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Federalismo e libertà

Thomas Jefferson
ISBN: 9788864401386

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Classici della libertà
3
Thomas Jefferson

Federalismo e libertà

a cura di Luigi Marco Bassani

IBL Libri
Traduzione dall’inglese
Luigi Marco Bassani

Copertina
Timothy Wilkinson

Copyright © IBL Libri, 2013

IBL Libri
Via Bossi, 1
10144 Torino
info@ibl-libri.it
www.ibl-libri.it

Giugno 2013
ISBN: 978-88-6440-138-6
Indice

Sull’autore

La Dichiarazione d’indipendenza (4 luglio 1776)


Il conflitto con Alexander Hamilton
Le Risoluzioni del Kentucky (1798)
La diffusione e divisione del potere
Il testamento politico

Date
Vita e opere
Bibliografia
Sull’autore

«Se Jefferson aveva torto, l’America ha torto. Se l’America ha ragione, Jefferson aveva ragione»
(James Parton).

«Il nobile e giusto sentimento di Jefferson è che l’essenza del buon governo consiste nell’impedire
agli uomini di fare male gli uni agli altri; lasciarli per il resto liberi di regolare come meglio credono
il loro agire in campo “individuale” per migliorare le loro condizioni e non togliere dalla bocca dei
lavoratori il pane che essi si sono guadagnati» (William Leggett).

«Solo uno studente che non ha fatto i compiti o uno studioso di grande erudizione possono non
riconoscere gli ovvi echi di Locke nella Dichiarazione d’indipendenza» (James Reist Stoner).

«Jefferson rappresenta il compimento della tradizione che va da Coke ai Levellers a John Locke per
giungere fino a Trenchard e Gordon. Una sorta di termine ad quem, oltre il quale l’autogoverno e il
governo limitato non possono spingersi» (Luigi Marco Bassani).

«Egli riteneva che l’unità politica basilare, depositaria e fonte dell’autorità e dell’iniziativa politica,
dovesse essere l’unità più piccola; non l’unità federale, l’unità statale o l’unità di contea, ma la
municipalità o, come la chiamava lui, il “rione”» (Albert J. Nock).

«Come sosteneva lo stesso Thomas Jefferson, le famose parole della Dichiarazione d’indipendenza
non affermavano nulla di nuovo, ma erano semplicemente la brillante quintessenza delle opinioni
degli americani dell’epoca» (Murray N. Rothbard).

«Jefferson riteneva che gli uomini entrassero in società per garantire le loro proprietà così come le
loro persone, e la difesa della proprietà era una preoccupazione legittima della società» (Jean M.
Yarbrough).

«Jefferson fu al tempo stesso un fiero patriota e un sincero pacifista» (Richard Hofstadter).

«Libertarismo, individualismo, fiducia nella possibilità evolutiva dell’uomo grazie all’educazione,


esaltazione delle virtù civiche e del vigore individuale, furono i principali capisaldi della visione
del mondo di Jefferson, sviluppatasi più nel rapporto con la realtà che non per via di speculazione
teorica» (Massimo Teodori).
La Dichiarazione d’indipendenza (4 luglio 1776)

We must all hang together, or assuredly we shall all hang separately


(Dobbiamo stare assieme o senza dubbio penzoleremo separatamente, Benjamin Franklin al momento della firma della Dichiarazione)

Nella primavera del 1776 gli eventi precipitarono: quella che poteva fino a pochi mesi prima
sembrare una rivolta limitata si era ormai trasformata in rivoluzione. La Francia sembrava sul
punto di appoggiare le colonie, e i fatti d’arme si succedevano senza posa. Thomas Jefferson
raggiunse Filadelfia il 14 maggio. Il Congresso Continentale era riunito, ma tergiversava: i
delegati venivano istruiti dai propri Stati sul da farsi e le decisioni tardavano, tanto che John
Page, intimo amico di Jefferson fin dall’infanzia, gli scrisse: «Per l’amor di Dio, dichiarate le
colonie indipendenti immediatamente e salvateci dalla rovina». Finalmente la Virginia, la colonia
più grande e influente, si decise per l’indipendenza e il 27 di maggio i suoi delegati annunciarono
la notizia al Congresso.
Il 7 giugno 1776 Richard Henry Lee trasse il dado proponendo tre risoluzioni: in primo luogo
dichiarare l’indipendenza dalla Gran Bretagna di tutte le colonie, quindi attribuire al Congresso
il potere di stringere alleanze per la guerra e in terzo luogo approntare un piano di
confederazione da sottoporre all’approvazione delle colonie. L’11 giugno il Congresso
Continentale elesse una commissione, composta da Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin,
Roger Sherman e Robert Livingston, allo scopo di redigere una Dichiarazione che rendesse noto al
mondo il motivo della scelta americana. Jefferson, che aveva raccolto il maggior numero di voti,
ne divenne il presidente e fu incaricato di procedere alla stesura del documento. Per anni ben
poche persone avrebbero saputo che egli ne era stato l’autore e per lungo tempo Jefferson stesso
non ne andò particolarmente orgoglioso: per lui non era che uno dei numerosi documenti ufficiali
che scrisse all’epoca. Nessuno si aspettava che il virginiano redigesse un testo particolarmente
originale: come egli ricordò alla fine della sua vita,

Quando fummo obbligati (...) a ricorrere alla forza delle armi per raddrizzare un torto, si ritenne opportuno
un appello al tribunale del mondo che giustificasse la nostra decisione. Tale appello fu la Dichiarazione
d’indipendenza (...) [scritta allo scopo] di porre dinanzi all’umanità la ragionevolezza degli argomenti in
termini tanto chiari ed espliciti da convincere tutti e giustificare i motivi che ci avevano spinto ad assumere la
nostra posizione.

Per quanto successivamente John Adams e Benjamin Franklin abbiano rivendicato un certo ruolo
nella stesura, sappiamo che la copia che Jefferson presentò al comitato giunse al vaglio del
Congresso con ben lievi modifiche. Il Congresso discusse il documento, frase per frase, parola per
parola, per tre interi giorni (2, 3 e 4 luglio), mentre il suo autore sedeva assorto in uno sprezzante
silenzio. Molti biografi riportano quei giorni come i peggiori della vita di Jefferson. La sua vanità
ferita fece sì che egli spedisse ai suoi più intimi amici copia della Dichiarazione originaria con le
"mutilazioni congressuali”. Un autorevole biografo di Jefferson affermava: «Dal punto di vista
letterario, dell’articolazione strutturale, della cadenza concatenata, e anche come ricettacolo di
frasi magiche ed immortali che bruciano nella mente e risuonano nel cuore, la Dichiarazione
d’indipendenza non ha eguali nella storia politica dell’umanità». Retorica a parte, la sostanza del
giudizio è largamente condivisibile.
Per inciso, è da notare il fatto che le colonie vengono dichiarate “Stati liberi e indipendenti” sia
dal Congresso che dalla penna di Jefferson: il mito della fondazione degli Stati Uniti per volontà
di una “comunità nazionale” americana e non per il tramite dei popoli dei singoli Stati risulta
veramente il cuore di una visione fabulistica della storia americana.
Riproduciamo il più noto documento politico americano nelle due versioni, quella scritta da
Jefferson e quella approvata dal Congresso. Le [cancellazioni del Congresso] sono così state
segnalate, mentre le (interpolazioni del Congresso) lo sono riportate in quest’altra maniera.

Dichiarazione dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America, riuniti in Congresso (generale).
Quando, nel corso degli umani eventi, si rende necessario ad un popolo dissolvere quei vincoli
politici che lo avevano legato ad un altro e assumere tra le altre potenze della terra quel posto
distinto ed eguale cui ha diritto per legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni
dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo spingono a tale passo.
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali e
che il loro Creatore ha concesso loro alcuni diritti [connaturati e] inalienabili, fra i quali vi sono la
vita, la libertà e la ricerca della felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati i
governi fra gli uomini, governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni
qualvolta una qualsiasi forma di governo tenda a negare tali finalità, è diritto del popolo modificarla
o abolirla e crearne una nuova, fondandola su quegli stessi principi e ordinando i suoi poteri nel
modo che gli sembri più idoneo a garantire sicurezza e felicità. La prudenza, invero, consiglierà di
non modificare per cause effimere e di poco conto governi da lungo tempo stabiliti; e conformemente
a ciò l’esperienza ha dimostrato che gli uomini sono più disposti a sopportare, finché i mali sono
tollerabili, che a farsi giustizia abolendo quelle forme di governo cui sono avvezzi. Ma quando una
lunga serie di abusi e usurpazioni, [iniziata in un preciso momento e] invariabilmente diretta al
medesimo scopo, svela il disegno di assoggettarli ad un dispotismo assoluto, è loro diritto e dovere
abbattere un tale governo e procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura.
Tale è stata la paziente sopportazione di queste colonie; e tale è ora la necessità che le costringe a
[dissolvere] (alterare) la loro precedente forma di governo. Il passato dell’attuale sovrano è
contraddistinto da una serie di [incessanti] (ripetute) offese e usurpazioni, [tra le quali non si leva un
solo fatto a contraddire l’uniforme tenore del resto, ma che hanno tutte], (tutte aventi) come obiettivo
immediato l’instaurazione di una tirannia assoluta su questi Stati. A prova di ciò, esponiamo al
giudizio di un mondo imparziale i fatti, [dei quali fa fede il nostro onore, mai macchiato da menzogne
o falsità]
Egli ha rifiutato di dare il suo assenso alle leggi più utili e necessarie al bene pubblico.
Egli ha proibito ai suoi governatori di approvare leggi di urgente e assoluta importanza, a meno che
la loro efficacia restasse sospesa fin quando non fosse stato ottenuto il suo assenso; e una volta così
sospese, egli non le ha più degnate della minima considerazione.
Egli ha rifiutato di approvare altre leggi dirette all’ordinamento di vasti territori, a meno che la loro
popolazione non avesse rinunciato al diritto di rappresentanza in seno al corpo legislativo, un diritto
inestimabile per loro e temibile soltanto per i tiranni.
Egli ha convocato le assemblee popolari in luoghi inconsueti, scomodi e distanti dai loro archivi, al
solo scopo di indurle ad accogliere delle misure da lui volute in modo da evitare ulteriori disagi.
Egli ha ripetutamente e [continuamente] dissolto le assemblee rappresentative colpevoli di essersi
opposte con virile fermezza alle sue violazioni dei diritti del popolo.
Egli ha rifiutato a lungo di consentire che venissero elette nuove assemblee, di modo che i poteri
legislativi, che non sono suscettibili di essere annullati, sono tornati ad essere esercitati direttamente
dal popolo, mentre lo Stato restava nel frattempo esposto a tutti i pericoli dell’invasione dall’esterno
e dei disordini all’interno.
Egli ha tentato di ostacolare il popolamento di questi Stati e per questa ragione ha intralciato
l’approvazione di leggi per la naturalizzazione degli stranieri, rifiutando inoltre di promulgarne altre
dirette a favorire la loro immigrazione in queste paese e rendendo più difficile la concessione di
terre.
Egli ha [consentito che l’amministrazione della giustizia venisse a cessare totalmente in alcuni di
questi Stati] (intralciato l’amministrazione della giustizia), rifiutando il suo assenso a leggi dirette a
stabilire i poteri giudiziari.
Egli ha reso i [nostri] giudici dipendenti dal suo esclusivo arbitrio per quel che riguarda il loro
mandato e l’importo e il pagamento dei loro stipendi.
Egli ha creato una moltitudine di nuove cariche [arrogandosene arbitrariamente il potere] e ha inviato
in questo paese nugoli di funzionari per tormentare il nostro popolo e divorarne gli averi.
Egli ha mantenuto fra di noi, in tempo di pace, eserciti permanenti [e navi da guerra] senza il
consenso dei nostri corpi legislativi.
Egli ha reso il potere militare indipendente dal potere civile e ad esso superiore.
Egli si è accordato con altri allo scopo di assoggettarci ad una giurisdizione estranea alla nostra
costituzione e che le nostre leggi non riconoscono, dando il suo assenso alle loro presunte
disposizioni legislative, dirette:

ad acquartierare fra noi consistenti forze di truppe armate;


a proteggere queste ultime, mediante processi fittizi, da ogni punizione per gli omicidi da loro
eventualmente commessi a danno degli abitanti di questi Stati;
ad interrompere il nostro commercio con tutte le parti del mondo;
ad imporci tributi senza il nostro consenso;
a privarci (in numerosi casi) del beneficio dell’essere giudicati da una giuria;
a deportarci oltreoceano per essere giudicati per presunti crimini;
ad abolire il sistema delle libere leggi inglesi in una provincia vicina, instaurandovi un governo
arbitrario e ampliando le sue frontiere in modo da renderla all’istante un esempio e uno
strumento atto ad introdurre lo stesso sistema assoluto in [questi Stati] (queste colonie);
a privarci dei nostri statuti, ad abolire le nostre leggi più care e ad alterare le basi delle nostre
forme di governo;
a sospendere i nostri organi legislativi, dichiarandosi direttamente investito del potere di
legiferare per noi in qualsiasi materia;

