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Artigiani e artisti: l'officina Italia

di Enrica Pagella - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)
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Artigiani e artisti: l’officina Italia

Una storia ancora da scrivere

Nel 1608 Francis Bacon affidava al suo diario il programma di una


storia dei mestieri:

I punti o cose da indagare sono: primo i materiali e le loro quantità e


proporzioni, successivamente gli strumenti e le macchine, indi l’uso
e la messa in opera di ciascuno strumento, poi il lavoro in sé e tutti i
processi inerenti e i tempi e le stagioni per eseguire ogni sua parte.
Indi gli errori che si possono commettere e ancora quelle cose che
possono portare a eseguire il lavoro più perfettamente. Poi tutte le
osservazioni, assiomi e direttive. Infine tutte le cose collaterali,
incidentali o intervenenti (cit. in Houghton 1971, p. 366).

L’idea non ebbe sviluppo e a raccoglierne lo spirito furono, un


secolo e mezzo dopo, gli enciclopedisti francesi capeggiati da Denis
Diderot, che dedicò alla stesura dell’Encyclopédietrent’anni della
sua vita.
Sarebbe interessante sapere se tra le fonti che Bacon intendeva
utilizzare per la storia che aveva immaginato ci fosse anche un
bizzarro prodotto della ‘riscrittura enciclopedica’ italiana, la Piazza
universale di tutte le professioni del mondo, dato alle stampe dal
canonico lateranense Tomaso Garzoni (1549-1589) nel 1585. Il
trattato, che ebbe un riguardevole successo editoriale, con 25
ristampe entro il 1675, un adattamento spagnolo e traduzioni in
tedesco e in latino, esaminava in 155 capitoli l’insieme delle attività
e dei mestieri, idealmente raccolti intorno alla ‘piazza’, intesa come
metafora di interconnessione e di scambio di tutte le occupazioni
volte a garantire lo sviluppo della società. La curiosità indomita
dell’autore e la sua capacità di descrizione degli oggetti e dei
processi dei vari mestieri – dai vasai agli orafi, dai tessitori ai
gioiellieri, ai tintori, vetrai, miniatori, sigillari, mascherari,
fabbricanti di bottoni, maniscalchi, armaiuoli, pittori, maestri di
corame e molti altri ancora – fanno dell’opera un suggestivo
contraltare delle prime raccolte d’arte e di meraviglie e, per un altro
aspetto, una sorta di summa dell’immensa officina prodotta dalle
città italiane nei due secoli precedenti. Nel tentativo di dare
rappresentazione compiuta a tutto lo scibile umano, Garzoni
considera come elemento nevralgico il rapporto tra il sapere e il
fare, tra la professione e il mestiere:

Fra tutti i decori, et ornamenti, che mirabilmente aggrandiscono


questo elevato microcosmo dell’huomo […] può senza dubbio
riputarsi il primo, e principale il glorioso possesso delle scienze e
dell’arti, sì come dagli idioti avvilito, e negletto, così da’ saggi
tenuto per vero habito dell’animo heroico, in se stesso
splendidissimo, e singolare (La piazza universale…, a cura di G.B.
Bronzini, 1996, p. XIX).
Pur all’interno di una struttura cumulativa che rischia a ogni passo
di sprofondare nel caos, il lessico di Garzoni è una miniera
inesauribile di termini tecnici ormai obsoleti e di risonanze rese
inafferrabili dalla semplificazione dei processi tecnologici moderni.
Consideriamo il titolo del capitolo 46, che concerne le lavorazioni
dei metalli: Fabbri, calderari, cortellari, spadari, armaiuoli,
chiavari, forbicciari, arruotatori, stagnarini, peltrari, lanternari,
lucernari, manticciari, agucchiaioli, conzalavezi, morsari,
rigattinieri, strengari, ferrari, marescalchi; oppure quello del
capitolo 52, dedicato alle tessiture semplici: De’ linaruoli, e
campanari, cordari, tessari o telaruoli, pettinari, bombagiari,
velettari, e manganari. Una sfida ancora interessante per lo storico
che intenda riesumare il patrimonio del sapere artigianale
accumulato a partire dal tardo Medioevo, da quando una nuova
classe di fabbricanti, di artisti e di commercianti fu impegnata a
contendersi fasce di mercato fino a quel momento impensabili
mediante l’impiego di nuove materie e di nuove tecnologie.

La svalutazione dei processi materiali, il trionfo delle arti belle su


quelle utili è un argomento su cui sono stati versati fiumi di
inchiostro, ma è difficile dire con quali effetti pratici in termini di
armonia sociale. Documenti come la preghiera con cui Francesco
del Cossa, nel 1470, si rivolgeva a Borso d’Este, duca di Ferrara,
per ottenere un più giusto pagamento per gli affreschi di Palazzo
Schifanoia, uno dei grandi capolavori della pittura del Quattrocento
italiano, sostenendo che tanto studio e tanta eccellenza tecnica non
potevano essere misurati con un costo al metro quadro, rischiano di
suonare, ancora oggi, stranamente attuali. Segno questo che anche
gli sforzi compiuti in quella particolare fase della storia europea, che
va all’incirca dall’Encyclopédie alla Esposizione universale di
Londra del 1851, con l’intenso lavoro teorico e pratico che ha
accompagnato la formazione delle scuole e dei musei di arte
industriale, sono rimasti, almeno in gran parte, nel campo
dell’utopia.

