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NAZIONALE

< FONDO <


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U DORIA
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0 Diavolo Zoppo,
III O 1

-1 m cenni biografici su Le
ffi
ben leg. ra. pelle dell'epoca, conserv. la copert. orig.
m
257 i-8°,

NAPOLI
; con ritr. del Diavolo Zoppo stampato su carta di china a riscontro del
sul frontisp., e numercsiss. vignette ine. in legno intercal. nel testo che è
s
doppio filetto. Beli 'esemplare, ottimamente conservato, prima tiratura, di
ara edizione romantica impressa lo stesso anno in cui uscì a Parigi l'ori-

gmuiv uuuu delle medesime ligure di T. Johannot L. 1800

5«). I«E SAGE ALAIN-REXÉ. Il Diavolo zoppo. Illu-


strato con intagli da Tony Johannot e preceduto da cenni
biografici su Le Sage di Giulio Janin. Torino, Stab. Tipogr.
idi A. Fontana, 1840. In-8°, cart. edit. Una tavola k. t.
RIPRODUCKNTK LA BIZZARRA FIGURA DHL DIAVOLO ZOPPO,
1

MOLTISSIMI DISEGNI NEL TESTO ILLUSTRATIVI O ORNAMEX-


iT.au. VARI CAPILETTERA L. 5000
jXXiv-324 pp. mira. La limatura è sciupata in un angolo c iti una cuffia
il testo è in buon stato. Tutte le pagine armo inquadrate con due ti-

petti. Esemplare d’amatore.


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DIAVOLO ZOPPO

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DIAVOLO ZOPPO
ILLUSTRATO CON INTAGLI

DA TONY JOHANNOT

DA CENNI BIOGRAFICI SI' LE SAGE


DI GIULIO JANIN

TORINO
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI A. FONTANA

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CENNI SU LE SAC.E

di Molière vuol essere collo-

Le Sage ;
egli è poeta comico in

tutta !' estensione della gran parola

. La vivacità del dialogo,

verità ,
l’ ironia e I’ epigramma
senza fiele; un ornalo e chiaro stile,

una fina malizia, sono le doti che il fecer tale, unitamente

all’indefesso studio dell’umana famiglia e de’suoi ceti. I

costumi del commediante e del gentiluomo, dell’artiere e

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Vili CKIVNI SII LE SAGF.

del soldato, dello studente e della gentildonna, sono da lui

profondamente conosciuti. Esiliato dal Teatro Francese,


di cui ne sarebbe stalo un luminare, e meno fortunato di

Molière che avea i commedianti ognora pronti ai suoi

cenni, ed un teatro di cui erane padrone, Le Sage si vide

astretto più d’una fiata a contentarsi di vagheggiare nella


sua mente quella commedia che non potea far pompa di

sè per mancanza d’attori a rappresentarla, e fu giuoco

forza all’illustre autore del Turcaret di rinvenir una foggia


novella da poter gittare in mezzo al mondo lo spirito, la

grazia, l’allegria, l’insegnamento da cui era invaso. Di


simili uomini, allorché scrivesi la loro biografia, non havvi
che una sol cosa a fare: lodarli, sempre lodarli. Più fu-

rono sconosciuti e modesti in vita e più i critici hanno


diritto di spargere sulla loro memoria, su la fama loro, lodi

I e corone; è larda giustizia, si, ma giustizia infine; e d’al-

tronde che importan essi questi volgari avvenimenti ? Tutte


le biografìe si rassomigliano. Un po’ più, un po’ meno di

miseria, una gioventù dissipata, un’età matura laboriosa

e travagliata, una vecchiaia onorevole, rispettata, e per

iscopo di tanti lavori, di tante pene, di tante angosce di

spirito e di cuore, proprie solo de’grandi artisti, de’grandi

ingegni, la lusinghiera prospettiva dell’Accademia fran-

cese. Allora, se di mediocri talenti, tutte le porte vi sono


aperte, se uom di genio, diffìcilmente vi siete ammesso;
e se, per caso, siete uno di quei sommi che appariscono
di secolo in secolo, può darsi allora che l’Accademia non
vi riceva, a qualsiasi prezzo. Così fece per il gran Molière,
4

CENNI SU LE SAGE IX

così fe’ per Le Sage : ciò che fu un grand’onore per l’il-

lustre scrittore del Gii Mas.


Renato Le Sage nacque nel Morbi ha n l’8 maggio del

1 668, quell’anno stesso che Racine facea rappresentare i

Litiganti , e Molière V Avaro. Il padre di Le Sage non era


digiuno affatto di belle lettere, cioè quant’ esserlo il polca
in que’tempi un avvocalo di provincia, che sprecava an-
ziché no per vivere da gran signore, senza pigliarsi gran

fatto cura dell’unico suo' figliuolo. Morì il padre mentre


il fanciullo non avea per anco quattordici anni , e tosto

dopo il giovine Renato vide morire la madre sua, e ri-

mase sotto la tutela d’uno zio, ma fortunatissimo d’avere

a insti tutori i sapienti maestri della gioventù del xvii se-

colo, i Gesuiti, che doveano essere poscia quelli dei Fran-

cesi tutti che fiorirono nel secolo xviu. Grazie all’abile


e paterno insegnamento, l’ orfano giovinetto si addentrò
ne’sapienti e poetici misteri della classica antichità, che è

tuttora e sarà mai sempre l’ inesauribile sorgente dello

stile, del sapere, della ragione e del buon senso. Ella è

una lode che si debbe a Le Sage, che fu educato con


altrettanto zelo che lo furono Molière, Racine e La Fon-
iaine :
gli uni e gli altri si apparecchiarono con severi studi
e con il rispetto ai lor maestri, ad essere maestri alla loro

volta ;
ed acquistarono fama di classici scrittori, ciò che
potrebbe essere d'insegnamento a’begli spiriti del di.

Ma allorché egli ebbe compiuta la sua prima educazione


e che uscì dalle sapienti scuole, pieno il capo di greco e
di latino, e calda l’anima di poetico furore, incontrò Lf.

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,

X CENNI SU IF. SAGF.

Sagf que’ terribili ,


inevitabili ostacoli che aspettano
all 'uscire dagli studi, il giovinetto orbo di famiglia e privo

di beni di fortuna. Giovenale assai bene lo descrive con

uno de’ suoi migliori versi : Galleggia difficilmente , cui

gli è oslacol la miseria.

Hauti facile crii ergimi, quorum virlutibus obslat

Rcs angusta domi

Ma a che monta l’ esser poveri quando si è giovani,


quando vasto è il campo della speranza, possente e ricco

il pensiero? Non si ha nulla, è vero; ma tutto il creato è

vostro, è vostro patrimonio il mondo; siete re dell’uni-

verso; a voi d’intorno, al vigesim’anno tutto vi sorride,

tutto è color di zaffiro. La limpida pupilla può fissare il

sole. Tutte le potenze della vostr’anima, tutte le passioni

del vostro cuore si uniscono ad intuonare il canto dell’alle-


grezza! A che monta allora d’esser poveri? un bel verso,
un nobile pensiero, una frase, la mano d’un amico, il

dolce sorriso d’una fanciulla che passa, ecco quanto basta

per essere felici per otto intieri giorni. L’esordio d’una


biografia suol essere detta con patetica voce, lamentando
la trista sorte dell’eroe di cui si scrive; senzachè da chi

scrive pongasi mente e si conoscano le felicità di chi nacque


poeta, le gioie della giovinezza, le dolci speranze dell’a-

more. . . insensati ! Essi contano ad uno ad uno i cenci che

coprono quel giovinetto , e non iscorgono sotto a quel


lacero mantello vigorose e forti membra, un braccio ercu-
leo, un'atletica struttura; compassionano essi quel giovine

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i;t>M SU LE SA.UK XI

dal logoro cappello, senza badar che sotto quel cappello

che fermò l’ attenzione loro, havvi una prolissa, nera,

lucida capigliatura, ondeggiante diadema di gioventù. Mar-

rano essi, traendo profondi sospiri dal petto loro, come


Diderot credeasi beato se al duro suo pane quotidiano unir
potea un pezzo di formaggio, e come il povero Renato
Le Sage non bevea all’anacoretico suo pasto che limpida

acqua; oh vedi affare di gran momento! Ma Diderot, man-


giando il suo formaggio, meditava la Enciclopedia ;
ma
la iimpid’acqua che befesi a vent’anni nel concavo dima
bianca mano, v’innebria meglio che non lo farà vent’anni

dopo, ahi! lo spumante sciampagna, in lucidi calici di

cristallo.