Egli ha abdicato al governo di questo paese, [ritirando i suoi governatori e dichiarando che non
beneficiamo più della sua benevolenza e protezione] (ritirando la sua protezione e muovendoci
guerra);
Egli ha saccheggiato i nostri mari, devastato le nostre coste, bruciato le nostre città e distrutto le vite
della nostra gente;
Egli sta ora trasferendo grandi eserciti di mercenari stranieri destinati a portare a compimento
l’opera di morte, di desolazione e di tirannia già cominciata in circostanze di crudeltà e di perfidia
(raramente uguagliate anche nelle età più barbare e del tutto) indegne del capo di una nazione civile;
Egli ha costretto i nostri concittadini catturati sui mari a prendere le armi contro il loro paese e a
divenire i giustizieri dei loro stessi amici e fratelli o a venire uccisi dalle loro mani;
Egli ha (fomentato insurrezioni entro i nostri confini e ha) cercato di far marciare contro gli abitanti
delle nostre zone di frontiera gli spietati selvaggi Indiani, il cui ben noto metodo di guerra consiste
nel massacro indiscriminato della gente di ogni età, sesso e condizione;
[Egli ha fomentato proditorie insurrezioni da parte dei nostri concittadini, allettandoli con il miraggio
della confisca delle nostre proprietà;
Egli ha intrapreso una guerra crudele contro la stessa natura umana, violando i più sacri diritti alla
vita e alla libertà dei membri di un popolo lontano che mai gli aveva recato offesa, facendoli
catturare e trasportare in schiavitù in un altro emisfero o mandandoli incontro a una miserevole morte
durante il trasporto. Questo piratesco metodo di guerra, obbrobrio delle potenze INFEDELI, è quello
adottato dal CRISTIANO re d’Inghilterra. Deciso a conservare aperto un mercato in cui vendono e si
comperano UOMINI, egli ha prostituito il suo diritto di veto al fine di votare al fallimento ogni
tentativo di proibire o limitare per via legislativa questo esecrando commercio. E acciocché non
mancasse a questo corteo di orrori nulla di infame, egli sta ora incitando proprio quella gente a
prendere le armi contro di noi ed a guadagnarsi quella libertà di cui egli stesso li aveva privati,
massacrando coloro in braccio ai quali egli stesso li aveva gettato; sdebitandosi così di anteriori
crimini commessi contro le LIBERTÀ di un popolo, con crimini che egli incita a commettere contro
le VITE di un altro].
Ad ogni stadio di questi soprusi noi abbiamo inviato petizioni, redatte nei termini più umili,
chiedendo la riparazione dei torti subiti; le nostre ripetute preghiere non hanno ricevuto altra risposta
che altrettante offese. Un sovrano il cui carattere è contraddistinto da tutto ciò che può valere a
definire un tiranno, non ha diritto di governare un popolo (libero) [che vuol essere libero]. [Le
generazioni future potranno appena credere che la temerarietà di un solo uomo si sia avventurata, nel
breve giro di dodici anni soltanto, in così numerosi atti di scoperta tirannia a danno di un popolo
cresciuto e radicatosi in principi di libertà].
Non abbiamo trascurato i nostri fratelli inglesi. Li abbiamo avvertiti di volta in volta dei tentativi del
loro corpo legislativo di estendere (ingiustificatamente) la propria giurisdizione (su di noi) [su questi
Stati]. Abbiamo rammentato loro le circostanze della nostra emigrazione e del nostro insediamento
qui, [nessuna delle quali potrebbe giustificare una così stravagante pretesa, giacché la colonizzazione
di queste terre è stata realizzata a prezzo del nostro sangue e delle nostre sostanze, senza aiuto alcuno
da parte della forze o della ricchezza della Gran Bretagna; e che nel dar vita alle nostre varie forme
di governo, abbiamo adottato un sovrano comune, gettando in tal modo le basi della nostra perpetua
alleanza e amicizia con essi; ma, se la storia ci insegna qualcosa, è che una sottomissione al loro
Parlamento non fu prevista mai dalla nostra Costituzione, neppure in teoria]; e abbiamo fatto appello
alla loro magnanimità e al loro innato senso di giustizia, [nonché] (e ci siamo richiamati) ai vincoli
della nostra comunanza di sangue, affinché sconfessassero quei soprusi [verosimilmente destinati a]
(che avrebbero finito inevitabilmente per) recidere i nostri rapporti e i nostri legami. Anch’essi
tuttavia sono stati sordi alla voce della giustizia e del sangue, [e quando le loro leggi hanno concesso
loro l’occasione di allontanare dal loro governo chi voleva turbare la nostra armonia, essi li hanno
nuovamente eletti e li hanno rimandati al potere. In questo stesso momento, essi stanno consentendo al
loro supremo magistrato di inviare in queste terre non solo soldati del nostro stesso sangue, ma anche
mercenari stranieri e scozzesi al fine di invaderci e annientarci. Questi fatti hanno vibrato il colpo di
grazia ad un affetto ormai agonizzante e uno spirito virile ci impone di rinunciare per sempre a questi
insensibili fratelli. Dobbiamo sforzarci di dimenticare l’affetto che in passato provavamo per essi e
considerarli come consideriamo il resto dell’umanità, nemici in guerra, amici in pace. Insieme
avremmo potuto essere un popolo grande e libero; ma sembra che condividere grandezza e libertà sia
al di sotto della loro dignità. Sia pur così, dato che lo vogliono; la strada che porta alla gloria ed alla
felicità è aperta a noi pure; la percorreremo separatamente, e] (dobbiamo pertanto) piegarci alla
necessità di dichiarare la nostra (eterna) separazione da essi (e di considerarli come consideriamo il
resto dell’umanità, nemici in guerra e amici in pace).
Noi, pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’America riuniti in Congresso generale, (appellandoci
al Supremo Giudice dell’universo a testimone della rettitudine delle nostre intenzioni) in nome e per
autorità del buon popolo di [questi Stati, neghiamo e respingiamo ogni fedeltà e soggezione ai re di
Gran Bretagna e a chiunque altro cercasse in avvenire di rivendicarle in nome o per conto di quelli;
sciogliamo e annulliamo tutti i vincoli politici che possono esser fin qui sussistiti fra noi e il popolo
e il Parlamento di Gran Bretagna; e affermiamo e dichiariamo infine che queste colonie sono Stati
liberi e indipendenti] (queste colonie, solennemente proclamiamo e dichiariamo che queste colonie
unite sono e di diritto devono essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di
fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna
è e dev’essere del tutto reciso) e che, in quanto Stati liberi e indipendenti, hanno pieno potere di
muovere guerra, concludere la pace, stipulare alleanze, regolare il commercio e di compiere tutti
quegli atti e quelle operazioni che degli Stati indipendenti possono di diritto compiere. E a sostegno
della presente dichiarazione (con ferma fiducia nella protezione della divina provvidenza) noi ci
offriamo reciprocamente in pegno le nostre vite, i nostri averi e il nostro sacro onore.
Il conflitto con Alexander Hamilton

Nel 1791, durante il primo mandato presidenziale di George Washington, Alexander Hamilton e
Jefferson erano i politici più popolari d’America e facevano parte dell’amministrazione. Il primo,
una sorta di premier in pectore, era il potente segretario del Tesoro, nonché leader del partito di
maggioranza al Congresso, quello Federalista. Il secondo era il segretario di Stato e
incominciava ad organizzare l’opposizione al progetto centralista. Il conflitto fra i due, che
dominò la scena politica alla fine del Diciottesimo secolo, era assolutamente inevitabile e,
nonostante i tentativi conciliatori di George Washington, si trasformò in rivalità insanabile
allorché la proposta di legge hamiltoniana per l’istituzione di una banca federale ottenne la
maggioranza dei voti al Congresso. Jefferson sperava di convincere il presidente a respingerla
sulla base della sua palese incostituzionalità, ma Washington, sentito il parere dei due
contendenti, firmò il Bank Bill, cedendo alle argomentazioni di Hamilton.
Jefferson aveva capito che solo un’interpretazione rigida della Costituzione avrebbe potuto
salvare gli Stati dalla soggezione al potere centrale. Hamilton, parimenti, sapeva benissimo che
solo un’interpretazione assai flessibile del dettato costituzionale avrebbe potuto rafforzare i
poteri del governo federale e inserire nel corpo vivo della politica nazionale quella clausola di
supremazia assoluta del potere federale che gli Stati erano così riluttanti ad accettare (e sulla
quale a Filadelfia non era stato raggiunto alcun accordo). Qui stava dunque la vera materia del
contendere, l’origine più profonda dell’ostilità fra Jefferson e Hamilton. Il conflitto si estendeva
poi su tutta la linea, dalla politica estera – il primo era francofilo e il secondo anglofilo – alla
visione politica complessiva della società giusta e della “vita buona” – senza coercizione
governativa e agraria per Jefferson, interventista e commerciale per Hamilton – ma il centro era
sempre quello dell’istituzionalizzazione del potere e dei diritti degli Stati, che per Hamilton erano
mostruosità giuridiche (lo Stato federato era per lui un imperium in imperio che andava
debellato), mentre secondo Jefferson erano l’unica vera barriera contro la concentrazione del
potere, sinonimo di tirannia.

