, 2012. «Metalinguisticità riflessiva: statuto teorico e potenzialità d’u-
so», in Anna Thornton / Miriam Voghera (a cura di) Per Tullio De Mauro, Roma,
Aracne, pp. 107-127.
Fraenckel, Jean-Jacques / Fisher Sophie, 1983. Linguistique, énonciation, Paris, EHESS.
Fraenckel, Jean-Jacques / Paillard Denis, 1998. «Aspects de la théorie d’Antoine Cu-
lioli», Langages, 132, 29, p. 52-63.
Grize, Jean-Blaise, 1997. Logique et langage, Paris, Ophrys.
Hacking, Ian, 2000. La natura della scienza, Milano, McGraw-Hill [tr. di The social
construction of what? Harvard University press].
Hadot, Pierre, 2013. Introduzione e commento al Manuale di Epitteto, in Manuale di
Epitteto, Torino, Einaudi, pp. 1-138 [tr. di Apprendre à philosopher dans l’Anti-
quité. L’enseignement du «Manuel d’Epictète», Paris, Gallimard].
Horn, Laurence, 20012. A natural history of negation, Chicago University Press,
Chicago.
La Mantia, Francesco, 2014. «Sul lessico della linguistica di Culioli», in Antoine Cu-
lioli L’arco e la freeccia, 2014, pp. 243-410.
—, 2015. «Parlare per ascoltarsi», in Giornale di Metafisica, 1, pp. 471-494.
—, 2017. «Senti chi parla», in «Appunti. Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del campo
freudiano», pp. 87-89.
“Un atteggiamento irenico” su alcune pagine culioliane di Tullio De Mauro 173
In una nota dal titolo Parole per ferire, pubblicata su Internazionale del 16
Settembre del 2016, Tullio De Mauro si propone di «censire le parole dell’o-
dio circolanti in Italia e cercare di classificarle come primo passo per analisi
ulteriori». L’occasione è l’istituzione, nel maggio di quello stesso anno, di una
commissione parlamentare sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i feno-
meni di odio. L’obiettivo della nota era quello di «fornire un contributo stret-
tamente linguistico all’impegnativo e ben più vasto lavoro della commissione.
Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno
delle parole». In queste pagine propongo una riflessione sulla violenza verbale
che provi a tematizzare proprio questa particolare relazione – che ha il sapore
di un chiasmo – tra parole e odio: le parole non sono tutto ma l’odio non sa fa-
re a meno delle parole. Più esattamente, intendo sostenere che il fenomeno che
oggi si chiama hate speech (discorso d’odio) può essere meglio compreso se si
parte dal mettere in discussione la netta distinzione tra una tra forma di vio-
lenza puramente ‘fisica’ e una puramente ‘verbale’ e si cerca, invece, di met-
tere a fuoco proprio l’intreccio tra verbalità e violenza nell’essere umano. In
altri termini, ciò che credo vada indagato in primo luogo è il ruolo che il lin-
guaggio svolge nella realizzazione della violenza umana, sia essa ‘fisica’ o ‘ver-
bale’. Domandarsi cioè se, ed eventualmente in che modo, il fatto di essere
animali parlanti modifichi anche il nostro modo di essere violenti.
Dal punto di vista metodologico, questo implica un ampliamento del cam-
po di indagine o, forse meglio, uno slittamento di prospettiva che porti l’at-
tenzione non tanto su singole espressioni o categorie di parole capaci di ferire
ma, più in generale, sui processi sottesi all’uso violento delle parole. La que-
176 Francesca Piazza
stione in gioco non è tanto come mai le parole possano far male quanto piut-
tosto in che modo questo accada e, aspetto forse ancora più interessante, che
cosa può dirci questo fenomeno sul linguaggio in generale. Credo, infatti, che
una buona teoria del linguaggio non possa ignorare questo peculiare potere
delle parole. Il fenomeno della violenza verbale non ci interroga soltanto per
le sue implicazioni politiche e sociali ma mette in gioco anche questioni cen-
trali e ancora aperte nel dibattito filosofico-linguistico, questioni che ruotano
essenzialmente intorno alla natura stessa del significato e al ruolo giocato dalla
relazione tra gli interlocutori.
1
Costitutiva ma non esclusiva significa che, se da un lato essa è in grado di modificare radical-
mente tutte le altre capacità dell’animale umano, dall’altro non le assorbe in sé e anzi acquista la sua
peculiarità anche in relazione ad esse. Per dirla con le parole di Franco Lo Piparo: «il parlare non è
tanto attività bio-cognitiva unica e specie-specifica che si aggiunge ad altre attività che l’uomo ha in
comune con altri viventi quanto, piuttosto, attività che, a partire dal momento in cui sorge, riorga-
nizza e rende specifiche tutte le attività cognitive umane, comprese quelle che l’uomo mostra di avere
in comune con gli animali non umani: percezione, immaginazione [ phantasia], memoria, desiderio,
socialità» Lo Piparo (2003: 5, corsivo dell’autore) e, potremmo aggiungere, aggressività che è poi, a
ben guardare, una modalità del desiderio. Questo però non significa né ricondurre senza residui tut-
to il non linguistico al linguistico né negare la continuità con le altre specie animali. Al contrario, si-
gnifica mettere l’accento proprio sull’intreccio tra linguistico e non linguistico come tratto specifico
dell’animalità umana. È questa, in ultima analisi, la ragione per cui per comprendere il linguaggio
non si può prescindere dalla sua relazione con tutto ciò che è – e rimane – non linguistico.
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 177
ti, da diversamente abile o persona con disabilità. Qualcosa del genere è acca-
duta anche alla parola black che, da termine di orgoglio delle comunità nere
negli anni sessanta è, per così dire, retrocesso a termine offensivo ed è stato
soppiantato dal più politicamente corretto African-American.
Questo tuttavia non significa – vale la pena ribadirlo – svalutare il ruolo
delle parole nella realizzazione e /o nella dissoluzione dei legami sociali. Se è
vero che i rapporti di forza non possono essere modificati soltanto dalle scelte
linguistiche è altrettanto vero che il nostro modo di parlare è componente non
accessoria di questi stessi rapporti. D’altra parte, proprio gli esempi di prima,
mostrano anche, di nuovo, la natura chiasmatica del rapporto tra parole e vio-
lenza: nuove sensibilità e nuovi contesti fanno nascere l’esigenza di usare pa-
role diverse e, a loro volta, questi nuovi usi contribuiscono a modificare sen-
sibilità e contesti.
2
Ad essere precisi, in inglese slur ha assunto questa accezione così specifica, fino a diventare
quasi un termine tecnico, solo a partire dagli anni sessanta: «it was only in the 1960’s that the noun
slur itself became generally accepted as a term for a particular kind of derogative word, rather than
simply as “an insulting or disparaging remark or innuendo”, as in “the accusation of theft was a slur
on my honor” – still the only definition that Merriam-Webster gives for the relevant sense of the
noun» Nunberg (in stampa: 2). Non c’è in italiano un perfetto equivalente di slur, non abbiamo in-
fatti un termine che identifichi esclusivamente epiteti offensivi che fanno riferimento a etnia, genere,
provenienza geografica, religione o orientamento sessuale, come frocio, negro, terrone, per differen-
ziarli da insulti più generici come stronzo o coglione. Per questa ragione preferisco, in questo conte-
sto, continuare ad utilizzare la parola inglese.
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 179
proliferare di saggi e volumi sul tema, anche dalla pubblicazione di due nu-
meri monografici di riviste dedicati proprio agli slurs, uno nel 2013 (Analytic
Philosophy, vol. 54, n. 3) e uno nel 2015 (Language Science, n. 52).
Non è mia intenzione in questa occasione analizzare e discutere nel detta-
glio le diverse posizioni in campo, mi limiterò a renderne conto in modo
estremamente sintetico. Il mio obiettivo è unicamente mettere a fuoco alcuni
presupposti condivisi, per lo più implicitamente, dalla maggioranza di questi
studiosi indipendentemente dalla specifica posizione sostenuta. In estrema
sintesi, tali presupposti possono essere ricondotti a due idee di fondo: 1. la
tendenza ad essenzializzare gli slurs trattandoli come una sorta di ‘genere lin-
guistico naturale’ (cfr. Nunberg, in stampa: 5) con caratteristiche semantiche
e/o pragmatiche peculiari (se non misteriose) che richiedono di essere spiega-
te e 2. l’assunzione non problematica dell’esistenza per ogni slur di una cosid-
detta controparte neutra, ovvero un termine co-referenziale privo di connota-
zioni negative (cfr. Nunberg, in stampa: 32).
Su questo sfondo comune, l’interesse principale, se non esclusivo, che ani-
ma questo dibattito è la descrizione del comportamento linguistico degli slurs.
Di conseguenza, la domanda fondamentale che guida la maggior parte di que-
sti studi riguarda la natura del significato di uno slur e, in particolare, da dove
derivi il contenuto offensivo di queste parole, se sia un aspetto del loro signi-
ficato letterale o se esso vada piuttosto ricondotto all’uso di tali espressioni nei
diversi contesti. Sono, ridotte all’osso, le opposte posizioni rispettivamente ri-
conducibili ad un approccio semantico e ad uno pragmatico (cfr. Bianchi, 2013:
40-42). Pur con alcune differenze, per i sostenitori della prima opzione – tra
cui Hornsby (2001); Saka (2007); Hom (2008); Hom / May (2013); Richard
(2008) – il valore offensivo di una parola come ‘negro’ è parte integrante del
suo significato ‘convenzionale’ che sarebbe dunque esplicitabile in questi ter-
mini: ‘nero e i neri sono inferiori in quanto neri’ (cfr. Bianchi, 2013). Parzial-
mente riconducibile ad un approccio semantico è anche la strategia di chi ri-
corre alla nozione fregeana di tono, paragonando così la differenza tra “negro”
e “afro-americano” a quella tra due sinonimi in possesso di un tono diverso
come, per esempio, “destriero” e “cavallo”. Secondo questa prospettiva, la sfu-
matura offensiva resta una componente del significato ‘letterale’ della parola,
per quanto caratterizzato da un alto grado di sotto-determinazione semantica
e, di conseguenza, da una notevole sensibilità al contesto (cfr. Picardi, 2006).
Sono invece generalmente considerate strategie pragmatiche quelle di chi
interpreta il significato offensivo di uno slur in termini di presupposizione (cfr.
Schlenker, 2007; Cepollaro, 2015). Per i sostenitori di questa posizione, “ne-
gro” presuppone ma non significa “i neri sono esseri inferiori in quanto neri”,
esattamente come la proposizione “il figlio di Giovanni è alto” presuppone
ma non significa “Giovanni ha un figlio”. Un’altra nozione pragmatica utiliz-
zata per spiegare il significato offensivo di uno slur è quella di implicatura con-
180 Francesca Piazza
venzionale (cfr. Potts, 2007 e 2012; Williamson, 2009). Secondo questi autori,
“negro” implicherebbe convenzionalmente “i neri sono esseri inferiori in
quanto neri” nello stesso modo in cui “Maria è bella ma intelligente” implica
convenzionalmente “bellezza e intelligenza sono qualità alternative”.
Come ha osservato Nunberg, queste ultime strategie restano però, di fat-
to, strategie semantiche e non pragmatiche in quanto riconducono comunque
il valore offensivo di uno slur a convenzioni linguistiche (Nunberg, in stampa:
8-9 n. 8). La tesi di Nunberg, a mio avviso più convincente delle tesi rivali, è
invece che la carica offensiva di uno slur può essere meglio compresa in ter-
mini di implicatura conversazionale ritualizzata e va quindi ricondotta a con-
venzioni, o meglio abitudini, non solo linguistiche ma innanzitutto sociali e
culturali. Almeno per certi aspetti, rientrano tra le strategie pragmatiche an-
che altri studi recenti (Herbert, 2015; Bianchi, 2015) che si rifanno alla teoria
degli atti linguistici di Austin (1987). Si tratta di approcci più fecondi perché
non isolano gli slurs dai concreti atti linguistici in cui essi compaiono e tengo-
no conto anche delle pratiche sociali in cui tali atti vengono realizzati.
Dalle due differenti opzioni di fondo, quella semantica e quella pragmati-
ca, dipendono anche modi diversi di affrontare altre questioni connesse e, in
particolare, quelle relative agli effetti della presenza di slurs sulle condizioni
di verità di una proposizione (per es. ‘Tom è un negro’ ha le stesse condizioni
di verità di ‘Tom è un afroamericano’?), sulla negazione (‘Tom non è un ne-
gro’ è una negazione dello stesso tipo di ‘Tom non è un afroamericano’?) o
sull’incassamento delle proposizioni (il significato offensivo di ‘negro’ rimane
intatto anche in caso di citazioni o discorso indiretto come nella proposizione
‘Mario ha detto che Tom è un negro’?). Indipendentemente dalle diverse so-
luzioni proposte, si tratta comunque – come si vede anche solo da questi po-
chissimi esempi – di strategie di analisi esclusivamente linguistiche, concentra-
te su questioni ancora aperte nell’attuale dibattito semantico e pragmatico ma
che, a ben guardare, non riguardano unicamente (e forse nemmeno primaria-
mente) gli slurs.
Un approccio che, pur nel solco della stessa tradizione, si pone come al-
ternativo sia a quello semantico sia a quello pragmatico, è quello detto defla-
zionista, sostenuto da Anderson e Lepore, (2011). Secondo questi autori, le
strategie linguistiche di analisi degli slurs – tanto semantiche quanto pragma-
tiche – non sono in grado di spiegare da dove queste parole traggano il loro
potere offensivo. Tale potere, infatti, non deriverebbe dal loro significato né
dal loro uso linguistico ma da interdizioni sociali di fatto imprevedibili e non
controllabili. In altri termini, secondo i deflazionisti gli slurs non sono altro
che parole proibite, veri e propri tabù decretati tali da individui o gruppi di in-
dividui socialmente rilevanti, di solito (ma non necessariamente) appartenenti
al gruppo target: «what’s clear is that no matter what its history, no matter
what it means or communicates, no matter who introduces it, regardless of its
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 181
4. Parole neutre?
3
Tra i pochi che hanno esplicitamente messo in discussione la nozione di ‘controparte neutra’
è il già citato Nunberg il quale preferisce parlare di ‘default synonim’ invece che di ‘neutral counter-
part’ (Nunberg, in stampa: 46). Nunberg osserva che «the default term is not necessarily one without
evaluative connotations, but rather the one for whose connotations the speaker can assume the least
personal responsibility, beyond tacitly acknowledging them as a basis for conversation» Nunberg (in
stampa: 48).
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 183
realtà le parole, tutte le parole, non sono, non possono mai essere, neutre ma
sono sempre il risultato di una storia e ogni loro occorrenza si porta dietro
inevitabilmente questa storia. “Omosessuale” non è un termine “neutro” ma
la parola che, oggi e in certi specifici contesti, è socialmente accettata. Ma “so-
cialmente accettato” non significa certo “neutro”. Oltretutto, usare il termine
socialmente accettato può essere anche un modo, da parte del parlante, di
presentarsi come persona politicamente corretta, collocandosi così in uno spe-
cifico spazio sociale tutt’altro che neutro.
L’idea della controparte neutra è, a ben guardare, l’altra faccia dell’idea
dell’esistenza di parole dal significato intrinsecamente offensivo. Un’idea che
sembra dimenticare la comune esperienza che perfino il peggiore degli insulti
può perdere in certe circostanze la sua carica aggressiva fino ad assumere con-
notazioni del tutto positive (si pensi agli usi di nigger nelle comunità afro-ame-
ricane, su cui tornerò più avanti). E, per converso, è altrettanto comune la
presenza – come osserva lo stesso De Mauro nell’articolo da cui ho preso le
mosse – di usi offensivi di parole che «non siano stabilmente tali nel sistema e
nella norma di una lingua, ma che tuttavia nell’uso si rivelano eccellenti “pa-
role per ferire” in una parte rilevante dei loro impieghi» (si pensi alle possibili
accezioni dispregiative di parole come donna o signore). Qualsiasi parola, an-
che quella dall’apparenza più neutra, può essere usata per offendere o per
esercitare una qualche forma di violenza sul nostro interlocutore.