Ecco il perchè lamentar non dobbiamo i primi anni di


Le Sage : era giovine, era bello e camminando sbadata-
mente quale un poeta, incontrò per via que’ primi amori
che sono cosi insidiosi allorché si è dolati d’un caldo
cuore. Questi durarono il tempo che durar sogliono co-
lesti amori, poscia Renato si fe’ sposo ad una men ricca

ma più bella donna che non l’era la sua amante.


E benedetta sia l’onesta o giovine fanciulla che con-
sentiva allegra di dividere gli affanni, le peripezie d’una

poetica esistenza ! Cosi Le Sage, senza avvedersene , si

diè ad una vita laboriosa in cui gli fu d’uopo spendere in

ogni di i più cari tesori dello spirito e dell’anima; volga-


rizzò dapprima, con libera traduzione, le Lettere di Calli-

stene, senz’addarsi ch’egli aveva solo assai più spirito che


non tutti i Greci insieme del iv secolo. Passò inosservato

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!

XII CENNI SU LE SAGE

il suo lavoro, od esserlo dovea. Con il genio di Le Sage


si debb’essere originali o giltar la penna. Tradurre è me-
stier dell’operaio, imitare è quello del plagiario. La mala
riuscita del suo primo lavoro rese Le Sage meno superbo
e meno fiero ,
ed accettò una pensione dall’ abate di

Lyonne , che accettata non avria giammai , ove , esor-

diente nelle letterarie discipline, piaciuto avesse da bel

principio; una pensione di seicento lire entusiasmò i bio-

grafi sulla generosità dell’abate di Lyonne. Seicento lire!

e s’ei vivesse ai nostri giorni, con il solo suo Teatro della

Fiera , guadagnerebbe trentamila franchi all' anno ! Un


romanzo come il Gii Bla* gli frutterebbe cinquecenlomila

franchi, ed il Diavolo zoppo , centomila almeno; non si

debbe, ciò non ostante, biasimar l’abate di Lyonne, per


aver dato solo seicento lire di pensione all'autore del Gii
Ria*. L’abate di Lyonne fu più generoso ancora, aprì a
Le Sage un tesoro di spirito, d’imaginazione e di poesia,
gl’insegnò la lingua spagnuola, questa bella e nobile mae-
stra del celebre Corneille; e non è poca gloria per la lin-

gua di Cervantes, che a lei delibasi il Cid ed il Gii Ria s.


L qual dubbio che Le Sage non accettasse con gioia di

farsi dotto in quella lingua, s’egli imparar polea eleganti


e liberi costumi, se studiar polca con amore una sorri-

dente società, una leale gelosia gentile, pinzoccherc feroci


in apparenza ma in realtà mansuete, gentildonne dal piede
imprigionato nel raso, e dalla lesta coperta di velo, i

palagi dagli ornamenti esterni e dall’interno silenzio, il

davanzale della finestra su cui poggia la mano che saluta

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,

*
CENNI SU LE SAGE XIII

e da cui slanciasi il piè che preme un altro piè con moto


di tacita intelligenza ? Ei careggiò le vispe fantesche

dal civettismo d’ anticamera ,


i furbi c svegliati servi ,
i

ricchi ed ampi mantelli sì propizi ai segreti amori, i de-


serti viali sì favorevoli ai furtivi convegni! Scoperto questo
nuovo poetico mondo, di cui fu il Bizzarro, il Fernando
Cortez e del quale Corneille era il Cristoforo Colombo
Renato Le Sage si abbandonò alla gioia; battè orgoglioso
col piè la terra degli incantesimi e lesse, rapito in estasi,

la maravigliosa epopea di Don Chisciotte, che studiò dal


lato delle grazie, dal lato poetico, amoroso, facendo tesoro
della satira e del sarcasmo nascosto in così bel dramma,
per servirsene poi a spargere il ridicolo su le classi della

società che gliene oiTrivano il destro. L’abate di Lyon ne


non supponeva certo in quel dì che a proteggerlo impren-

deva , eh’ egli avrebbe aperto una sorgente inesausta


all’uomo che dovea essere il primo poeta della Francia,

giacché Molière è genio di tutte le nazioni, dell’orbe in-

tero, di tutti i secoli letterari , chè di lui tutti i secoli c le

nazioni tutte hanno diritto al nome suo, alia sua gloria.

Il primo fruito dc’studi suoi sulla Spagna fu un volume


di commedie che Le Sage pubblicò, fra cui eranvi tradu-

zioni di bellissime commedie del teatro spagnuolo ;


ma
una sola era vene dell’ingegnoso e fecondo Lopez de Vega,
e per dir vero fu assai poca cosa ;
una sola di Calderon

della Barca, e non bastava. In questo libro che noi leg-


gemmo tutto, per rinvenir un lampo, una traccia del suo
genio, non potemmo scorgere che solo un traduttore: lo

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t .
v
XIV CF.NM SU LE SAGE

scrittore originale non vi si rinviene ancora : anche ai

genii è difficile di formarsi uno stile: nella commedia vi

sono segreti propri dell’arte che è duopo imparare, e dai


quali nulla havvi che tenga loco: ma Le Sage gli apprese,

perchè tutto impara l’uomo allorché non isdegna di faticar

la mente. Da tradultor ch’egli era, si fe’ imitatore, e nel

4 702 (il xviii secolo sorgeva, ma timido, ma incerto, e

non eravi alcuno che argomentare ardisse ciò ch’ei sa-

rebbe poscia riuscito) Le Sage diè al Teatro Francese una


commedia in cinque atti intitolata il Punto d'onore. Non
era che una imitazione dallo spagnuolo, e non ebbe felice

esito, e Le Sage non comprese la lezione del pubblico,

ma conobbe che la platea bisbigliava esservi in quel tra-


duttore un poeta comico originale. Come si vendicava
Le Sage ? Commettendo un altro fallo : si diè a tradurre,

il credereste ? il seguito del Don Chisciotte, come se Don


Chisciotte aver potesse un seguito ,
come se scrittore al

mondo, lo stesso Cervantes , avesse diritto di aggiugnere

un sol capitolo al famoso suo racconto! Ella è didatti ben


strana cosa che con un sì fino tatto ,
con tanto senno,
Le Sage pensasse a quello sciagurato seguito. E questa

volta ancora il di lui tentativo ebbe il fortunato incontro

j
che sognava nelle vegliale notti ;
il pubblico ,
tremendo
giudice, che che si dica, fu più giusto per il vero Don
Chisciotte che Le Sage medesimo, ed avea quindi ancora
a movere il primo passo ver il tempio della Gloria. Ciò non
ostante si slanciò coraggioso per quella via che solo ai tri-

boli il conduceva, e di nuovo con una commedia spagnuola

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CENNI SU LE SAGE XV

Don Cesare Urtino , imitata (la Caldcron. Fu recitata a

Versailles, applaudita oltre ogni credere alla corte, solita

ad ingannarsi al paro e più della massa che accorre ai

pubblici spettacoli. Le Sage credè di aver (inabnenle ri-

portala una vittoria. Vana speranza! Ella era pur essa una
sconfitta, giacché, passato da Versailles a Parigi, Don Ce-
sare Urtino fu tremendamente fischiato dalla platea parigina

che ruppe in visiera agli elogi della corte ed all’inno di

vittoria dell’autore. Fu duopo allora cedere all’evidenza.

Fatto dotto da si ruvidi insegnamenti, Le Sage comprese


alfine che non eragli permesso, ed a lui meno degli altri,

d’essere un plagiario; che l’originalità era una delle grandi


cause d’un felice incontro, e che la continua imitazione
de’poeli spagnuoli paralizzava in esso il vero poeta, l’ori-

ginale poeta.