9 settembre 1792, lettera al presidente George Washington


Mi prendo adesso la libertà di passare a quella pare della vostra lettera nella quale alludete ai
dissensi che si sono prodotti nel nostro governo e al loro effetto nocivo sulle sue azioni. Che dei
dissensi vi siano stati, anche tra coloro che vi sono più vicini nell’amministrazione, è certo. E
nessuno più di me ne ha tratto maggiori motivi di preoccupazione, né si è sentito più mortificato per
esserne stato parte. Sebbene io non mi faccia carico che della mia parte di colpa riguardo alle
osservazioni generali che svolgete nella vostra lettera, desidero che veniate a conoscenza di tutta la
verità e sono quindi lieto di approfittare di ogni opportunità di illustrarvi tutto quello che faccio o
penso riguardo al governo; pertanto in questa occasione vi chiedo licenza di dilungarmi più di quanto
richieda o meriti questo caso particolare.
Quando sono entrato nell’ardua impresa di partecipare al governo, l’ho fatto con la determinazione di
non immischiarmi negli affari dell’Assemblea Legislativa e il meno possibile in quelli dei miei
colleghi. Nel primo e unico caso in cui ho derogato alla prima parte della mia risoluzione, sono stato
gabbato dal Segretario del Tesoro e mi sono reso strumento per promuovere le sue mire, che allora
non avevo compreso appieno; di tutti gli errori che ho commesso nella mia vita politica, si tratta di
quello di cui mi pento maggiormente. Ho sempre avuto intenzione di spiegarvelo, non appena
avessimo cessato di essere attori sulla scena politica e fossimo diventati semplicemente spettatori
disinteressati. La seconda parte della mia risoluzione è sempre stata religiosamente rispettata nei
confronti del Dipartimento della Guerra; per quanto concerne quello del Tesoro, non me ne sono mai
allontanato, al di là della semplice espressione dei miei sentimenti nel corso di conversazioni,
principalmente con chi, esprimendo le stesse opinioni, mi ha indotto a parlare. Se mai si è creduto
che io abbia intrigato con i membri del Congresso per sventare i piani del Segretario del Tesoro, ciò
è in totale disaccordo con la verità. Non ho mai nutrito il desiderio di influenzare i rappresentanti del
potere legislativo, e d’altra parte per farlo non avrei avuto a disposizione altro mezzo che le mie
amicizie, alle quali attribuisco troppa importanza per rischiare di perderle intromettendomi nella loro
libertà di giudizio e nello scrupoloso rispetto da parte loro al proprio senso del dovere. Che io
abbia, nelle mie conversazioni private, totalmente disapprovato il sistema del Segretario del Tesoro,
lo riconosco e lo ammetto; e non si trattava soltanto di una controversia astratta. Il suo sistema
nasceva da principi contrari alla libertà e mirava a minare e demolire la repubblica, istituendo una
influenza del suo dipartimento sui membri dell’assemblea legislativa. Ho visto concretizzarsi
realmente quest’influenza e ho ravvisato i suoi primi frutti nel profilarsi dei contorni del suo progetto
proprio per mezzo dei voti di chi, avendo inghiottito la sua esca, si preparava a trarre profitto dai
suoi piani; e che se costoro si fossero astenuti, come dovrebbero sempre fare coloro che hanno
interessi privati in una questione, il voto della maggioranza disinteressata sarebbe stato chiaramente
contrario al loro. Questi non erano più i voti dei rappresentanti del popolo, ma quelli di chi ne aveva
abbandonato i diritti e gli interessi; ed era impossibile considerare le loro decisioni, che non
miravano a nient’altro che al proprio arricchimento, come le misure prese da una legittima
maggioranza, decisioni che dovrebbero sempre essere rispettate. Se quello che è stato fatto ha
generato un senso di disagio tra coloro che desideravano un governo virtuoso, quello che è stato
proposto in seguito non è stato meno spaventoso per gli amici della Costituzione. Infatti, in un
rapporto relativo alle manifatture (sul quale devono essere ancora prese decisioni), si dava
espressamente per scontato che il governo generale avesse il diritto di esercitare tutti i poteri che
potessero contribuire al bene pubblico, vale a dire, tutti i poteri legittimi, in quanto nessun governo
ha il diritto di fare quello che non va a vantaggio dei governati. Effettivamente, vi si trovava una falsa
limitazione all’universalità di questo potere, restringendolo ai casi in cui è necessario stanziare del
denaro. Ma in quale impresa è possibile evitare di impiegare del denaro? Se ne deduce che
l’obiettivo di questi piani, nel loro complesso, è quello di riunire tutti i poteri nelle mani
dell’Assemblea Legislativa generale, di costituire i mezzi per corrompere nell’Assemblea
Legislativa un gruppo di rappresentanti sufficientemente numeroso da dividere i voti onesti e in tal
modo far pendere il piatto della bilancia dalla parte desiderata e di porre tale gruppo agli ordini del
Segretario del Tesoro, al fine di sovvertire, un passo alla volta, i principi della Costituzione che egli
ha spesso dichiarato essere cosa di poco conto e da modificare. Tali punti di vista avrebbero
giustificato qualcosa di più di una semplice espressione di dissenso; nondimeno non mi sono mai
spinto più in là. Si potrebbe invece affermare che [il Segretario del Tesoro] si sia mai astenuto
dall’immischiarsi negli affari del dipartimento a me affidato? Per non parlare delle altre interferenze,
ben note, nel caso delle due nazioni con le quali abbiamo le relazioni più intime, la Francia e
l’Inghilterra. Il mio intento era quello di concedere alla prima alcuni soddisfacenti riconoscimenti
che per noi avrebbero comportato costi minimi, in cambio dei solidi vantaggi che ciò ci avrebbe
fruttato e di imporre agli inglesi alcune limitazioni che avrebbero potuto indurli ad alleviare le gravi
restrizioni che essi impongono al nostro commercio. Ho sempre creduto che ciò coincidesse con i
vostri sentimenti. E tuttavia il Segretario del Tesoro, con le sue cricche di membri dell’Assemblea
Legislativa e, in altre occasioni, con dichiarazioni altisonanti, ha imposto il suo sistema, che era
esattamente il contrario del mio. Egli ha conferito, di sua iniziativa, con gli ambasciatori di queste
due nazioni e in ogni consultazione era provvisto di qualche relazione di una conversazione con l’uno
o l’altro di loro, adattato ai suoi punti di vista. Una volta che questi punti di vista hanno prevalso,
naturalmente la responsabilità della loro esecuzione è ricaduta su di me e io posso appellarmi con
fiducia a voi, che avete visto tutte le mie lettere e i miei atti, per testimoniare se non li ho promossi
come se fossero stati i miei, anche quando li consideravo incompatibili con l’onore e gli interessi del
nostro paese. Che siano incompatibili con i nostri interessi è stato provato in modo fin troppo serio
dalla pugnalata inferta dai francesi alla nostra navigazione. Quindi se la domanda è, per colpa di chi
il Colonnello Hamilton e io non ci siamo avvicinati? la risposta dipenderà da quella fornita a sua
volta a due altre domande, vale a dire, di chi sono i principi amministrativi che meritano, per la loro
purezza, una coscienziosa adesione? E chi di noi si è spinto più in là nel tentativo di controllare il
dipartimento dell’altro?
A questa giustificazione delle opinioni espresse nel corso di più conversazioni contro il punto di
vista dei Colonnello Hamilton, chiedo licenza di aggiungere notizia delle sue recenti accuse contro di
me pubblicate nella Fenno’s Gazette; giacché né lo stile, né l’argomento, né il veleno contenuto nei
pezzi ai quali alludo può lasciare alcun dubbio riguardo al loro autore. Facendo il mio nome e
parlando del mio carattere per esteso al pubblico e nascondendo il suo sotto la firma di “un
Americano”, egli mi accusa di svariati misfatti. Primo: di avere scritto lettere dall’Europa a svariati
miei amici contro l’attuale Costituzione (a quel tempo in discussione). Secondo: del desiderio di non
ripagare il debito pubblico. Terzo: di aver fondato un giornale per denigrare e diffamare il governo.
La prima accusa è palesemente falsa. Negli Stati Uniti nessuno, suppongo, approvava ogni articolo
della Costituzione; nessuno, credo, ne approvava più di me e certamente il mio accusatore ne
criticava più di me, in particolare le parti più repubblicane. Di questo saranno prova le poche lettere
che ho scritto sull’argomento (non più di mezza dozzina, credo); e per mia soddisfazione e
giustificazione, sarò costretto ad abusare della vostra pazienza, chiedendovi di leggerle. In esse
vedrete che la mia obiezione alla Costituzione consisteva nel fatto che essa aveva bisogno di una
dichiarazione dei diritti che garantisse la liberta di religione, la libertà di stampa, la libertà da
eserciti permanenti, il processo con una giuria e una legge permanente sull’habeas corpus. Quella
del Colonnello Hamilton era che egli desiderava un re e una camera del Lord. Il buon senso
dell’America ha approvato la mia obiezione e ha aggiunto una dichiarazione dei diritti, non il re e i
Lord. Pensavo anche che un mandato più lungo e non rinnovabile avrebbe aumentato l’indipendenza
del Presidente. Il mio paese ha ritenuto opportuno altrimenti e io lo ho accettato la sua decisione.
[Hamilton] ritiene che il governo generale debba avere sempre il potere di rendere le proprie leggi
vincolanti per tutti gli Stati. Il nostro paese ha ritenuto altrimenti: forse che egli ha accettato questa
decisione? Nonostante il mio desiderio di una dichiarazione dei diritti, le mie lettere esortavano nei
termini più energici ad adottare la Costituzione, almeno da parte di nove Stati, per garantire il bene
contenuto in essa. Inizialmente pensavo che il modo migliore per assicurarsi la dichiarazione dei
diritti fosse che quattro Stati si opponessero finché non vi fosse stata inclusa la dichiarazione. Ma
dacché ho visto la proposta dei signor Hancock di approvare la Costituzione così com’era e di dare
istruzioni permanenti al rappresentante di ogni Stato di insistere per ottenere una dichiarazione dei
diritti, ho riconosciuto la superiorità del suo piano e ne ho sostenuto l’adozione. La seconda accusa è
altrettanto falsa. La mia intera corrispondenza mentre ero in Francia, così come ogni mia parola,
lettera e azione sul tema dacché ne sono tornato, provano che nessuno è più ardentemente intenzionato
di me a vedere il debito pubblico ripagato rapidamente e scrupolosamente. È proprio questo a
segnare la differenza tra le mie opinioni e quelle del Colonnello Hamilton, cioè che io vorrei vedere
il debito estinto domani; egli, invece, non vorrebbe che venisse mai estinto, ma che restasse in
permanenza per essere usato per corrompere e manovrare l’Assemblea legislativa. Terzo, non ho mai
indagato sul numero di figli, parenti e amici di Senatori, Rappresentanti, stampatori e altri utili
partigiani che il Colonnello Hamilton ha favorito ponendoli tra le centinaia di impiegati del suo
dipartimento, o tra le migliaia di esattori delle imposte disseminati, pronti ad un suo cenno, in tutta
l’Unione; né avrei mai potuto immaginare che l’uomo che trasforma continuamente milioni di dollari
da carta in moneta e viceversa, dall’Europa all’America, dall’America all’Europa, che comunica i
segreti del governo ai suoi amici nella misura e nel momento che più gli aggrada e che non perde mai
occasione di usare le proprie sostanze per crearsi un seguito, che un uomo tale, dico, mi avrebbe
mosso l’accusa di aver nominato il poeta Freneau traduttore per il mio ufficio, con un salario di 250
dollari all’anno. (…) Il Colonnello Hamilton non riesce a vedere alcun motivo in una nomina, se non
quello di crearsi un utile alleato. Ma voi, signore, che vi siete visti raccomandare da me un
Rittenhouse, un Barlow, un Paine, sapete bene che per me talento e sapienza sono motivi sufficienti
per candidare qualcuno ad un posto per il quale sia adatto; e vorrete credere che Freneau, essendo un
uomo di genio, ha potuto meritare la mia preferenza come traduttore ufficiale e ha potuto vantare buon
titolo ai piccoli aiuti che gli ho concesso nella sua qualità di direttore di una gazzetta, procurandogli
abbonamenti per il suo giornale, cosa che ho fatto poco prima della sua uscita, così come ho agito
con altrettanto piacere a favore delle fatiche di altri uomini di genio. Questo per quanto riguarda il
passato; ora una parola sul futuro.
Quando ho assunto questa carica, l’ho fatto con la risoluzione di ritirarmi non appena avrei potuto
farlo decorosamente. Molto presto mi è sembrato evidente che il momento adeguato sarebbe stata la
prima occasione in cui la Costituzione prevede il periodico cambiamento o rinnovo dei ranghi dei
pubblici servitori. La mia decisione era stata rafforzata dalla vostra analoga risoluzione, dalla quale,
tuttavia, sarei felice di poter sperare che abbiate receduto. Aspetto quel momento con il desiderio del
marinaio stanco delle onde, che scorge finalmente la terra e conterò i giorni e le ore che si
interpongono ancora tra me e quei momento. Nel frattempo, il mio principale obiettivo sarà quello di
portare a compimento gli affari relativi al mio ufficio, evitando per quanto possibile ogni nuova
impresa. Non mi sono mai intromesso negli affari della nostra assemblea legislativa, sicché
certamente non inizierò a farlo adesso. Il mio desiderio è quello di predisporre tutto per il riposo
verso il quale mi ritirerò, piuttosto che di esporlo al rischio di venire turbato dalle polemiche sui
giornali. Se, tuttavia, queste non potranno essere evitate completamente, la considerazione per la
vostra tranquillità sarà motivo sufficiente perché io le rimandi al momento in cui sarò un privato
cittadino, quando le conseguenze di quello che dirò o che farò ricadranno solo su di me. Allora,
inoltre, potrò evitare l’accusa di usare male quel tempo che adesso, appartenendo a coloro che mi
impiegano, dovrebbe essere dedicato interamente al loro servizio. Se la mia difesa o gli interessi
della repubblica lo rendessero necessario, mi riservo il diritto di appellarmi allora al mio paese,
sottoscrivendo il mio nome ad ogni mio scritto e citando con libertà e verità i nomi e i fatti necessari
a esporre nella giusta forma la causa innanzi a quel tribunale. Alla completa indifferenza per gli onori
e gli emolumenti della carica accompagno altrettanta considerazione per la stima dei miei
concittadini e, consapevole di averla meritata grazie ad una inattaccabile integrità e ad una
entusiastica devozione per i loro diritti e le loro libertà, non sopporterò che il mio ritiro sia oscurato
dalle calunnie di un uomo la cui storia, dacché la storia si è abbassata a notarlo, è stata una teoria di
macchinazioni contro la libertà del paese che non solo lo ha accolto e gli ha dato il pane, ma lo ha
ricoperto di onori. Tuttavia, esprimo ancora la speranza che non si renda necessario ricorrere ad un
tale appello. Sebbene io non vada famoso tra il popolo americano, credo che, per quel poco che mi si
conosce, non è con il titolo di nemico della repubblica, né che mi si accusi di intrigare contro di essa,
né di scialacquare le sue entrate, né di prostituirla ai fin della corruzione, come asserisce di me
l’“Americano” [Hamilton] e confido che voi siate convinto che, per quanto riguarda i dissensi sui
giornali, da me non è mai provenuta una sola sillaba e che nessun intrigo o macchinazione da parte
mia ha prodotto quelli che si sono verificati nell’Assemblea Legislativa e posso garantire a voi e a
me che nessuno di essi verrà alimentato da me durante il poco tempo nel quale devo restare in carica,
tempo che sarà ampiamente impiegato nel chiudere gli affari correnti del dipartimento.
Le Risoluzioni del Kentucky (1798)

La libertà politica è fondata sul sospetto, e non sulla fiducia.