Non ci sono, dunque, parole intrinsecamente offensive né parole intrinse-
camente neutre. E questo perché, al fondo, non esiste qualcosa come un signi-
ficato intrinseco. Esistono, certo, significati che si stabilizzano nel sistema del-
la lingua ed usi più frequenti di altri ma sempre come risultato di una storia,
grande assente nella maggior parte di questo dibattito. È questa la ragione
principale per cui credo che un approccio al fenomeno della violenza verbale
che si limiti al lessico, e anzi ad una sua porzione specifica come quella rap-
presentata dagli slurs, non ci aiuti davvero a capire in che modo le parole con-
corrano alla realizzazione della violenza. Occorre, come ho già detto in prin-
cipio, uno spostamento di prospettiva che guardi non alle singole parole ma
alle pratiche verbali.
4
Cito nella traduzione di F. Lo Piparo perché credo sia soltanto grazie ad essa (e in particolare
alla scelta di tradurre meta logou ‘con il concorso del linguaggio’ e non, come è più usuale, ‘secondo
ragione’) che è possibile fare emergere il ruolo che Aristotele assegna al linguaggio nella costruzione
della specificità umana. Per una giustificazione più puntuale di tale traduzione e per un commento
più dettagliato di questo passo rimando allo stesso Lo Piparo (2003: 3-14).
5
In questo senso, la nozione di pratica verbale potrebbe essere descritta facendo ricorso alla
nozione di langagier (linguaggiero) di Culioli, intesa come l’insieme delle operazioni di linguaggio che
«copre un’area molto ampia di fenomeni eterogenei, tra cui: a) condotte di ordine mimico-gestuale
che impegnano il corpo – e, in senso ampio, l’esperienza della corporeità; b) pratiche simbolico-ri-
tuali – che affondano le loro radici negli universi mitici delle culture; c) complessi strutturati di atti-
vità psichiche – o cognitivo-affettive» La Mantia (2014: 318). Nei termini di Culioli, dunque, quello
che ho fin qui chiamato pratica verbale sarebbe, più esattamente, una pratica linguaggiera. Preferisco,
tuttavia, continuare ad usare l’aggettivo ‘verbale’ sia perché meno opaco sia perché mi pare che la
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 185
connessione con il sostantivo ‘pratica’, nel sintagma ‘pratica verbale’, consenta comunque di tenere
insieme componente prassica e componente verbale mantenendole in relazione senza fare collassare
nessuno dei due termini nell’altro.
6
Questa idea secondo la quale parlanti e ascoltatori sono interni al discorso e non suoi utenti,
può essere fatta risalire ad un luogo della Retorica aristotelica nella quale il filosofo afferma che «il
discorso (logos) è costituito da tre <elementi>, da colui che parla (ek te tou legontos), da ciò di cui si
parla (peri ou legei) e da colui a cui <si parla> (pros on), e il fine (telos) è rivolto a quest’ultimo, in-
tendo l’ascoltatore» (Arist. Rhet. 1358a 37-b1). Per un’analisi più dettagliata di questo passo, che ne
metta in luce anche le conseguenze teoriche, rimando a Lo Piparo (2014b) e a Piazza (2013).
186 Francesca Piazza
evento singolo ma è sempre inserito in una catena di pratiche tra loro connes-
se, sia in senso sincronico sia diacronico. Come ogni pratica umana, anche le
pratiche verbali hanno una storia che eccede i singoli partecipanti e questa ec-
cedenza non può essere ignorata. Le pratiche verbali violente non fanno ecce-
zione. Un atto linguistico violento è sempre in qualche modo connesso con al-
tri atti simili (precedenti e contemporanei) e spesso trae la sua potenzialità of-
fensiva proprio dal fatto di appartenere ad una catena di atti. In un certo sen-
so, lo hate speech è sempre una citazione ed è anche per questo che esso può
davvero fare male. Guardare alla violenza verbale da questo punto di vista
rende meno misterioso il potenziale violento delle parole. Aiuta a capire come
possa accadere che il semplice atto di pronunciare una parola, anche solo per
citarla, possa essere vissuto da chi ascolta come uno hate speech. Non è per
magia o per capriccio, né per la scelta arbitraria di qualcuno, per quanto rile-
vante, che una parola diventa un tabù ma per la sua storia, per la serie com-
plessa di pratiche verbali all’interno delle quali essa è stata usata, o magari è
ancora usata, come un’arma.
7
Per quanto il caso di queer sia generalmente ritenuto uno dei più riusciti (come è testimoniato,
tra le altre cose, dall’uso della parola anche in ambiti accademici, per esempio in espressioni come
Queer Studies o Queer Theory (cfr. Herbert [2015: 131], va anche detto che, in alcuni contesti, so-
pravvivono ancora usi offensivi del termine. Oltretutto, la diffusione di queer come parola politica-
mente corretta – spesso usata semplicemente come un sinonimo di gay e lesbian – ha in buona parte
fatto perdere il significato contestatario dei suoi primi usi riappropriati. All’origine, infatti, la prefe-
renza per il termine queer mirava a contrapporsi proprio all’uso di gay e lesbian, considerati termini
esclusivamente concentrati sulle preferenze sessuali. Per una strana ironia del destino, queer si trova
invece oggi a sostituire proprio le parole contro cui intendeva ribellarsi (Brontsema, 2004: 12-13). È
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 187
un piccolo esempio, eppure significativo, di quanto il destino delle parole sia in effetti imprevedibi-
le e di quanto sia complesso, e sempre esposto al fallimento, ogni processo di riappropriazione se-
mantica.
8
Secondo Rahman tale accezione di nigga troverebbe le sue origini all’interno delle comunità
di schiavi, composte generalmente da individui che non condividevano una lingua comune e che uti-
lizzavano per riferirsi a se stessi il termine che sentivano usare dagli schiavisti (nigger, pronunciato
nella variante nigga). In questo modo, la parola sarebbe entrata nel cosiddetto ‘controlinguaggio’
(counterlanguage) degli schiavi, una sorta di lingua segreta utilizzata per non farsi comprendere dai
padroni: «during the period of slavery, nigga became a term that Africans used to refer to themselves
and companions in the struggle to survive. Using the term highlighted the identity of a speaker as
participating in the culture of survival» Rahman (2012: 147). Il processo di riappropriazione del ter-
mine avrebbe dunque origini molto antiche ed una storia sostanzialmente diversa da quella, ben più
recente, di queer. Per quanto diversi, tuttavia, i due casi mostrano entrambi come il significato e il
potere di una parola siano inseparabili dalla sua storia.
188 Francesca Piazza
9
Da una prospettiva diversa, che fa ricorso all’apparato concettuale della teoria della pertinen-
za, Claudia Bianchi (2014) ha proposto un’interpretazione dei processi di riappropriazione semantica
che va in una direzione non molto diversa. Secondo Bianchi tali processi sarebbero interpretabili co-
me casi di quelli che Sperber e Wilson (2012) considerano usi “ecoici” – di cui l’ironia sarebbe un
caso esemplare – nei quali cioè si citano (anche implicitamente) usi precedenti prendendone tuttavia
le distanze e dissociandosi dalle implicazioni offensive.
Le parole dell’odio. Dal lessico alle pratiche verbali 189
chiaro nello stesso tempo che le parole non sono mai solo parole e che le azio-
ni umane sono sempre in una qualche relazione con il linguaggio. Si fa più
chiaro così perché nell’odio le parole non sono tutto ma l’odio non può fare a
meno delle parole.
BIBLIOGRAFIA
Anderson, Luvell / Lepore Ernie, 2011. «Slurring Words», in Nous, pp. 1-27.
Austin, John L., 1987. Come fare cose con le parole, Genova, Marietti (trad. di How to
Do Things with Words, Oxford, Oxford University Press, 1962).
Bianchi, Claudia, 2013. «Slurs: un’introduzione», in E/C, VII, n. 17, pp. 41-46.
—, 2014. «Slurs and appropriation: An echoic account», in Journal of Pragmatics, vol.
66, pp. 35-44.
—, 2015. «Parole come pietre: atti linguistici e subordinazione», in Esercizi Filosofici,
10, pp. 115-135.
Brontsema, Robin, 2004. «A Queer Revolution: Reconceptualizing the Debate over
Linguistic Reclamation», in Colorado Research in Linguistics, n. 17, pp. 1-17.
Butler, Judith, 2010. Parole che provocano. Per una politica del performativo, Milano,
Raffaello Cortina (trad. di Excitable Speech. A Politics of the Performative. Lon-
don, Routledge, 1997).
Cepollaro, Bianca, 2015. «In defense of a Presuppositional Account of Slurs», in Lan-
guage Sciences, n. 52, pp. 36-45.
De Mauro, Tullio, 2016. «Le parole per ferire», in Internazionale, 27 settembre 2016.
Herbert, Cassie, 2015. «Precarious projects: the performative structure of reclama-
tion», in Language Sciences, 52, pp. 131-138.
Hom, Christopher, 2008. «The Semantics of Racial Epithets», in Journal of Philo-
sophy, n. 105, pp. 416-440.
Hom, Christopher / May Robert, 2013. «Moral and Semantic Innocence», in Analytic
Philosophy, 54 (3), pp. 293-313.
Hornsby, Jennifer, 2001. «Meaning and Uselessness: How to Think about Derogatory
Words» in French P. et al. (eds.), Midwest Studies in Philosophy XXV, Oxford,
Blackwell, pp. 128-141.
Kennedy, Randall, 2002. Nigger: the Strange Career of a Troublesome Word, New
York, Pantheon.
La Mantia, Francesco, 2014. «Sul lessico della linguistica di Culioli» in A. Culioli,
L’arco e la freccia. Scritti scelti, Bologna, il Mulino, pp. 243-390.
Lo Piparo, Franco, 2003. Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua,
Roma-Bari Laterza.
—, 2014. Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, Roma, Donzelli.
—, 2014b. «Sur la “grammaire publique” du sujet parlant», in S. Archaimbault / J.M.
Fournier / V. Raby (èds.), Penser l’histoire des savoirs linguistiques. Hommage à
Sylvain Auroux, ENS Éditions, pp. 155-161.
190 Francesca Piazza
Nunberg, Geoff (in stampa). «The Social life of Slurs» in: D. Fogal / D. Harris / M.
Moss (eds.), New Work on Speech Acts, Oxford, UK, Oxford University Press.
Piazza, Francesca, 2013. «Rhetoric and pragmatics: suggestions for a fruitful dialo-
gue» in A. Capone / F. Lo Piparo / M. Carapezza (eds.), Perspectives on Pragma-
tics and Philosophy, vol. 1, Springer 2013, pp. 537-556.
Picardi, Eva, 2006. «Colouring, Multiple Propositions, and Assertoric Content», in
Grazer Philosophische Studien, 72 (1), pp. 49-71.
Pinker, Steven, 2009. Fatti di parole. La natura umana svelata dal linguaggio, Milano,
Mondadori (trad. di. The Stuff of Thought: Language as a Window into Human
Nature, Penguin Books, 2007).
Potts, Christopher, 2007. «The Expressive Dimension», in Theoretical Linguistics, 33
(2), pp. 165-197.
—, 2012. «Conventional Implicature And Expressive Content», in K. von Heusinger
/ C. Maienborn / P. Portner (eds.) Semantics: An International Handbook of Na-
tural Language Meaning, Berlin, Mouton de Gruyter, pp. 2516-2536.
Rahman, Jacquelyn, 2012. «The N Word: its history and use in the African American
community», in Journal of English Linguistic, 40 (2), pp. 137-171.
—, 2015. «Missing the target: group target that launch and deflect slurs», in Language
Science, 52, pp. 70-81.
Richard, Mark, 2008. When Truth Gives Out, Oxford, Oxford University Press.
Saka, Paul, 2007. How to Think About Meaning, Philosophical Studies vol. 109, Dor-
drecht, Springer.
Schlenker, Philippe, 2007. «Expressive Presuppositions» in Theoretical Linguistics,
33 (2) pp. 237-245.
Williamson, Timothy, 2009. «Reference, Inference, and the Semantics of Pejoratives»,
in J. Almoge / P. Leonardi (eds.), The Philosophy of David Kaplan, Oxford,
Oxford University Press, pp. 137-158.
Wittgenstein, Ludwig. Ricerche Filosofiche, Torino, Einaudi, 1967.
SUL SIGNIFICARE. DE MAURO E ECO:
DUE MAESTRI DI PENSIERO E DI VITA
veva, partendo tuttavia dal versante estetico dell’immagine, che «proprio per-
ché la percezione si attua ormai in un ambiente linguistico già costituito e ope-
rante, e anzi fin dalla prima infanzia essa viene guidata dagli adulti verso il ri-
conoscimento con indicazioni linguistiche, un aggregato [percettivo, implicito]
slitta continuamente sulla famiglia o sulla classe [categoriali, espliciti]» (Gar-
roni 2005: 15). In questo passo ritroviamo i due momenti che più sopra De
Mauro allo stesso tempo distingueva e connetteva; da un lato quello sensoriale
e immaginativo, che in linea di principio (come dimostrano le abilità ideative
e pratiche gli animali non umani) non ha bisogno della mediazione linguistica;
dall’altro, però come queste attività, nell’animale umano, siano sempre stret-
tamente intrecciate con la formulazione linguistica, interna o esterna, parlan-
do fra sé e sé (implicitamente o esplicitamente) oppure con altri. De Mauro
insiste su questo uso ‘privato’ del linguaggio, nel senso di un uso non comu-
nicativo bensì cognitivo, interno, per elaborare e progettare azioni: «l’uso pu-
ramente interiore delle parole, che consente a ciascuno di ragionare fra sé e
sé, riflettere, lasciare libero corso a pensieri e memorie» (p. 25).
Parlare e pensare con altri e con sé, parlare per pensare, e pensare per ar-
rivare poi a parlare, lavorare fra parola e immagine, fra pensiero e azione, agi-
re per pensare. Tutti modi diversi del corpo umano per stare nel linguaggio,
con sé e con gli altri, senza tuttavia mai starci del tutto: «solo rinunciando a
dire enfaticamente che le parole sono tutto, che tutto il razionale è verbale,
possiamo sperare di meglio capire che le parole sono molto e cercare di deter-
minare in che consiste questo molto» (p. 20).
trova una sostanziale continuità (v. ad esempio Ujhelyi 1996; Manser 2013) fra
i sistemi di comunicazione degli animali non umani e le lingue umane. De
Mauro, all’interno di un quadro comunque sostanzialmente ‘continuista’ («la
conquista del linguaggio» non si può «considerare come una catastrofe in sen-
so tecnico, come una svolta improvvisa dal non linguistico al linguistico»; De
Mauro 1994: 41), individua il punto possibile di congiunzione fra queste due
tesi contrapposte puntando l’attenzione sull’ontogenesi del linguaggio. Che è
un sistema troppo complesso, né solo sintattico – come pensa Chomsky – né
puramente comunicativo, per avere un inizio assoluto: «di specifico nelle lin-
gue c’è non tanto una, non tanto questa o quella caratteristica, ma il delicato e
complesso intreccio di una pluralità di caratteristiche coesistenti e variamente
sfruttabili nel parlare» (p. 43). Il linguaggio non è cominciato una volta per tut-
te, comincia tutte le volte che un piccolo umano entra di nuovo nel linguaggio.
La posizione di De Mauro è simile, per molti versi, a quella di Charles
Darwin. Per Darwin da un lato c’è la constatazione della continuità fra umano
e animali non umani: «è noto che l’uomo è foggiato sullo stesso stampo gene-
rale degli altri mammiferi. Tutte le ossa del suo scheletro possono essere com-
parate con ossa corrispondenti di una scimmia, un pipistrello, o una foca. La
stessa cosa è per i muscoli, i nervi, i vasi sanguigni e i visceri interni. Il cervel-
lo, il più importante di tutti gli organi, segue la stessa legge» (Darwin 1982:
42). Il problema biologico del linguaggio umano si colloca su questo sfondo.