Fino a tempi molto recenti le discipline storico-artistiche hanno


scoraggiato l’indagine nel campo delle arti decorative e della
trattatistica tecnica, e raramente la storia dell’industria ha tenuto
conto delle competenze radicate nei territori. Se in certi casi, come
quello del vetro veneziano, la moderna manifattura di prodotti di
lusso manifesta immediatamente i suoi legami con il passato, in altri
la vicenda storica presenta elementi più sfaccettati e non
immediatamente tangibili. Non sappiamo in che misura grandi
distretti della produzione automobilistica come Torino e Modena
debbano il loro sviluppo all’antica presenza di arsenali militari bene
organizzati, che si fondavano su scuole specializzate e sulla
disponibilità diffusa di manodopera dedita alla fusione e allo sbalzo
del metallo. Ma una storia di questo genere richiederebbe una
maggiore permeabilità di confini tra i vari campi del sapere, una
visione multidisciplinare che sapesse aprire ed estendere il terreno
dello studio umanistico agli interrogativi del presente.

Il Rinascimento tra arte e artigianato: una nuova


rappresentazione del mondo

Nella vita di Giotto, Vasari inserisce una storia già tramandata da


Giovanni Boccaccio e da Franco Sacchetti, in cui si narra di un
cavaliere di oscura nobiltà che si presenta al pittore con la richiesta
di avere rapidamente dipinte, sul proprio scudo, le armi della sua
casata. Giocando sull’ambiguità della parola armi, che il
committente intendeva evidentemente nel senso dell’emblema di
famiglia, e volendo dare una lezione all’arrogante pretesa del
cliente, Giotto rappresenta sullo scudo, anziché l’ignoto stemma,
«una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti
in ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una
spada, un coltello e una lancia», precipitando il malcapitato in uno
stato di rabbiosa confusione. L’aneddoto mira a illustrare l’arguzia
insidiosa dell’artista e anche a esaltarne lo status sociale, che gli
consente di prendersi gioco delle sciocche ambizioni di un
aristocratico «di picciol affare» (Le opere di Giorgio Vasari con
nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, 1° vol., 1981,
p. 406).

Nondimeno, il racconto documenta un aspetto della produzione


artistica proprio dei maestri del Medioevo e del Rinascimento,
spesso impegnati anche nella progettazione e nella realizzazione di
oggetti d’uso, di decorazioni effimere e di scenografie di parata
destinate a banchetti, feste, tornei, celebrazioni sacre e profane.
Questo richiedeva molto spesso pluralità di competenze, versatilità
nel progettare opere differenti per tecnica e materia, attitudine allo
studio e alla selezione di modelli per imprese molteplici. Cosmè
Tura (1430 ca.-1495) è ricordato nel 1451 e nel 1452 come
decoratore di emblemi per Borso d’Este e, parallelamente, si
dedicava anche alla manifattura di piccoli cofanetti insieme allo
specialista della decorazione in pastiglia Carlo da Molione e al
miniatore Giorgio d’Alemagna. Nel 1456 produsse un gonfalone
con il Cristo morto e restano celebri i suoi progetti per gli arazzi
tessuti a Ferrara da Rubino di Francia. La manifattura di arazzi
rimase per tutto il Quattrocento patrimonio pressoché esclusivo di
maestri nordici immigrati, ma esistono somme eccezioni come i
grandi pannelli dei Mesi tessuti tra il 1480 e il 1530 a Vigevano, per
Gian Giacomo Trivulzio, nell’atelier di Benedetto da Milano su
cartoni del Bramantino.
Nella Firenze del Quattrocento la polivalenza degli artisti era
garantita anche dai percorsi formativi. Filippo Brunelleschi, Antonio
Pollaiolo e Sandro Botticelli nascono all’interno di botteghe orafe e
si trovano poi spesso impegnati a fornire schemi e disegni anche per
i concittadini ricamatori, che proseguono, ampliandola, la gloriosa
tradizione gotica dell’opus florentinum. Agli inizi del Cinquecento
Andrea del Sarto e Francesco Giudici, detto il Franciabigio,
lavorano alle decorazioni che accompagnano la processione di san
Giovanni e nel 1515 molte botteghe di pittori e di scultori sono
coinvolte negli apparati effimeri progettati per l’ingresso in città di
Leone X: Andrea del Sarto e Jacopo Sansovino danno forma a un
rivestimento all’antica per la facciata del duomo; Baccio Bandinelli
crea una libera riproduzione della colonna traiana; Francesco
Granacci, Perin del Vaga, Rosso Fiorentino e il Pontormo si
occupano invece degli archi trionfali.