Ed eccolo alla sua volta scrittore originale. Non più


copista, plagiario non più, egli è fatto creatore; tesse una
favola a seconda della sua immaginazione ,
senza aver
duopo della fantasmagoria spagnuola. All’originalità del

concetto accoppia l’ originalità dello stile , e trova final-


mente quel maraviglioso, quel sempre vivace dialogo che
puossi paragonare al dialogo di Molière, non per la natu-

ralezza forse, ma per la grazia, per l’ eleganza: s’ accorse


infine, e non sapremmo dir con quanta gioia, che egli era

desso l’autore, che non teneva più dietro ai passi d’una


guida, e che lo scrivere gli ricsciva più facile : ei tesseva

la concepita favola come meglio gli parea , e camminava


con passi meno incerti nella via che si era aperta, chè

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jr

XVI CENNI SU LE SAGE

nulla più gli inceppava il piè, non eranvi più ostacoli alla

sua poetica fantasia. Ah si! eccolo finalmente moderator

supremo dell’opera sua, eccolo quale il desiderava la platea,

quale il volevan tutti.

Questa fortunata commedia che è, senza dubbio, la

prima di LeSage, s’intitola Crispino rivale del suo padrone.

Quando l’ebbe compiuta, Le Sage, riconoscente dell’acco-

glienza fatta dalla corte a Don Cesare Ursino ,


volle che
avesse pur essa le primizie di Crispino rivale del suo pa-

drone: egli era felice allorché rammentavasi che i primi


applausi gli furono tributali a Versailles !La sua comme-
dia adunque è rappresentata alla corte. Ma ohimè! questa
volta la corte è d’opinione contraria: senza riguardo alcuno

agli applausi di Versailles, la platea di Parigi fischiava

Don Cesare Ursino: Versailles, alla sua volta, fischiò Cri-

spino rivale del suo padrone. E qui debbesi acconsentire,

che senza una fortezza d’animo eravi di che scoraggiarsi


e per sempre, e di nulla più comprendere alla felice od
infelice riuscita de’ propri scritti. Fortunatamente Le Sage
si appellò dalla sentenza del pubblico di Versailles alla

platea di Parigi. E questa volta non fu per contraddire


alla corte che il pubblico applaudiva ;
Parigi avea trovato

nella nuova commedia tutto che richiede la vera com-


media: spirito
,
grazia ,
facile ironia, molta franchezza,
continua allegria ,
malizia ed amore.

Quanto a coloro che accusar vorrebbero i fischi di

Versailles, si rammentino che molti capi d’opera fischiati

a Parigi riconoscono la loro esistenza dai suffragi di

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CENNI SU EE SAC.E XVII

Versailles: i Litiganti di Bacine, a mo’ d’esempio, che la

corte applaudiva immensamente, e alla cui rappresenta-

zione Luigi xiv vi rideva allegramente, turbarono delizio-

samente il sonno a Bacine alle cinque del mattino. Tempi


fortunati in cui i poeti erano giudicati da questa doppia j

giurisdizione e poleano appellarsi dalle censure della corlè

alle lodi della città, dai fischi di Versailles agii applausi di

Parigi ! In ora ecco Renato Le Sage libero d’ogni ceppo;

egli ha indovinato la vera sua vocazione, ella è la com-


media; egli è giunto a conoscere la specie umana, egli ha
scrutato le pieghe del cuore umano ,
egli ha fra le mani
i fili d’oro, di seta o di rame a cui è appeso cotesto cuore,

e lo vedrete adesso com’egli se ne serva. Già già in quella


mente, che concepiva l’avventuroso Gii Mas, fermentano i

più graziosi racconti del Diavolo zoppo. Silenzio! Turcarei

è vicino a veder la luce, Turcaret, che dimentico non avria


Molière, se Turcaret vissuto fosse ne’ suoi tempi; ma egli

craduopodi aspettare chela Francia sfuggisse al castigalo

secolo di Luigi xiv, per veder giugnere dopo Tuoni della

chiesa, dopo il guerriero, cotesto mostro senza intelletto c j

senza cuore, che dicesi comunemente l'asino (l'oro. Nella I

nostra società, l’asino d’oro è uno di que’ sfacciati, illegit-

timi poteri che nascono in seno alle pubbliche bisogne ,

siccome i funghi nella melma e nei letamai. Non si conosce


«
d’ond’esca questa forza inerte, come galleggi sulla super-

ficie delle cose; e ninno dir potrebbe come sparisca dopo


gittata una inslanlanea fosforica luce. A dir vero, bisogna
che un’epoca sia assai corrotta ,
infame molto, perchè

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XVIII CENNI SU LE SAGE

coll’oro rimpiazzar si possa la spada del soldato ,


coll’oro

la sentenza del magistrato, coll’oro l'intelligenza dello

strategico, coll’oro lo scettro dello stesso re. Una nazione


che non isdegna di adorar genuflessa l’oro, non ha più
nè arti, nè poesia, nè amore; ella è simile ai bruti, simile

al popolo di Giuda prostrato innanzi al vitello d’oro. For-

tunatamente di tutti gli effìmeri poteri del mondo, il più

effimero è l’oro; gli si porge la destra mano, è vero, ma



giltasi con la sinistra; prostrasi l'uomo allorché ei passa,

ina passato appena, lo si sprezza! Ficco ciò che Le Sage


maravigliosamente seppe conoscere da quel gran poeta
comico ch’egli era. Colpì il ridicolo e lo spaventevole di

quegli uomini dorati chcdividonsi le nostre sostanze, servi

arricchiti il giorno innanzi, e che, più d’una fiata, per


una non ancor vinta abitudine si slanciano dietro della

propria carrozza. Ecco il Turcaret. Lo vestì il poeta dei

più schifosi vizi , lo coprì del più disonorevole ridicolo}

gli strappò dal cuore, abbrutito dall’oro, ogni sentimento


che umano fosse, e non ostante quest’ orrida pittura. Le
Sage fu semplicemente commediografo, e non una volta
sola, in questo capo d’opera, il riso dà luogo allo sdegno
e al disprezzo. A giusta ragione i finanzieri d’allora, quei

ricchi appaltatori, non appena conobbero il Turcarei, gli

i-'. ammutinaron contro. In tutti i ricchi palagi di Parigi,

fra gli usurai che imprestavano danaro ai cortigiani e i

cortigiani che di continuo se ne faceano imprestare, era un


lolle, un haro universale. Al Tartufo di Molière non mos-
sero i colli torti tante persecuzioni, quante ne mossero i

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CENNI SU I.F. SAQE XIX

finanzieri contro il Tirrcaret. E, a servirci di una frase di

Bcaumarchais, a proposito di Figaro, fu duopo a Lf.Sace


per far rappresentare la sua commedia, altrettanto spirito

quanto gliene abbisognò per iscriverla ;


ma questa volta
j

ancora il pubblico , che suol essere pur sempre il più

potente allorché trattasi di proteggere capolavori di tal

fatta, si mostrò più forte della stessa cabala. Monsignore


il gran delfino, principe illustre per la pietà e le virtù che

lo adornavano , non isdegnò di proteggere la commedia


di Lt.'Sagb, come già un dì l’avo suo. Luigi xiv ,
aveva
proietta quella di Molière; gli arricchiti finanzieri allora,

vedendo che a nulla giovar poteva più la cabala, ebbero

ricorso all’oro, ultima risorsa di codesti nuovi ricchi,

siccome il cannone è l’estrema ragione dei re. Ma tuttavia

inutilmente; il generoso poeta rinunziò ad una ricca sorte,


purché si rappresentasse la sua commedia ,

e fe’ certo

mercato migliore le mille volte più di tutte le turpi for-

tune eh’ ebbero un tristo fine nella via Quincampoix.


Turcaret piacque immensamente ;
si allegrò il Parigino
di veder quegli ingordi lupi trafitti il più crudelmente

che si potesse con il comico epigramma. Che se Le Sage


tardava a scrivere e a far rappresentare il suo capo d’opera,
codesti mostri sariano scomparsi per lasciar loco ad altri,

e seco avrinn sepolto quella commedia che con l’ oro vo^


Icano comprare: era un capo d’opera scomparso per sem-
pre ;
era, a parer nostro, il più funesto assassinio che
consumato si fosse a danno del genio.