Nel 1798 si verificò un aggravamento della crisi con la Francia. Il timore, in parte fondato, in
parte artatamente alimentato dal partito Federalista al potere, che la rivoluzione arrivasse fin in
America spinse il Congresso ad incrementare gli organici dell’esercito regolare e a concedere al
presidente John Adams poteri eccezionali. Il motivo di maggiore preoccupazione per Jefferson e i
suoi seguaci, ormai organizzati in partito, tuttavia, furono le dure misure di sicurezza interna
emanate in occasione della crisi con la Francia. Nel giugno del 1798 il Congresso approvò la
prima legge sugli stranieri e nel corso del mese successivo fu promulgata una serie di leggi sugli
stranieri e sulla sedizione, che permettevano al presidente, anche in tempo di pace, di deportare o
imprigionare cittadini stranieri ritenuti pericolosi per la sicurezza del paese. Inoltre chiunque
esprimesse pubblicamente critiche nei confronti del partito al potere, del Congresso o del
presidente poteva finire in prigione. Jefferson denunciò tali misure come uno sfacciato tentativo di
ridurre al silenzio l’opposizione e come una palese violazione del primo emendamento. Non solo,
egli si risolse ad affrontare una volta per tutte la questione dell’interpretazione costituzionale,
redigendo un testo da sottoporre, con il segreto sulla paternità del documento – a causa del suo
ruolo di vicepresidente – all’assemblea del Kentucky. Il documento, le famose Risoluzioni del
Kentucky, fu approvato a grandissima maggioranza. Qui Jefferson avanzò compiutamente per la
prima volta la dottrina politico-giuridica della “scuola dei diritti degli Stati”, che diventò
assolutamente maggioritaria negli Stati del Sud nel corso dell’Ottocento fino alla Guerra Civile.
Ripresa e perfezionata da John Caldwell Calhoun – vicepresidente, senatore del South Carolina e
uno dei maggiori teorici politici americani dell’Ottocento – questa dottrina e la natura pattizia
dell’Unione ad essa sottesa diventarono l’autentica materia del contendere fra Stati del Nord e del
Sud.
Le Risoluzioni della Virginia e del Kentucky, redatte rispettivamente da Madison e Jefferson,
furono in primo luogo la risposta politica alle leggi liberticide imposte dal partito al potere. La
battaglia si colloca lungo tutto il biennio finale del Settecento e culminò con l’elezione di
Jefferson alla presidenza. Esse sono considerate dagli storici come “le prime bordate della
campagna elettorale del 1800”. Ma se importante è l’aspetto di battaglia politica contingente,
ossia la lotta per i diritti e le libertà civili degli americani, ancor più rilevante è la riflessione
politico-giuridica sulla natura dell’unione americana che le Risoluzioni porranno al centro del
discorso politico americano. Si trattava del primo grande tentativo di dotare di senso e significato
il patto federale, che aveva disegnato due sfere di autorità – quella degli Stati e quella della
federazione – che, lungi dal progredire su binari paralleli, entravano sempre più spesso in rotta di
collisione.
Thomas Jefferson affermava che non la federazione, ma gli Stati sono la vera garanzia della
libertà dei cittadini. Anzi il primo è il costante e unico potenziale despota nel contesto americano.
Gli Stati rivestono allora un ruolo insostituibile nella tutela dell’equilibrio costituzionale contro
il pericolo di consolidamento del potere federale. In quanto parti sovrane del patto costituzionale,
gli Stati hanno creato il governo federale come semplice agente, a loro subordinato, per funzioni
limitate e ben definite e quindi quest’ultimo non ha alcun diritto di espandere la propria autorità
senza il consenso dei contraenti. Ogni singolo Stato, per quanto concerneva le controversie
riguardanti la Costituzione, aveva il diritto di stabilire due cose: in primo luogo se e quando il
patto era stato violato e, inoltre, le misure adeguate a ripristinare l’ordine turbato. Si trattava di
un “diritto naturale” del singolo Stato di dichiarare l’illegittimità di un atto del Congresso
contrario al contratto costituzionale. Nell’ottava risoluzione si legge il passaggio cruciale, quello
che indica il modo di risanare la violazione costituzionale. Mentre per gli “abusi ordinari”,
ovverosia nel campo dei poteri che la Costituzione attribuisce stabilmente al potere federale, il
rimedio sta nel libero gioco delle maggioranze e delle minoranze (nella democrazia), senza che gli
Stati in quanto tali diventino protagonisti, quando si assiste invece ad un esercizio di poteri non
delegati, lo Stato diventa il protettore dei propri cittadini e il garante del patto costituzionale
originario. Lo Stato ha il diritto e anche il dovere di dichiarare la nullità di una legge federale
che ecceda il potere delegato alla federazione secondo la Costituzione limitatamente al proprio
territorio. Si tratta di un veto statale nei confronti della legislazione federale incostituzionale che
diventa nella teoria politica jeffersoniana la chiusura e il perfezionamento del sistema
costituzionale americano. Questo testo, spesso dimenticato dalla comoda e cortigiana teoria
federale contemporanea, si colloca al cuore dell’esperimento americano di autogoverno e governo
limitato.