La sperimentazione non significa soltanto permeabilità dei confini


tra le pratiche più elevate dell’arte e quelle dell’artigianato.
L’attitudine speculativa, l’orientamento alla verifica delle verità
tramandate dalle tradizioni degli antichi portano la ricerca artistica a
diretto contatto con le scienze propriamente dette. Attraverso
l’esercizio della matematica, della geometria e dell’ottica gli artisti
del Rinascimento inseguono l’ideale di una rappresentazione sempre
più fedele del mondo sensibile, abbattendo convenzioni e pregiudizi
consolidati da secoli. La prospettiva centrale teorizzata da
Brunelleschi e da Leon Battista Alberti, e a cui dedicò una
trattazione specifica Piero della Francesca nel De prospectiva
pingendi, proponeva un metodo razionale di guardare e di
rappresentare il mondo e portava con sé l’idea di una nuova
centralità dell’uomo e delle leggi di natura. Un’idea condivisa
all’interno di circoli intellettuali che includevano a pieno titolo
anche artisti oggi considerati minori. Nella premessa al De divina
proportione (1509) il matematico Luca Pacioli (1446/1448-1517) si
impegnava a fornire «piena notizia di prospettiva», in omaggio a
Piero e a Lorenzo Canozi di Lendinara, richiamato in qualità di
«caro quanto fratello» e come colui «che in dicta facultà fu a li
tempi suoi supremo». Lorenzo va ricordato tra i più geniali
interpreti della tarsia rinascimentale, specialità che sta ai vertici
della sperimentazione prospettica e che offre uno dei repertori più
suggestivi per saggiare le competenze meccaniche implicite nella
cultura degli artigiani del tempo. L’immagine di uno svegliatoio,
mirabilmente restituita da Giuliano da Maiano nello Studiolo di
Federico da Montefeltro a Urbino (1473-76), e le numerose prove
a trompe-l’œil fissate nei cori lignei di strumenti musicali, di
orologi, di sfere armillari, di astrolabi, oltre che di ponti, di fontane,
di carpenterie, presuppongono un occhio capace di cogliere la natura
più profonda degli oggetti e di stupirsi davanti allo spettacolo delle
loro qualità costruttive.

Anche nella rappresentazione del corpo umano il concetto di


proporzione assoluta tramandato dagli antichi fu messo in
discussione e definitivamente scalzato. Dopo una serie di lunghe e
pazienti misurazioni sulle parti del corpo e sulle loro mutazioni
dovute all’età e agli effetti del movimento, Leonardo da Vinci arrivò
a una conclusione di massima relatività, affermando che le buone
proporzioni si possono ottenere solo armonizzando ogni parte con il
tutto e considerando le molte variabili portate dalle condizioni
accidentali esterne. Con Leonardo e con il problema della
rappresentazione della figura umana si entra nel campo
dell’anatomia e di ciò che la storia della medicina deve alle accanite
ricerche dei pittori.
Fino al Cinquecento i progressi delle scienze anatomiche furono
molto lenti e questo indusse gli artisti a escogitare proprie tecniche
per garantirsi un affidabile patrimonio di conoscenze da impegnare
nella sfida della mimesi. Già Cennino Cennini, nel suo trattato
scritto alla fine del 15° sec., raccomandava ai pittori l’uso di calchi
presi sul naturale e sappiamo che un grande plasticatore come
Guido Mazzoni deve la straordinaria verosimiglianza di molte sue
opere all’impiego di copie tridimensionali sul vero, secondo una
pratica in uso già nella ritrattistica del mondo romano. Nei gruppi a
proporzione naturale che Mazzoni modellò in creta a partire dagli
anni Settanta del Quattrocento, la verità ostentata, talora quasi
scioccante, di volti e di mani rugose, di smorfie sorprese in un atto
di dolore estremo oppure di cura quotidiana, come il soffiare sulla
minestra calda di una servetta nella Madonna della pappa del
duomo di Modena, documentano un dialogo estremo con le
opportunità insite in una materia duttile come la creta. Pittori come
il Pollaiolo, Luca Signorelli, Leonardo e Michelangelo Buonarroti
partecipavano direttamente, sfidando i divieti, alle dissezioni di
cadaveri ed è facile verificare nei loro studi e nelle loro opere una
consapevolezza anatomica molto superiore a quella tramandata dalle
illustrazioni dei trattati scientifici contemporanei, quali
i Commentaria cum amplissimis additionibus super anathomia
Mundini (1521) di Berengario da Carpi, medico celebratissimo,
erudito e anche fine collezionista.

Solo due anni separano il Giudizio dipinto da Michelangelo nella


Cappella Sistina dalla pubblicazione a Basilea, nel 1543, del De
humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, docente di anatomia
all’Università di Padova. Le tavole, forse realizzate da un allievo di
Tiziano, sono un’intensa antologia di scorticati danzanti immersi in
un paesaggio agreste, di scheletri malinconici sorpresi nelle posture
del memento mori, di busti, di teste e di arti che dispiegano, dentro il
profilo classicheggiante del disegno, grovigli di muscoli e di
viscere. Agli albori della scienza moderna, queste illustrazioni
richiamano in maniera emblematica una fase del comune cammino
di medici e artisti.

I cantieri artigiani: piccoli e grandi centri di produzione

Nell’Italia dei comuni, e poi in quella del Rinascimento, la geografia


dei centri di produzione è estremamente articolata. Città grandi e
piccole specializzano i propri prodotti e gestiscono in regime di
monopolio quote di mercato che spesso implicano succursali e
banchi di cambio nel Nord dell’Europa: Chieri, vicino a Torino,
esporta fustagno; Brescia eccelle nella costruzione di strumenti
musicali ad arco; Montelupo Fiorentino nella fabbricazione di
maioliche. La specializzazione porta con sé anche un alto tasso di
innovazione tecnologica e di creatività nella messa a punto di nuove
proposte. Un caso esemplare è quello di Lucca, dove già dalla fine
del Duecento è presente un’intensa attività mercantile a base
familiare centrata sull’importazione dall’Oriente, attraverso il porto
di Genova, della seta grezza e delle materie necessarie alla tintura.
Nel corso del Trecento comincia il fenomeno della diaspora, con
famiglie lucchesi stanziate a Venezia, a Milano, a Bologna e anche
in Francia, in Germania, in Inghilterra che, in maniera autonoma o
mediante legami con la madrepatria, garantiscono la fortuna dei
preziosi lampassi con trame in oro e in argento, con motivi vegetali,
animali affrontati, temi tratti dalla simbologia cinese e persiana,
inseriti con grande libertà inventiva all’interno delle composizioni.