Eppure, ehi ’l crederebbe? dopo quella stupendissima

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XX CENNI SU LE SAOE

opera che doveva procacciargli fama di eccellente comme-


diografo, Le Sage dovette allontanarsi da quello sconoscente
teatro. Ei rinunciar dovette, egli, l’autore di Turcarei,
aHa vera, all’alta commedia, e scrivere burlette per i teatri

minori della capitale, per il volgo ,


consumando a poco
a poco il fervido genio di cui natura avealo dotato, senza

proGllo del proprio nome, senza profitto delle classi che


potea correggere scherzando. Che! l’autore di Turcarei
riempierlo stesso ufizio di Scribe,gittar tempo, stilcegenio
intorno alla frivola, leggiera commedia che non nata ancora
è da un sofGo spenta ? Ed i commedianti francesi non si

prostrarono alle ginocchia di Le Sage , implorandolo a


proteggere quel teatro, monumento nazionale innalzato
dal genio , dalle veglie dell’ immortale Molière ? Erano
commedianti, solo commedianti ed imliecilli, e senza pre-

videnza quindi.
Rinunciando al TcatroFrancese, non avea LeSage perciò
rinunciato alla vera commedia. Tutte le commedie da
cui era invaso ,
furono da lui accatastate nel gran libro

ch’egli intitolò Gii Mas, è che riassume solo 1’ umana


vita. Che dir puossi di Gii Mas che non sia stato detto?

Come degnamente encomiare il solo libro veracemente

gaio, veracemente vero della lingua francese? L’uomo che


scrisse il Gii Mas si collocò da sè fra i primi scrittori del

mondo; colla prepotente sua penna si è posto a’Ganchi di


Rabelais, di Montaigne, di Voltaire, di Cervantes e di

Molière. Egli entrò di diritto a far parte della famiglia

degli scrittori comici che furono GlosoG ,


e non per il solo

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,

CENNI SU LE SAGE XXI

Gii Blas, ma ben anche con il Baccelliere di Salamanca ,


che sarebbe un eccellente libro, ove il primo non esistesse,

e se prima di scrivere il Gii Blas, scritto non avesse il bel-

lissimo libro intitolalo il Diavolo zoppo.


Dunque salvisi chi può! Il diavolo si è slanciato nella
città, un Diavolo, un Diavolo francese che ha lo spirito,

la grazia, la vivacità di Gii Blas. Guardatevi, o viziosi, o

ridicoli che sfuggile dall’ epigramma della commedia ;

giacché per il potere dell’ onnipossente verga ,


non solo

le vostre case, ma l’alme vostre saran di vetro anch’esse.

Guardatevi ,
giacché Asmodeo ,
questo terribile beffardo,
spingerà l’occhio suo scrutatore nell’interno delle vostre
case, in cui credete essere nascosti ad ogni sguardo, e

d’ un ciascuno narrerà la segreta storia ; vi colpirà senza


pietà con la stampella d’ avorio che apre tutte le porte e
tutti i cuori ;
di voi dirà tutti i difetti , e quel che più
monta e vi accuora, tutti i vizi. Nulla sfugge alla di lui

vigilanza; a cavallo sulla sua stampella, corresui tetti delle

case, e scerne fra’ suoi abitanti gli ambiziosi c gli umili

gli avari e i prodighi, i gelosi, e quegli spiriti inquieti

affetti da terribile insomnia. Considerato per Io spirito

senza fiele , e della satira che di tutto ride ,


come per lo

stile ch’è quanto dir si possa eccellente, il Diavolo zoppo

é il libro , forse ,
più francese che siavi ;
egli è il libro

che firmato avria Molière dopo il Gii Blas.

Tale fu la vita di Le Sage, trascorsa in lavori seri e

in un deliziosi. Quest’uomo ch’era nato un grande scrit-

tore, e che recò alla perfezione il talento di scrivere,

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, ,

XXII CENNI SU LE SAGE

passò da un capo d’ opera ad un altro senza sospendere


giammai il passo che dovea guidarlo al tempio della Gloria.

È ignoto il numero dell’ opere sue; a settanlacinque anni


ei dettava ancora un volume di Miscellanee e morì senza

suppor neanche a qual punto saria salita la propria fama.

Allegro, amabile filosofo, conservò sino all’ estremo suo


dì spirito e senno; parlatore ameno, amico fedele, padre
indulgente, vivea gli ultimi suoi anni a Boulogne, s’ era
fatto un buon compagnone, a cui ciascuno loccavagli la

mano con bonomia ed indifierenza, senza che ad alcuno


nascesse pur dubbio eli’ ei fosse un uom di genio. Dei
tre figli ch’egli avea, due aveano scelto d’essere comme-
dianti , con non poco dolore del nobile padre loro ,
che
serbava in cuore pei commedianti , come scorgesi dal

Gii Blas un ben meritato disprezzo. ÌVon ostante, Le


Sage perdonò a’ suoi due figli ,
e non accorreva ultimo ad
applaudire il primo che chiamavasi Monmenil; e quando
morì, prima del padre suo, Le Sage pianse, e d'allora in
poi non volle più veder teatri. Il suo terzogenito, il fra-

tello dei due commedianti, era un buon canonico di Bou-


logne; fu in sua casa ch’egli ebbe ospitale accoglienza in

un con sua moglie e la figlia loro, degni oggetti lutti

della tenerezza sua, e che formarono la felicità degli ultimi

suoi giorni. Uno dei più cortesi gentiluomini di que’tempi

che sarebbe stalo ammiralo per i talenti che Io adornavano,


quand’ anche non fosse stato un ricco signore ,
il conte
di Tressan ,
governatore di Boulogne ,
vide ancora l’ il-

lustre e buon vegliardo nell’ultimo anno di sua vita, sul

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CENNI SU LE SAGE XXIII

di cui bello e nobile viso, ombralo da una folta e bianca


capegliatura, si vedeano le tracce del genio e deU’amore.
Le Sage alzavasi prima del sole, ed aspettava ansioso i

benefici suoi raggi ad avvivarlo: ritornava più lucido il

pensiero alla sua mente, s’avvicendavano più rapidi i battiti

del suo cuore ,


era più ferma la sua mano, gli occhi suoi
più vivaci ; di mano in mano che alzavasi il sole ,
questo
essere, questo sublime pensiero, dirò così, appariva più

limpido, più splendente, quantunque ciò sembrar possa


impossibil quasi, ch’egli era pur l’autore del Gii Mas.
Ma ohimè! tutto quell’inesprimibile fuoco che Io animava,
cadeva con il cader del sole ,
ed al giunger della notte
non avevate più in Le Sage che solo un buon vecchio
cui era duopo offrirgli il braccio per ricondurlo a casa
siccome un fanciullo.
Così si spense una sera d’estate; il sole avea tocco quel

dì il più alto punto, e non era per anco scomparso dall’o-


rizzonte ,
quando Le Sage chiamò a sè la diletta sua

famiglia per benedirla. Morì di novant’anni. A dare un’


idea al lettore della popolarità di quest’uomo, di questo

genio, nel corso di sua vita ,


porrò fine al mio dire con

il seguente aneddoto: Allorché vide la luce il Diavolo zoppo

nel 1707, l’incontro di così stupenda ed ingegnosa satira

dell' umana vita fu tanto ,


il pubblico ammirò con tanto
trasporto i pungenti epigrammi che racchiude ,
che il

libraio editore dovette farne due edizioni in otto giorni ;

l’ultimo di quegli otto giorni, due cavalieri, colla spada

al fianco, com’era d’uso in allora, entrarono nella bottega

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?

XXIV CENNI SU LE SAGE

«lei libraio per comprare il nuovo romanzo; non era vene


più che un esemplare. L’ uno dei gentiluomini il vuole ,

lo pretende l’altro: che fare? Ecco i nostri accaniti lettori

sguainar le spade c battersi al primo sangue e all’ultimo

Diavolo zoppo.
Ma che non avrebber fatto, ditelo voi, lettori, se veduto
avessero il Diavolo zoppo illustrato dagli intagli di Tony
Johannol

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CAPITOLO PIU IMO

Uii sia il Ih ai ulti ZU|||K1. — lluvc u por i|ual caso I). Cicute lieaii'lni pure»
/aiiiluillo fu' ctmusuunia culi asso lui

na notte del mese d’ottobre copriva di sue


folle tenebre la famosa città di Madrid; arti-

giani c istruii erano già ritirali nelle proprie

case o palazzi, ed erano le v ic battute solo dagli


amanti che desiavano con rauche o soavi note
cantare le [iene o la felicità loro sotto le line-

sire delle loro belle. Il suono delle chitarre


cominciava, ed era un sussulto pei padri c mariti gelosi; era infine

vicina a scoccar la mezzanotte, quando I). Lleofa Leandro Perez


/.ambulili, studente d'Alcala, sbucava precipitosamente dall’abbaino
I

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;
4 IL DIAVOLO ZOPPO.