Stabilito che:
1. Gli Stati che costituiscono Stati Uniti d’America non formano un’unione basata sul principio di una
illimitata sottomissione al governo generale, ma hanno creato tale governo per taluni specifici scopi,
in virtù di un patto nella forma e dal titolo di Costituzione degli Stati Uniti, con gli emendamenti che
le sono stati aggiunti. Essi hanno delegato a quel governo alcuni ben determinati poteri, riservando a
ciascun Stato tutti i restanti diritti di autogoverno. Ogniqualvolta il governo centrale assuma poteri
che non gli sono stati delegati, i suoi atti risultano senza autorità, nulli e privi di qualsiasi efficacia.
Ciascun Stato ha aderito a questo patto in quanto Stato, rappresentando così uno dei contraenti del
patto medesimo: di fronte ad esso gli altri Stati rappresentano l’altro contraente. Il sistema di
governo così costituito non è stato reso il giudice ultimo o esclusivo dei poteri che gli sono stati
delegati, cosa che avrebbe fatto sì che i suoi poteri fossero limitati a sua sola discrezione, anziché
dalla Costituzione. Come avviene ogniqualvolta venga stretto un patto tra potenze prive di un giudice
comune, ciascun contraente ha pari diritto di giudicare da sé sia le eventuali violazioni del patto, sia
le misure e i metodi per porvi rimedio.
2. La Costituzione degli Stati Uniti ha delegato al Congresso il potere di punire i reati di tradimento,
la falsificazione di titoli e di moneta corrente degli Stati Uniti, gli atti di pirateria e i delitti commessi
in mare aperto, i crimini contro il diritto internazionale e nessun altro delitto oltre questi. Vale il
principio generale, ribadito anche da un emendamento alla Costituzione, in base al quale «i poteri
non delegati agli Stati Uniti dalla Costituzione, né da essa esplicitamente negati ai singoli Stati, sono
riservati rispettivamente agli Stati stessi o al popolo». Di conseguenza la legge approvata dal
Congresso il 14 luglio 1798 e intitolata “Estensione della Legge per Ia punizione di alcuni delitti
contro gli Stati Uniti”, così come la legge approvata nel giugno 1798 ed intitolata “Legge per la
punizione di frodi commesse contro la Banca degli Stati Uniti” (così come tutte le altre leggi che
pretendono di statuire, definire a punire altri delitti oltre quelli considerati dalla Costituzione) sono
del tutto nulle e prive di qualsiasi efficacia. Il potere di statuire, definire e punire questi ultimi è
riservata e spetta di diritto solamente ed esclusivamente ai singoli Stati, ciascuno entro il proprio
territorio.
3. Come si è detto in precedenza, vale il principio generale, dichiarato espressamente anche con un
emendamento alla Costituzione, secondo il quale «i poteri non delegati agli Stati Uniti dalla
Costituzione, né da essa esplicitamente negati ai singoli Stati, sono riservati rispettivamente agli Stati
stessi o al popolo». Dal momento che la Costituzione non delega agli Stati Uniti alcun potere sulla
libertà religiosa, sulla libertà di parola e di stampa e che la stessa Costituzione non nega tali poteri ai
singoli Stati, ogni legittimo potere riguardo tali materie di diritto resta ed è riservato ai singoli Stati o
al popolo. In questo modo si è manifestata la loro volontà di conservare per sé il diritto di giudicare
in quale misura gli eccessi nella parola e sulla stampa possano essere limitati senza intaccare i
benefici della libertà, nonché fino a che punto sia preferibile tollerare quegli abusi che
inevitabilmente accompagnano l’esercizio di tali diritti, piuttosto che distruggere la libertà. Essi si
sono così anche salvaguardati da qualsiasi limitazione da parte degli Stati Uniti della libertà nelle
opinioni e nelle pratiche religiose, conservando per sé il diritto di proteggerla, come ha fatto questo
Stato con una legge voluta dalla maggioranza dei suoi cittadini, mettendosi al sicuro da ogni
interferenza o restrizione umana.
In aggiunta a questo principio ed esplicita dichiarazione, uno degli emendamenti alla Costituzione
stabilisce una norma ancora più specifica, che dichiara espressamente che «il Congresso non potrà
promulgare alcuna legge per il riconoscimento ufficiale di qualsiasi religione, o per proibirne il
libero esercizio; o per limitare la libertà di parola o di stampa», proteggendo così, nella stessa frase
e negli stessi termini, la libertà di religione, di parola, di stampa. In questo modo, violare una di esse
equivale a privare di protezione le altre due. Calunnie, falsità e diffamazioni, al pari dell’eresia e
della falsa religione, sono così sottratte alla giurisdizione dei tribunali federali. In conseguenza, la
legge approvata dal Congresso degli Stati Uniti il 14 luglio 1798, intitolata “Aggiunta alla Legge per
la punizione di alcuni delitti contro gli Stati Uniti”, che limita la libertà di stampa, non ha valore di
legge ma risulta del tutto nulla e priva di efficacia.
4. I cittadini di paesi amici si trovano sotto la giurisdizione e la protezione delle leggi dello Stato in
cui risiedono. Non è stato infatti delegato agli Stati Uniti, né negato ai singoli Stati, alcun potere su di
loro che fosse diverso da quelli esercitati sui propri cittadini. E dal momento che vale il principio,
dichiarato anche da uno degli emendamenti alla Costituzione, in base al quale «i poteri non delegati
agli Stati Uniti dalla Costituzione, né da essa esplicitamente negati ai singoli Stati, sono riservati
rispettivamente agli Stati stessi o al popolo», la legge approvata dal Congresso degli Stati Uniti nel
luglio 1798, intitolata “Legge sugli stranieri”, che istituisce poteri non delegati dalla Costituzione sui
cittadini di paesi amici, non ha valore di legge ma è del tutto nulla e priva di efficacia.
5. Oltre al principio generale e all’esplicita dichiarazione, che «i poteri non delegati sono riservati»,
un’altra norma specifica inserita con grande senso di prudenza nella Costituzione dichiara che
«l’immigrazione o l’importazione di quelle persone che un qualsiasi Stato ritenga opportuno
ammettere, non potrà essere proibita dal Congresso prima del 1808». Questo Stato ammette
l’immigrazione di cittadini di paesi amici che, come accennato, rappresenterebbero l’oggetto della
suddetta legge sugli stranieri. Una norma contro il divieto della loro immigrazione equivarrebbe ad
una norma contro qualsiasi legge equipollente: in caso contrario sarebbe senza valore. Espellerli una
volta immigrati nel nostro paese, equivarrebbe a proibire la loro immigrazione, risultando un atto
contrario a quanto stabilito dalla Costituzione e quindi nullo.
6. L’imprigionamento di una persona sotto la protezione delle leggi di questo Stato, qualora non
obbedisca ad una semplice ordinanza del presidente che gli ingiunga di lasciare gli Stati Uniti, come
previsto dalla detta “Legge sugli stranieri”, è contrario alla Costituzione. Un suo emendamento ha
stabilito che «nessuno potrà essere privato della libertà senza il dovuto procedimento legale». Un
altro emendamento ha stabilito che «in ogni processo penale l’accusato godrà del diritto ad un
pubblico processo da parte di una giuria imparziale, ad essere informato della natura e dei motivi
dell’accusa, al confronto con i testimoni contro di lui, a far comparire testimonianze in suo favore e a
farsi assistere da un avvocato per la sua difesa».
La medesima legge, concedendo al presidente l’autorizzazione ad espellere dagli Stati Uniti una
persona protetta dalla legge semplicemente in base ad un sospetto, senza accusa, senza giuria, senza
pubblico processo, senza confrontarsi con i testimoni contro di lui, senza ascoltare i testimoni in suo
favore, senza difesa, senza assistenza, è contraria anche a quanto stabilito dalla Costituzione: non ha
quindi valore di legge ed è da considerarsi assolutamente nulla e priva di efficacia. Trasferire il
potere di giudicare una persona, soggetta alla protezione della legge, dai tribunali al presidente degli
Stati Uniti, come prevede la medesima legge sugli stranieri, è contrario all’articolo della
Costituzione in base al quale «il potere giudiziario degli Stati Uniti sarà affidato ai tribunali, i cui
giudici conserveranno la propria carica finché terranno buona condotta»: la legge in questione è nulla
anche per questa ragione. È inoltre da sottolineare come questo trasferimento di potere giudiziario
avvenga a favore dell’esponente del governo centrale che già detiene il potere esecutivo e il diritto
di veto su tutti i poteri legislativi.
7. La Costituzione degli Stati Uniti delega al Congresso, in alcune sue parti, il potere «di fissare e di
far riscuotere tasse, diritti, imposte e dazi; di pagare i debiti pubblici e di provvedere alla difesa
comune e al bene generale degli Stati Uniti» e «di promulgare tutte le leggi necessarie e idonee
all’esercizio dei poteri di cui sopra e di tutti gli altri poteri di cui la presente Costituzione investe il
governo degli Stati Uniti, i suoi dipartimenti e i suoi funzionari»: l’interpretazione datane dal governo
generale (come dimostra un esame dei suoi provvedimenti) mira all’annullamento di ogni limite
impostogli dalla Costituzione. Le parole che nello strumento costituzionale hanno il solo intento di
creare poteri limitati non possono essere interpretate come se intendessero istituire poteri illimitati;
non è ammissibile interpretare una parte del testo in un senso che ne annullerebbe l’insieme. Ciò che
il governo centrale ha fatto nell’ambito di questi articoli dovrà essere adeguatamente riveduto e
corretto in un momento di maggior serenità, mentre le leggi citate nelle precedenti risoluzioni
richiedono un’immediata revisione.
8. Viene decisa la nomina di un comitato di consultazione e corrispondenza, incaricato di comunicare
alle legislature dei vari Stati le precedenti risoluzioni e di assicurarli che questo Stato ha per la loro
amicizia e per l’unione la medesima stima che ha manifestato fin dal momento in cui un pericolo
comune ci indusse ad ipotizzare la creazione dell’unione. Questo Stato ritiene che l’unione, se
destinata a precisi obiettivi nazionali e particolarmente a quelli specificati nell’attuale patto federale,
sia propizia alla pace, alla felicità e alla prosperità di tutti gli Stati. Fedele a quel patto, secondo il
chiaro intento e significato con cui fu interpretato e accettato dai contraenti, questo Stato auspica
sinceramente la sua conservazione. Esso è peraltro convinto che sottrarre agli Stati tutti i poteri di
autogoverno e trasferirli ad un governo generale unificato, senza alcun riguardo per i particolari
poteri delegati e riservati solennemente dichiarati nel patto, non sia propizio alla pace, alla
prosperità e alla felicità di questi Stati.
Questo Stato è quindi deciso, come indubbiamente lo sono i suoi Stati fratelli, a non sottomettersi ad
alcun potere non delegato e di conseguenza illimitato, attribuiti a qualsiasi persona o gruppo di
persone sulla terra. Il rimedio costituzionale ad un abuso dei poteri delegati è, infatti, il cambiamento
dei membri del governo centrale da parte del popolo, che li ha scelti: ma nel caso di assunzione di
poteri non delegati, l’annullamento dell’atto è il giusto rimedio. Entro i propri confini ciascuno Stato
ha il diritto naturale, nei casi non contemplati dal patto (casus non foederis) di annullare di propria
autorità ogni esercizio di potere da parte di altri. Senza questo diritto, esso sarebbe esposto al
dominio, assoluto e illimitato, di chiunque possa giudicare per conto loro in tale materia. Nonostante
tutto, per rispetto verso gli Stati fratelli, questo Stato desidera comunicare con loro in merito a tale
questione, dal momento che con loro soltanto è legittimo comunicare, essendo essi i soli, in quanto
contraenti del patto, a poter giudicare in ultima istanza in merito ai poteri esercitati in base ad esso. Il
Congresso, infatti, non è un contraente, ma semplicemente il prodotto del patto e quindi soggetto, per
quanto concerne le sue assunzioni di potere, al giudizio finale di coloro dai quali e per i quali esso
stesso e i suoi poteri sono stati creati e modificati.
Se le leggi di cui si è parlato più sopra dovessero essere conservate, non resterà che trarne le dovute
conclusioni: a propria discrezione il governo generale potrebbe annoverare nel numero dei delitti
qualsiasi azione desideri e punirla autonomamente, indipendentemente dal fatto che essa appaia nel
numero dei crimini attribuiti dalla Costituzione alla sua giurisdizione. Il governo generale potrebbe
trasferire tale giurisdizione al presidente o a chiunque altro desideri, rendendolo in tal modo
accusatore, difensore, giudice e giuria e trasformando i suoi sospetti in prove, le sue ordinanze in
sentenze, i suoi funzionari in giustizieri e il suo cuore nell’unica memoria del procedimento. In virtù
di tale precedente una parte numerosa e valorosa della popolazione di questi Stati verrebbe
trasformata in una banda di fuorilegge, soggetta al dominio assoluto di un solo uomo e l’argine
rappresentato dalla Costituzione verrebbe spazzato via, privandoci di ogni difesa nei confronti delle
passioni e dei poteri di una maggioranza in Congresso ed esponendo la minoranza, nonché le
assemblee legislative, i giudici, i governatori e i consiglieri degli Stati al medesimo pericolo di
espulsione o da pene ancora più gravi. Analoga sorte toccherebbe ai pacifici abitanti degli Stati,
qualora essi si arrischiassero a reclamare la restituzione dei diritti costituzionali e delle libertà degli
Stati e dei loro popoli o che, per qualsivoglia altro motivo, fondato o meno che sia, risultassero
invisi alle opinioni del presidente o ne suscitassero i sospetti o venissero reputati un pericolo per la
sua rielezione o per la rielezione dei suoi accoliti o ancora per qualche altro interesse, pubblico o
privato. La straniero senza amici è stato scelto come il soggetto più sicuro per il primo esperimento.
Il cittadino seguirà presto la stessa sorte, o meglio la sta già seguendo, dal momento che è già
soggetto alla legge sulla sedizione.
Queste e altre leggi della stesso tipo, se non verranno bloccate sul nascere, condurranno
inevitabilmente questi Stati alla rivoluzione e allo spargimento di sangue, offrendo nuovi argomenti
ai calunniatori della forma di governo repubblicano e nuovi pretesti a chi vorrebbe far credere che
l’uomo non possa essere governato che con la frusta.
Se la fiducia nelle persone che abbiamo scelto dovesse mettere a tacere i nostri timori per la
sicurezza dei nostri diritti, ci illuderemmo e ci esporremmo ad un grave pericolo. La fiducia è
sempre la madre del dispotismo: la libertà politica è fondata sul sospetto, e non sulla fiducia. È il
sospetto, e non la fiducia, che ci impone di stabilire dei limiti costituzionali, al fine di vincolare
quelli ai quali affidiamo il potere. Di conseguenza la nostra Costituzione ha stabiliti entro quali limiti
può spingersi la nostra fiducia.
Chi crede onestamente nel principio della fiducia nel governo esamini le leggi sulla sedizione e sugli
stranieri e dica se la Costituzione non è stata saggia nel fissare dei limiti al governo che ha create e
se saremmo saggi noi nel distruggerli. Ci dica che cos’è questo governo, se non una tirannide che gli
uomini da noi scelti hanno conferito al presidente di nostra scelta; e che questi, per parte sua, l’ha
accettata e ha voluto imporla sui cittadini di paesi amici, ai quali il mite spirito del nostro popolo e
delle sue leggi erano impegnati a offrire ospitalità e protezione. Gli uomini che abbiamo scelto hanno
dato più importanza al semplice sospetto del presidente che al fondamentale diritto di essere
considerati innocenti, alla possibilità di discolparsi, alla sacra forza della verità e alla forma e alla
sostanza della legge e della giustizia. Nelle questioni di potere, quindi, non si parli più, quindi, di
fiducia nell’uomo, ma gli si impedisca di nuocere vincolandolo con le catene della Costituzione.
Questo Stato chiede dunque ai suoi Stati fratelli di esprimere la propria opinione riguardo le suddette
leggi sugli stranieri e sulla punizione di determinati crimini, e di dichiarare apertamente se esse siano
o meno autorizzate dal patto federale. Non dubita che il loro giudizio non mancherà di dimostrare il
loro immutato sostegno ad un governo limitato, sia esso centrale o locale. I diritti e le libertà degli
altri Stati fratelli non saranno messi in pericolo dal rimanere uniti per uno scopo comune. Questo
Stato è convinto che essi concorderanno nel ritenere le suddette leggi così profondamente contrarie
alla Costituzione da costituire un’aperta dichiarazione che la misura dei poteri del governo generale
non è più il patto federale e che d’ora innanzi sarà possibile esercitare sugli Stati qualsivoglia
potere. Essi non potranno che ravvisare in ciò un’usurpazione dei diritti degli Stati al fine di
concentrare nelle mani del governo generale il potere di assoggettare gli Stati medesimi non solo nei
casi federali (casus foederis), ma in ogni caso, per il tramite di leggi promulgate non con il loro
consenso, ma con il consenso altrui. Questo significherebbe abbandonare la forma di governo che
abbiamo scelto e adottarne una che fa derivare i suoi poteri dalla propria volontà e non dalla nostra
autorità.
Queste Stato confida che i suoi Stati fratelli, esercitando il loro diritto naturale per i casi non
contemplati dal patto federale, concorderanno nel dichiarare queste leggi nulle e prive di efficacia e
che ciascuno prenderà le adeguate misure per far sì che né queste, né nessun altra legge del governo
generale che non sia chiaramente e volutamente autorizzata dalla Costituzione, possa essere applicata
all’interno dei rispettivi territori.
9. Il suddetto comitato è autorizzato a comunicare per iscritto per contatti personali, in qualunque
luogo e momento, con chiunque e con qualsiasi persona che sia stata autorizzata da uno più Stati
fratelli a trattare e conferire con esso. Inoltre, illustrerà i propri atti nel corso della prossima
sessione dell’assemblea.
La diffusione e divisione del potere

Il vero fondamento di un governo repubblicano è il pari diritto di ogni cittadino al possesso e all’autogoverno della sua persona e della sua
proprietà.

Dopo la fine dei suoi mandati presidenziali Jefferson si ritirò a vita privata, ma rimase un
interlocutore politico prodigo di consigli, opinioni politiche e naturalmente assai influente,
giacché il partito da lui fondato era ancora saldamente al potere. Queste due lettere del 1816 sono
rilevantissime per gli argomenti affrontati. In quella allo scrittore virginiano Kercheval, Jefferson
affronta anche l’antica questione se siano le buone istituzioni a rendere un popolo libero o se
siano i popoli liberi per loro natura a dotarsi al fine di buone istituzioni. Egli propende per la
seconda ipotesi: la Costituzione virginiana, da lui criticata seccamente (che da lì a poco sarebbe
stata cambiata e proprio nel senso auspicato da Jefferson), non fornisce alcuna garanzia ai
cittadini, ma è lo spirito libero – fondato sulla resistenza alle pretese dei governi – dei virginiani
ad obbligare i governanti a limitare la loro cupidigia. Secondo Jefferson, inoltre, le costituzioni
non dovrebbero sopravvivere alla generazione che le ha stipulate. Non vanno intese come patto
perpetuo e tendenzialmente immutabile, ma devono essere rinegoziate e migliorate da ogni
generazione. Le mani dei morti non possono tracciare il cammino dei vivi.
Soprattutto nella prima lettera, quella sulla ward republic (repubblica-rione), la relazione
federale assume particolari contorni etici e dovrebbe rappresentare la saldatura fra l’idea di
sovranità popolare e la dottrina dei diritti naturali. Il federalismo non era più solo il modo
attraverso il quale la repubblica americana si era formata, o un commendabile modello di
divisione dei poteri a livello territoriale e neppure lo schema capace di superare alcuni modelli
semplici di rappresentanza repubblicana. Esso diventava una relazione di carattere etico fra l’uno
e il molteplice, fra l’individuo e la società, una direttiva da applicarsi a qualunque comunità
politica in ogni luogo. La visione di una repubblica di repubbliche, con poteri decrescenti verso
l’alto (dove i funzionari sono più lontani dal popolo), si salda perfettamente con il suo ideale di
governo limitato. In questa lettera si coglie ancora una volta la distanza abissale fra la
concezione di Jefferson e le dottrine che vedono la “tirannia” (sfruttamento, prevaricazione,
dominio e così via) come il naturale prodotto dell’interazione sociale e il potere politico come una
possibile soluzione. Per Jefferson il potere e solo il potere deve essere addomesticato come una
fiera perché potenzialmente sempre tirannico, tanto che pare proprio che al di fuori dello spazio
politico non possa esistere per lui la possibilità della coercizione sistematica. Il governo e la
libertà sono in netta opposizione e l’avanzare dell’uno comporta l’arretramento dell’altro. Il
sistema della ward-republic non è per Jefferson una semplice divisione delle competenze
politiche: parte dall’individuo e raggiunge la sommità della federazione lasciando sempre meno
poteri di coercizione agli apparati governativi. Ma perché occorre dividere e suddividere tutti i
poteri sull’uomo? Secondo Jefferson questa necessità deriva dalla stessa natura del potere, dalla
sua tendenza a travalicare i propri argini e diventare oppressivo. Il potere si nutre di se stesso. Il
segreto per liberare gli uomini, allora, non è più da rinvenire nel semplice rispetto dei diritti
naturali, giacché il governo tende naturalmente a violarli, ma piuttosto nella diffusione e
divisione del potere. Il perno del sistema è naturalmente il libero individuo proprietario, il
freeholder, che delega poteri via via minori allorché ci si allontana da lui e da ciò che può
controllare con occhio vigile e diffidente. Ne consegue che meno poteri vengono delegati, meno
questi vengono allontanati dallo sguardo dell’individuo, maggiore sarà il risultato in termini di
libertà, che dal punto di vista politico è il fine supremo.

