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Shakespeare ovvero il fuoco dell' invidia

Lessi anni fa (nel 1990, per la precisione) Shakespeare. Les feux de l' envie di René Girard, uscito a Parigi per
l' editore Grasset. Rileggo oggi Shakespeare. Il teatro dell' invidia, nella bella traduzione dall' originale
versione inglese di Giovanni Luciani per Adelphi (pagg. 578, lire 70.000). Oggi come allora questa sostenuta
lettura di un tutto (più o meno) Shakespeare tutto (più o meno) divorato dal solo fuoco dell' invidia, mi
lascia perplessa, assai perplessa. E mi viene in mente quella ironica pièce di Thomas Bernhard intitolata
Claus Peymann e Hermann Beil sulla Sulzwiese, che vidi qualche tempo dopo al teatro Ateneo nella
splendida regia e performance di Carlo Cecchi. Che c' entra? - vi chiederete. C' entra perché Peymann,
direttore del Burgtheater, si mette in testa un' idea in fondo non troppo diversa da Girard: vuole in una
sola, grande rappresentazione mettere in scena tutto Shakespeare, Shakespeare minuto per minuto, come
una grande partita. Non ci riuscirà, e finirà per fare, più o meno come tutti i registi, il "suo" Amleto. Girard,
invece, ci riesce e sostenuto da una monomaniaca intuizione (lui la chiama "teoria") scrive un monotono
(letteralmente: non c' è che un solo tono che insegue, quello dell' invidia, appunto) libro in cui l' intero
corpus shakespeariano arde alla fiamma della rivalità mimetica. L' invidia sarebbe il motore più o meno
esplicito di ogni trama e intreccio vuoi comico, vuoi tragico, vuoi romanzesco che Shakespeare inventa; e
Shakespeare sarebbe un grande drammaturgo precisamente perché, bontà sua, Girard lo trova d' accordo
con il proprio pensiero: e cioè, che a fondamento delle relazioni umane non v' è che un desiderio mimetico.
La rivalità mimetica - io voglio quello che vuoi tu, anzi lo voglio perché lo vuoi tu: ecco la grande scoperta di
Girard che "usa" Shakespeare per confermare che sì, ha proprio ragione lui, anche Shakespeare non fa che
"illustrare" tale meccanismo fondativo della relazione umana. Così, i mille differenti toni e le mille infinite
sfaccettature e le centinaia di pieghe e di ombre che Shakespeare sa scavare nel tessuto sinuosamente
barocco del suo teatro si spengono, o meglio si appiattiscono in una lettura che legge in verità soltanto la
trama, l' intreccio del testo drammatico, perché attenta, in questo senso, soltanto all' azione. La quale
peraltro avrebbe al suo cuore sempre e soltanto questa mimesi: la rivalità, per l' appunto mimetica. Ora si
dà il caso che la parola "mimesi", da Aristotele in poi, sia una parola centrale del vocabolario drammatico,
riferita al mondo della costruzione dell' opera, relativa cioè ai processi della rappresentazione. Girard
invece rovescia il rapporto e dice: non l' azione teatrale, ma l' azione umana è mimesi. L' uomo non agisce:
non vedete che l' uomo invece di agire imita? E il drammaturgo che farà? Soprattutto se grande,
grandissimo come Shakespeare? Per Girard, impareggiabile? Assumerà quella modalità fondativa dei
rapporti umani a proprio oggetto. Le vicende che nutrono nel suo vero fondo il teatro shakespeariano -
Girard non ha dubbi - consistono in realtà nelle altalenanti vicissitudini del desiderio stesso. Stando a
sentire Girard, Shakespeare, affascinato da questo principio che scopre a fondamento dell' azione umana,
lo rappresenterebbe secondo mirabili configurazioni che il critico decostruisce, tutte all' interno di quel
circolo ermeneutico di cui si ritiene lo scopritore. E non v' è dubbio che spesso, in virtù di questa
scommessa a senso unico, abbiamo illuminanti analisi; quella, per esempio, del meccanismo dell' invidia in
Otello, troppo spesso misconosciuto come dramma della gelosia, mentre ciò che vi accade secondo Girard è
piuttosto una crisi della rivalità mimetica tra la vera coppia di amanti nemici, Jago e Otello. O l' altrettanto
visionaria, stupefacente lettura del Giulio Cesare, che risulta nella perfetta descrizione del "meccanismo
vittimario", come con frase ingombrante e chiassosa Girard chiama la congiura di tutti contro Cesare - tutti
meno uno, e cioè Antonio, che vedremo come saprà gestire politicamente la situazione... Basterebbe, tra l'
altro, in questa tragedia soffermarsi sul personaggio di Antonio per comprendere come Shakespeare non
possa essere "ridotto" al geniale illustratore di un modello... Interessanti sono anche le pagine che Girard
dedica al Mercante di Venezia, dove a tema egli trova il potente fenomeno per l' appunto della costruzione
del capro espiatorio. Ma anche qui, si badi bene, Shakespeare sovverte l' effetto "vittimario" con dei tocchi
di ironia, che Girard - va a suo merito - sa cogliere con finezza. Che Shakespeare sia "grande", Girard non
fatica a convincerci di questo. Ma le ragioni che dà non sono forse le stesse che daremmo noi. Dice Girard:
Shakespeare è grande perché "rara è la sua conoscenza del cuore umano". Proverebbe tale profonda
conoscenza il suo ritrovamento in fondo al cuore dell' invidia. Noi crediamo che, è il caso di dirlo, ci siano
più passioni in Shakespeare di quante non ne sognino i sistemi filosofici di Girard. Il quale però in una cosa
ha ragione: c' è in Shakespeare la vocazione al ritorno verso la sostanza segreta ed elementare del teatro
stesso. E quella sostanza è violenta. Se il teatro diverte e intrattiene è anche perché tiene a bada, nel
mentre lascia che affiori, la componente sado-maso della vitalità stessa. Io spettatore se guardo e continuo
a guardare è anche per godere del male che soffre l' altro che non sono io, con il quale in un cautelato
rimando posso temporaneamente identificarmi. Io godo nel vedere quell' orso di Macbeth legato al palo e
assalito dai suoi nemici, come per l' appunto nel teatro all' aperto avviene con l' orso attaccato dai cani.
Quel mio godimento "invidioso" è Macbeth a scoprirlo dentro di me, dandomi lui stesso la battuta che mi
orienta a comprenderlo. Sì, Macbeth (Shakespeare) mi mette in grado di comprendere l' equivalenza di ogni
spettacolo: dare spettacolo non vuol dire altro che esibire la struttura violenta, sadica delle relazioni
umane. Spettacolo è questo "scandalo". C' è violenza nel teatro. O meglio, c' è un uso ricreativo del
sacrificio, e della catarsi. Anche così, seppure fiocamente, a teatro risplende un bagliore del sacro e s'
accendono le fiamme non dell' invidia soltanto, ma di meccanismi antichi, di processi assai attenuati, ma
sostanzialmente identici ai rituali delle religioni primitive col loro enorme, tremendo sforzo di controllare,
lasciandole sfogare, temibili pulsioni distruttive. La prodigiosa conoscenza shakespeariana del processo
drammatico si realizza non nella teoria, ma nel processo di una messa in scena che nell' immenso sforzo di
mantenere la pace, l' amore, l' ordine stesso della rappresentazione sa che non può non passare per la
violenza. Una violenza che sulle assi di quel teatro si presenta, con buona pace di Girard, come una violenza
cosmica, più che mimetica.

di NADIA FUSINI07 novembre 1998 sez.

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