1 d una casa in cui era entrato, spinto dal cieco figlio della dea di
! Citerà. Ei procurava di salvar la propria vita e il proprio onore da tre

o quattro spadaccini che lo incalzavano per ucciderlo ,


od obbligarlo' j

I
a menare in moglie una donna, appo cui l’avevano essi cólto.

Abbenchè solo, egli erasi difeso con assai valore, e non si diè alla i

i
fuga che dopo aver perduto la spada. Inseguito per qualche tratto j

sui tetti ,
non riusci a salvamento che col favor delle tenebre ,
e si

addrizzò verso un lumicino che scopri limi an lontano, che, quantunque


incerto ,
gli servì di faro in sì periglioso frangente, ltopo aver più

d’ una fiata rischialo il collo ,


ei giunse alla soffitta da cui uscivano
que’ luminosi raggi, e si slanciò dentro per la finestra , ebbro della
j
stessa gioia a cui si abbandona il piloto clic vede giugnere in porto
il suo vascello scampato da imminente naufragio.
Diè un’ occhiata intorno , e sorpreso di non rinvenire alcuno in
quella topaia ,
che gli parve un appartamento assai stravagante , si

diè ad esaminarlo con molta attenzione. Vide appesa al soffitto una lu-
cerna di rame, alla rinfusa libri e carte sparse snr un tavolo, una

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CAPITOLO PRIMO

sfora e dei compassi da una parie, storte e cronometri dall'altra, ed


opinò essere quello un luogo scelto da qualche astrologo per fare le

sue osservazioni.
Tranquillato alquanto, tornò col pensiero al pericolo da cui la sua
buona stella l’uvea scampato, e mentre si consigliava fra se stesso se
gli era meglio il fermarsi sino allo spuntar del di od appigliarsi a

qualche altro partito, udì un flebile prolungato sospiro. Pensò da


prima clic fosse una chimera di sua riscaldata fantasia , uno spau-
racchio notturno, c si abbandonò di nuovo alle primiere e tristi sue
riflessioni.

Il poco chiaror che spandea la lucerna, il profondo silenzio che


regnava tutto all’intorno, ogni cosa insomma concorrea a conciliare
in D. Cleofa Leandro Perez Zambullo una quiete d’animo, alta a sugi
!
gerirgli un mezzo per ritrarsi di colà felicemente, come avea cam-
pato al periglio che momenti prima gli sovrastava. Vana speranza;
ei trasali ad un secondo sospiro , senza poter più concedere a se
stesso d' essersi ingannato, laonde, benché non vedesse alcuno nella
camera, si diò a gridare; — Chi se’ tu che qui sospiri? — Son io,

signor Studente, gli rispose tosto una voce che avea qualche cosa di

straordinario ;
son io che vivo prigione da sci mesi in una di queste
boccie turate. Abita in questa malaugurata casa un dotto astrologo,
per soprappiu anche mago, che per virtù dell’arte sua mi tien chiuso
in questa fiala. — Ah, tu se’ dunque uno spirito ? disse Cleofa un al-

cun che turbato dalla stranezza del caso. — Sono un demone ,


rispose i

la voce, e non potevate capitar più a proposito per trarmi di schia-


vitù e da quest' ozio che mi opprime, giacche son io il più vispo ed
instancabile di tutti i diavoli dell’ inferno.

A queste parole la fronte di Zambullo si corrugava alquanto ed


impallidivano le sue labbra , ma coraggioso di natura siccome egli
era , die un crollo di spalle ,
rasserenò la fronte e con iscioltezza di
favella disse allo spirito: — Signor Diavolo, semprechè non vi dispiac-
cia, mi direste voi qual grado occupale fra i vostri confratelli ? Siete

Diavolo nobile o plebeo ? — Sono un Diavolo d’ importanza , rispose


la voce ,
e sono quello fra’miei colleghi che gode maggior credito
nell’ uno e nell’ altro mondo. — Sareste voi per caso , replicò don

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,

4 IL DIAVOLO ZOPPO

Cleofa, il Diavolo che chiamasi Lucifero? — No, disse lo spirito, que-

gli è il Diavolo de’ saltimbanchi , il protettore di tutti quegli esseri

che, sprovvisti di scienza e dotati di sfacciataggine, ardiscono, e col


>
loro ardire si fanno strada alle ricchezze, se non agli onori, ed

imbrattano di fango il vero sapiente che tapina a piedi sul selciato


delle capitali senza rinvenire chi gli offra asilo e pane. — Bravo
rispose Zambnllo ;
vedo che conoscete assai bene la società del

giorno ,
e sempre più mi persuado che i diavoli la sanno lunga

e che leggono nell’ interno degli animi. — Sarete I ride dunque ?

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CAPITOLO PRIMO

— Cibò, oibò , con rabbia interruppe tosto ;


Uriele è il proiettar dei

mercanti , dei sarti ,


dei macellai ,
de’ fornai e di tutta la schiera

insomma di codesti ladroncelli — Sarete dunqnc


del terzo stato.

Belzebù, disse Leandro. —Che? Vi prendete spasso me? di Cotestui

gli è il demonio — Veh! veh! ed


delle pinzochere e dei bacchettoni.

io credeva Belzebù uno dei più ragguardevoli personaggi di vostra


compagnia. — V’ingannaste; Belzebù non è che uno degli spirili mi-
nori ,
c a quel che pare voi avete delle false idee sul nostro inferno.

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ti IL DIAVOLO ZOPPO

Bisogna dunque, tornò a dire D. Cleofa, che tu sii Leviatan, Bel-


fegor od Astarottc. — Oh via, non e’ è male! questi tre almeno sono
diavoli di prim’ ordine, spiriti di corte. Bazzicano fra i consigli dei

principi, animano i ministri, ordiscono leghe, eccitano sommosse ed

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CAPITOLO PRIMO 7

de’ raggiri e del foro, rispose il Demonio, egli ha inventalo il pro-


tocollo degli uscieri e de’ notai. Egli è Ini che inspira i litiganti,

invade gli avvocati e predomina i giudici.

In quanto a me, ho l*en altro a che fare. Non vi potete immagi-


nare quante e quali sicno le mie occupazioni. Eccovele in succinto:

stringo ridicoli raatrimonii fra rantolosi vecchioni e gaie giovinette,

fra padroni e serve , tra avvenenti fanciulle senza dote e teneri ed


appassionati giovani senza quattrini, fra avari e prodighe civettuole,
fra vecchie estenuate arpie c gagliardi c ardili giovanetti. Son io

che introdussi nel mondo sociale il lusso, la crapula, i giuochi d'az-


zardo e l'alchimia. Son io l’inventore della giostra, della danza, della

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8 . IL DIAVOLO ZOPPO

musica, degli spettacoli tutti e di tutte le nuove mode di Francia. In


una parola io sono Asmodeo, soprannouiato il Diavolo zoppo.

Che ? Come ! sciamò Leandro ;


voi quel famoso Asmodeo ,
di cui

è fatta si orrevole parola io Agrippa e nella Clavicola di Salomone !

Ma a dir vero voi non m’ avete per anco narrate tutte le spiritose

vostre gherminelle, ed obbliaste la meglio. So che alcune fiate vi di-

vertite a confortare gli amanti non corrisposti, ed in modo tale che


l'anno passato un baccelliere mio amico ammansò, voi mediante, la

moglie d’un dottore dell’università d’Alcala. — Gli è vero, disse


lo spiritello : ma questo ve lo serbava per ultimo. Sì ,
io sono il De-
mone delle galanti avventure, e, per dirla con maggior garbo, io son
Cupido, io sono un nume, giacche i poeti vollero così e mi diedero un

sì bel nome, mi pinsero ne’lor versi con le piò lusinghiere attrattive c

scrissero di me le piò belle cose del mondo. Al loro dire le mie ali

son dorate ,
bendati ho gli occhi ,
ho un arco in mano, ho pieno di

strali un turcasso sugli omeri, e i lineamenti del mio volto, le forme


delle mie membra sono d’ un’ incantevole bellezza. Voi potrete vedere
come la sbagliarono c qual mi sono infatti se mi vorrete porre in
libertà.

Gli è da lungo tempo ,


signor Asmodeo ,
eli’ io mi dedicava lutto

a voi, e ve lo provi il pericolo da cui scampai son pochi istanti.