2 febbraio 1816, lettera a Joseph C. Cabell


No, mio caro amico, il mezzo per avere un governo buono e fidato non sta nell’affidare ad un unico
organo tutto il potere, ma nel dividerlo fra molti, distribuendo a ciascuno esattamente le funzioni che
è in grado di assolvere. Che al governo nazionale siano affidate la difesa della nazione e le relazioni
estere e federali; ai governi degli Stati le leggi, i diritti politici e civili, la polizia e
l’amministrazione di quanto concerne lo Stato nel suo complesso; alle contee le materie di interesse
locale e a ciascuna comunità minore gli affari che la interessano direttamente. È dividendo e
suddividendo la grande repubblica nazionale in queste repubbliche minori fino alla ripartizione più
minuta, finché si giunga all’amministrazione da parte di ciascun individuo della propria fattoria; è
attribuendo ad ognuno la direzione di ciò che può tenere d’occhio personalmente, che tutto verrà fatto
per il meglio. Che cosa è stato a distruggere la libertà e i diritti dell’uomo in ogni forma di governo
esistita sotto il sole? L’estendere e il concentrare tutti i poteri e tutte le funzioni in un solo corpo, non
importa che si tratti degli autocrati di Russia o di Francia, o dei patrizi del senato veneziano.
Sono convinto che, a meno che l’Onnipotente non abbia decretato che l’uomo non debba mai essere
libero (e crederlo sarebbe bestemmia), si scoprirà che il segreto consiste nel farsi egli stesso
depositario, nella misura in cui è capace di esercitarli, dei poteri che lo riguardano e nel delegare
soltanto quelli che vanno al di là delle sue capacità, mediante un processo sintetico, a gradi sempre
più elevati di funzionari, in modo da conferire sempre meno poteri mano a mano che i delegati
rappresentano sempre più una oligarchia. Le repubbliche elementari rappresentate dalle comunità,
dalle contee, dagli Stati e dall’Unione federale formerebbero così una gradazione di autorità,
ciascuna fondata sulla legge, investita ciascuna della sua sfera di poteri delegati e costituenti per
davvero un sistema di freni e contrappesi per il governo. Là dove ciascun individuo partecipa alla
direzione della propria comunità, o di alcune delle repubbliche superiori e sente di contribuire al
governo degli affari, non solo un giorno all’anno in occasione delle elezioni, ma ogni giorno; quando
non vi sarà uomo nello Stato che non sia membro di uno dei suoi concili, grande o piccolo, questi si
farà strappare il cuore dal petto piuttosto che permettere che il suo potere gli sia carpito da un Cesare
o da un Bonaparte. Quanto possa essere forte un’organizzazione del genere lo abbiamo visto in
occasione dell’embargo. Io sentii le fondamenta del governo vacillare sotto i miei piedi per l’azione
concertata delle township della Nuova Inghilterra. Non vi fu un singolo individuo in quegli Stati che
non si gettasse a corpo morto nell’azione; e sebbene nel complesso gli altri Stati fossero
notoriamente favorevoli alla politica del governo, ciò nonostante l’organizzazione di quella piccola
minoranza egoista le consentì di far prevalere la sua volontà su quella dell’Unione. Cosa avrebbero
potuto fare le impacciate contee del centro, del Sud e dell’Ovest? Convocare un’assemblea? In tal
caso si sarebbero radunati gli ubriaconi che oziano nel palazzo di contea o nelle sue vicinanze, dato
che in genere le distanze troppo grandi impediscono alla gente per bene e laboriosa di intervenire. Il
carattere di quanti si fossero effettivamente riuniti avrebbe dato la misura del peso che avrebbero
esercitato sull’opinione pubblica. Come Catone, ai suoi tempi, concludeva ogni suo discorso con le
parole, Carthago delenda est, così io concludo sempre con l’esortazione, “dividete le contee in
comunità”. Cominciate con l’istituirle per una sola funzione; dimostreranno ben presto per quali altre
esse siano lo strumento migliore. Dio benedica voi e tutti i nostri governanti e dia loro la saggezza,
così come sono certo che avranno la volontà di guardarci dalla degenerazione di un governo unico e
dalla concentrazione di tutti i poteri nelle mani dell’uno, dei pochi, della gente per bene o dei molti.