Si parta dalla constatazione darwiniana, la grande diversità di lingue usate da-
gli esseri umani. Se il linguaggio umano fosse un istinto, cioè un comporta-
mento innato, ci aspetteremmo che gli esseri umani parlassero una sola lingua.
Ora è evidente che le lingue si imparano e che sono fra loro molto diverse.
Questo non significa affatto che il comportamento linguistico sia soltanto ap-
preso, perché esiste una altrettanto evidente predisposizione innata all’ap-
prendimento di una lingua (Yang 2006). È innata la facoltà del linguaggio,
mentre non sono innate le diverse lingue che gli esseri umani possono parlare.
A questo punto Darwin si chiede: si può forse sostenere che «il linguaggio è
un’arte come fare il pane o la birra» (Darwin 1982: 81)? La sua risposta scarta
entrambe le tesi estreme: sia quella che sostiene che è un istinto (questo inten-
de Chomsky quando sostiene che il linguaggio è un «mistero»), oppure che è
un sistema di comunicazione sostanzialmente simile, per quanto più compli-
cato, a quello degli altri animali. In realtà:
[il linguaggio umano] non è certamente un vero istinto, perché ogni lingua deve
essere imparata, tuttavia differisce moltissimo da tutte le arti ordinarie, perché
l’uomo ha la tendenza istintiva a parlare, come vediamo nel balbettare dei nostri
bambini, mentre nessun bambino ha mai la tendenza istintiva a fare il pane, la
birra, o scrivere. Inoltre, oggi nessun filologo suppone che ogni linguaggio [cioè
ogni lingua] sia stato inventato a bella posta; ma che ognuno si sia svolto lenta-
mente e inconsciamente per gradi (ivi, pp. 81-2).
206 Felice Cimatti
Le lingue non sono istintive, ma la facoltà del linguaggio sì, «perché l’uo-
mo ha la tendenza istintiva a parlare». La risposta di Darwin è molto originale
e inattesa, «perché è certamente un errore considerare qualunque linguaggio
come un’arte nel senso che sia stato elaborato e metodicamente formato» (ivi,
p. 87). Una risposta inattesa, perché la nostra domanda presupponeva una ri-
sposta netta; capiamo ora, attraverso Darwin, che era una domanda sbagliata,
proprio perché pretendeva una risposta netta per un fenomeno che, invece, è
tanto biologico che culturale, innato e appreso, fisso e storico. Darwin propo-
ne allora una definizione del linguaggio che non ha avuto molta fortuna, pro-
prio perché troppo sofisticata per chi pretende, invece, risposte nette a que-
stioni complicate: per lui possiamo solo parlare di «semi-arte e […] semi-istin-
to del linguaggio [half-art and half-instinct of language]» (ivi, p. 125). Il lin-
guaggio in quanto facoltà è un istinto, ma le lingue sono arti, cioè comporta-
menti appresi, e siccome non c’è lingua senza linguaggio, ma nemmeno lin-
guaggio senza lingue, allora il linguaggio umano nel suo complesso è tanto
una «semi-arte» quanto un «semi-istinto». Alla base di questa definizione c’è
la coscienza della radicale e originaria diversità delle lingue e all’interno delle
lingue. Lingua vuol dire, sostiene De Mauro, diversità: «la variazione non è
qualcosa che colpisca le lingue dall’esterno: essa invece si insedia in ogni pun-
to della realtà di una lingua come necessaria conseguenza della sua semantica
e pragmatica che, a loro volta, traggono necessariamente i caratteri di estensi-
bilità e flessibilità dalle esigenze funzionali di ciascuna lingua in sé stessa» (De
Mauro 1994: 80).
si perde proprio quell’aspetto delle lingue che così colpiva Darwin, la diver-
sità delle lingue. I concetti, infatti, sono entità psicologiche, che possiamo pre-
sumere siano universali, se non innati. Innatezza che è necessario postulare
anche per un altr’ragione: se i concetti fossero individuali, allora la compren-
sione linguistica sarebbe impossibile, perché i concetti del parlante sarebbe
comunque diverso da quello dell’ascoltatore. Se la lingua è soltanto un veico-
lo comunicativo, e i concetti sono entità psicologiche, allora la comprensio-
ne reciproca è impossibile. Di qui la necessità di postulare qualche forma
di innatezza dei concetti. Ad esempio, per la linguistica cognitiva «we share
similar cognitive and neuro-anatomical architectures (minds, brains and bo-
dies), [therefore] it follows that the nature of human experience, and the na-
ture of possible conceptual systems that relate to this experience, will be con-
strained» (p. 64).
La prospettiva di De Mauro, coerentemente con l’approccio aristotelico-
vichiano, è quella di legare strettamente la nozione di significato a quelle di
lingua e, di conseguenza, a quella di variabilità storica. La semantica, per De
Mauro, non si confonde con la psicologia né con l’ontologia. La «semantica
[è una] scienza storica» (De Mauro 1975: 227). Più in particolare, «possiamo
definire il significare come l’individuare una situazione con un segno (frase)»
(p. 228). Si parte dal fatto che gli animali umani hanno a che fare con il mon-
do. Dell’insieme infinito di tutto quello che succede nel mondo, ogni comu-
nità di parlanti ne considera rilevante, per ragioni storiche, solo un particolare
sottoinsieme. Così una determinata «situazione» è una porzione limitata del
mondo che una certa comunità considera rilevante. Facciamo un esempio di
«situazione» del mondo, quella che in italiano si può descrivere con la celebre
(cfr. Tarski 1944) asserzione “la neve è bianca”. In italiano “la neve è bianca”
dice qualcosa del mondo, in particolare del colore della neve. Poniamo che
questo enunciato sia proferito in un bosco innevato. In questa «situazione» ci
sono moltissimi altri elementi che avrebbero potuto essere individuati lingui-
sticamente; il piacere della vista della neve, l’aria fredda, il rumore dei passi
sul suolo innevato, la consistenza farinosa di quella particolare nevicata e così
via. Ogni enunciato, cioè, dice qualcosa del mondo, tralasciando tuttavia co-
me non pertinente moltissimo altro. Più in generale, già disporre della parola
“neve” testimonia del fatto che per una certa comunità la neve è rilevante, e
degna cioè d’essere nominata con una espressione linguistica specifica (per il
caso famoso, e famigerato, della lingua degli inuit cfr. Snow, 1986). Ma questo
vuol dire che la «situazione» è il risultato di una operazione di individuazione,
e che ogni individuazione è relativa ad una certa lingua, ad una certa comu-
nità, ad un certo momento storico. La «situazione», cioè, è individuata in mo-
do arbitrario, nel senso che non dipende da come è fatta la neve se in italiano
si può costruire l’enunciato “la neve è bianca”. De Mauro parla a questo pro-
posito di «arbitrarietà formale»:
208 Felice Cimatti
Non vi è ragione dipendente dalle sole caratteristiche intrinseche delle entità [da
classificare linguisticamente] per cui in esse sia trascelta una o l’altra caratteristica
come pertinente e per cui le caratteristiche pertinenti si raggruppino in sistema in
un modo o nell’altro: limiti materiali a parte, ogni sistema di classificazione e ogni
forma poggiano su scelte non condizionate, arbitrarie. Tale arbitrarietà di sistemi
e forme è ciò che chiamiamo ‘arbitrarietà formale’ (De Mauro 1982: 18).
1
«A sign stands for something the idea which it produces, or modifies. Or, it is a vehicle
conveying into the mind something from without. That for which it stands is called its that which it
conveys, its meaning; and the idea to which it gives rise, its interpretant. The object of representation
can be nothing but a representation of which the first representation is the interpretant. But an end-
less series of representations, each representing the one behind it, may be conceived to have an
absolute object at its limit. The meaning of a representation can be nothing but a representation»
(Peirce, CP, 1.339).
Tullio De Mauro e la filosofia italiana del linguaggio 209
De Mauro coglie un punto importante, che ancora una volta rimanda alle
origini della tradizione italiana della filosofia del linguaggio, il tema della di-
versità e della creatività come fattori costitutivi del fenomeno linguaggio, in
tutti i suoi aspetti. In questo senso una lingua non è un «calcolo». Ma questo
significa che la comprensione linguistica è una attività in cui si intrecciano ine-
stricabilmente semantica, sintassi e pragmatica. Al contrario per Chomsky, e
per la tradizione di ricerca che ha inaugurato, per descrivere l’attività lingui-
stica occorre adottare «una strategia divide et impera per scomporre il difficile
problema [del] linguaggio […] [in] tre parti […]: 1) un sistema computazio-
nale interno che costruisce espressioni strutturate gerarchicamente con inter-
210 Felice Cimatti
ficazione dall’altro. Il tema politico e civile non può essere nemmeno imposta-
to, per De Mauro, se non si parte dalla sua origine linguistica. Il linguaggio è
allo stesso tempo la condizione per questa ricchezza creativa e vitale (perché
«ogni parlante […] ha in sé il seme della variazione»; p. 148), come anche il
mezzo per regolarne l’intrinseco movimento centrifugo e conflittuale (perché
«dalla comprensione della natura stessa del nostro linguaggio e delle nostre
parole sorge un ammonimento di tolleranza, di rispetto, di sforzo di compren-
sione dell’alterità e diversità delle lingue come componenti costitutive del lin-
guaggio»; ibidem). Conflitto inevitabile, perché comprendere significa per
principio anche fraintendere, ma anche sempre di nuovo da evitare, proprio
perché comprendere significa provare a intendere quell’altro voleva dire. Così
la radice civile della filosofia italiana del linguaggio di De Mauro consiste
nell’abitare fino in fondo nella creatività del linguaggio – cioè «nella possibi-
lità di indefinita estensibilità del significato di ogni frase e di ogni parola oltre
i limiti già dati» (p. 146) – quindi nella sua radicale diversità, che è anche e al-
lo stesso tempo ricchezza di cambiamento possibile e quindi di storia. La que-
stione etica del linguaggio coincide con l’accettare fino in fondo la condizione
di essere un animale parlante:
Da una stessa radice rampollano da un lato le condizioni preliminari che consen-
tono alle comunità umane di porsi problemi di scelta morale e darsi regole di giu-
stizia, dall’altro quella pluralità di usi linguistici, quel pullulare di lingue e linguag-
gi che sempre più nel mondo della comunicazione e dell’interdipendenza pongo-
no nuovi, inattesi problemi ai popoli e agli individui. E la stessa e comune radice
è il linguaggio, è la nostra capacità umana di realizzare e capire enunziati serven-
dosi delle parole e delle frasi che ciascuna lingua ci mette a disposizione (p. 143).
BIBLIOGRAFIA
Berwick, Robert / Chomsky Noam, 2016. Perché solo noi. Linguaggio ed evoluzione,
Bollati Boringhieri, Torino.
Chomsky, Noam, 2015. The Minimalist program: 20th Anniversary Edition, Boston,
The MIT Press.
Cimatti, Felice, 2015. «Italian Philosophy of Language», Rivista Italiana di Filosofia
del Linguaggio, 1, pp. 14-36.
—, 2016. «La tradizione italiana», in F. Cimatti, F. Piazza (a cura di), Filosofie del lin-
guaggio. Storie, autori, concetti, Roma, Carocci, pp. 163-182.
Darwin, Charles, 1982 [1871]. L’origine dell’uomo e la scelta sessuale, Milano, Rizzoli.
Davidson, Donald, 1967. «Truth and Meaning», Synthese, 17(3), pp. 304-323.
De Mauro, Tullio, 1967. Ludwig Wittgenstein: His Place in the Development of Se-
mantics, Dordrecht, Reidel.
212 Felice Cimatti
Tullio De Mauro e Sebastiano Timpanaro sono stati tra gli intellettuali ita-
liani più importanti della seconda metà del Novecento. Nonostante la notevo-
le differenza di carattere (gioviale e socievole il primo, schivo e riservato il se-
condo), avevano diversi punti in comune: anzitutto una vasta competenza an-
che in discipline distanti da quelle di cui erano specialisti; una prosa brillante
ed elegante, e allo stesso tempo del tutto priva di quelle fumisterie o volute
oscurità che caratterizzavano quella di molti loro colleghi; infine (e non è cer-
to il tratto meno significativo), un impegno politico e sociale profondamente
legato al loro lavoro culturale, tanto che si potrebbe dire che concepivano il
secondo in funzione del primo. In questo contributo, vorrei discutere un tema
sul quale i nostri due studiosi hanno espresso opinioni diverse e in parte con-
trastanti, cioè l’interpretazione e la valutazione di Saussure.
Si può cominciare da quanto De Mauro scriveva nel suo partecipato e
commosso ricordo di Timpanaro:
Con ciò ci avviamo a cogliere l’originalità più notevole della visione teorica che
Timpanaro ha del linguaggio: l’esigenza di razionalità scientifica non lo porta mai,
anzi!, a negare le componenti non razionalizzabili del suo oggetto di riflessio-
ne. […] Timpanaro appartiene ai non molti che parimenti sdegnano di farsi ne-
gatori delle componenti incalcolabili operanti nella realtà del linguaggio e delle
lingue e di farsi assertori di una teoria e pratica irrazionalistica dello studio lingui-
stico. […] A questa doppia ripulsa sono ispirati i ricorrenti dubbi di Timpanaro
su Saussure e, soprattutto, le aspre critiche che ha rivolto a Noam Chomsky e al
suo razionalismo e riduzionismo biologico […] (De Mauro 2003: 102-103).
1
Per un elenco dei lavori di Timpanaro, e in particolare di quelli relativi alla storia della filolo-
gia, cfr. Feo (2003).
2
Anche uno dei maggiori esperti della linguistica italiana dell’Ottocento, D. Santamaria (2015:
XVII), osserva che i lavori di Timpanaro su Ascoli «hanno segnato una decisiva svolta» in materia.
3
Cfr., a questo proposito, De Liguori (2005: 109, n. 2). Il saggio di De Liguori mi pare molto
utile per inquadrare correttamente la figura del Timpanaro “filosofo”.
Saussure, De Mauro e Timpanaro 217
di ricondurre tutte le caratteristiche dell’uomo alla “storia”; nel suo libro più
sistematicamente dedicato a questi problemi (e significativamente intitolato
Sul materialismo: Timpanaro 1970 [1997]) così scriveva, tra l’altro:
La polemica storicistica contro l’«uomo in generale», giustissima finché nega che
siano proprie dell’umanità in generale certe caratteristiche storico-sociali come la
proprietà privata o la divisione in classi, diventa errata quando trascura il fatto che
l’uomo come essere biologico […] non è una costruzione astratta e nemmeno un
nostro antenato preistorico […]. […] Sostenere che, siccome il «biologico» ci si
presenta sempre mediato dal «sociale», il «biologico» è nulla e il «sociale» è tutto,
sarebbe, ancora una volta, un sofisma idealistico (Timpanaro 1970: 22 [1997: 18]).
Una posizione di questo genere non significava però adottare una visione
“fissista”, “platonizzante” della natura umana, anche il cui studio è storico,
per quanto di una storicità diversa da quella culturale:
L’«uomo in generale», come noi l’intendiamo – che è, poi, tutt’uno con l’uomo
naturale – non è l’«uomo eterno»: tant’è vero che ha avuto un’origine e avrà una
fine (o una trasformazione per evoluzione darwiniana). Pur non essendo affatto
eterni, quegli aspetti sono però diuturni, cioè dotati, relativamente all’esistenza
della specie umana, di molto maggiore stabilità che i caratteri storico-sociali. […]
l’uomo come essere biologico è rimasto sostanzialmente invariato dagli inizi della
civiltà ad oggi […] (Timpanaro 1970: 30-31 [1997: 25]).