Il grande emporio di Venezia conquista alla metà del Quattrocento il


primato mondiale della produzione del vetro, un salto di qualità
documentato dalla riforma dello statuto corporativo, che nel 1441
prende il nome di Mariegola dei verieri de Muran. Il successo
dell’industria veneziana si fonda sull’invenzione di una qualità
particolarmente pura del vetro, detto cristallino, che la tradizione
attribuisce ad Angelo Barovier (1405-1460), capostipite di una
grande famiglia destinata a mietere successi ancora agli inizi del
Novecento. I prodotti sono molto diversificati e vanno dalle grandi
lastre per vetrate, ai primi tentativi di fabbricazione degli specchi
cristallini che soppianteranno quelli metallici in uso dall’antichità,
fino alla produzione di paste vitree che imitano le pietre dure e le
pietre preziose e sono indirizzate alla fascia più popolare della
gioielleria. Tra queste il calcedonio, che sostituisce con un’ampia
varietà di colorazioni e di venature gli effetti decorativi e
l’opalescenza dell’agata e del diaspro. L’industria delle ‘conterie’
esporta perle di vetro in tutto il globo e le utilizza anche come
moneta di scambio.

Ritmi più complessi caratterizzavano la fabbricazione degli oggetti


comuni per il fornimento delle tavole, che richiedeva nel
Quattrocento un lungo processo di finitura: coppe, brocche, piatti e
bicchieri, incolori oppure colorati nella gamma intensa del blu e del
turchese, venivano dipinti a smalto, ricotti e, successivamente,
perfezionati con l’aggiunta di anse o motivi decorativi applicati.
Questa produzione ebbe un enorme successo in tutta l’Europa e,
nonostante il protezionismo esercitato sulle competenze degli
artigiani locali, molti di essi emigrarono nei Paesi d’oltralpe,
contribuendo alla fortuna di quella formula che ancora oggi, in
ambito vetrario, viene definita à la façon de Venise. Un primato,
quello di Venezia, che si mantenne nei secoli successivi, grazie
anche al continuo aggiornamento delle forme e delle tecniche
decorative, come la ‘mezza stampatura’, la pittura a freddo e
soprattutto la ‘filigrana’, brevettata nel 1527 dai fratelli Filippo e
Bernardo Serena, seguita più tardi dalla lavorazione ‘a ghiaccio’ e
da quella graffita a punta di diamante.

Sarebbe un’impresa impossibile dare conto dei cantieri artigiani


sparsi nella penisola italiana, e altrettanto sarebbe tentare un
catalogo delle molteplici produzioni artistiche presenti in grandi
centri come Milano e Firenze. Si può, tuttavia, tentare di isolare
almeno alcuni dei tratti distintivi che accompagnano il successo di
un certo numero di manifatture. Una prima considerazione riguarda
un fattore noto e nevralgico, il dato cioè che l’innovazione
tecnologica e formale si accompagna allo studio delle antichità
classiche, determinando il recupero di lavorazioni abbandonate da
diversi secoli. Si può pensare, in questo senso, ai grandi progressi
della glittica o alla fortuna di piccoli oggetti in bronzo come
medaglie, placchette, o sculture decorative di soggetto profano che
diedero fama a modellatori come Andrea Riccio a Padova, Bertoldo
di Giovanni a Firenze, Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto l’Antico, a
Mantova. Un filone minore che mette a frutto il perfezionamento
delle tecniche di fusione ‘a cera persa’ e che introduce, secondo una
logica schiettamente antiquariale, l’uso di patine superficiali verdi o
brune applicate a freddo o mediante acidi, con procedimenti che
rimarranno in uso fino all’Ottocento.

Innovazioni significative si ebbero anche nel campo dell’oreficeria.


Riemerge, dopo un silenzio che data sostanzialmente dai primi
secoli dell’era cristiana, la tecnica del ‘vetro dorato’, dove le figure
prendono forma mediante l’applicazione di una sottile foglia d’oro a
una lastra di vetro o di cristallo, rifinita mediante l’incisione a
cesello e arricchita dall’inserto di smalti e di lacche colorate. I primi
esempi risalgono alla fine del Duecento e l’apogeo si colloca
generalmente nel secolo successivo, soprattutto in Umbria, con
opere provenienti dalla bottega di Puccio Capanna; da qui questa
sofisticata e sottile specialità si espande in Toscana – dove ne fanno
uso pittori come Simone Martini – e a Napoli. A Siena si afferma
una delle più suggestive novità delle tecniche orafe, quella dello
smalto traslucido, che è stato interpretato come combinazione del
‘rilievo affondato’ gotico con il terso cromatismo di tradizione
bizantina. Si tratta di sottili lamine metalliche, generalmente di
argento, che vengono dapprima incise e poi rivestite di paste vitree
colorate, ma trasparenti, in modo da lasciar affiorare la fine
cesellatura sottostante. Dopo le prime grandiose prove di orafi come
Guccio di Mannaia, per il calice di Nicolò IV ad Assisi (1288-92), e
Ugolino di Vieri, per il reliquiario del Corporale di Bolsena nel
duomo di Orvieto (1337-38), la nuova tecnica si espande in tutta
l’Europa fino a raggiungere in pieno Trecento anche la Polonia e la
Scandinavia, adattandosi alle necessità locali di stile e di gusto.