12 luglio 1816, lettera a Samuel Kercheval


Signore,
Ho ricevuto la vostra lettera del 13 giugno, con la copia delle lettere in merito alla convocazione di
un’assemblea costituente, sulla quale avete la gentilezza di chiedere la mia opinione. Non ho mai
avuto l’abitudine di ammantare di mistero e di riserbo le mie opinioni, né di tenerle celate nel petto.
Al contrario, particolarmente quando occupavo cariche pubbliche, ho sempre pensato che il popolo
avesse diritto ad essere trattato con franchezza e a conoscere a fondo le persone che aveva eletto.
Ora, però, mi sono ritirato dalla vita pubblica: mi sono rassegnato, come il passeggero di una nave,
ad avere fiducia in chi regge il timone e non chiedo altro che riposo, tranquillità e amicizia.
La questione che ponete, quella di un’equa rappresentanza, è diventata una questione di partito, sulla
quale non intendo prendere pubblicamente parte. Se, tuttavia, desiderate una risposta per vostra
personale soddisfazione e non per citarla in pubblico, allora non ho alcun motivo per rifiutarla,
tantomeno a voi, dal momento che le nostre opinioni coincidono. Quando nacque la nostra repubblica
resi note le mie opinioni per mezzo di un progetto di costituzione, allegato alle Notes on Virginia, che
conteneva misure adeguate a garantire per sempre una rappresentanza equa. Il fatto che all’epoca la
questione fosse un’autentica novità e la mancanza di esperienza di autogoverno fecero sì che
quell’abbozzo presentasse notevoli deviazioni dai canoni più genuinamente repubblicani.
In verità, i soprusi della monarchia avevano a tal punto condizionato la riflessione politica, che
consideravamo repubblicano tutto quello che non era monarchico. Non avevamo ancora assimilato
quel principio fondamentale, secondo cui «i governi sono repubblicani solo nella misura in cui
incarnano la volontà del popolo e la eseguono». Perciò le nostre prime costituzioni in realtà non
contenevano i fondamentali principi repubblicani. L’esperienza e la riflessione, tuttavia, mi hanno
sempre più convinto dell’enorme importanza dell’equa rappresentanza che era stata allora proposta.
Su questo punto, quindi, sono completamente d’accordo con quanto si afferma nelle vostre lettere. Mi
dispiace soltanto che il diritto d’autore sul vostro pamphlet ne impedisca la pubblicazione sui
giornali: soltanto in quella sede, infatti, tali idee verrebbero lette diffusamente e avrebbero il dovuto
effetto. L’attuale scarsità di notizie, inoltre, permetterebbe loro di trovare spazio su tutti i giornali,
portando così tale questione all’attenzione della coscienza di tutti i nostri concittadini.
Tuttavia l’ineguaglianza della rappresentanza nelle camere della nostra assemblea legislativa non è
l’unica eresia presente nel primo tentativo dei nostri compatrioti rivoluzionari di creare una
costituzione. Siamo d’accordo sul fatto che un governo sia repubblicano nella misura in cui ogni suo
cittadino ha pari possibilità di dirigere i suoi affari (certamente non di persona, cosa che sarebbe
impossibile fare oltre i limiti di una cittadina o di una piccola township), ma tramite rappresentanti
scelti da egli stesso, tenuti a rispondergli del loro operato a frequenti intervalli: a questo punto
possiamo saggiare i rami della nostra costituzione alla luce di questo criterio.
Per quanto riguarda il potere legislativo, la Camera dei Rappresentanti è eletta da meno della metà
della popolazione e per giunta in modo assolutamente non proporzionale rispetto agli elettori.
L’elezione del Senato è ancora più sproporzionata e gli eletti non sono tenuti a rispondere agli
elettori per un periodo ancora più lungo. Per quanto riguarda il ramo esecutivo, il governatore è
completamente indipendente dalla scelta del popolo e fuori dal suo controllo. Analoghe
considerazioni valgono per i suoi consiglieri, che nella migliore delle ipotesi sono utili come una
quinta ruota del carro.
Per quanto riguarda il potere giudiziario, i giudici delle corti superiori non dipendono che da se
stessi. In Inghilterra, i giudici venivano nominati e rimossi a piacimento da un esecutivo ereditario,
ossia dal potere dal quale si temevano gli abusi peggiori. Fu un grande passo avanti, da noi,
nominarli a vita, rendendoli indipendenti da quel medesimo potere. Ma in un governo fondato sulla
volontà pubblica, questo sistema agisce in direzione opposta e contraria ad essa. In Inghilterra,
inoltre, era ancora possibile rimuovere i giudici dal loro incarico grazie all’azione concorde del
Parlamento e dell’esecutivo. Noi, invece, li abbiamo resi indipendenti dalla nazione stessa. Essi
possono essere rimossi per disonestà solo dai loro colleghi; peraltro questi ultimi non hanno il potere
di destituirli neppure quando l’età avanzata ne indebolisce le facoltà intellettive. I giudici delle corti
inferiori si scelgono da sé, sono in carica a vita e perpetuano la successione del proprio gruppo, di
modo che se una fazione riesce ad impossessarsi del controllo del tribunale di una contea, non potrà
più esserne scalzata e terrà quella contea eternamente in catene. Eppure questi giudici sono il vero
potere esecutivo, oltre che giudiziario, in tutti i nostri affari quotidiani. Ci tassano secondo la loro
volontà; nominano gli sceriffi e i più importanti funzionari di contea; nominano praticamente tutti i
comandanti militari i quali, una volta assunto l’incarico, diventano inamovibili. Le giurie, che sono i
nostri giudici nell’accertamento dei fatti e, se lo vogliono, anche nei punti dell’interpretazione legale,
non sono scelte dal popolo, né sono responsabili nei suoi confronti. I giurati sono selezionati da un
ufficiale nominato dalla corte e dall’esecutivo. Ho detto selezionati? Meglio sarebbe dire prelevati a
casaccio dallo sceriffo tra quelli che ciondolano nel cortile del tribunale, dopo che ogni persona
rispettabile se ne è andata. Dove va cercato, allora, il nostro repubblicanesimo? Certamente non
nella nostra costituzione, ma solo nello spirito del popolo, che obbligherebbe anche un despota a
governarci come una repubblica. Grazie a questo spirito e non certo alla struttura della nostra
costituzione, tutto è andato bene. Ma questo fatto, sbandierato tanto trionfalmente quanto
erroneamente dai nemici delle riforme, non è il frutto della nostra costituzione, ma ha prevalso a
dispetto di essa. I nostri funzionari hanno agito bene, poiché sono, in generale, uomini onesti. Se
qualcuno non ho era, ha avuto paura di mostrarlo.
Ma, si dirà, è più facile trovare i difetti che porvi rimedio. Non credo che correggere le cose che non
vanno sia così difficile come si vuol far credere. È sufficiente che vengano riaffermati dei sani
principi e attenervisi inflessibilmente, senza farsi spaventare dai timori dei paurosi o dagli strali
lanciati dai potenti contro la marea montante del popolo. Se proprio ci si deve appellare alla storia,
si prenda quella dei quindici o venti governi che abbiamo avuto negli ultimi quarant’anni e mi si
dimostri se in quarant’anni il popolo è riuscito a fare anche solo la metà dei danni che un solo
despota ci avrebbe inflitto in un anno solo; o se abbiamo sofferto della metà dei disordini e delle
ribellioni, dei delitti e delle pene che si sono viste in una sola nazione e nello stesso periodo sotto un
governo monarchico. Il vero fondamento di un governo repubblicano è il pari diritto di ogni cittadino
al possesso e all’autogoverno della sua persona e della sua proprietà. Usate questo, come metro di
giudizio, per valutare le disposizioni della nostra costituzione, per verificare se essa discende
direttamente dalla volontà del popolo. Riducete la vostra legislatura ad un numero di componenti
sufficiente ad un discussione approfondita, ma ordinata. Fate in modo che ogni uomo che serva nella
milizia o paghi le tasse possa esercitare il suo giusto e uguale diritto alla loro elezione. Sottometteteli
a frequenti intervalli all’approvazione o alla bocciatura degli elettori. Che l’esecutivo sia scelto allo
stesso modo, e per un mandato di uguale durata, da coloro per conto dei quali deve agire e non
lasciategli il comodo paravento di un consiglio di Stato, dietro al quale sottrarsi alle proprie
responsabilità. Un tempo si riteneva che il popolo non fosse competente per l’elezione di giudici
eruditi nella legge: non so, però, se questo sia vero. Nel dubbio, si dovrebbe seguire il principio
generale. In questa, come in molte altre elezioni, la gente sarà guidata dalla reputazione, che
probabilmente non indurrà a commettere più errori dell’attuale sistema di nomina. In almeno uno
degli Stati dell’Unione da tempo è in vigore il sistema di eleggere i giudici, con risultati più
soddisfacenti: da quasi due secoli i giudici del Connecticut sono stati scelti dal popolo ogni sei mesi
e credo che non ci sia mai stato un caso di rimozione, tanto è forte il freno di una continua
responsabilità verso gli elettori. Se, tuttavia, il pregiudizio derivante da un passato monarchico deve
prevalere ancora sul vitale principio elettivo che ci è proprio e se gli esempi esistenti tra noi di
elezione dei giudici suscitano ancora diffidenza, in tal caso facciamo in modo che non si adotti il
peggio, tralasciando il meglio, del precedente inglese: che il potere esecutivo e il legislativo
possano, di comune accordo, attuarne la rimozione dalla carica e che la nomina tocchi al solo
esecutivo. Destinare gli incarichi è una funzione dell’esecutivo: incaricarne la legislatura, come noi
facciamo, significa violare il principio della separazione dei poteri. Ne corrompe i membri,
spingendoli all’intrigo allo scopo di ottenerli per sé, nonché ad un immorale baratto di voti. Inoltre,
annienta il concetto di responsabilità, stemperandola tra un gran numero di persone. Lasciando il
potere di nomina là dove deve stare, tra le funzioni dell’esecutivo, il principio della distribuzione dei
poteri viene preservato e la responsabilità grava con tutto il suo peso su una sola persona.
L’organizzazione amministrativa delle nostre contee può apparire più ardua, ma è sufficiente seguire
lo stesso principio, ed il nodo si scioglie da sé. Si dividano le contee in ward [distretti] di
dimensioni tali da permettere ad ogni cittadino di partecipare, quando viene il momento, e di agire di
persona. Si assegni ai cittadini il governo di questi ward in ogni cosa che li riguardi direttamente: la
scelta, in ciascuno di essi, di un giudice di pace, una guardia, una compagnia della milizia e una
ronda, la gestione di una scuola, dell’assistenza ai poveri e della loro parte delle strade pubbliche, la
scelta di uno o più giurati per il tribunale e infine la possibilità di votare nei propri ward per tutti gli
incarichi elettivi del livello superiore. Tutto questo solleverà l’amministrazione di contea da quasi
tutti i suoi compiti, li farà eseguire meglio e, facendo di ogni cittadino un membro attivo del governo
del suo paese, facendogli sentire la responsabilità degli uffici che gli sono più vicini e che più lo
interessano, farà sì ch’egli si senta legato nel modo più profondo all’indipendenza del suo paese ed
alla sua costituzione repubblicana.
I giudici di pace così scelti in ogni ward costituirebbero il tribunale di contea, ne svolgerebbero i
compiti giudiziari, dirigerebbero la costruzione di ponti e strade, stabilirebbero le imposte di contea
e le tasse per l’assistenza ai poveri e amministrerebbero tutte le questioni d’interesse comune per
tutto il paese. Nella Nuova Inghilterra, questi ward, colà detti township, sono la spina dorsale del
governo e si sono dimostrati la più saggia invenzione concepita dall’uomo per il perfetto esercizio e
il mantenimento dell’autogoverno. Dovremmo quindi strutturare il nostro governo come segue: 1. La
repubblica federale, per tutte le questioni estere e tra gli Stati; 2. lo Stato, per tutte ciò che riguarda
esclusivamente i nostri cittadini; 3. le repubbliche di contea, per i compiti e le questioni di contea; 4.
le repubbliche di ward, per le necessità, piccole ma numerose e appassionanti, della loro regione.
Nel governo, come in ogni altra cosa della vita, è soltanto con la divisione e la suddivisione dei
compiti che tutte le questioni, grandi e piccole, possono essere affrontate nel migliore dei modi. Il
tutto è cementato dal fatto di dare ad ogni cittadino, individualmente, una parte nell’amministrazione
degli affari pubblici.
Gli emendamenti sono, quindi: 1. suffragio universale; 2. rappresentanza equa nell’assemblea; 3. un
esecutivo eletto dal popolo; 4. giudici elettivi e rimovibili; 5. giudici di pace, giurati e sceriffi
elettivi; 6. divisione in ward; 7. periodici emendamenti alla costituzione.
Si tratta solo di un abbozzo degli emendamenti che ritengo necessari, da considerare e correggere: il
loro scopo è garantire l’autogoverno tramite il repubblicanesimo della nostra costituzione, nonché
attraverso lo spirito della nostra gente, e di tenere vivo e perpetuare quest’ultimo. Non sono tra
coloro che hanno paura del popolo. Il popolo, e non i suoi membri più ricchi, è la nostra garanzia per
restare liberi. E per preservarne l’indipendenza, non dobbiamo permettere che i nostri governanti ci
opprimano con un debito perpetuo. Dobbiamo scegliere tra parsimonia e libertà da una parte e
sperpero e servitù dall’altra. Se ci indebiteremo al punto da dover tassare il cibo e le bevande, i
beni di prima necessità e le comodità, il lavoro e i divertimenti, le nostre vocazioni e la nostra fede,
finiremo come il popolo inglese: la nostra gente, come la loro, dovrà lavorare sedici ore su
ventiquattro e cedere al governo i guadagni di quindici di esse, per finanziare i debiti e le spese
correnti. Siccome i proventi dell’ora restante non basterebbero a pagarci il pane, dovremmo vivere,
come fanno loro, di farina d’avena e patate. Tutto questo senza avere tempo per pensare, senza alcun
mezzo per chiamare a rispondere i cattivi amministratori, lieti solo di guadagnare quanto basta per
sopravvivere, prestandoci volentieri a serrare le catene al collo dei nostri compagni di sofferenza in
cambio di un tozzo di pane.
Anche i nostri coltivatori diventerebbero come quelli in Inghilterra, dove il titolo di proprietà e la
conduzione dei loro fondi rimarrebbero apparentemente personali, mentre in realtà la terra verrebbe
tenuta per conto del Tesoro e i singoli dovrebbero, come accade lì, vagare in terre straniere e
accontentarsi di miseria, oscurità, esilio e della maggior gloria della nazione. Questo esempio ci
illustra la salutare lezione di come le fortune private vengano distrutte tanto dall’insipienza pubblica
che da quella privata. E questa è la tendenza di ogni governo umano. Abbandonare il principio una
volta significa creare il precedente per una seconda occasione, che a sua volta condurrà ad una terza
e così via, finché la massa della società verrà ridotta ad un insieme di automi mossi dalla miseria,
insensibili a tutto tranne che al peccato e alla sofferenza. Questo segna veramente l’inizio di quel
bellum omnium in omnia, che alcuni filosofi hanno visto così diffusa nel mondo da crederla la
condizione naturale dell’uomo, anziché un’ingiustizia imposta ai suoi danni. E l’anticamera di questa
situazione è il debito pubblico; da quello segue la tassazione poi la miseria e l’oppressione.
Alcuni guardano alle costituzioni con sacra reverenza e le considerano come l’Arca dell’alleanza,
troppo sacra per essere toccata. Attribuiscono agli uomini delle epoche passate una saggezza più che
umana e ritengono che ciò che essi fecero non possa essere migliorato. Ho conosciuto bene quei
tempi: in essi ho vissuto e agito. Meritano di essere ricordati con gratitudine da parte del nostro
paese. Erano assai simili al presente, ma non avevano l’esperienza di oggi: e quarant’anni di
esperienza di governo ne valgono cento passati a leggere libri: lo riconoscerebbero anche gli uomini
di quell’epoca, se tornassero in vita. Non sono certamente un fautore di frequenti innovazioni nelle
leggi e nelle costituzioni. Penso che sia preferibile sopportarne le imperfezioni più leggere: una volta
riconosciutele, infatti, ci adattiamo ad esse e troviamo dei sistemi pratici per correggerne gli effetti
negativi. So anche, però, che leggi ed istituzioni devono andare di pari passo con i progressi
compiuti dalla mente umana. Quest’ultima cresce e diviene più illuminata, vengono fatte nuove
scoperte, nuove verità vengono alla luce, costumi e opinioni mutano con il mutare delle situazioni:
anche le istituzioni devono avanzare, tenersi al passo con i tempi. Possiamo chiedere alle società
civilizzate di rimanere ferme ai tempi dei propri antenati barbari, allo stesso modo in cui possiamo
chiedere ad un uomo di indossare ancora l’abito che gli andava bene quand’era un ragazzo. È
quest’idea assurda, che recentemente ha sommerso l’Europa in un bagno di sangue. I suoi monarchi,
infatti, anziché riconoscere saggiamente il cambiamento delle circostanze, lasciando gradualmente
spazio ad un miglioramento progressivo, si sono abbarbicati ai vecchi abusi, trincerandosi dietro
rigide usanze. In questo modo hanno costretto i propri sudditi a cercare, con il sangue e la violenza,
delle avventate e rovinose innovazioni, che, se fossero state lasciate alle pacifiche deliberazioni e
alla saggezza della nazione nel suo complesso, sarebbero state poste in una forma accettabile e
positiva. Non seguiamo simili esempi, cedendo per debolezza all’idea che una generazione non abbia
le stesse capacità di un’altra di prendersi cura di sé e di sistemare i propri affari. Serviamoci della
nostra ragione e della nostra esperienza, come hanno fatto i nostri Stati fratelli, per correggere la
grezza opera delle nostre prime assemblee che, sebbene sagge, virtuose e bene intenzionate, erano
prive d’esperienza. E infine, facciamo in modo che la nostra costituzione possa essere rinnovata a
determinate scadenze. È la natura stessa ad indicarci quando ciò è necessario. Secondo quanto
dicono i dati sulla mortalità in Europa, degli adulti viventi in un dato momento, la maggior parte sarà
morta entro diciannove anni. Alla fine di questo periodo, quindi, il suo posto sarà stato preso da una
nuova maggioranza o, in altri termini, da una nuova generazione. Ciascuna generazione ha la stessa
indipendenza di quella che l’ha preceduta, così come questa era indipendente rispetto a quelle venute
prima di lei. Ciascuna ha quindi il diritto di scegliere il tipo di governo che più ritiene adatto a
promuovere la propria felicità e, di conseguenza, di cambiare ha situazione in cui si trova, che è
quella ereditata dai suoi predecessori. È dunque per la pace ed il bene dell’umanità che la
costituzione dovrebbe stabilire la solenne opportunità di eseguire un rinnovamento ogni diciannove o
vent’anni, affinché essa possa essere trasmessa, con periodici aggiustamenti, di generazione in
generazione fino alla fine dei tempi, ammesso che qualcosa di umano possa durare così a lungo.
Sono passati quarant’anni, da quando è stata creata la costituzione della Virginia. Le cifre ci dicono
che, in questo periodo, due terzi degli adulti allora viventi sono morti. Avrebbe, il terzo che resta, il
diritto, ammesso che lo voglia, di sottomettere alla propria volontà e alle leggi che ha create fino ad
oggi i due terzi dei viventi, i quali, da soli, compongono la gran parte degli adulti? E se i superstiti
non lo hanno, chi lo possiede? I morti? Ma i morti non hanno diritti. Essi sono nulla e il nulla non può
possedere qualcosa. Dove non c’è sostanza, nulla può accadere. Il globo terrestre, e tutto quanto vi si
trova, appartiene agli attuali abitanti fisicamente presenti su di esso, per la durata della loro
generazione. Essi soltanto hanno il diritto di ordinare ciò che riguarda soltanto loro e di creare la
legge che porti in quella direzione: e tale creazione deve essere opera della loro maggioranza. È
questa maggioranza, dunque, che ha il diritto di inviare i propri rappresentanti ad un’assemblea
costituente e di dar vita alla costituzione che ritiene migliore. Ma come far sentire la loro voce?
Questa è la vera difficoltà. Se convocati privatamente, o a assemblee di contea o di distretto, queste
circoscrizioni sono così ampie che ben pochi si presenteranno: la voce dei cittadini giungerà così in
modo imperfetto, o falsato. Qui, pertanto, si paleserebbe uno dei vantaggi della suddivisione in ward
che ho proposto. Nel caso di questioni come questa, il presidente di ciascuno di essi convocherebbe
il suo ward, farebbe il conteggio dei sì e dei no, inviando il risultato alla corte di contea che, a sua
volta, passerebbe i risultati di tutti i suoi ward alla competente autorità superiore. In tal modo
verrebbero espresse e discusse onestamente, in modo approfondito e pacifico le opinioni dell’intera
popolazione e la società giungerebbe ad una decisione usando la ragione. Se si precluderà al popolo
la via del consenso, esso si farà sentire usando la forza e finiremmo, come accade in altre nazioni,
con l’eterno succedersi di oppressione, ribellione, riforma; e poi ancora oppressione, ribellione,
riforma, e così via per sempre.
Queste, signore, sono le mie opinioni sui governi che vediamo davanti a noi, e sugli unici principi
che possono permetterci di non andare incontro allo stesso spaventoso destino. Mi sono dilungato su
di esse molto di più di quanto richiedesse la vostra lettera, ma non sono capace di dire le cose a
metà. Le affido al vostro onore, perché ve ne serviate in modo tale da risparmiarmi la tortura a cui mi
sottoporrebbero i giornali. Se le approverete e le propugnerete, come avete fatto con il principio di
un’equa rappresentanza, allora saranno di qualche utilità. In caso contrario, tenetele per voi e
consideratele uno sproloquio dovuto all’età avanzata e una perdita di tempo. Vogliate accettare le mie
non meno sincere assicurazioni di grande rispetto e considerazione.
Il testamento politico