2. Timpanaro su Saussure
4
La distinzione è importante: anzitutto, lo strutturalismo “non linguistico” (ossia antropologi-
co, letterario, ecc.) segue di qualche decennio quello linguistico, di cui costituisce, per usare ancora
una volta le parole di Timpanaro (1970: 164 [1997: 139]) «un successo “di ritorno”». Il giudizio di
Timpanaro sui due tipi di strutturalismo, per quanto sempre molto critico, è comunque ben diverso:
riferendosi infatti a Lévi-Strauss, Althusser, Foucault, Lacan, ecc., il nostro autore scrive che «non
siamo di fronte, come nello strutturalismo linguistico, a scienziati, magari discutibilissimi, magari rea-
zionari, ma dotati, nell’ambito della loro scienza, di un’indiscutibile probità intellettuale: siamo di
fronte a vecchie volpi letterate che, come ultimo e più raffinato giuoco, si sono messe a “giocare alla
scienza”» (Timpanaro 1970: 165 [1995: 39]).
220 Giorgio Graffi
smo […] si tratta di delimitare in partenza l’oggetto della «linguistica della lan-
gue», in modo che i fatti di parole vengano dichiarati, non già inesistenti, ma sem-
plicemente non pertinenti (Timpanaro 1970: 130-131 [1997: 110-111]).
Dunque, quella distinzione che molti degli studiosi posteriori, come ad es.
Hjelmslev (1943), qualificheranno come l’«essence absolue», la «thèse pri-
mordiale» del pensiero saussuriano, non sarebbe in realtà altro che uno stra-
tagemma per salvare lo statuto scientifico della linguistica, attribuendolo sol-
tanto ad una parte di essa. E lo stesso accade per un’altra fondamentale dico-
tomia saussuriana, quella tra sincronia e diacronia: «alla stessa esigenza “di-
fensiva” va ricondotta l’altra dicotomia saussuriana, tra sincronia e diacronia»
(Timpanaro 1970: 133 [1997: 113]). A parere di Timpanaro, questa ricostru-
zione della genesi delle dicotomie saussuriane in termini di “strategie difensi-
ve” non è soltanto «un’ipotesi», ma è confermata, tra l’altro, dal modo in cui
Saussure affronta i problemi intorno ai quali si era focalizzato il dibattito lin-
guistico di fine Ottocento, e in particolare quello dell’origine e della trasmis-
sione dei mutamenti linguistici. Per quanto riguarda il primo problema, Saus-
sure mostrerebbe notevoli incertezze in merito al fatto se tale origine sia indi-
viduale oppure sociale: a questo proposito, Timpanaro osserva, in disaccordo
con l’interpretazione di Godel (1957), secondo cui tali incertezze sono dovute
agli estensori degli appunti su cui è basato il Cours, che «l’oscillazione doveva
esserci nelle lezioni stesse del maestro, non nei fraintendimenti degli allievi»
(Timpanaro 1970: 135 [1997: 114-115]). Per quanto poi riguarda il carattere
più o meno “ineccepibile” dei mutamenti fonetici, Saussure salva la nozione
chiave dei Neogrammatici, cioè quella di “legge fonetica”, ma ne riduce dra-
sticamente la portata:
Saussure è anche d’accordo coi neogrammatici nel riconoscere, malgrado questo
inizio individuale del mutamento linguistico, l’ineccepibilità delle cosiddette leggi
fonetiche […] Ma Saussure aggiunge subito che chiamare «leggi» questi muta-
menti di suoni è del tutto erroneo, perché non si tratta che di eventi singoli […].
L’ineccepibilità del mutamento, appena riconosciuta, è svuotata di quella scien-
tificità che i neogrammatici erano così orgogliosi di attribuirle, e svuotata in modo
molto più radicale che ammettendo alcune eccezioni (Timpanaro 1970: 135-136
[1997: 115]).
“storicisti” nel considerare questo tentativo come inutile. Non è, invece, d’ac-
cordo con loro nel rinunciare alla scienza» (Timpanaro 1970: 139 [1997: 118]).
Fin qui, come si sarà notato, non c’è nulla nell’analisi di Timpanaro che
possa suggerire un’immagine di Saussure come “antimaterialistica”, “platoniz-
zante”; anzi, è lo stesso Timpanaro a negarlo: «dobbiamo, da ciò che abbiamo
esposto finora, affrettarci a concludere che il saussurismo è un’ideologia scien-
tistico-platonizzante? Sarebbe un grosso errore» (Timpanaro 1970: 139 [1997:
118]). Poco più avanti (id.: 140 [119]) il nostro autore osserva però che «an-
cora una volta bisogna riconoscere che parlando di platonismo, di antimate-
rialismo ecc. abbiamo commesso nei riguardi del pensiero saussuriano una
certa forzatura: abbiamo cioè messo in evidenza dei germi di tendenze che
nell’autentico Saussure sono ancora in larga misura neutralizzati da quello che
(con lode o con biasimo a seconda dei punti di vista) è stato chiamato il suo
positivismo». Questi “germi” sono comunque molto pericolosi, a giudicare da
quanto Timpanaro scrive qualche pagina più sopra:
Tra il saussurismo e gli sviluppi che ne daranno poi i praghesi e i danesi da un la-
to, e la linguistica più o meno idealistico-individualizzante che da Schuchardt va
fino a Vossler e ai crociani italiani, c’è dunque un comune orientamento antima-
terialistico, ma con un’inversione di valori. Mentre per un individualista-storicista
la spiritualità del linguaggio consiste proprio nell’individualità assoluta, nell’irri-
petibilità dell’espressione singola […], per Saussure e ancor più per i suoi conti-
nuatori la taccia di materialismo grava, al contrario, su una linguistica che dia il
primato al singolo atto di parole, il quale è una manifestazione materiale […] di
quel sistema di segni «ideali» che è la langue. Assistiamo (ci si passi l’espressione
un po’ rozza) a uno «scarica-barili antimaterialistico» tra un idealismo intuizioni-
stico e soggettivista […] e un idealismo matematico-platonizzante […]. In Saus-
sure […] questo atteggiamento «platonizzante» è ancora embrionale […]. Ma in-
dubbiamente comincia con lui, nella linguistica, quella querelle dell’astratto e del
concreto che, nei più vari campi, si svolgerà lungo tutta la cultura del Novecento
[…] (Timpanaro 1970: 133 [1997: 112]).
che con esso formano sistema, è senza dubbio forte in Saussure […]» (Tim-
panaro 1970: 142 [1997: 120]). Le critiche alla concezione della lingua come
nomenclatura, per quanto in parte motivate, non possono, secondo Timpana-
ro, essere spinte all’estremo:
Che la lingua non sia riducibile a nomenclatura è del tutto giusto […]. Ma se in-
vece si vuol dire che la lingua non ha alcun aspetto nomenclatorio […], allora si
approda a due possibili risultati entrambi inaccettabili: o si fa della lingua un sy-
stème pour le système che non significa nulla e non serve a nulla, oppure si stabi-
lisce che quante sono le lingue, tante sono le concezioni del mondo […] (Timpa-
naro 1970: 144 [1997: 122]).
3. De Mauro su Saussure
Nella sua ricostruzione del clima culturale in cui Saussure si era formato
ed aveva operato, e delle sue possibili influenze sul Cours, De Mauro, a diffe-
renza di Timpanaro, non fa cenno alla querelle sulle leggi fonetiche scatenatasi
tra i Neogrammatici da un lato e i linguisti alla Schuchardt dall’altro. Dedica
invece un certo spazio alla questione dei possibili “precursori” di Saussure,
Saussure, De Mauro e Timpanaro 223
come Hermann Paul, Georg von der Gabelentz, Franz Nikolaus Finck e Jan
Baudouin de Courtenay, e vari altri (cfr. De Mauro 1970: 347-355). Alcuni di
questi autori sono citati con ammirazione dallo stesso Saussure, nelle Notes
inédites pubblicate da Godel: si tratta di Paul e Baudouin de Courtenay, a cui
Saussure aggiunge Gaston Paris, Paul Meyer e Schuchardt tra i romanisti e
Mikolaj Kruszewski tra gli slavisti (cfr. Godel 1954: 66). Non sto qui a discu-
tere della fondatezza o meno del considerare questi o altri studiosi come au-
tentici precursori, se non addirittura autentiche fonti, delle idee abitualmente
attribuite a Saussure, limitandomi a rinviare alle pagine citate di De Mauro 5.
Particolarmente calzante ed efficace mi sembra comunque il modo in cui De
Mauro (1970: 355, n. 13) commenta l’intera questione: «da Crisippo a Finck,
nessuno di coloro che sono stati additati come precursori di S. ha goduto del-
la sequela di critiche e talora, di vere e proprie ingiurie, che hanno accompa-
gnato il CLG». Questo dato indiscutibile suggerisce quindi che il Cours saus-
suriano non sia stato percepito, all’epoca, come un tentativo di compromesso
tra le posizioni dei Neogrammatici e quelle di Schuchardt, o dei linguisti neoi-
dealisti, o degli esponenti della geografia linguistica, ma piuttosto come una
radicale rottura con la linguistica precedente 6.
Vediamo ora come De Mauro discute e interpreta la distinzione lan-
gue/parole, in una delle più lunghe e importanti delle sue note al testo saussu-
riano (la n. 65). Per De Mauro, la distinzione, che «ha evidente carattere dia-
lettico» (De Mauro 1970: 385) è una risposta al problema del riconoscimento
delle identità linguistiche e si collega al concetto di ‘valore’:
[…] l’identità tra le molteplici realizzazioni è possibile solo assumendo che esse
rappresentino lo stesso valore. […] Tali valori, non essendo determinati dalle fo-
nie o dalle significazioni, sono arbitrari sia dal punto di vista fonicoacustico sia dal
punto di vista logicopsicologico. Essi si delimitano reciprocamente: fanno cioè si-
stema (CLG 155 sgg.). E questo sistema di valori è qualcosa di diverso (dialetti-
camente e trascendentalmente) dalle realizzazioni foniche e significazionali dei
singoli atti di parole.
Varrà la pena di aggiungere subito che questo sistema di valori significanti e si-
gnificati è pertanto non già formato da materiali fonicoacustici o logicopsicologi-
ci, ma esso appunto conforma in determinate figure tali materiali: esso è, in que-
sto senso, forma (CLG 157). Tale forma è astratta dal punto di vista della concre-
tezza percettiva (ma S. ha difficoltà a dichiararla tale, dopo un secolo e mezzo di
esaltazione del concreto: infra n. 70); è concreta dal punto di vista della coscienza
dei parlanti, i quali ad essa si attengono nel parlare (CLG 144 sgg.). Ripetendo da
questi e solo da questi la sua validità, la lingua come forma (proprio in quanto ta-
le) è radicalmente sociale (CLG 112 sgg.). I suoi caratteri formali si apprezzano
soltanto in sincronia; ma poiché tali caratteri sono risultanti da accidenti di vario
5
Mi sia permesso anche un rimando a Graffi (2010: 216-219).
6
Sulla prima ricezione di Saussure, cfr. utilmente Venier (2016).
224 Giorgio Graffi
ordine prodottisi nel corso del tempo (CLG 113), la lingua come forma è altresì
radicalmente storica (ibid.) (De Mauro 1970: 386-387; i termini in corsivo sono
evidenziati nell’originale).
7
Su questo punto, Timpanaro e De Mauro sono concordi: «lo “psichico” che Saussure con-
trappone al “fisiologico” non è ancora lo “spirituale” […]: egli ha cura di sottolineare che la sede
della langue è “nel cervello” dei parlanti (CLG 30); la langue è sopraindividuale in senso “sociale”,
non certo nel senso dell’Io romantico-idealistico e nemmeno in un senso propriamente platonico»
(Timpanaro 1970: 140 [1997: 119]).
Saussure, De Mauro e Timpanaro 225
8
Timpanaro aveva invece insistito sul carattere di opposizione assoluta tra sincronia e diacro-
nia, come pure tra langue e parole, già in un saggio di qualche anno prima, in cui riconosceva a Gia-
como Devoto il merito di «superare, nella concretezza della ricostruzione storica, quelle antinomie
di individuale e collettivo, sincronia e diacronia, che il de Saussure aveva avuto il gran merito di met-
tere in luce, ma che si era compiaciuto di considerare come contrapposizioni assolute e insuperabili
più che come aspetti opposti di un’unica realtà» (Timpanaro 1963: 7). Osserviamo che, in questo
saggio, Timpanaro è molto meno critico nei confronti di Saussure rispetto a quanto lo sarà nel volu-
me del 1970: ad es. osserva che Saussure, pur chiamando spesso la lingua «un’istituzione sociale»,
era «ben consapevole di ciò che la distingue dalle altre istituzioni» (id.: 4).
226 Giorgio Graffi
Il passo si ripete identico fino all’ultima edizione (1920) del libro di Paul,
con una sola differenza, tipografica: la frase evidenziata nella prima edizione
è invece ristampata in carattere normale nelle edizioni successive (1886, 1898,
1909, 1920). Forse questa differenza non è del tutto priva di significato: quella
che per Paul era un’affermazione di grande rilievo nel 1880, perché indicava
un deciso mutamento rispetto alle posizioni da lui assunte fino a poco tempo
prima, diventava quasi scontata già nel 1886, quanto il dibattito sulle leggi fo-
netiche, come si è detto, ormai accennava a spegnersi. È vero che solo un an-
no prima era uscito il pamphlet di Schuchardt sulle leggi fonetiche e contro i
neogrammatici (Schuchardt 1885), ma di fatto la questione era ormai supera-
ta. La situazione era ben riassunta qualche anno dopo da Meillet, che ribadiva
anzitutto la differenza essenziale delle leggi fonetiche da quelle delle scienze
Dove non diversamente indicato, le traduzioni da Paul sono mie. Sulle teorie linguistiche di
9
naturali, con esplicito riferimento a Paul (anche se, curiosamente, non alla pri-
ma, ma alla seconda edizione dei Prinzipien):
La loi phonétique, dépendant de conditions multiples qui n’ont pas chance de se
reproduire jamais identiques à elles-mêmes, limitée par suite dans l’espace et dans
le temps, n’a de commun avec les lois physiques que le nom même de lois (V.
Paul, Prinzipien der Spraehgeschichte, 2 e édition, p. 60 et suiv.) (Meillet 1893: 312).
Alla pagina seguente Meillet ricordava poi come anche i linguisti come
Schuchardt non potevano fare a meno di ricorrere alle leggi fonetiche (ovvia-
mente, non interpretate come leggi naturali):
Quelques linguistes éminents, notamment M. Schuchardt, contestent que les lois
phonétiques aient cette absolue rigueur mais ce qu’ils n’admettent pas en princi-
pe, ils le reconnaissent en fait, puisque, comme l’a fait remarquer M.V. Henry, ils
ne manquent pas de s’en autoriser dans leurs démonstrations (Meillet 1893: 313).
10
Qui e più avanti cito i passi di Schuchardt (1917) dalla traduzione di Venier (in c.s.).
11
Nota di Schuchardt (ibid.): «Nonostante si dica a p. 32 che la langue non è un oggetto di na-
tura meno concreta della parole: ci si riferisce però solo alle parti e non alle totalità. Non ci si può im-
maginare l’una senza l’altra (p. 24), ma solo insieme, come lingua individuale» (i riferimenti di Schu-
chardt sono alle pagine della prima edizione [1916] del Cours saussuriano).
228 Giorgio Graffi
12
Bühler (1934: 5) notava l’analogia tra questa classificazione di Paul e quella introdotta, pochi
anni dopo, da Wilhelm Windelband (1894) e ripresa dall’allievo di quest’ultimo, Heinrich Rickert,
tra scienze “nomotetiche” e scienze “idiografiche”. Il rapporto storico è innegabile: lo stesso Rickert
(1926: 25) riconosce che Paul è stato tra i primi ad avere colto la differenza tra i due tipi di scienze.
Tuttavia, come ho osservato in Graffi (1991: 61, n. 44), mentre l’opposizione tra i due tipi di scienze
è irriducibile secondo Windelband e Rickert, non lo è a parere di Paul, come dimostra appunto il
particolare statuto che egli assegna alla linguistica.