Nel secolo successivo prevale invece la lavorazione meno esclusiva


dello smalto dipinto, con importanti botteghe soprattutto a Venezia
e a Milano, città che raggiunge vette ineguagliate di celebrità anche
nel campo della produzione di armi. Paolo Morigi, nella Nobiltà di
Milano del 1595, ricorda «molti virtuosi Milanesi nell’arte
dell’Azzimina, e nel lavorar d’armature, e nel ferro, che sono
inventori di molti belli secreti». L’organizzazione del lavoro si
basava su una netta distinzione tra gli ageminatori, ossia gli artigiani
specializzati nel lavoro di intarsio del metallo (una tecnica detta
anche damaschinatura per la sua derivazione orientale), e i
costruttori veri e propri di armi e di armature, a loro volta
raggruppati per specialità esclusive, con maestri che si dedicavano
ai pettorali, ai morioni e alle celate, ai bracciali, e altri dediti alle
finiture a sbalzo e all’acquaforte, oppure specialisti nella doratura o
nella fabbricazione di lame. Da botteghe come quelle dei Negroli,
attivi a Milano e a Roma, e di Matteo Piatti uscirono nel
Cinquecento esemplari di straordinaria fantasia compositiva e di
impareggiabile perfezione tecnica.

Ci sono poi storie di tecniche e di materiali ancora relativamente


lacunose, come quella del cuoio bollito, dove la materia organica era
lavorata a caldo dopo l’immersione in cere o resine, con motivi a
sbalzo e complesse coloriture, per produrre oggetti (e tra questi le
superbe rotelle da parata uscite dalle botteghe lombarde alla metà
del Cinquecento) e anche complementi d’arredo di grandi
dimensioni come le tappezzerie. In altri casi si può far conto su
eplorazioni recenti, come capita per l’arte del corallo trapanese, già
documentata nel Medioevo e grandemente progredita nel corso del
15° e del 16° secolo. L’affinamento dei processi di lavorazione si
univa alla potente suggestione della materia naturale, celebrata
anche da Athanasius Kircher nella sua Musurgia universalis del
1650. Le maestranze erano organizzate in numerose e fiorenti
botteghe dove si produceva ogni sorta di oggetti, da quelli liturgici a
quelli da tavola, a elementi d’arredo come capezzali, scrigni e
cofanetti, microsculture e suppellettili a scopo squisitamente
decorativo. L’introduzione della lavorazione a bulino nel
Cinquecento, attribuita ad Antonio Ciminello, consentì di raffinare i
metodi di incisione e successivamente, con la tecnica del
retroincastro, fu possibile creare superfici metalliche tempestate di
piccoli elementi (baccelli, virgole, puntini) ordinati in schiere
fittissime e spesso arricchiti da inserti in madreperla e in avorio.

La lavorazione del corallo, benché sostenuta dall’esportazione verso


i maggiori Paesi dell’Europa e ripresa in città come Genova grazie
all’emigrazione di maestranze siciliane, rimase una specialità
geograficamente circoscritta, legata anche alla specifica
disponibilità della materia prima. Molto diversa la storia della
maiolica, nell’ambito della quale è agevole rintracciare i vertiginosi
progressi compiuti all’inizio del Quattrocento, quando in Italia si
perfezionò la qualità dello smalto, si arricchì la tavolozza dei colori
‘a gran fuoco’, resistenti cioè alla cottura ad alte temperature, e si
svilupparono inedite formule decorative, invertendo il senso delle
importazioni dal bacino del Mediterraneo che avevano caratterizzato
i secoli precedenti. L’espansione delle manifatture dalle città verso
il contado ebbe un carattere pervasivo; dapprima limitata a poche
realtà cittadine, arrivò a coinvolgere, talvolta mutandone il destino,
una miriade di piccoli centri impegnati a soddisfare la crescente
domanda dei ceti urbanizzati. E proprio a Firenze la maiolica,
confinata per secoli alla misura dei piccoli oggetti d’uso, conquista
per la prima volta con Luca della Robbia la dimensione
monumentale fissando i caratteri di un linguaggio di dolce
concentrazione e di estrema essenzialità coloristica, dove la purezza
dello smalto stannifero – ricco di ossido, quindi bianchissimo –
gareggiava con quella del marmo pario, esaltata dai contrasti
dell’azzurro ottenuto con l’ossido di cobalto.

Dalla Toscana la produzione di maiolica si espanse verso altri


centri, come Faenza, Pesaro, Napoli; nel Cinquecento le manifatture
dell’Italia centrale divennero celebri con l’istoriato, che traspone nei
colori brillanti della maiolica il gusto rinascimentale per la
rappresentazione di grandi imprese attingendo ai modelli più
affermati della pittura mediante un uso intensivo e spregiudicato
delle riproduzioni a stampa.

Un caso particolare, che illustra come la sensibilità per i mutamenti


di gusto unita alla ricerca tecnologica possa portare a radicali
cambiamenti di registro nella produzione e a inediti successi
commerciali, è quello dei ‘bianchi’ di Faenza. Nella seconda metà
del 16° sec. artigiani geniali come Francesco Mezzarisa, Virgilio
Calamelli, detto Virgiliotto, e Leonardo Bettisi, detto Don Pino,
iniziarono a immettere sul mercato forme inedite, soprattutto
crespine baccellate e traforate, forse ispirate alle tipologie degli
argenti, e a rivestirle con uno smalto bianco ricco di stagno di
notevole spessore e di estrema purezza. In omaggio a questa
brillantezza, la decorazione pittorica è limitata all’uso dell’azzurro e
del giallo, con stemmi o piccoli medaglioni a figurazione minuta –
putti o scenette di sapore anticheggiante – fissati con poche e rapide
pennellate (stile ‘compendiario’). La fortuna dei ‘bianchi di Faenza’
fu enorme sull’intero territorio europeo, tanto che Faïence entrerà
nel vocabolario francese per indicare propriamente la maiolica.