Sono oltre ogni dir contento che mi si presenti favorevole occasione

di rendervi servigio. Ma il vaso che v’imprigiona è fuor di dubbio


incantato : tutti i miei sforzi per isturarlo o per romperlo sarebbero
vani ,
c non saprei proprio che fare per liberarvi dalla vostra catti-
vità/ Non son troppo avvezzo a tal sorta di liberazioni, c, dicasi fra

noi ,
se un astutissimo diavolo par vostro non trova modo a trai-si

d’impaccio, come volete possa riuscirvi un povero mortale qual io

mi sono? - E pure gli uomini han questo potere, rispose il Demonio.


La fiala in cui soo rinchiuso non è che di fragil vetro. Prendetela,
gettatela in terra, c mi vedrete tosto sotto forme umane. — Se la è
come dite, la cosa è piò facile di quel ch’io mi credeva. Insegna-
temi dunque qual sia la fiala ch’io debbo prendere; qui havvene un

gran numero di simili ,


nè saprei distinguerla. — La quarta dalla
parte della finestra, replicò Asmodeo. Quantunque siavi sul turacciolo

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CAPITOLO PRIMO 9

l’ impronto (l’un magico sigillo, tuttavia la bottiglia si romperà egual-


mente.
Basta, disse Cleofa. Eccomi pronto a compiacervi. Non mi trattiene

più che una piccola difficoltà: resovi il servigio, non avrò poi a pa-
gare la rotta Cala? — Non temete disgrazia alcuna: vi accerto anzi
di tutta la mia riconoscenza. Vi informerò di tutto che vorrete sapere:
vi instruirò di tutto che succede nel mondo; vi scoprirò i difetti,

degli uomini; sarò il vostro demone tutelare, e, più illuminato del

genio famigliare di Socrate, vuo’ farvi più savio ancora che non l’era
quel grande filosofo. In una parola ,
eccomi a voi e per voi con tutte
le mie buone e le mie cattive qualità; e le une non vi saranno meno
utili delle altre.

Queste son belle parole, replicò lo Studente, ma dicesi che voi,

messeri diavoli, non siate gran fatto fedeli alle vostre promesse. t

E non si dice male, soggiunse Asmodeo; la maggior parte de’ miei


confratelli non si prende gran pensiero di mantener la data parola;
ma io, lasciando anche da un lato che non potrei mai sdebitarmi
del buon ufficio che aspetto da voi, sono ligio a’miei giuri, e vi pro-
metto per quanto può renderli inviolabili, che non v’ingannerò. Con-
tate sulla certezza che ve ne porgo ;
e ciò che poi debbe allietarvi si

ò eh’ io mi offro di vendicarvi in questa stessa notte di Tomasa, di


quella ingannatrice donna che avea appiattati quattro cagnotti per

sorprendervi e forzarvi a divenirle marito. I

La voce di vendetta suonò dolce all’orecchio del giovino Zambullo,

la cui anima ardente anelava di veder avvilita quella turpe donna


che lo aveva fatto segno alla sua cupidigia. Il demone, che cotioscea
assai bene le molle dell’ uman cuore, avea tocco il vero tasto che
rispondere pntea unisono a'suoi desiderii, e non andò fallita la sua
speranza, poiché d’ uno slancio don Cleofa si rivolse a fare quaulo
gli richiedea ,
ed affinchè fosse adempiuta la propria vendetta si

affrettò a prendere la boccia ov’era rinchiuso lo spirito, e senza


pensar più oltre a quanto polca accadergli ,
bruscamente la giltò

a terra. Si ruppe in mille pezzi ed il pavimento fu spruzzato da


un liquor nerognolo che a poco a poco svaporò e si converse in

un fumo che, dissipandosi ad un tratto, scopri all’attonito Studente

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10 IL DIAVOLO ZOPPO

una figura d'uomo in mantello, di circa due piedi c mezzo di altezza,


appoggialo su due stampelle. Questo mostro nano e zoppo area le

gambe di capro, il viso lungo, il mento aguzzo, il naso assai schiac-


ciato ed il colorito giallo e nero ; i suoi occhi, che parevano piccio-

lissimi, erano simili a due carboni ardenti; l’immensa sua bocca era
sormontata da due rossi, ispidi e folli baffi, ed orlata da due spro-
porzionate labbra.
Questo gentil Cupido avea il capo ravvolto in una specie di tur-
bante di crespone rosso, ornato d'un mazzo di penne di gallo e di
pavone. Portava una lunga grandiglia di tela gialla ,
su la quale erano

disegnati monili ed orecchini d’ngni sorta. Vestiva una corta giubba

di raso bianco, stretta ai fianchi da una larga cintola di pergamena,


tutta segnata di caratteri talismanici. Vedeansi dipinti su questa giubba

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CAPITOLO PRIMO 11

varii busti da donna ,


atti a rilevar le forme ; ciarpe, screziati grem-
biali ed acconciature di capo le une più strane dell’ altre.

Ma gli era un nulla tutto ciò a confronto del suo mantello ,


pure
di raso bianco ,
ricco di figure dipinte con inchiostro della China
c trattale con tale sveltezza di pennello e d’ estetica espressione ,

da non lasciar dubbio ad alcuno che il diavolo vi avesse posto mano.


Dall’ una parte vedeasi una àpagnuola , coperta del suo manto ,
che

passeggiando, con vezzi ed occhiatine traeva dietro di sè uno stra-


niero; una Francese dall’altra che seduta ad uno specchio studiava
I’ arte di comporre il volto al sentimento, per invischiare un giovine
neofita che presentavasi pudibondo sul limitar della sua camera. Qua

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12 IL DIAVOLO ZOPPO

|
italiani cavalieri suonavano e cantavano sotto le finestre delle loro

amanti; e là sbracali tedeschi avvinazzali, arruffati ed impiastrati


di tabacco , circondavano fumando una mensa su cui cranvi ancora
gli avanzi d’ un' orgia. Dall’ un canto vedeasi un ricco musulmano
uscire del bagno attornialo dalle donne del suo serraglio obesi affret-

tavano a prestargli i loro servigi ; dall’ altro un gentiluomo inglese


che con disinvolto garbo offriva alla sua dama una pipa ed un bic-

!
cliier di birra.

Eranvi poi giuocatori disegnali a perfezione. Ebbri gli uni dalla


gioia, empivano i loro cappelli di belle monete d' oro e d’ argento ;

irati gli altri ,


giuncavano sulla parola , bestemmiavano da sgherri e
stracciavano rabbiosamente co’ denti le carte. Insomma, vedeansi sa
quel mantello tante e sì curiose cose da disgradarne il famoso scndo
fabbricato da Vulcano ad intercessine di Telidc: ma passava però
tra i lavori dei dnc zoppi questa differenza, che le figure dello scudo
nulla aveano a che fare colle imprese d’ Achille ,
laddove quelle del
mantello erano vive immagini di tulio che si fa al mondo per tenia-

zinne d' Asmodeo.

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CAPITOLO II

Segnilo doiin UWr»iAne di Asnwdz»

(ime non isfnggiva all' occhio indagatore di


Ismodeo che la strana sua persona fucea una
non troppo soave impressione su l'animo
dello Studente ,
ei disse con il men diabo-
lico sorriso che potè; — Ebbene, mio signor
D. Cleofa Leandro Perez /ani bullo, voi avete
dinanzi agli occhi il leggiadro nume degli

amori, l’assoluto padrone dei cuori. (Jual vi sembra la mia bellezza?


I poeti non sono forse eccellenti pittori? —A dir vero, rispose con
franchezza D. Cleofa, sono un poco adulatori. Vuo’credcre che sotto
altro aspetto, soll’altre forme vi presentaste a Psiche. — Oh si dav-
vero 1 presi ad imprestilo quelle d’un raarchesino francese, per farmi
amar più presto. Fa duopo coprire il vizio di leggiadra apparenza, se

no non piacerebbe, lo vesto tutte le sembianze che voglio, ed avrei


potuto presentarmi a’ vostri occhi siccome una fantastica creazione
14 IL DIAVOLO ZOPPO

de’nosLri canzonieri, ma risolto qual sono di dedicarmi lutto a voi,


fu mia intenzione di nulla travisarvi , e volli che mi vedeste sotto
la forma la più conveniente a darvi una giusta idea di me e degli
ulizii miei.
— Non mi sorprendo io già, disse Leandro, che voi siate un po’
brutto; perdonatemi, vi prego, l’espressione, ma la lega che stiam
per stringere richiede un parlar franco. Il vostro esterno non s’accorda
troppo coll’idea ch’io m’era creato di voi nella mia mente: ora fa-
temi noto, in grazia, perchè siete zoppo.
Per una briga, rispose il Demonio ,
eh' ebbi già tempo in Francia
con Pillardoc, il diavolo dell’interesse. — Ma tregua al nostro dire,
ed affrettiamoci per ora ad uscir da questa topaia; appena giunto
in salvo vi narrerò l’avventura per cui rimasi zoppo. Fra poco verrà
il mago, per la intrapresa opera di rendere immortale una bella Silfide
che gli è molto amica, e che qui vien quasi ogni notte. S’ei ci sorpren-
desse, m’astringerebbe a ritornar nella bottiglia, e potria far lo stesso

anche a voi. Gettiam prima di tutto i pezzi della rotta fiala dalla fine-

stra, perchè l’ incantatore non s' accorga di mia liberazione.