Saussure, De Mauro e Timpanaro 229
smo torna ad affermare con Hegel che non c’è vera storia se non dello spiri-
to […]: si carica, quindi, di irrazionalismo e intuizionismo. Nella cultura scienti-
fica, d’altra parte, il peso della biologia diminuisce fortemente a favore delle
scienze fisico-matematiche […]. Nella biologia stessa, l’evoluzionismo attraversa
un periodo di crisi, in seguito alla riscoperta delle leggi del Mendel e al sorgere
della genetica che, in un primo momento, sembra destinata a confutare e non a
rafforzare la teoria darwiniana (Timpanaro 1970: 138 [1997: 117]).
Da questo passo, come da altri, osserva De Mauro (in Saussure 2002 [trad.
it.]: XV), «sembra chiaro […] che Saussure abbia già pienamente maturato
l’accezione positiva di abstraction e abstrait».
Anche l’opposizione tra sincronia e diacronia (denominate in modo par-
zialmente diverso in Saussure 2002) non è quindi motivata dalla necessità di
distinguere un dominio “scientifico” da uno “non scientifico” della linguisti-
ca, ma da quella di non cadere in equivoci relativamente all’individuazione
delle entità linguistiche:
13
Nota di De Mauro: «il testo manoscritto e quindi ELG Engler recano délimitation» (De
Mauro abbrevia con ELG Engler la trascrizione diplomatica e l’edizione critica di F. de Saussure, De
l’essence double du langage, preparate da Rudolf Engler; cfr. Saussure 2002 [trad. it.]: VI).
14
Questo vale a livello concettuale, non terminologico: negli scritti saussuriani che stiamo esa-
minando, langue non ha ancora definitivamente assunto il valore tecnico che ha nel CLG (Saussure
1922).
Saussure, De Mauro e Timpanaro 231
[…] il senso può variare in una misura infinita senza che il sentimento dell’unità
del segno sia neanche vagamente colpito da questa variazione. […] Ma non sono
i fenomeni di questo tipo, supponendo sempre una successione di stati, che aiute-
ranno mai a capire ciò che è uno stato linguistico in se stesso o ciò che valgono i
termini che ne dipendono; ed è precisamente la commistione perpetua e disastro-
sa di ciò che è successivo o retrospettivo in ciò che è istantaneo o presente, diretto
o generale, che è l’oggetto dei nostri attacchi (Saussure 2002 [trad. it.]: 52; corsivi
nell’originale).
so da Saussure (1922: 112), in cui si legge tra l’altro che «[…] ce qui nous
empêche de regarder la langue comme une simple convention, modifiable au
gré des intéressés, ce n’est pas cela ; c’est l’action du temps qui se combine
avec celle de la force sociale ; en dehors de la durée, la réalité linguistique n’est
pas complète et aucune conclusion n’est possible», e arrivava a trovare una
notevole vicinanza tra le posizioni dell’«autentico» Saussure e di Timpanaro:
«questa durée saussuriana non rassomiglia o non viene a coincidere con quegli
“aspetti”, di cui parla Timpanaro, che, “pur non essendo affatto eterni, quegli
aspetti sono però diuturni ”»? (De Mauro 1967: 116). A mio parere, questa
analogia è forzata: la durée di Saussure è un concetto tipicamente storico, men-
tre gli «aspetti diuturni» di cui parla Timpanaro, come si può rivedere dalla
citazione di quest’ultimo sopra, si contrappongono esplicitamente agli aspetti
storico-sociali. De Mauro aveva probabilmente ragione a definire Saussure uno
“storicista µετ’ἐπιστήµης ”, ma essere storicisti non significa necessariamente
essere materialisti, né il materialismo, nella visione di Timpanaro che abbiamo
sinteticamente esposto nel § 1 del presente lavoro, si identifica con lo storici-
smo. Ci sono dunque due punti fondamentali in cui le posizioni di De Mauro
e di Timpanaro rimangono molto distanti, se non inconciliabili: il ricorso all’a-
strazione e la concezione dello storicismo e del materialismo. Forse fu per que-
sta inconciliabilità, che l’avrebbe costretto inevitabilmente a polemizzare in
modo acceso con un altro studioso verso il quale nutriva profonda stima e, cre-
do, anche amicizia, che indusse De Mauro a non replicare pubblicamente alla
ricostruzione e alla critica del pensiero saussuriano operate da Timpanaro 15.
Nel presente lavoro ho svolto sostanzialmente un’analisi storica, per quan-
to riguarda sia la genesi del pensiero saussuriano secondo De Mauro da un la-
to e secondo Timpanaro dall’altro, sia il rapporto tra le visioni dello storici-
smo nei due studiosi. Vorrei però concludere col porre una questione teorica,
che naturalmente vale solo come spunto, dato che la sua trattazione merite-
rebbe un ben altro approfondimento. Tale questione può essere così formu-
lata: il ricorso a concetti astratti è compatibile con un’opzione materialistica
integrale, oppure no? Con ogni probabilità, De Mauro avrebbe risposto affer-
mativamente: come abbiamo più volte occasione di rilevare, il nostro linguista
vedeva la “rivalutazione dell’astratto” come un elemento essenziale della svol-
ta operata da Saussure nell’ambito della linguistica. E Timpanaro? Nel suo
saggio dedicato allo strutturalismo, riferendosi a Hjelmslev, così scriveva:
Non è in discussione, intendiamoci, il diritto all’astrazione: è in discussione – è
del resto è stata già ampiamente contestata all’interno dello strutturalismo stesso
– l’utilità di un livello di astrazione così alto ai fini dello studio delle lingue, la
15
Dico “pubblicamente” perché non so se i due studiosi abbiano discusso dell’argomento nella
loro corrispondenza privata. Forse chi è in possesso del loro carteggio potrà, prima o poi, informarci
su questo punto.
Saussure, De Mauro e Timpanaro 233
BIBLIOGRAFIA
Ben consapevole del rischio che questa tesi potesse causare, se male inter-
pretata, un ripiegamento su sé stessi e una scarsa apertura alle nuove tendenze
della ricerca, soprattutto anglosassone – come è poi effettivamente accaduto
(cfr. Gambarara 1996; Cimatti 2015) – aggiungeva una precisazione che ritenia-
mo molto utile anche nel dibattito teorico odierno sulle scienze del linguaggio:
“certo, la linguistica italiana ha molto da imparare da tutti. Ma, come erede di
questa tradizione di studi e riflessioni, anzitutto può tanto meglio farlo, poiché es-
sa è inclusiva di potenti anticorpi contro la boria delle nazioni e delle scuole dot-
trinali; ed è spinta a farlo perché in questa sua tradizione è iscritta, con la visione
storica delle lingue, la consapevolezza della storicità, dunque della temporale mu-
tevolezza delle stesse prospettive di studio” (id.: 24).
lo uno dei tantissimi studenti affascinati e quasi travolti dalla potente perso-
nalità scientifica e umana di quell’inimitabile maestro di un’intera generazione
di giovani ricercatori. Così la sua tesi tanto ardita sulla specie-specificità della
linguistica italiana divenne la bussola dei miei primi passi nel complicato mon-
do della filosofia del linguaggio.
Questo apprendistato ho avuto la fortuna di svolgerlo nella bottega del
principale allievo di Tullio: il giovane Franco Lo Piparo, allora incaricato di
Linguistica generale presso l’Università di Catania. Alle sue lezioni ascoltavo,
tuttavia, le teorie chomskiane sulla ricorsività computazionale, le congetture
di Goldbach sui numeri primi, le equazioni di Fermat, il problema di non-
corrispondenza di Post, i teoremi limitativi di Kurt Gödel, l’epistemologia di
Gaston Bachelard, e su tanti altri interessanti mondi certamente lontani dalla
tradizione linguistica italiana e cognitivamente ciechi a qualsiasi idea di intrin-
seca politicità del linguaggio. Non ho mai dimenticato quegli anni e quegli in-
segnamenti. Mi fecero capire un principio che ho poi cercato di applicare nel
corso di tutta la mia vita: il miglior modo di onorare le teorie dei maestri è
quello di confutarle, di allontanarsi da esse, di esplorare altro, soprattutto di
non spegnere mai la curiosità per ciò che è diverso da noi e da ciò che ci han-
no insegnato. Magari per tornarci dopo.
Trascorso qualche anno, infatti, il corso di Linguistica Generale di Franco
Lo Piparo fu dedicato ad Antonio Gramsci. Parlava della disputa torinese tra
i neogrammatici e i neolinguisti, della formazione crociana del giovane “co-
munista”, del concetto di sostrato di Ascoli e Terracini, della nozione di ege-
monia linguistica, etc. Nei decenni che seguirono ci furono corsi e saggi dedi-
cati a Dante, Leopardi, Vico, la storia della lingua in Sicilia, Aristotele, Witt-
genstein e alla sua strana storia di incroci con le idee dei quaderni gramsciani.
Un nuovo capovolgimento di prospettive, un ritorno all’antico, o qualcosa
d’altro più contorto e difficile da capire?
Propendo per quest’ultima ipotesi. I grandi maestri ci infettano con alcu-
ne idee che tanto più ci danno fastidio quanto più sono vere. Allora cerchia-
mo di liberarcene dovendo dimostrare che possiamo farne a meno, che siamo
in grado di costruircene di proprie e di nuove. Talvolta questo avviene davve-
ro e determina la crescita reale, l’allargamento e l’espansione del punto di vi-
sta originario. Ma poi comprendiamo che odiavamo il luogo teorico di parten-
za perché era vero e capiamo che tornarci dopo un lungo viaggio può essere
redditizio, consolatorio e pacificatore.
Ho passato buona parte del mio viaggio quasi trentennale ad allontanarmi
non solo dalla ipotesi di una specifica tradizione italiana di studi sul linguag-
gio, ma anche dall’idea stessa della storia delle idee linguistiche. Ho cercato,
al contrario, di occuparmi della dimensione “sincronica” dei problemi. Utiliz-
zando l’armamentario teorico delle scienze cognitive, delle analisi empiriche
e sperimentali, e delle prospettive della moderna sintesi evoluzionista, ho cer-
Cosa può un corpo. Spinoza e l’Embodied Cognition 239
studi sui sistemi visivi, in particolare degli insetti, hanno dimostrato questa in-
tuizione. L’occhio della mosca, ad es., si è selezionato seguendo da vicino il
caratteristico moto zigzagante del suo volo grazie, probabilmente, alla strut-
tura di fotorecettori visivi capaci di fornire una risposta velocissima e diretta
al sistema nervoso (Hardie 2012; Hardie-Raghu 2001; Hardie-Juusola 2015).
Allo stesso modo anche gli altri repertori sensoriali, uditivi, olfattivi o tattili,
sarebbero causati “da configurazioni di interdipendenza sensorimotoria del
tutto diverse. (…) Le modalità sensoriali sono veri e propri stili di esplorazio-
ne del mondo” (Noë 2009: 65). La peculiarità della posizione enattivista è da-
ta dalla sua capacità di giungere alle formulazioni più radicali di una filosofia
della mente incarnata: quella, cioè, che propone brutalmente di considerare il
corpo e le sue attività sensomotorie come veri e propri vincoli dell’attività co-
gnitiva (Menary 2006).
Anche la teoria della mente incorporata (embodied) considera la cognizio-
ne come una funzione delle strutture biologiche. È possibile, quindi, come
cerca di dimostrare Shapiro (2004 e 2011), che una diversa strutturazione dei
corpi possa dar vita a intelligenze diverse. La presenza di determinati tratti
anatomici, ad es., o anche una loro grande o piccola differenza organizzativa
nella meccanica funzionale che può realizzare performances o comportamenti
vitali per la sopravvivenza o per la fitness degli organismi, è in grado di deter-
minare profondi adattamenti cognitivi, mentali e forse anche culturali. Persino
l’assenza, l’attenuazione o la perdita, di tratti geneticamente codificati può
condurre a dispositivi cognitivi del tutto nuovi e imprevisti (Carroll 2006; Fal-
zone 2014a, b; Pennisi-Falzone 2011).
Diverso è il caso dell’embedded cognition e dell’extended mind. In queste
due interpretazioni del paradigma della mente incarnata il corpo, più partico-
larmente la sua dimensione strettamente biologica, è meno direttamente coin-
volto. In particolare cambia l’oggetto di studio: non si cerca di capire com’è
fatta la “tecnologia corporea” (Pennisi 2013 a, b; 2014a, b: 161 e ss.; Pennisi-
Parisi 2013) che permette lo sviluppo di certe capacità cognitive, ma, semmai,
di capire come le tecnologie digitali sviluppate a partire da certe capacità co-
gnitive possano estendere i poteri del corpo. La mente è quindi “immersa”
(embedded) in un contesto ambientale in cui operano agenti fisici, ecologici,
culturali, unitamente a dispositivi digitali, che interagiscono tutti e coevolvono
con la coscienza individuale. Inoltre è “estesa” (extended) agli usi collettivi
che allargano ben al di là della dimensione culturale dei singoli individui le
potenzialità cognitive della mente umana (Rowlands 2003 e 2010; Sheldrake
2003; Knappett-Malafouris 2008; Clark 2008 e 2016; Menary 2010). Un caso
tipico può essere considerato quello della memoria a breve termine che è stata
fortemente condizionata dai progressi dell’informatica digitale determinando
una drastica diminuzione delle capacità individuali a fronte di uno smisurato
aumento di quelle collettive. Oppure dalle straordinarie prospettive aperte
244 Antonino Pennisi
premesse, possa ancora giustificarsi l’idea di una “scienza enattiva della men-
te” o se non fosse meglio chiamarla una “filosofia della natura” (Gallagher
2017: 21 e ss.; fonti: Cecilia Heyes; Godfrey-Smith 2001), cioè, una sorta di
“commento dell’immagine complessiva del mondo naturale (Godfrey-Smith
2001: 284) “un’attenta ridescrizione filosofica dell’immagine del mondo che
la scienza sembra offrire”. Per altri l’enattivismo resta una “concezione olistica
della cognizione” (Gallagher 2017: 21). È “una forma di naturalismo, che non
approva la definizione meccanicistica della natura” (id.: 23) o “una filosofia
non-riduzionista, ma ancora scientificamente impegnata, della natura” (Di
Paolo, Buhrmann, e Barandiaran 2017: 253).
È chiaro che ci troviamo, quindi, davanti a una situazione di forte indebo-
limento teorico, se non ad un vero e proprio pasticcio epistemologico. Come
scrive Aizawa:
“non si può sostenere che la cognizione sia incarnata ed estesa, osservando che il
comportamento è incarnato o esteso. E non si può dimostrare che tutte le cogni-
zioni non comportano rappresentazioni fornendo istanze di comportamenti che
non implicano la rappresentazione” (Aizawa 2014: 40).
1.2. Il bivio
Penso sia molto probabile che la principale causa delle reali o apparenti
contraddizioni e dei problemi presenti nella riflessione contemporanea sul-
l’EC dipenda da una ideologica confusione che regna sulla nozione di “cor-
po”. Dico una confusione ideologica perché, in realtà, una teoria della mente
incarnata non può neanche per un attimo omettere o dimenticare il fatto che
il cervello – a differenza della mente – è comunque un organo del corpo. Ciò
contro cui lotta, in realtà, l’Embodied Cognition è lo strapotere che viene con-
ferito dalle neuroscienze cognitive ad un organo corporeo (il cervello) sugli altri
organi corporei. Lotta, quindi, contro il fantasma del dualismo, di fatto ancora
serpeggiante o inespresso in alcune teorie neuroscientifiche mentaliste, ma,
per lo più, ormai ai margini di tutte le filosofie naturalistiche che si ispirano al
cognitivismo.
L’enattivismo, in particolare la sua componente più neo-fenomenologica,
sembra tuttavia restare imbrigliato nella stessa tela che vorrebbe contribuire
a dipanare. È soprattutto l’assenza di una precisa gerarchia dei livelli di perti-
nenza dell’analisi enattivistica, il ripensamento della mente secondo gli enac-
tivist interventions (Gallagher 2017), a produrre più dubbi che certezze.