Tutti gli occhi si sono aperti, o si stanno aprendo, ai diritti dell’uomo

Il significato generale o anche solo americano del 4 di luglio era stato oggetto di controversia fra
gli stessi Padri Fondatori. Nel 1826, durante le celebrazioni per il cinquantenario della
Dichiarazione, John Adams e Thomas Jefferson, i più illustri Padri Fondatori ancora in vita,
furono invitati dal Comitato promotore delle manifestazioni a pronunciare un breve discorso per
la ricorrenza. Le precarie condizioni di salute non consentirono a nessuno dei due di partecipare
(e infatti sarebbero spirati entrambi proprio quel 4 di luglio), ma l’organizzatore dell’evento, il
sindaco della città di Washington, Roger Weightman, insistette per aver comunque da loro qualche
pensiero sul significato di quella ricorrenza per gli americani. Adams scrisse una sola frase:
“indipendenza per sempre!”, “dobbiamo aggiungere qualcosa?” gli chiesero i componenti del
comitato un po’ perplessi, “non una parola”, rispose Adams.
Al contrario, Jefferson esaudì i desideri di Weightman scrivendo le ultime righe della sua
lunghissima stagione epistolare: una lettera nella quale è racchiuso, insieme al suo giudizio sulla
Rivoluzione, il suo testamento politico. Egli ribadisce la sua filosofia costituzionale e
generazionale, che si sostanzia nell’affermazione, centrale in tutto il suo pensiero, dell’assoluta
libertà di ogni generazione di prendere le proprie decisioni sulla politica e sul governo. Ma
ritiene anche che la decisione presa dalla sua generazione abbia rappresentato un faro di libertà
anche per il resto del pianeta. I diritti naturali proclamati dalla Dichiarazione schiuderanno un
mondo nel quale la coercizione diventerà l’eccezione e non la regola dei rapporti politici.
Jefferson è spirato con questa certezza nel cuore, ma la storia avrebbe percorso ben altre strade
nei cento e ottant’anni che ci separano dalla sua morte. I governi, lungi dal riconoscere e tutelare
i diritti dell’uomo, si sono rivelati i massimi violatori della vita, della libertà e della proprietà dei
loro stessi cittadini. Con tutto il ben giustificato orrore che proviamo per le guerre fra gli Stati,
non possiamo dimenticare che il numero maggiore di vittime nel corso del Novecento lo hanno
fatto i governi nei confronti dei loro stessi cittadini. È profonda convinzione di chi scrive che
Jefferson avesse comunque ragione nella sostanza, solo che gli occhi delle classi dirigenti non si
stavano dischiudendo, ma chiudendo di fronte ai diritti naturali. L’abbandono – europeo come
americano – della dottrina del diritto naturale come bussola nella costruzione di ordinamenti
politici giusti ha schiuso la via ad ogni totalitarismo, il cui comun denominatore è l’idea che i
governanti abbiano diritto di disporre a piacimento delle vite e delle proprietà dei loro cittadini.

24 giugno 1826, lettera a Roger C. Weightman


Stimato Signore,
Il gentile invito, che ricevo per vostro tramite, da parte dei cittadini di Washington a presenziare alla
celebrazione del cinquantesimo anniversario dell’indipendenza americana in qualità di uno dei
firmatari ancora viventi di quest’atto fondamentale per noi e per il destino del mondo, è
estremamente lusinghiero e mi giunge ancora più grato per le ottime disposizioni proposte per
rendere ancora più confortevole questo viaggio. Le sofferenze dovute alla malattia mi sono quindi
rese ancora più penose dall’impossibilità di presenziare personalmente ai festeggiamenti. Ma quando
non possiamo più controllare le nostre condizioni, è giocoforza piegarsi al fato.
Avrei incontrato con grande piacere e scambiato un saluto con quel piccolo gruppo di sopravvissuti
di quella schiera di valorosi che si unirono a noi quel giorno nella scelta coraggiosa e azzardata tra
la sottomissione e la spada. Avrei gioito con loro del consolante fatto che i nostri concittadini, dopo
mezzo secolo di esperienza e prosperità, continuino ad approvare la scelta fatta allora. Possa ciò
rappresentare per il mondo (in qualche luogo prima, in qualche altro dopo, ma alla fine – ne sono
convinto – ovunque) il simbolo di chi si solleva per rompere le catene alle quali l’ignoranza e la
superstizione li hanno convinti ad ammanettarsi, in modo da godere dei benefici e della sicurezza
dell’autogoverno.
Ciò che noi abbiamo istituito restituisce il diritto all’illimitato esercizio della ragione e alla libertà
d’opinione. Tutti gli occhi si sono aperti, o si stanno aprendo, ai diritti dell’uomo. La generale
diffusione della luce del sapere ha messo di fronte a tutti la palpabile verità che la gran parte
dell’umanità non è nata con una sella sulla schiena, mentre pochi privilegiati sono nati con stivali e
speroni, certi di poter legittimamente cavalcare tutti gli altri per grazia di Dio. Ciò è motivo di
speranza per gli altri popoli. Per quanto ci riguarda, che l’annuale anniversario di questo giorno
ravvivi sempre in noi il ricordo di quei diritti e una immutata devozione per essi.
Mi sia concesso di dire, a questo punto, con quanto piacere avrei incontrato i miei vicini di un tempo,
della città di Washington e dei suoi dintorni, con i quali ho intrattenuto per così tanti anni piacevoli
rapporti, rapporti che hanno a tal punto alleviato le preoccupazioni degli impegni pubblici e hanno
lasciato in me impressioni così profonde, da non poter più essere dimenticati. Addolorato che la mia
cattiva salute mi neghi il piacere di poter accogliere il vostro invito, vi prego di accettare, per voi e
per coloro di cui siete tramite, la garanzia del mio più profondo rispetto e della più viva amicizia.
Date

1743: Il 21 febbraio, a Londra, viene eseguito per la prima volta l’oratorio Sansone di Georg
Friedrich Händel.

1749: Il 28 agosto nasce il drammaturgo, poeta e saggista tedesco Johann Wolfgang von Goethe.

1753: Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi.

1759: Sconfitta il 13 settembre dagli inglesi nella battaglia della piana di Abraham, la Francia perde
il controllo sulla Nouvelle France (l’odierno Québec).

1762: Il 5 gennaio, a San Pietroburgo, muore la zarina Elisabetta di Russia.

1779: Thomas Jefferson viene eletto governatore della Virginia.

1787: Il 28 ottobre, al Teatro degli Stati di Praga, fa il suo debutto il Don Giovanni di Wolfgang
Amadeus Mozart, composto sul libretto di Lorenzo Da Ponte.

1789: Entra in vigore la Costituzione federale americana, redatta a Filadelfia.

1790: Edmund Burke scrive le Riflessioni sulle Rivoluzione francese.

1791: Il rivoluzionario inglese Thomas Paine pubblica I diritti dell’uomo, in larga misura in risposta
alle tesi di Burke.

1793: Il 21 gennaio, a Parigi, il re Luigi XVI viene ghigliottinato sulla pubblica piazza.

1795: Immanuel Kant scrive Per la pace perpetua.

1799: Napoleone Bonaparte, Joseph Fouché e Emmanuel Joseph Sieyès realizzano il colpo di Stato
del “18 brumaio” e danno inizio al Consolato.

1807: La Gran Bretagna abolisce la tratta degli schiavi.

1809: Nasce William Ewart Gladstone, che per ben quattro volte diverrà primo ministro inglese.

1814: Benjamin Constant scrive le Riflessione sulle costituzioni e sulle garanzie .

1815: L’economista inglese David Ricardo pubblica il Saggio sui profitti.


1817: Al Teatro Valle di Roma il 25 gennaio 1817 si ha il debutto dell’opera La Cenerentola, ossia
La bontà in trionfo di Gioacchino Rossini.

1826: Il 4 luglio (nello stesso giorno della morte di Jefferson) scompare John Adams, presidente
americano dal 1797 al 1801.
Vita e opere

Nato a Shadwell in Virginia nel 1743, Thomas Jefferson può essere considerato il massimo
esponente dell’Illuminismo americano e, al tempo stesso, il più eminente dei Founding Fathers.
Figlio di Peter, un ricco proprietario terriero, e di Jane Randolph, discendente di una delle più
influenti famiglie virginiane dell’epoca, all’età di trent’anni si trova nel cuore della Rivoluzione,
sposando la lotta delle colonie per l’indipendenza dalla Madrepatria come politico e come teorico.
Quale studioso, nel corso della sua esistenza egli affida le proprie idee non tanto a libri, articoli o
trattati, ma a uno sterminato numero di lettere: spedite a corrispondenti privati e però pensate fin
dall’inizio come “atti pubblici” e sollecitazioni alla riflessione.
Considerato l’autore principale della Dichiarazione d’Indipendenza (egli aveva avuto l’incarico di
predisporre una bozza che subirà solo poche minime correzioni), nel corso della sua vita Jefferson
ricopre molti incarichi di grande rilievo.
Nel 1779, a soli 36 anni, viene eletto governatore della Virginia. Egli governò questo stato, che era
uno dei più popolati e importanti dell’America coloniale, in anni caratterizzati dal conflitto con
Londra. Alla fine del conflitto, dopo fatto parte del congresso della Confederazione fu chiamato a
sostituire Benjamin Franklin quale ambasciatore in Francia. In questi anni, appena precedenti alla
Rivoluzione francese, Jefferson intrattiene una relazione anche con una schiava, Sally, da cui avrà
alcuni figli.
Poco dopo lo scoppio della Rivoluzione, nel settembre 1789 torna in America e il presidente George
Washington gli chiede di accettare il ruolo di Segretario di Stato. Inizia un periodo di forti scontri
con Alexander Hamilton, che è segretario del Tesoro ed è associato da Jefferson a posizioni
interventiste e conservatrici, che di fatto ripropongono – anche nel contesto nuovo – logiche proprie
del vecchio assolutismo inglese (egli parlerà di “Royalism”).
L’opposizione alle tesi hamiltoniane porta Jefferson a guidare il campo avverso a quello dei
federalisti. Nel 1796 egli è allora candidato dai democratici-repubblicani e, anche se è sconfitto da
John Adams, viene eletto vice-presidente. Nella sua opposizione alla politica di Adams, Jefferson
delinea una prospettiva politica sempre più nettamente schierata – al tempo stesso – a difesa dei
diritti individuali e delle libertà degli stati federati. Alleato di James Madison, in questi anni con le
sue Kentucky Resolutions dà un contributo fondamentale alla teoria dei “diritti degli stati”, secondo
la quale il governo federale ha unicamente il diritto di esercitare i poteri che gli stati associati hanno
espressamente delegato. Nel 1801 diventa presidente e verrà confermato in tale posizione anche al
termine del primo mandato. Si tratta di un periodo assai turbolento, che in Europa è caratterizzato dal
predominio della Francia napoleonica e durante il quale gli Stati Uniti procedono pure all’acquisto
della Louisiana.
Nella parte conclusiva dell’esistenza si ritira dalla vita politica, impegnandosi pure
nell’organizzazione dell’università della Virginia: un progetto in cui egli vede il compimento delle
battaglie a difesa della libertà di pensiero.
Muore nel 1826 a Monticello, ma anche a quasi due secoli dalla morte egli resta il personaggio
statunitense più studiato: un uomo sempre al centro di accese controversie (spesso legate a specifici
aspetti della sua esistenza) e una delle icone più rappresentative della mitologia americana.
Bibliografia

Thomas Jefferson, Contro lo stato nazionale. Federalismo e democrazia in Thomas Jefferson, a


cura di Luigi Marco Bassani, Bologna, Il Fenicottero, 1995 (questa edizione include la
“Dichiarazione d’Indipendenza” e un’antologia delle lettere).

Thomas Jefferson, Viaggio nel Sud della Francia e nel Nord dell’Italia, a cura di Marco Sioli,
Como, Ibis, 1997.

Thomas Jefferson, I dilemmi della democrazia americana, a cura di Alberto Giordano, prefazione di
Dino Cofrancesco, Novi Ligure, Città del silenzio, 2007.

In lingua inglese

Thomas Jefferson, Works (questo sito della University of Virginia permette di accedere alle opere on-
line di Jefferson e a una grande quantità di altro materiale che lo riguarda).

Su Thomas Jefferson

Ernest M. Halliday, Understanding Thomas Jefferson, New York, Harper Collins, 2001.

Luigi M. Bassani, Il pensiero politico di Thomas Jefferson, Milano, Giuffrè, 2002.

Dumas Malone, Jefferson and His Time, sei volumi, Charlottesville, University of Virginia Press,
2005 (1948-1981).
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Table of Contents
exlibris
Sull’autore
La Dichiarazione d’indipendenza (4 luglio 1776)
Il conflitto con Alexander Hamilton
Le Risoluzioni del Kentucky (1798)
La diffusione e divisione del potere
Il testamento politico
Date
Vita e opere
Bibliografia

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