— E s’ ei se ne accorgesse dopo la nostra partenza ,
che ne av-
verrebbe? — Che ne avverrebbe ? rispose lo zoppo : pare che non
abbiate letto il libro degli incantesimi. Quand’anche andassi a nascon-
dermi nelle viscere della terra o nelle regioni abitate dalle salaman-

dre ;
qnand’ anche io scendessi fra i gnomi, o nc’ più profondi abissi
dell’Oceano, non potrei sfuggire all'ira sua. Sì possenti sarebbero i suoi

scongiuri da commovernc lo stesso inferno. Indarno gli rifiuterei la mia


obbedienza , che stretto sarei a ricomparirgli innanzi onde soffrir la

,
pena che m’ imporrebbe.
— Se la bisogna è tale, ho gran paura, ripigliò lo Studente, che la

nostra alleanza non debba durare a lungo; il temuto negromante s’ac-


corgerà ben presto di vostra fuga. — Gli è quel che non so, rispose

lo Spirito, chè non sappiam noi ciò che debba accadere — Come !

sciamò Leandro Perez, è ignoto a’ demoni il futuro? Certo che sì,

rispose il Diavolo , e vedete balordaggine di coloro clic fidansi a noi :

di qui derivano le corbellerie che gli indovini c le indovine dicono

e fanno fare a chi desia leggere nel futuro. Noi non sappiam che il

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CAPITOLO SECONDO 15
passato ed il presente. Non so dunque io dirvi se il negromante ac-
corgerassi tosto delta inia fuga ; ma spero di no. Molte son qui le Gale

che s’assomigliano a quella che mi scrvia di carcere, e spero non si

avvedrà sì presto eh’ essa non è più. Io qui son quale un libro di
diritto ne' scaffali della biblioteca d'un finanziere: dimenticalo; c
qnand' anche vi pensasse, non c’ è pericolo volesse intrattenersi meco;
egli è il più vanaglorioso incantatore eh’ io mi conosca. Dacché son
suo prigione non si degnò di parlarmi una sol fiata.

— Che razza d’uomo ! sciamò D. Cleofa. E qual fu il motivo per cui


v’odia tanto? — Gli mandai a soqquadro un suo progetto. Vi era un
posto vacante in una certa accademia, eh’ ei desiderava toccasse ad
un suo protetto , ed io volea che si nominasse nn altro; compose il

mago prepotente un amuleto colle più possenti cabalistiche cifre;


allora io cacciai l’uom da me protetto sotto il manto d’un gran mini-
stro, il cui solo nome bastò contro del talismano.
Dopo aver parlalo in tal modo, il Demonio raccolse tulli 1 pezzi

della rotta fiala e li- gettò dalla finestra. Signor Zambullo , diss’ egli

poscia allo Scuolaro , salviamoci alla lesta ; attaccatevi al mio man-


tello , e non abbiate paura ;
— e benché un tal partito non andasse
troppo a sangue a D. Cleofa, ei stimò tuttavia un bene l’abbracciarlo
anziché rimaner bersaglio all’ ira del mago ; si aggrappò come me-
glio potè al Diavolo, che seco in un lampo il trasportò.

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CAPITOLO III

Dote lo Snudare fosse trasportalo dal I»ia\ r>lo zoppo: prime cose
cho gli fece vedere

smo<* co ,,0n avea lodai* a torto la propria


agilità. Fendè l’aria come uno strale scoccato
con forza, c si poggiò sul campanile di

# \ /^Sh*ya.S. Salvatore. Fermatosi quivi, disse al suo


compagno : E cosi signor Leandro ,
allorché

dicesi essere una pessima carrozza quella

)P^*jpWjihe§5iSSh del diavolo, non vi par clic sia una nienzo


gua? — VeriGcai io stesso la falsità del detto, rispose in tuon ceri-
monioso lo stupefatto Zambullo. Posso far fede clic la vettnra del

diavolo è comoda siccome una lettiga ,


e rapida cosi da non annoiar

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,

CAPITOLO TERZO 17
Ma ora che siamo in libertà, vorrei che prima d' ogni altra cosa
mi narraste il come diveniste zoppo. Volentieri, disse Asmodeo :

Contendessi fra me e l’illardoc a chi sarebbe rimasto, un giovinetto
che recavasi in Parigi a cercar fortuna, e siccome egli era buono e di
grande ingegno, cosi ce ne contrastammo ostinatamente la conquista.
Le aeree regioni furono scelte a campo del nostro singoiar certame,
ci battemmo ; ma Pillardoc di me più forte mi gittò sulla terra

proprio come Giove, a quel che dicono i poeti, buttò con un calcio
Vulcano. Fu per la rassomiglianza di queste avventure che i mici
compagni per ischerno mi àliiamarono il Diavolo zoppo ,
e questo
soprannome mi dura ancora ;
ma benché storpio non ho soggezion
d'alcuno. e vi diedi già evidentissime prove della mia sveltezza.

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18 IL DIAVOLO ZOPPO

Veniamo a noi, prosegui Asmodeo ;


voi non sapete perchè v* ab-
bia qui portato ; tuo’ farvi veder tutto che accade in Madrid, e sic-

come di qui dee cominciar la nostra rivista ,


da questo rione della
città, cosi ho scelto un tal luogo ,
perchè opportunissimo al mio
divisamento. Pel mio potere diabolico ,
dovranno sparir i tetti ; e,

a dispetto delle tenebre, noi scoprirem che si faccia nell’interno delle

case. Ciò detto, stese il braccio destro, e sparvero essi all'istante.


Cita luce eguale a quella di pien meriggio si offri agli attoniti sguardi

dello studente e vide nell' interno delle case nella stessa guisa, dice

Luigi Vclez di Guevara (1), che vedesi nell’interno d’un pasticcio, ì

da cui levossi via la crosta.

Ricsciva sì strano e nuovo tale spettacolo allo studente che am-


mirando vi rivolse tutta la sua attenzione. l)iè un' occhiata intorno
intorno, e la moltitudin delle cose dalle quali era circondato, offriva

largo pascolo alla sua curiosità. — Signor f). Cleofa, gli disse il Dia-
volo, non niegovi che ciò clic avete innanzi, ed osservate con si

gran diletto, non ofTra un piacevolissimo quadro ,


ma non sarebbe
infine che un frivolo passatempo. È duopo che possiate trar vantag-
gio e conoscer perfettamente l'umana vita, dalla spiegazione delle
passioni da cui sono agitati i personaggi lutti che voi vedete. I mo-
livi che li fanno operare, ed i loro più riposti segreti vi saranno
svelati.

Di dove cominccremn? Osscrviam dapprima in questa casa, alla


mia destra ,
quel vecchio che sta numerando monete d’ oro c d’ar-
gento. È un avaro. La sua carrozza, eh’ egli comprò quasi per niente
all’ incanto d’ un alcade di corte, è tirata da due pessime mule ch'egli
mantiene secondo la legge delle dodici tavole ,
vale a dire còn una
libbra d’ orzo al giorno per cadauna ;
le tratta insomma come i

Romani trattavano i loro schiavi. Sono due anni che arrivò dall'lndic,

ricco di mollissime verghe d’oro, ch’ei trasmutò poscia in monete.

Vedetelo, il vecchio pazzo!


Oh con quanta c quale satisfazione quel meschino e ricco Creso
numera e guarda le sue ricchezze ! nè sarà sazio mai ! Ei divide l’oro

(I) L* autore ilei Diavolo zoppo spaglinolo.