Ogni volta che si affronta questo punto non si capisce più né di cosa è fat-
to un corpo né a chi appartiene il corpo del quale si parla.
Il cervello è una parte del corpo? Le proprietà percettive appartengono al
sistema nervoso? I muscoli, le ossa, i tessuti molli, hanno un posto nei proces-
si cognitivi? E poi di quale corpo stiamo parlando: quello di un animale socia-
246 Antonino Pennisi
Il titolo che ho scelto per questo capitolo finale è quello di un celebre li-
bro di Gilles Deleuze (2007) su Baruch Spinoza. Di questo importante lavoro,
la cui prospettiva filosofica non mi è del tutto congeniale, condivido tuttavia
due intuizioni fondamentali:
1) la centralità epistemologica della domanda che si pone Spinoza nella
sua Etica (“la problematica centrale della sua filosofia (…) la sua sola questio-
ne, è: cosa può un corpo? Noi che sproloquiamo sull’anima e sullo spirito non
sappiamo per niente cosa può un corpo” - Deleuze 2007: 55);
2) la definizione di quella stessa Etica come “Etologia” (“e se mi chiedo
qual è il senso della parola ‘etica’ e in cosa differisce dalla morale, rispondo:
l’etologia” - id.: 78).
Cercherò di chiarire in che modo siano collegati questi due argomenti in
relazione al tema che qui mi interessa, ovvero una rilettura spinoziana limita-
tamente alla prospettiva dell’EC sin ora descritta. D’altro canto non è certo
questo il luogo per ricostruire filologicamente l’intera filosofia della mente di
Spinoza, anche se si tratta di un’impresa che varrebbe la pena di intraprende-
re con pazienza e attenzione perché capace di riservarci sorprese che vanno,
forse, ben al di là di quelle rimarchevoli che ci ha già fatto osservare Damasio
(2003) in Looking for Spinoza Joy, Sorrow and the feeling Brain (cfr. anche
Cook 1991; Della Rocca 1996 e 2008; Ravven 2003a/b e 2014; Martin 2007;
Nadler 2008; Sangiacomo 2011; Pennisi 2016. Una rilettura complessiva di
Spinoza in chiave cognitivista in Pennisi 2017, in stampa).
Basterà in questa sede attenerci al programma fondamentale dell’Etica
spinoziana a cui si riferisce Deleuze e che abbiamo citato nell’epigrafe al §. 1:
determinare i limiti del corpo indipendentemente dai vincoli imposti dal no-
stro apparato mentale; ricostruire il rapporto fra la struttura dei corpi e le fun-
248 Antonino Pennisi
zioni che esso rende possibili; fissare il contesto naturale generale (universale)
entro il quale questi obbiettivi hanno un senso.
Notoriamente Spinoza è un critico del dualismo cartesiano e platonico.
Cerca, quindi, di trovare ed esaurire nel corpo il funzionamento dell’intera ca-
pacità mentale. Anche l’anima, secondo lui, non è libera ma “agisce secondo
certe leggi e quasi come un automa spirituale” (Op. 159). Non c’è una sostan-
ziale differenza strutturale tra l’anima di piante, animali e uomini, giacché
“nella materia esistono unicamente rapporti e azioni meccaniche” (Op. 579).
Contrariamente a quello che pensano teologi e filosofi, la tecnologia corporea,
per quanto straordinariamente complessa, è scientificamente spiegabile per
intero senza far ricorso ad enti soprannaturali. Tecnologia corporea e tecno-
logia mentale sono, d’altrocanto “una sola e medesima cosa che è concepita
ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto quello dell’estensione” (Op. 1321).
Il manifesto epistemologico spinoziano della mente come idea corporis è
tutto contenuto in questa doppia sfida: in termini noti alla filosofia moderna,
spiegare ciò che Husserl chiamerà il Korper, cioè il corpo come estensione, e
il Leib, cioè il corpo che patisce le “affezioni” che gli provengono dalle rela-
zioni col mondo esterno e col suo stesso esperire interno. Il tutto naturalmen-
te senza mai uscire da sé stesso o produrre specchi dualistici in cui duplicarsi
in un rimando infinito di immagini: “la mente non è mai stata senza corpo, né
il corpo senza mente” (Op. 315).
sua capacità di sfidare problemi tuttora irrisolti nelle scienze della mente. Co-
me scrive Thomas Cook nei termini della filosofia della mente contempora-
nea: “penso che Spinoza fosse impegnato nel dimostrare che esiste almeno
un’identità token-token tra qualsiasi stato fisico funzionalmente descritto e
uno stato descritto in termini fisici finemente strutturati” (1991: 86). Ciò sa-
rebbe possibile per Spinoza perché “l’ordine e la connessione delle idee sono
uguali all’ordine e alla connessione delle cose” (1667: 1229), in quanto corpi
e pensiero costituiscono una sostanza unica.
Naturalmente lo smantellamento del mentalismo cartesiano è nell’opera
di Spinoza organicamente strutturato e strategicamente organizzato. A questo
scopo dedica diverse opere: il Tractatus de Intellectus Emendatione (pubblica-
to nel 1677 ma scritto probabilmente tra il 1656 e il 1661); il Korte Verhande-
ling van God, de Mensch, en dezself Welstand (il Breve trattato su Dio, l’Uomo
e la sua fellicità, composto in latino nel 1661 e pubblicato in Nederlandese nel
1862); i Renati Des Cartes Principiorum Philosophiæ (pubblicati nel 1663 in
latino – l’unica opera pubblicata in vita da Spinoza) e i Cogitata Metaphysica
(pubblicati in Appendice al libro precedente sempre nel 1663).
Non c’è il tempo e lo spazio qui per occuparsene estesamente. Basta tut-
tavia ricordare come Spinoza non si limiti ad una generica confutazione filo-
sofico-teologica dei principi cartesiani ma imbastisca una serrata critica tecni-
ca alla spiegazione funzionale cartesiana della ghiandola pineale definita: “una
ipotesi più occulta di qualsiasi qualità occulta” (Op. 1555-7, ma cfr. anche
Op. 1279) che doveva per forza portare alla sconfitta senza appello della sfida
iatromeccanica di Cartesio:
“che cosa, di grazia, egli intende per unione della mente e del corpo? Qual con-
cetto chiaro e distinto egli ha, dico, di un pensiero unito strettamente con una
certa porzioncella dell’estensione? Vorrei proprio che egli avesse spiegato que-
st’unione per mezzo della sua causa prossima. Ma egli aveva concepito la mente
talmente distinta dal corpo che non ha potuto assegnare nessuna causa singolare
né di questa unione, né della stessa mente; ma gli è stato necessario ricorrere alla
causa di tutto l’Universo, cioè a Dio” (ib.).
2.2. Ma veniamo alla pars costruens. Per far convergere Korper e Leib, se-
condo Spinoza, occorre fondare una scienza specifica che si occupi dello stu-
dio approfondito della struttura fisica dei corpi e delle sue affezioni, distinta
nei suoi attributi estensivi e nei suoi modi affettivi. Questa “scienza intuitiva”
costituirà anche lo sfondo etico e politico di una più generale teologia natura-
listica espressa soprattutto nell’Ethica Ordine Geometrico Demonstrata del
1677, l’opera più importante di Spinoza.
Lo studio degli attributi corporei, quindi della struttura morfologica e
funzionale dei corpi, è concepita nei termini concettuali e categoriali di una
nuova scienza naturale, una filosofia della natura declinata nei termini di “una
250 Antonino Pennisi
Per es, Spinoza aveva capito che le emozioni negative si combattono con-
trapponendo a queste altre emozioni indotte dal ragionamento e da uno sfor-
zo di autoconservazione. Le emozioni si dominano anche con le emozioni.
Spinoza aveva forse intuito il punto di congiunzione mente-corpo tanto bene
da poter mappare sentimenti in aree cerebrali. Secondo Damasio Spinoza ave-
va intuito i segreti del corpo-mente umano secondo le stesse linee che secoli
dopo percorreranno William James, Claude Bernard, Sigmund Freud e Char-
les Darwin (id.: 25).
Cosa può un corpo. Spinoza e l’Embodied Cognition 251
la natura delle parole è differente dalla natura delle cose: la vera sapienza è la
conoscenza scientifica: quella della struttura dei corpi che resta costante e in-
dipendente dalla volatilità degli affetti, delle passioni e del linguaggio. D’altro
canto negli umani non esistono altre possibilità espressive diverse dal linguag-
gio, mentre esistono capacità conoscitive superiori che ci avvicinano all’onni-
scienza naturale: la comprensione scientifica more geometrico dei corpi e delle
loro interazioni, una sorta di bio-fisica della tecnologia corporea.
Questa inedita filosofia del linguaggio resterà immutata nello sviluppo del
pensiero spinoziano. Così è nei Principi della filosofia di Cartesio (1663):
“in quale altro modo, chiedo, possiamo mostrare l’idea di qualcosa se non for-
nendone la sua definizione e spiegandone gli attributi? E giacché è quanto faccia-
mo circa l’idea di Dio, non è il caso di perder tempo con le parole degli uomini
che negano di avere un’idea di Dio solo perchè non possono formarsene un’im-
magine nel cervello” (Op. 415).
concordanze, le loro differenze e le loro opposizioni; tutte le volte, infatti, che es-
sa è disposta interiormente in questo o in quel modo, contempla allora le cose
chiaramente e distintamente” (Op. 1273).
2.5. Ciò che mi pare più rilevante nell’opera di Spinoza è l’aver finalmen-
te individuato il link corretto tra Korper e Leib, cioè, appunto, il livello perti-
nente a stimare cosa può un corpo, al di là di come noi soggettivamente lo
esperiamo o, anche, al di là di come lo descriviamo nei termini del nostro lin-
guaggio. Questo livello è il livello etologico, ed è orientato in una direzione
che, diremmo oggi, evoluzionista. Diversamente che nelle tradizioni della fi-
losofia della mente contemporanea, infatti, l’elemento soggettivo, o, in termini
biologici, la variazione fenotipica, non è adatto, secondo Spinoza, a spiegarci
la natura e le differenze tra i corpi: “la mente è tanto più atta a percepire più
cose adeguatamente quante più proprietà il suo corpo ha in comune con altri
corpi” (1677: 1283) e quanto più “vive tra individui che s’accordano con la
sua natura” (id.: 1541).
I corpi, pertanto, non possono che definirsi su base comparativa: la do-
manda giusta non è cosa può fare un corpo ma cosa un corpo non può fare
nell’ambito della sua estensionalità biologica, circoscrivendo, per eliminazio-
ne, l’ambito delle sua realizzabilità. Questa impossibilità, tuttavia, non ha a
che fare con la fenomenologia dei comportamenti individuali, culturali, tec-
nologici, sociali o ambientali: tutti ambiti caratterizzati dall’illimitatezza degli
usi o, comunque, dalla indeterminabilità delle funzioni, che hanno natura
comportamentale, storica (micro o macro-storia) e culturale.
Le relazioni pertinenti che i corpi hanno tra loro sono tutti di natura eto-
logica, cioè determinati non dalla storia ma dalla biologia delle interazioni. La
differenza consiste nel fatto che le interazioni biologiche permangono nono-
stante i cambiamenti che ne affettano le parti, mentre le altre sono destinate
ad un’esistenza effimera. Così tutto ciò che è acquisito nel corso dell’esistenza
individuale, e quindi è fugace e contingente, muore con lo stesso individuo
che lo ha “patito”. La stessa idea di cognizione non fa eccezione: possiamo di-
re di condividere una struttura cognitiva con tutti i i nostri conspecifici perché
nasciamo con la medesima struttura fisiologica trasmessa attraverso i tratti del
genotipo e le leggi dello sviluppo della forma. Tutto ciò che è appreso modella,
invece, i fenotipi e può adattare e modificare i comportamenti ambientali, fun-
zionali, culturali, mentali, ma smette di esistere con la fine del corpo. Lo studio
di queste eterne contingenze è naturalmente possibile per le discipline che vo-
gliono dedicarsi allo studio dei “prodotti” e non a quello delle “strutture” dei
corpi. In sostanza per tutto l’ambito scientifico che potremmo definire pre-co-
gnitivista, culturalista, de- o anti-naturalistico, nel senso panteistico spinoziano.
In questo contesto ciò che un corpo “non può fare” è strettamente deter-
minato dalla sua intrinseca costituzione specie-specifica, che, ovviamente de-
termina in modo altrettanto specifico la costituzione e le possibilità della sua
mente: “per determinare in che cosa la mente umana differisce dalle altre e in
che cosa è ad esse superiore, ci è necessario (…) conoscere la natura del suo
oggetto, cioè la natura del corpo umano” (1677: 1242-3).
258 Antonino Pennisi
La distinzione tra una mente umana da una mente animale, inoltre, non è
di natura ontologica ma evolutiva: una diversa gradazione di complessità e
specificità che caratterizza il corpo umano rispetto a quello animale (cfr. Ja-
qeut 2004; Sangiacomo 2010b):
“gli affetti degli animali (…) differiscono tanto dagli affetti degli uomini, quanto la
loro natura differisce dalla natura umana. Il cavallo e l’uomo sono, certo, ambedue
trascinati dalla libidine di procreare; ma quello da una libidine equina, questi, in-
vece, da una libidine umana. Così pure le libidini e gli appetiti degli insetti, dei pe-
sci e degli uccelli devono essere diversi gli uni dagli altri. Benché, dunque, ciascun
individuo viva contento della natura di cui è formato e ne goda, tuttavia tale vita
di cui ciascuno è contento e tale gaudio non sono altro che l’idea o l’anima di
questo individuo, e perciò il gaudio dell’uno differisce tanto dal gaudio dell’altro,
quanto l’essenza dell’uno differisce dall’essenza dell’altro” (1677: 1401).
“quando dico che uno passa da una perfezione minore ad una perfezione maggio-
re, e viceversa, non intendo dire che costui si muti da un’essenza o forma in un’al-
tra, giacché il cavallo, per esempio, si distrugge tanto se si muta in un uomo,
quanto se si muta in un insetto; ma intendo dire che noi pensiamo che la potenza
d’agire di tale individuo, in quanto è intesa come la sua natura [specie-specifica],
aumenta o diminuisce” (1677: 1437).
“nessuna cosa singola (…) si può dire più perfetta di un’altra perché ha perseve-
rato nell’esistenza per un tempo più lungo, giacché la durata delle cose non si può
determinare dalla loro essenza; l’essenza delle cose, infatti, non implica alcun tem-
po certo e determinato di esistenza; ma qualunque cosa, sia più o meno perfetta,
potrà sempre perseverare nell’esistenza con la medesima forza con cui incomincia
ad esistere, sicché, in questo, tutte sono uguali” (1677: 1437).
ze cognitive nel suo insieme, può forse servire più dell’ennesima ricostruzione
filologica della sua opera.
In realtà la soluzione spinoziana va anche oltre, permettendo di intravede-
re come è possibile superare l’impasse dell’EC in relazione al suo statuto epi-
stemologico di filosofia o scienza della natura, e di permettere il suo rientro
senza residui nei ranghi delle Scienze Cognitive, o meglio, la sua armonizza-
zione in un nuovo paradigma di Scienza Cognitiva biologicamente ed evolu-
tivamente orientata. La risposta spinoziana alla domanda “cosa può un cor-
po” permette anche di sanare le confusioni che si sono sommate in filosofia,
e in particolare nella filosofia della mente, in relazione alla pertinenza delle ac-
cezioni del termine “corpo”, specificando a quale livello può porsi un’acce-
zione ancora interna al paradigma cognitivista e a quali altri livelli può essere
applicata uscendo fuori da questo paradigma. Il fatto è che Spinoza è uno dei
pochi filosofi ad avere intravisto un preciso e decisivo nesso che per ora sfug-
ge contemporaneamente alla filosofia della mente e alle neuroscienze cogniti-
vo-computazionali: lo stretto nesso tra corpo come oggetto e corpo come sog-
getto, corpo fisico e corpo che esperisce, introducendovi il ruolo della cogni-
zione etologicamente intesa. Concludo sintetizzando nello schema che segue
questa tentativo di ridefinizione. Chiamo qui questo schema la core knowledge
di una Embodied Naturalistic Cognition:
BIBLIOGRAFIA
Aizawa, Kenneth, 2014. «The enactivist revolution», in Avant, 5 (2), pp. 1-24.