I ‘bianchi’ accompagnavano le nuove tendenze di sobrietà nell’uso


del colore. Nei vetri veneziani questo significò la prevalenza del
vetro incolore, dove la preziosità era data soprattutto dall’eleganza
capricciosa delle forme e, talvolta, da esili innesti di blu e di oro. Si
rafforzarono, così, interessi mai spenti per la porcellana orientale,
l’unica materia di cui l’Occidente non fosse riuscito a catturare e
perfezionare il segreto. La porcellana è un materiale ceramico
composto da caolino e quarzo, uniti al feldspato utilizzato come
fondente; presenta caratteri molto particolari di trasparenza e di
leggerezza e per una buona riuscita richiede, oltre alla qualità delle
componenti, anche un’adeguata tecnologia di cottura ad altissime
temperature. Le imitazioni sono documentate per tutto il
Quattrocento nelle maioliche con decoro ‘alla porcellana’ e gli
inventari di casa Medici attestano forme precoci di tesaurizzazione.
Dieci oggetti di provenienza orientale erano già presenti nelle
collezioni di Piero il Vecchio (1416-1469), ma il nucleo si arricchì
notevolmente al tempo di Lorenzo il Magnifico fino a raggiungere i
quattrocento pezzi alla metà del 16° secolo. I primi tentativi di
produzione si ebbero a Ferrara, alla corte degli Este, per impulso di
Alfonso I (1505-1534) e di Alfonso II (1533-1597), a opera di un
maestro di provenienza urbinate, ma fu solo con Francesco I de’
Medici che si arrivò all’impianto di una vera e propria manifattura
che raggiunse un buon livello qualitativo, con forme e decori che
intrecciavano impianti di gusto rinascimentale a elementi di
derivazione orientale. L’attività si protrasse per poco più di dieci
anni, tra il 1565 e il 1587, fornendo alla corte, probabilmente,
qualche migliaio di pezzi tra piatti, bottiglie, vasi e piccole sculture.
L’ultimo nucleo consistente fu disperso nell’asta fiorentina del 1772
e si contano oggi, sparsi in vari musei d’Europa e d’America, poco
più di una sessantina di esemplari.

La porcellana Medici, pur testimone di una grande sfida tecnologica


e accompagnata dall’entusiasmo dei testimoni dell’epoca, tra cui
Giorgio Vasari, resta tuttavia nell’ambito ristretto di curiosità e di
ambizioni legate all’aristocrazia locale; per la produzione su vasta
scala occorrerà attendere gli ostinati investimenti di Augusto di
Sassonia (1670-1733) a Dresda, coronati dal successo endemico
della prima vera porcellana europea, che uscirà dai forni della
manifattura di Meissen nei primi anni del Settecento.

Produzioni di lusso, produzioni pregiate

«L’arte della pittura merita et è solita essere abbracciata et favorita


da Prencipi». Con queste parole, il 3 ottobre 1598, i pittori
bolognesi, fino a quel momento privi di una propria corporazione e
aggregati agli spadari, ai sellai e ai mercanti di tela e di cotone,
facevano richiesta al legato pontificio per costituire una propria
Compagnia. Il fenomeno, che ha ragioni particolari legate al
prestigio raggiunto a Bologna dalla scuola dei Carracci, non può
essere inteso come un atto di divorzio de facto tra le arti meccaniche
e quelle belle. Resta però una spia significativa dei mutamenti di
mentalità innescati dalla creazione delle prime accademie, quella del
disegno, fondata a Firenze da Vasari nel 1563, e soprattutto quella
romana di San Luca (1593), che nel corso del Seicento eserciterà
una grande influenza nella circolazione europea delle idee circa i
metodi e le teorie dell’educazione dell’artista. Nel 1620 sorse a
Milano, per impulso del cardinale Federigo Borromeo, la nuova
Accademia Ambrosiana. Gli scopi educativi sono chiaramente
indicati nel programma e largamente confermati dalle dotazioni –
una collezione di pittura, alcuni calchi dall’antico e una biblioteca –,
ma a questo s’intreccia un’esigenza di indirizzo dell’attività artistica
verso le istanze della Controriforma, che solleva le arti maggiori –
pittura, scultura, architettura – dal libero confronto con le dinamiche
di gusto e di obiettivi della committenza.

Questo progressivo accentramento del potere di indirizzo trova


esempi paralleli anche sul terreno delle arti manifatturiere, che già a
partire dalla metà del Cinquecento avevano profittato dell’iniziativa
dei principi, orientata ad assicurare alle corti la disponibilità di quei
prodotti di lusso ancora rari sul mercato della penisola. Rientra in
questo ambito il caso già citato delle prime prove di produzione
della porcellana a Ferrara e a Firenze, ma a ciò si può affiancare la
dinamica assunta dalla produzione di arazzi, un altro dei pochi
campi in cui la tecnologia italiana non seppe stare al passo con
quella dell’Europa del Nord.