—, 2010. «The coupling-constitution fallacy revisited», in Cognitive Systems Research,
11, pp. 332-342.
Berwick, Robert / Chomsky Noam, 2016. Why only us. Language and evolution, Cam-
bridge, MIT Press.
Brooks, Rodney, 1991. «Intelligence Without Representation», in Artificial Intelligen-
ce, 47, pp. 139-159.
—, 2002. Flesh and Machine: How Robots will change us, New York, Pantheon.
Calvo, Paco / Keijzer Fred. 2008. Cognition in plants, in F. Baluska (ed.), Plant-Envi-
ronment Interactions: From Sensory Plant Biology to Active Plant Behavior, Berlin,
Springer Verlag, pp. 247-266.
Carroll, Sean, 2006. The Making of the Fittest. DNA and the Ultimate Forensic Record
of Evolution, New York, Baror (trad. it., Al di là di ogni ragionevole dubbio. La
teoria dell’evoluzione alle prove dell’esperienza, Torino, Codice, 2008).
Chemero, Anthony, 2009. Radical Embodied Cognitive Science, Cambridge, MA, MIT
Press.
Chomsky, Noam, 1959. A Review of B.F. Skinner’s Verbal Behavior, in L.A. Jakobo-
vits, M.S. Miron (eds.), Readings in the Psychology of the Language, Prentice-Hall,
1967, pp. 142-143.
—, 2005. «Three Factors in Language Design», in Linguistic Inquiry, 36, 1, pp. 1-22.
Cimatti, Felice, 2015. «Italian philosophy of language», in RIFL, 2015/1, pp. 14-36.
Clark, Andy, 2008. Supersizing the Mind Embodiment, Action, and Cognitive Exten-
sion, Oxford-New York, Oxford University Press.
—, 2016. Surfing uncertainty: prediction, action, and the embodied mind, Oxford-New
York, Oxford University Press.
Cook, J.Th. (1991), Spinoza’s Science of the ‘Idea of the Body’, in J.C. Smith (ed.),
Historical Foundation of Cognitive Science, Dordrecht-Boston-London, Kluiwer,
81-98.
Damasio, Antonio, 1993. Descartes’ Error: Emotion, Reason and the Human Brain,
NY, Penguin Books.
—, 1999. The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciou-
sness, Mariner Books.
—, 2004. Looking for Spinoza: Joy, Sorrow, and the Feeling Brain, London, Vintage.
Deleuze, Gilles, 2007. Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, Verona, Ombre Corte
(2013).
Della Rocca, Michael, 1996. Representation and the mind-body problem in Spinoza,
Oxford, Oxford University Press.
—, 2008), Spinoza, London-New York. Routdlege.
De Mauro, Tullio, 1980. Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana, Bologna, il
Mulino.
—, 1984. Ai margini del linguaggio, Roma, Editori Riuniti.
Di Paolo, Ezequiel et al., 2010. Horizons for the enactive mind: Values, social interac-
tion, and play, in J. Stewart, O. Gapenne and E. Di Paolo (eds), Enaction: Towards
a New Paradigm for Cognitive Science, Cambridge, MA, MIT Press., pp. 33-87.
Cosa può un corpo. Spinoza e l’Embodied Cognition 261
* La prof.ssa Elvira Lima, alla quale siamo grati, ha curato la traduzione dal tedesco. N.B. Le
citazioni di Humboldt inserite in corsivo nel testo e qui tradotte in lingua italiana riportano in paren-
tesi le indicazioni bibliografiche riferentesi all’edizione tedesca a cura di Freese (vedi bibliografia).
1
Cfr. in particolare i Documenti e questioni marginali 1-5 (De Mauro 1983: 267-273).
266 Jürgen Trabant
Approdo nell’antichità
2
Le lettere di Humboldt, qui in traduzione italiana, sono citate secondo l’edizione di Freese (a
cura di) 1986.
Wilhelm von Humboldt a Roma: l’antichità e lo spirito della Nazione 267
coprirà funzioni più prestigiose: a partire dal 1810, già prima del Congresso,
quella di ambasciatore di Prussia a Vienna, e successivamente dopo la scon-
fitta di Napoleone anche negli alti gradi della diplomazia. Humboldt scrive
con regolarità relazioni in lingua francese al sovrano, documenti che finora
non sono stati sottoposti a studio scientifico. Dal canto loro le Gesammelte
Schriften forniscono scarse informazioni sulla sua attività romana. Vi si legge
qualche notazione sulla condizione dell’Italia, sulla visita al papa, sulla parten-
za di quest’ultimo per Parigi in occasione dell’incoronazione di Napoleone del
1804, sul terremoto e l’eruzione del Vesuvio del 1805, sulle disposizioni rea-
zionarie pontificie contro il governo francese.
Da questi pochi cenni traspare tuttavia che Humboldt segue con la mas-
sima attenzione la situazione politica dell’Italia e dello Stato della Chiesa all’e-
poca dell’occupazione francese. Le incombenze relative alla carica consolare,
come si diceva prima, lo impegnano molto. Sulle sue occupazioni quotidiane
ci fornisce informazioni la bella dissertazione di Nadia Corradini (2002), che
ha esaminato la sua corrispondenza con la Curia: fra i compiti di Humboldt
rientrano l’assistenza ai sudditi prussiani residenti a Roma, il vaglio delle pe-
tizioni, le pratiche matrimoniali e i problemi della chiesa in Prussia, come ad
esempio le questioni attinenti alla secolarizzazione. Insomma, contrariamente
a quanto si legge in quasi tutti i resoconti del soggiorno romano di Humboldt,
è evidente che la missione diplomatica non gli lascia troppo tempo libero per
la Grecia e le lingue.
Inizialmente gli Humboldt sono molto felici essere a Roma. Per qualche
mese Caroline e Wilhelm alloggiano con i cinque figli a Villa Malta al Pincio,
poi a Palazzo Tomati in Via Gregoriana 41. La loro casa è molto ospitale ed è
punto di riferimento di giovani artisti tedeschi. Soprattutto Caroline ospita e
sostiene artisti quali, per citare solo i più famosi, Schick, Reinhart, Rauch e
Thorvaldsen. Sotto questo profilo Villa Tomati rappresenta per così dire l’an-
tesignana di Villa Massimo.
Prima dell’arrivo a Roma, a Parigi e Berlino, Humboldt aveva avvertito,
come scrive lui stesso, un senso di “intorpidimento”. Roma lo fa rivivere. Per-
sino la morte del figlio, causata materialmente da Roma, ossia dalla malaria
proveniente dalle paludi pontine, non intacca il suo amore per questo luogo.
A un anno dal suo trasferimento, poche settimane dopo la morte di Wilhelm,
il 22 ottobre 1803, scrive all’amico Brinckmann le famose espressioni riportate
di seguito (Freese 1986: 394):
Roma è un deserto, caro Brinckmann, ma il più bello, il più sublime che abbia
mai visto. Roma è fatta solo per pochi e solo per i migliori, ma colui cui una volta
essa parla al cuore, trova qui il mondo. Dico il vero: il mondo. Perché costui si
3
Vedi Humboldt 1903-36, vol. X.
268 Jürgen Trabant
trova solo difronte a una natura straordinaria, ciò che vede lo invita a inoltrarsi
nelle contrade più remote e nei tempi più bui, e il carattere del paesaggio è esat-
tamente di quelli che creano nell’anima la disposizione a lasciarsi andare a questo
gioco della fantasia.
Questa “bella” illusione incanterà Humboldt per sei anni, né egli la rinne-
gherà mai, dato che ne era stato sedotto già prima del soggiorno romano.
Roma infatti è il luogo della nostalgia (Sehnsucht) cui aspira da decenni,
perché Roma è l’antichità. È lì che si indirizza già da giovane la Sehnsucht di
Humboldt, che legge con grande entusiasmo la poesia greca e traduce Pinda-
ro e successivamente Eschilo. L’Agamennone di Eschilo lo impegna per de-
cenni (la traduzione dell’Agamennone è uno dei tre libri che pubblica in vi-
ta) 4. Dieci anni prima di Roma, nel 1793, scriveva per il suo amico filologo
classico Friedrich August Wolf, Über das Studium des Alterthums, und des
Griechischen insbesondre, uno schizzo sullo studio dell’antichità, una breve,
sistematica bozza di programma per una nuova filologia, o meglio per una an-
tropologia del mondo antico – oggi diremmo “scienza della cultura” 5.
4
Humboldt 1816.
5
Humboldt 1903-36, vol. I: 255-281.
Wilhelm von Humboldt a Roma: l’antichità e lo spirito della Nazione 269
6
Humboldt 1799.
7
Vedi Humboldt 1903-36, vol. XIV e XV.
270 Jürgen Trabant
8
Al basco è poi dedicato, pur se molto più avanti, il terzo volume da lui pubblicato: Humboldt
1821.
Wilhelm von Humboldt a Roma: l’antichità e lo spirito della Nazione 271
tosto li si potrebbe trovare a Napoli (dove era appena stata brutalmente re-
pressa una rivoluzione – e con essa la relativa intelligentsia laica illuminata) o
a Milano. Qui siamo nello Stato della Chiesa dove vige un arcaico ancient ré-
gime. Qui gli unici ad avvicinarsi al modello di intellettuali moderni sono car-
dinali quali il già citato Ercole Consalvi, con alcuni dei quali Humboldt natu-
ralmente si incontra. Ma non si tratta di attori del progresso umano come a
Parigi, ma di rappresentanti del mondo che fu. Qui la conversazione come
strumento di analisi fallirebbe il suo scopo. Insomma, l’oggetto “Roma” non
è l’Italia moderna. L’oggetto “Roma” è un’antichità immaginata, un’“illusio-
ne”, “un travolgente trascinamento in un passato ormai da noi considerato più
nobile e sublime”. Per di più questo passato sublime non è neppure l’anti-
chità romana, nelle cui rovine Humboldt si imbatte di continuo, ma la Grecia.
Il testo che Humboldt scrive a Roma si intitola Lazio ed Ellade 9, è vero, ma vi
si parla solo di Ellade. Anche l’altro trattato scritto a Roma riguarda la Grecia,
non Roma: Storia del declino e della caduta degli Stati liberi della Grecia 10.
Le opere romane – soprattutto Lazio ed Ellade – sono dunque in effetti la
messa a punto del progetto decennale di studio dell’antichità nel quale i Greci
vengono considerati come la nazione privilegiata ai fini della ricerca e scelti
come l’oggetto ideale dello studio dell’antichità.
19
Humboldt 1903-36, vol. III: 136-170.
10
Humboldt 1903-36, vol. III: 171-218.
11
Ignoro se De Mauro abbia letto questo testo, che gli sarebbe certamente piaciuto (cfr. De
Mauro 1967).
12
Le indicazioni del volume e delle pagine nelle citazioni inserite nel testo si riferiscono ad
Humboldt 1903-36.
272 Jürgen Trabant
zione scientifica di questi resti come prodotti di una nazione che è la “creatri-
ce”. Non sono solo singoli prodotti e singoli aspetti della nazione creatrice a
dovere essere compresi, ma il tutto, “il suo carattere in tutte le sue sfaccetta-
ture e nel suo insieme” (§ 5). La finalità di Humboldt è una “biografia” (§ 4)
– cioè una descrizione di vita – della nazione. Lo studio dell’antichità non è
dunque solo filologia!
§§ 6-17. Segue ora la motivazione molto generale dell’utilità dello “studio
di una nazione” così concepito. I primi diciassette paragrafi dell’operetta di
Humboldt non trattano dunque dell’antichità o dei Greci, ma espongono i
principi e la legittimazione di una scienza empirica della natura umana, come
diremmo oggi di una scienza della cultura o di una antropologia culturale.
L’obiettivo è lo “studio dell’uomo in generale sulla scorta del carattere di una
singola nazione partendo dai monumenti che essa ha lasciato” (§ 14).
L’espressione “carattere” definisce l’obiettivo descrittivo specifico di que-
sta antropologia: “carattere” vuol dire la forma individuale che di volta in vol-
ta assume l’oggetto di studio, in questo caso la nazione. Sottolineo particolar-
mente questa espressione perché resterà il supremo obiettivo descrittivo di
ogni analisi in tutta l’opera di Humboldt. La sua finalità è sempre di com-
prendere il carattere dei fenomeni culturali, e più tardi in linguistica espressa-
mente anche il carattere delle lingue. Qui il carattere è quello della nazione.
In fondo, come Humboldt riassume le sue “premesse filosofiche”, per cono-
scere l’uomo si dovrebbero sottoporre ad analisi tutti i popoli: «Lo studio del-
l’uomo si gioverebbe in massima misura dello studio e della comparazione di
tutte le nazioni, di tutti i paesi, di tutte le epoche» (§ 17).
In linea di principio lo studio dell’uomo è dunque possibile per ogni na-
zione. Ma, – così prosegue Humboldt (§§ 14-17) – ci sono quattro requisiti
imprescindibili affinché la riflessione su una nazione porti a un risultato: 1. I
documenti disponibili devono essere assertivi 2. La nazione oggetto di studio
deve possedere poliedricità e unità 3. Deve essere ricca di varietà di forme 4.
Deve corrispondere al carattere dell’uomo in generale. E questi requisiti sono
adempiuti egregiamente dai Greci nel modo che Humboldt espone poi nella
seconda parte del suo saggio. Faccio solo notare che Humboldt reputa parti-
colarmente assertivi i documenti letterari – poesia, storia e filosofia –, e dun-
que non la scultura come Winckelmann, ma dati linguistici. Già in quest’ope-
ra Humboldt dedica un paragrafo, seppure non ancora molto “humboldtia-
no” (§ 18), alla lingua in quanto tale, trattando ancora un po’ indefinitamente
la “corrispondenza fra la lingua dei Greci e il loro carattere” nella “formazio-
ne delle parole, delle flessioni e delle connessioni”.
L’elogio dei Greci corrisponde alla parte apollinea, solare, dell’ideologia
greca classica, per così dire al credo neoumanistico del classicismo tedesco: i
Greci hanno uno spiccato senso della bellezza, tengono in gran conto l’allena-
mento del corpo, sono insieme uniformi e poliedrici, preservano sentimento
Wilhelm von Humboldt a Roma: l’antichità e lo spirito della Nazione 273
L’avanzamento del progetto sugli antichi viene ora ad essere in certo qual
modo intralciato dal progetto concepito a Parigi e nel Paese Basco, poi dive-
nuto definitivo, e cioè quello della descrizione di tutte le lingue del mondo.
Nell’opera Lazio ed Ellade il tema è il carattere della nazione greca, dello spi-
rito greco. Dopo avere constatato cinque proprietà dello spirito greco, Hum-
boldt passa ad indicare le eccelse “forme di cui esso si serve” (III: 41): la scul-
tura, la poesia e la religione, e infine cinque oggetti che lascerebbero ricono-
scere più degli altri l’elemento caratteristico dello spirito greco: 1. l’arte, 2. la
poesia, 3. la religione, 4. gli usi e costumi, 5. il carattere pubblico e privato e
la storia. Humboldt tratta questi cinque punti e prosegue poi dicendo che
però, prima di soffermarsi sull’esposizione della “grecità”, cioè del carattere
dei Greci, gli corre obbligo di illustrare un altro punto “importante”. E que-
sto punto, egli spiega, è la lingua.
Lo studio del carattere del popolo greco si dota così di un nuovo focus,
che nel programma di ricerca del 1793 non esisteva. Certo, anche lì i docu-
274 Jürgen Trabant
menti linguistici erano i più importanti e i più assertivi, e nel § 18 la lingua ve-
niva pure menzionata. Ma ora la lingua diventa in assoluto il cuore della ca-
ratteristica ricercata: essa è «il respiro, l’anima della nazione stessa» (III: 166).
Perciò in essa è possibile comprendere senza intermediazioni il carattere del
popolo. Tutte le altre produzioni culturali si possono separare dalla nazione,
ma non la lingua, il respiro della nazione (III: 166):
La maggioranza delle circostanze concomitanti della vita di una nazione, il luogo
di insediamento, il clima, la religione, la costituzione statale, gli usi e i costumi, si
possono in certo qual modo dividere da essa, tutto ciò che esse hanno dato e ri-
cevuto in termini di cultura può esserne separato pur in presenza di intensa inte-
razione. Solo un elemento è di natura affatto differente, è il respiro, l’anima della
nazione stessa, compare in ogni dove all’unisono con essa e, sia che lo si consideri
produttore o prodotto, porta la ricerca sempre alla stessa conclusione – la lingua.
La peculiarità del greco, oggetto di Lazio ed Ellade, non compare più, per-
ché a Roma il greco ha ben due concorrenti: il basco e le lingue americane. A
Roma Humboldt continua a lavorare sul basco, la cui scoperta lo aveva con-
dotto al cuore della sua antropologia, il linguaggio. Ma ora si aggiungono an-
che le lingue americane. A Roma Humboldt ha infatti accesso alla raccolta di
materiali sulle lingue americane dovuta al padre gesuita Lorenzo Hervas. Ol-
tre a ciò, nel 1805 il fratello Alexander gli porta a Roma materiale indiano
276 Jürgen Trabant
13
Cfr. Trabant 2013.
14
Ora ricostruito nei sei volumi della sezione americana delle Schriften zur Sprachwissenschaft,
usciti a cura di Manfred Ringmacher e Ute Tintemann fra il 1994 e il 2016.
Wilhelm von Humboldt a Roma: l’antichità e lo spirito della Nazione 277
linguistico. Roma è il luogo dove Humboldt formula per la prima volta i linea-
menti della sua filosofia del linguaggio, perché riflette sulla lingua greca e sulla
lingua quale “respiro della nazione”. Il soggiorno romano è pertanto nei fatti
di particolare importanza per la storia della scienza linguistica. Sotto il profilo
storico universale l’iniziativa più importante di Humboldt è indubbiamente la
fondazione dell’università di Berlino. “Humboldt’s Gift” la definisce Peter
Watson, e cioè un dono che Humboldt fa all’umanità15. Ma la seconda grande
impresa sono la fondazione della linguistica antropologica descrittiva e la sua
base filosofica. E in vista di questa realizzazione il soggiorno romano fu una
tappa storica decisiva. Del resto Humboldt stesso, nel suo curriculum vitae re-
datto vent’anni dopo Roma (1828), sintetizza il soggiorno romano, dopo una
breve menzione delle sue cariche (ministro residente, ministro accreditato),
con le seguenti parole (XV: 525-526):
A Roma, grazie al contatto con l’abbate Hervas, egli si dotò di strumenti impor-
tanti per lo studio delle lingue americane, facendo redigere copie di grammatiche
manoscritte che Hervas aveva avuto la brillante idea di fare raccogliere ad ex ge-
suiti che a suo tempo erano stati missionari nelle Americhe spagnole e che dal lo-
ro ritorno vivevano in Italia. Poiché morto Hervas la sua raccolta è andata perdu-
ta o dispersa, si sono in cotal modo salvate descrizioni di lingue di cui manca ogni
altra notizia.
Non esiste un diario romano che alla maniera di quello parigino possa
darci informazioni su quanto Humboldt recepì interiormente e visivamente
della città e dei suoi abitanti. Abbiamo molte lettere del periodo romano, e
dalle due sopra riportate indirizzate a Brinckmann e Goethe traspare con evi-
denza che Humboldt vive Roma con gioia e occhi attenti. Ma in questi docu-
menti la Roma moderna è stranamente assente. Non ci sono descrizioni pre-
cise di luoghi, opere e persone di Roma, che invece nel caso di Parigi c’erano.
Come spiegarlo?
Tanto a Parigi Humboldt si era lasciato impressionare soprattutto dal-
l’ambiente esterno, con altrettanta evidenza nel caso di Roma l’oggetto del suo
studio, l’antichità, cioè la Grecia classica, ovvero una Grecia conservata a Ro-
15
Cfr. Watson 2010: 225 ss.
278 Jürgen Trabant
ma, faceva parte del suo bagaglio già prima di arrivare nella città. «È impossi-
bile sentire Roma senza essere penetrati in profondità dall’antichità greca»,
scrive a Caroline von Wolzogen il 23 luglio 1806 (Freese 1986: 445). Vede Ro-
ma con questo pregiudizio che lo accompagna fin dal primo giorno. È come
se non volesse vedere affatto la Roma reale, ma solo ri-vedere l’oggetto della
sua ammirazione e del suo amore.
Questa bella “illusione”, la presenza costante dell’antichità nella città di
Roma è evidentemente un sentimento forte, che lo colma di gioia e tutto so-
vrasta.
Quanto profonda fosse l’impronta dell’esperienza romana lo conferma al-
la fine della sua vita, nel 1830, la recensione humboldtiana del Viaggio in Ita-
lia di Goethe (16), in cui egli ritorna col pensiero al proprio soggiorno roma-
no. Viene nuovamente evocata la “contrada” romana, ma soprattutto si indi-
vidua come forma specifica di incontro con Roma questo “rivedere” cose no-
te: il pensiero del visitatore romano è profondamente permeato dalla consa-
pevolezza della sostanza greca e romana della nostra cultura, da un’“antichità
ideale”: «Roma ci è rimasta impressa come l’immagine viva a livello dei sensi
di quest’antichità contemplata idealmente» (VI: 458).
Ma ecco che poi in questo sguardo retrospettivo su Roma viene fuori che
anche l’altra Roma, quella moderna, – dunque l’Italia in generale – sono pre-
senti nell’esperienza di Humboldt e che egli ha recepito vivamente l’Italia nel-
la sua grandezza. Il contributo italiano alla cultura del mondo moderno lo re-
puta infatti il più importante: «Inoltre nessun paese può misurarsi con l’Italia
per il numero di uomini eccelsamente brillanti che essa ha prodotto» (VI:
549). In epoca moderna arte, scienza e lingua non hanno avuto da nessuna
parte la stessa fioritura che in Italia, sicché la sua conclusione, e non lo si po-
trebbe formulare meglio, è la seguente (XV: 549-50):
Così per noi Roma è divenuta un tutt’uno con i due maggiori fattori su cui si basa
il nostro essere spirituale, l’antichità classica e lo sviluppo della grandezza moder-
na sull’humus di quella antica, e preciso che ciò non si fonda su aridi concetti del-
l’intelletto di cui ci si è fatti convinti. Roma ci parla attraverso queste due cose in
tutto, in immense rovine, in opere d’arte piene di sentimento, e dovunque si pog-
gi il piede, in ricordi ineludibili. Sono al contempo un alito di immaginazione, un
fulgore poetico, ad avvolgere questa città, è una parvenza che come fragranza
mattutina passa ad una contemplazione sobria di un certo tipo, ma una parvenza
che, come quella artistica e poetica, ha in sé la verità in modo più puro e più lim-
pido che quella che solitamente si chiama realtà.
16
Humboldt 1903-36, vol. VI: 528-550.
Wilhelm von Humboldt a Roma: l’antichità e lo spirito della Nazione 279
l’amata parvenza che è più autentica della realtà. Eppure questa parvenza è
stata un faro in tutto l’arco della sua vita.
BIBLIOGRAFIA
Corradini, Nadia, 2002. Wilhelm von Humboldt als preußischer Ministerresident beim
Vatikan, Diss. Köln.
De Mauro, Tullio, 1967. Ludwig Wittgenstein. His Place in the Development of Se-
mantics, Dordrecht, Reidel.
—, 1983. Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza.
—, 1990. Minisemantica, Roma-Bari, Laterza.
Freese, Rudolf (Hrsg.), 1986. Wilhelm von Humboldt. Aus Briefen und Tagebüchern,
Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft.
Humboldt, Wilhelm von, 1799. Über Göthe’s Herrmann und Dorothea, Braunschweig,
Vieweg.
—, 1816. Aeschylos Agamemnon metrisch übersetzt von Wilhelm von Humboldt,
Leipzig, Fleischer.
—, 1821. Prüfung der Untersuchungen über die Urbewohner Hispaniens vermittelst der
Vaskischen Sprache, Berlin, Dümmler.
—, 1836-1839. Über die Kawi-Sprache auf der Insel Java, 3 Bde., Berlin, Akademie der
Wissenschaften.
—, 1903-1936. Gesammelte Schriften, 17 Bde., Hrsg. Albert Leitzmann u.a., Berlin,
Behr.
—, 1994-2017. Schriften zur Sprachwissenschaft, bisher 10 Bde., Paderborn, Schöningh.
Trabant, Jürgen, 2013. «Inde et Amérique: les deux projets de la linguistique naissan-
te», in Sarga Moussa (Hrsg.), Le XIXe siècle et ses langues. http://etudes-roman
tiques.ish-lyon.cnrs.fr/langues.html
Watson, Peter, 2010. The German Genius, London, Simon & Schuster.
SULLA DISTENTIO IN SANT’AGOSTINO
1
Tullio De Mauro, «Lingua e temporalità», in Laura Faranda / Luigi M. Lombardi Satriani (a
cura di), Forme del tempo, Vibo Valentia, Monteleone, 1993, pp. 126-134, a p. 130.
282 Sebastiano Vecchio
2
Per le opere di Agostino rinvio al sito <www.augustinus.it>, dove sono stati riversati, in ori-
ginale e in traduzione, i testi apparsi nella Nuova biblioteca agostiniana della casa editrice Città Nuo-
va di Roma. Qui le traduzioni sono mie.
3
La stessa opposizione distendere/contrahere si trova in De Trinitate 2,15,25.
Sulla distentio in sant’Agostino 283
4
Si veda pure: «tam multis et tam molestis actibus occupato atque distento» (Sermones 383,3).
5
Esortazione simile in Enarrationes in Psalmos 79,2: «Noli per multa ire atque distendi».
284 Sebastiano Vecchio
Perciò, fratelli, non è il caso che il vostro cuore distendatur per causa nostra; chie-
dete a Dio di amarvi a vicenda (In epistolam Joannis ad Parthos tractatus 10,7).
In realtà la superbia è una grandezza fallace da malati, e se si impadronisce della
mente, costruendo distrugge, gonfiando svuota, distendendo sparpaglia (Sermones
353,2,1)6.
Facciamo molte cose e le diverse azioni ci distendunt (In epistolam Joannis ad
Parthos tractatus 8,1).
Vedete che non solo i corpi si alterano secondo le qualità – nascendo crescendo
mancando morendo – ma anche le anime stesse distendi e si squarciano secondo
la disposizione delle diverse volontà (In Joannis evangelium tractatus 2,2) 7.
6
L’ultimo verbo è dissipare, composto da dis-, qui con valore peggiorativo, e l’antico *sipare
“gettare”.
7
Anche in questo caso il prefisso dell’ultimo verbo ha valore peggiorativo: dis- più scindere
“fendere”.
8
Lo si intravvede anche in un altro passo in cui Agostino mette in guardia dal pensare che, sic-
come Dio è grande, le sue sillabe si articolino molto a lungo: «ore Dei prolatas, quamvis paucissimas
syllabas, per totum diei spatium potuisse distendi» (De Genesi ad litteram 1,10,20).
Sulla distentio in sant’Agostino 285
si collocano proprio nel suddetto libro (la sesta si trova nel dodicesimo). Rag-
gruppo le occorrenze qui di seguito tutte insieme:
Capisco dunque che il tempo è una sorta di distentio (11,23,30).
Da ciò ho capito che il tempo non è altro che distentio (11,26,33).
La mia vita è distentio (11,29,39).
Che io segua la palma […] non secondo la distentio ma secondo l’intentio
(11,29,39).
Così hai fatto in principio cielo e terra senza distentio della tua azione (11,31,41).
5. Alla fine del libro sul tempo la proprietà fondamentale dei fenomeni
analizzati viene ricondotta alla caratteristica costitutiva della condizione uma-
na. E in effetti proprio la distentio, che ha il ruolo di operatore mentale nella
dinamica temporale, è anche ciò che sul piano religioso sancisce l’impossibi-
lità di accedere all’eterno permanere divino; si tratta cioè di un’unica prero-
gativa.
Ammette infatti Agostino: distentio est vita mea (11,29,39). Dunque la
temporalità è distentio in quanto la vita stessa è distentio, e viceversa; tale è la
condizione della creatura umana. A riprova del fatto che in entrambi gli am-
biti, dei fenomeni temporali e della vita morale, la distentio descrive la mede-
sima caratteristica, sta il rafforzamento che l’ammissione appena vista riceve
dalla constatazione che vi fa eco qualche rigo più avanti chiarendola e spie-
9
Il passo di De Genesi ad litteram 5,10,25 citato sopra a proposito dell’acqua si riferisce pro-
prio alla possibilità che al principio la terra fosse prevalentemente piatta e che di conseguenza «latius
possent erumpentia fluenta dispergi atque distendi».
Sulla distentio in sant’Agostino 287
10
Si noti che qui i verbi adoperati sono dissilire “andare in pezzi, scoppiare” (formato da dis-
più salire “saltare”) e dilaniare “dilaniare” (da dis- più laniare “lacerare”).
11
«Dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro ver-
so la meta» (Lettera ai Filippesi 3,13-14). Altrove Agostino spiega che ciò che sta alle spalle sono «tut-
te le cose temporali» mentre ciò che sta di fronte è «il desiderio delle cose eterne» (Enarrationes in
Psalmos 89,5).
RIASSUNTO / ABSTRACT
This issue of the Bollettino gathers 15 texts based on the works of Tullio De Mau-
ro. In the introductory essay, Franco Lo Piparo (pp. 5-13) contextualizes the role and
the thought of De Mauro, showing the connections to Pagliaro, Wittgenstein and
Gramsci. The other texts are divided into four sections which correspond to De Mau-
290 Riassunto / Abstract
ro’s main research topics. The first section (Parlanti e scriventi in Italia) includes the
texts of Luisa Amenta (pp. 17-34) on linguistic comprehension at school, Mari
D’Agostino (pp. 35-58) on illiteracy in Italy, Claudio Marazzini (pp. 59-66) on
the Storia linguistica dell’Italia repubblicana considered as an ideal continuation of
the Storia linguistica dell’Italia unita, and that of Rosanna Sornicola (pp. 67-82) on the
contribution of the Italian 1920s and 1930s thought to the history of linguistics. The
second section (Il lessico) gathers the texts of Vincenzo Lo Cascio (pp. 85-108) on the
combinatorial process of languages, between rhetoric and lexicography, as well as that
of Salvatore Claudio Sgroi (pp. 109-148) on De Mauro’s lexicographical writings. The
third section (Significare e Parlare) includes the texts of Francesco La Mantia (pp.
151-174) on the presence of Antoine Culioli’s linguistic reflection in the working of
De Mauro, that of Francesca Piazza (pp. 175-190) on the phenomenon of verbal vio-
lence, followed by those of Patrizia Violi (pp. 191-194) on the figures of Eco and De
Mauro as masters of arts. The fourth section (Saussure e I problem teorici del linguag-
gio) gathers essays by Felice Cimatti (pp. 199-214) on De Mauro and the Italian phi-
losophy of language, that written by Giorgio Graffi (pp. 215-236) on the relations be-
tween Saussure, De Mauro and Timpanaro, and that by Antonino Pennisi (pp. 237-
264) on the embodiment cognition in its relation to Spinoza’s thought, followed by
the text of Jürgen Trabant (pp. 265-280) on language as “the spirit of the nation” in
Humbolt and, last but not least, an essay by Sebastiano Vecchio (pp. 281-287) on the
relation between language and temporality as filtered by the Augustinian notion
of distentio.
INDICE
II - IL LESSICO