Intorno al 1517 erano approdati a Ferrara, provenienti da Bruxelles


e chiamati da Ercole II d’Este (1508-1559), tre maestri arazzieri, i
fratelli Jan e Nicolas Karcher, ai quali si aggiunse poi Jan Rost.
L’attività, sostenuta dalla collaborazione di artisti del calibro di
Giulio Romano, Dosso Dossi e Girolamo da Carpi, ingaggiati come
cartonisti, si estinse con la morte del duca, quando già Nicolas
Karcher era emigrato a Mantova al servizio dei Gonzaga, per
passare poi, nel 1545, insieme a Rost, a Firenze, dove Cosimo I
(1519-1574) impiantò una manifattura di arazzi. Nelle intenzioni del
granduca, la nuova fabbrica avrebbe dovuto competere con le
manifatture fiamminghe, anche se di fatto, salvo qualche commessa
italiana e l’invio di alcune opere in Spagna e in Portogallo, il suo
ruolo si risolse nel soddisfare le esigenze della corte. Prese così
forma, tra il 1546 e il 1553, la serie dei venti arazzi con Storie di
Giuseppe destinati alla sala dei Dugento di Palazzo Vecchio, su
cartoni di Pontormo, Agnolo Bronzino e Francesco Salviati, per
complessità compositiva e sfolgorante ricchezza di materia una delle
opere più alte dell’arazzeria italiana del Rinascimento.

Un altro segno dell’indomita ambizione dei Medici nel campo della


produzione artistica minore è la creazione, nel 1588, da parte di
Ferdinando I, di una vera e propria manifattura di Stato, denominata
Galleria dei lavori, l’organismo che è all’origine dell’attuale
Opificio delle pietre dure. A capo dell’istituzione era un
soprintendente nominato dal granduca, affiancato da un direttore
artistico (il primo fu Iacopo Ligozzi, pittore e maestro apprezzato
nell’illustrazione naturalistica); gli artefici invece erano impiegati «a
giornata, a stima o con provvisione». La fama di questi laboratori è
legata soprattutto alla tecnica del commesso, termine che indica un
mosaico formato da sottili sezioni di pietre pregiate unite a formare
soggetti decorativi e figurativi che sfruttano gli effetti di colore e di
chiaroscuro dei materiali lapidei. Il ‘commesso’, che deve la sua
origine all’opus sectile delle pavimentazioni romane, richiedeva una
lavorazione in più fasi che andavano dal bozzetto dipinto, alla
selezione dei materiali – compito delicatissimo affidato allo
‘sceglitore di pietre’ –, alla realizzazione del lucido, al taglio, fino
all’unione dei pezzi che ricercava il più perfetto equilibrio degli
spessori e dei profili di giunzione. Dalla manifattura fiorentina, che
rimarrà attiva fino alla fine dell’Ottocento, uscirono opere di
perfetta maestria tecnica e di stupefacente effetto nella mimesi
pittorica, raggiunta attraverso il controllo dei passaggi tonali, dei
contrasti cromatici, della sapiente dissimulazione dei giunti. La
tecnica si applicava a piccoli oggetti d’uso e a pannelli da muro,
oppure a complementi architettonici, o ancora a piani di tavolo, stipi
e consolles. Il suo successo nelle corti europee fu immediato, e altri
laboratori nacquero nella Praga di Rodolfo II, ad Augsburg e in
Francia.

Il tema del ‘commesso’ in pietre dure merita una digressione su un


terreno ancora marginale nella ricerca storico-artistica, ma molto
ricco di suggestioni circa la varietà inventiva delle competenze
artigiane. Si tratta di quello che potremmo definire il campo dei
‘surrogati’, ossia quelle attività che declinano in una versione più
umile e accessibile i caratteri essenziali della produzione di lusso. È
probabile che il successo dei ‘bianchi di Faenza’ si fondi anche sulla
soddisfazione di bisogni estetici legati all’irraggiungibile lucentezza
della porcellana, ed è certo che questo fu l’obiettivo dei veneziani
quando iniziarono a produrre quella qualità bianca e opalescente di
vetro che si suole definire lattimo e che alcuni documenti dell’epoca
indicano come vetro porcellano. Analogamente, si può misurare il
gusto per i mosaici in pietra pregiata attraverso la nascita e
l’espansione endemica, a partire dagli inizi del 17° sec., di una
speciale finzione di ‘commesso’ realizzata a partire da una mistura
di gesso (la ‘meschia’) finemente colorata in pasta a imitazione dei
marmi più disparati, e applicata seguendo complessi schemi
geometrici, spesso arricchiti da inserti figurali, a formare piani di
tavolo e paliotti, o anche edicole architettoniche o interi altari.
Quest’arte è documentata in maniera capillare nelle regioni padane e
i primi centri di produzione sembrano collocarsi nel modenese, in
particolare a Carpi, dove Guido Fassi fu uno dei primi maestri, e
nella Val d’Intelvi, da dove partì l’irraggiamento verso la
Lombardia e verso il Piemonte, dove fu attiva, nel corso del
Seicento, la bottega di Pietro Solari e dei suoi figli Francesco e
Cristoforo, che monopolizzarono il mercato del Monferrato, del
Vercellese e del Biellese.

La sfida europea e le nuove esigenze della borghesia

Ancora nel Settecento il gusto per le variopinte e iridescenti


composizioni di pietra era ben radicato, tanto che nel 1737 anche
Carlo di Borbone sentì l’esigenza di avviare a Napoli il Real
laboratorio delle pietre dure e, successivamente, un altro nel palazzo
del Buen retiro di Madrid, entrambi affidati a maestranze fiorentine.
Ma a parte queste iniziative, scaturite dalla volontà di
autorappresentazione dei principi e rimaste confinate al ristretto
mercato dei beni di alto lusso, la produzione artigianale mantiene in
Italia il suo antico carattere di mestiere di bottega, perdendo
progressivamente quota sul mercato europeo, dove si affacciano le
esigenze della nuova classe borghese. E d’altra parte nulla è
paragonabile, in Europa, alla grande riforma pilotata in Francia da
Jean-Baptiste Colbert che radunò in un solo luogo tutte le maggiori
specialità artigianali connesse ai bisogni della fastosa corte di Luigi
XIV. Nel 1667 fu istituita, ai Gobelins di Parigi, la Manufacture des
meubles de la couronne che, sotto la direzione di Georges Le Brun
prima e poi di Jean Bérain, diede corpo a un nuovo concetto
europeo della decorazione di interni coinvolgendo pittori, scultori,
decoratori, orafi, ceramisti, vetrai e tessitori, guidati e sorvegliati
nell’ispirazione da appositi repertori a stampa. Colbert favorì lo
sviluppo dell’industria tessile a Beauvais e a Lione, fece una
spietata concorrenza all’industria del vetro di Venezia, promosse la
meccanica, con particolare attenzione all’industria della guerra;
promulgò ordinanze, regolamenti, statuti; per garantire la qualità dei
prodotti organizzò le procedure di controllo e il regime delle pene.
Un disegno globale di modernizzazione al cui confronto l’Italia
potrà opporre, nel secolo successivo, solo esperienze di stampo
utopistico-illuminista, come quella dei Borboni per la real Colonia
di San Leucio a Caserta (1778).

L’influenza francese favorì il precoce orientamento in senso rococò


della corte sabauda e Torino è probabilmente la città italiana dove la
nuova sensibilità per la decorazione d’ambiente, intesa come unità
di progetto e di convergenza tra tutte le arti, ebbe sviluppo più
unitario e più coerente. Le basi furono poste dall’intesa stabilitasi tra
Vittorio Amedeo II (1666-1732), un sovrano determinato a far
coincidere le sue ambizioni politiche con quelle degli investimenti
artistici, e un architetto geniale e versatile, Filippo Juvarra. A Torino
approdarono, nei primi decenni del Settecento, maestri provenienti
dal Veneto, dalla Lombardia, dall’Emilia e dal Regno di Napoli; si
aprirono cantieri in tutte le principali residenze della capitale e del
circondario; nuovo impulso venne accordato al teatro, alla musica e
alla scenografia; per la corte lavoravano stabilmente maestri della
plastica in stucco, quadraturisti, intagliatori, orafi e doratori,
legatori, stampatori, tessitori.

Accanto a Juvarra emerge il profilo di artigiani eccelsi come Pietro


Piffetti, autore di cabinets e di mobilie di straordinaria maestria
esecutiva in cui l’intaglio e l’intarsio intrecciano motivi e repertori
con fantasia inesauribile, tanto nell’accostamento dei legni di varia
qualità all’osso, all’avorio e alla madreperla, come nel gioco dei
profili curvilinei che terminano in volute, conchiglie, elementi
vegetali, liberi riferimenti al mondo classico e orientale. Da questa
scuola prese avvio una solida tradizione che proseguì nel Settecento
fino a quello che potremmo considerare l’ultimo grande esponente
dell’ebanisteria piemontese, Giuseppe Maria Bonzanigo. La crisi
napoleonica è emblematicamente rappresentata nella sua opera dal
controverso destino di una delle sue più ardite prove di
miniaturizzazione dell’intaglio, il monumentale Trofeo militare
commissionatogli da Vittorio Amedeo III e completato nel 1793, tre
anni prima della morte a Moncalieri del sovrano. L’oggetto rimase
in bottega e qui subì alcune modifiche per adattare i contenuti
celebrativi alla mutata situazione politica. Nel 1803, grazie alla
mediazione di un ufficiale napoleonico, Bonzanigo tentò di venderlo
al Louvre – allora Musée national –, ma senza successo.

Dai progetti per l’arredo di stanze reali, l’attività della bottega si


convertì alla produzione quasi esclusiva di piccoli gingilli a
microintaglio che incantavano i contemporanei per la precisione
maniacale di ogni particolare e per la magistrale calibratura, nella
dimensione minuta di pochi millimetri, del rilievo. Pierre-Ambroise-
François Choderlos de Laclos, l’autore delle Liaisons
dangereuses (1782), nel 1800 generale napoleonico di stanza a
Torino, fece realizzare nella bottega di Bonzanigo un anello con il
suo ritratto da inviare alla moglie. Nella lettera che accompagnava il
dono sottolineava la novità e la curiosità del procedimento con cui
la materia lignea sostituiva, nel piccolo monile, quelle tradizionali
come l’avorio o la pietra pregiata, ma non mancava di soffermarsi
dettagliatamente anche sui termini economici dell’affare: «Cela m’a
couté tout monté 60 l. de Piémont, ce qui fait 3 louis de France, prix
convenu, à raison de 36 l. pour la bague. Tu vois que mon cadeau
n’a pas été ruineux» (Mi è costato tutto montato 60 lire di Piemonte,
che fa 3 luigi di Francia, prezzo concordato in 36 lire per l’anello.
Vedi bene che il regalo non mi manderà in rovina; cit. in Giuseppe
Maria Bonzanigo, 1989, p. 212).

Gli artigiani delle antiche grandi imprese dovevano ormai fare i


conti con il regime del piccolo commercio, in una nazione divisa e
in piccoli Stati senza progetti e senza direttive.

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