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I

CAPITOLO TERZO 1
l
»

dall' arrenili ,
incile ili disparte tulle le inonele clic noli sono del
rieliieslo iteso, iter imprestarle al primo sciagurato che dopo tulle le

il
più possibili cautele gli darà il sessanta per cento d’interesse; si
j

bea nel loro luccicare c punto non s’ avvede che invecchia ogni dì
senza provar la dolce satisfazione ili fare il bene non si avvede
,

che dimagra e perisce per non avere il coraggio di spendere pel


bene di sè una di quelle meschine monete che saranno sprecale da
un prodigo erede appena avrà chiusi gli occhi alla luce del di. Ora
spingete rocchio in un’altra cameretta della medesima casa. Vedete
la due giovani ed una vecchia? — Li vedo, disse Cleofa, e saranno
forse i suoi figli. — Oibò, rispose il Diavolo, sono i nipoti clic deh-
bono ereditare, c che impazientissimi di dividersi i tesori del ricco

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20 II. DIAVOLO ZOPPO

spilorcio, consultano segretamente una di quelle vecchie indovine elu-


vi vono sulla dabbenaggine di quc'tali che ciecamente credono alla

capricciosa interpretazione d’una carta; e questi sconsigliali as|>el-

lanu impazienti che loro dicasi quando morrà lo zio. — Scorgo nella

vicina casa due scene ,


non men piacevoli di questa, lina attem-

pata civetta che si spoglia per ire a letto, e che ha già locato
sulla toilette i capelli, i denti e le sopracciglia, ed un sessagenario

bellimbusto distaccatosi or ora dalla sua bella. Ha già deposto un


occhio , i badi e la parrucca ,
ornamento della rasa sua testa , ed
CAl'ITOLO TKRZO 21

aspetta che il suo famiglio lo lilieri d uo braccio c d una gamba


di legno, onde riposino gli altri membri clic gli snn rimasti.

— Se debbo credere agli ocelli miei, disse /mulinilo, panni di


scorgere in questa casa una fresca, bella e ben tornita giovinetta.
Che gentil fisionomia! Ecco, rispose lo zoppo, questa bella giovinetta
è la sorella maggiore del bellimbusto di sessanl’ anni ; tra lei e la
vecchia civetta clic le sta vicino può dirsi che facciano una bellis-
sima coppia. Il corpicino da voi ammirato, e che dite ben tornilo,
è una macchina che costò immenso studio al suo inventore. Il petto
ed i fianchi sono artefatti c le caddero, non ha molto, in tempo di
predica, in mezzo alla chiesa. Pure siccome sì dà l’aria di ancor

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22 IL DIAVOLO ZOPPO

tenera fanciulla ,
due giovani zerbini se ne contrastano i favori , e
duellarono per essa. Gl' insensati ! Mi par di veder due cani clic si

addentino per un osso.

— Ridete con me all’ udire la soave armonia che si sente in una


vicina casa, dopo una cena di famiglia. Ella è una cantata; la mu-
sica è d’un vecchio leguleio, e lad’un alguazil (1) elio
poesia

fa il grazioso e coltiva la poesia per suo passatempo e per l’altrui

(t) Àlgiutzll — Cotnmiuann.

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CAPITOLO TERZO 23
supplizio. Una cornamusa ed una spinella ne formano 1’ accompa-
gnamento. Un lungo ed esile cantore con voce di falsetto canta il

soprano ,
ed una giovinetta, con voce grossissima ,
quella del basso.

— Oh , la graziosa cosa ,
sciamò don Clcofa ; a voler riunire espres-

samente un peggior disaccordo, non saria possibile.

— Volgete gli occhi a quel magni lico palazzo ,


proseguì Asmodeo,
e vedrete un ricco signore sdraiato sul suo letto in un sontuoso ap-
partamento. Egli ha vicino a se una cassetta piena zeppa d’inznc-
cherati bigliettini, che legge per conciliarsi il sonno, essend’essi i

d’ una gentil damina eh’ egli adora , ma che lo ridurrò al verde ,


e
ne farà un sollecitatore d' impieghi.
— Se la quiete e la tranquillità regnano in questo palazzo ,
la

non è così nella vicina casa a man sinistra. Vedete voi una signora
coricata sur un letto di damasco rosso? Ella è una persona di qua-
lità-, è donna Fabula che mandò per una comare, esscnd’essa vicina a

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24 IL DIAVOLO ZOPPO

lare un crede al vecchio don Torribio suo sposo clic le vedete vicino.

Quanto è buono codesto sposo 1 Le grida della cara sua melagli passano

l'anima, e piange c s addolora e soffre perchè la moglie soffre. Vedete

(pianto si dimena c si sbavazza per soccorrerla! —Gli è vero, disse

Leandro, c agitato assai; ina vedo un altro che dorme profondo sonno
nella stessa casa, senza curarsi del trambusto che in essa vi regna.

Silenzio, disse lo zoppo, lasciam dormire la prima causa di quei dolori.

Guardate da quell’ altra parte ,


continuò Asmodeo ,
guardate

in quella sala al pian terreno, queU’ipocrita che si strofina con sugna

di porco per andare ad una treggenda


di streghe clic questa notte

adunasi fra S. Sebastiano e Fontarabia ; vi porterei colà perchè go-

bella scena se non temessi d’ essere riconosciuto dal


deste di sì ,

demonio che rappresenta il capo della cerimonia.

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CAPITOLO TERZO 25
— Non siete dunque amici? rispose lo studente. — No, perbacco,
disse Asmodeo. Egli è Pillardoc , ed il furfante mi tradirebbe col far

nota all’ astrologo la mia fuga. —


— V’ è forse stata qualche altra contesa fra voi altri ? — Certo ;
saran
due anni che ebbimo insieme una nuova querela per un giovinetto di 1

Parigi che pensava ad eleggersi uno stato. Ambidue volevamo disporne


a nostro talento, voleva egli gittarlo nel commercio e farne un giovine
di banco, a me parve di scorgere in esso l’ altitudine necessaria a
divenire un galante avventuriero ;
quando i nostri colleghi per dar
termine a’ nostri litigii ne fecero un cattivo monaco. Ci riconciliam-
mo, ci abbracciammo, e d 'allora in poi fummo implacabili nemici.
— Ma lasciam là codesta treggenda , disse D. Cleofa , alla quale
non m’ importa niente affatto d’ intervenire, e proseguiamo invece ad
esaminar tutto che ne capita sottocchio. Da che nascono quelle scin-
tille di fuoco che escono da quella cantina ? — Dalla più matta delle

occupazioni degli uomini. Quel vecchio curvato sopra un ardente for-


nello è un alchimista; il fuoco consuma a poco a poco il ricco censo

degli avi suoi, sonzachò si avanzi d’un passo nella ricerca dcll’im-
j

possibile. Meschino, ei cerca la pietra filosofale, la chimerica pietra

inventata dal mio fertile ingegno onde prendermi spasso dell’uomo, di


questo prepotente animale che spazia ognora nell’ infinito , e s’ illude

al segno di voler oltrepassare i limiti che gli sono stati prescritti.

— Il nostro alchimista ha per vicino un buono speziale che non

sì è per anco coricato. Vedetelo ,


egli lavora nella sua officina colla
4

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26 IL DIAVOLO ZOPPO

vecchia sua moglie ed un garzone. Bramate voi sapere che cosa facciano
essi ? Compone il marito una pillola prolifica per un vecchio avvocato
che dee domani farsi lo sposo: confeziona il garzone un decotto lassa-
tivo, e la vecchia pesta in un mortaio alcune droghe astringenti per....
— Vedo nella casa di contro a quella dello speziale, disse Zambul-
lo, un uomo che si alza e si veste in tutta fretta. Malanni 1 sciamò lo

spirito, egli è un medico chiamalo per un affare di molta urgenza. Chi


lo cerca è un prelato, il quale da che si è posto a letto tossi tre volte.
Spingete l’ occhio un po’ più in là , sulla diritta ,
e vi verrà fatto
di vedere in un granaio un tale che passeggia in camicia al fioco chia-
rore d’ una semi-spenta lucerna — Vedo ,
gridò lo studente, e si bene
che farei l’inventarie dei mobili di quella spelonca : eccoli, un canile,

un tavolo ed una sedia rotta ,


ed i muri mi sembrano scarabocchiati
di nero. — Quegli che alberga si in alto è un poeta, riprese Asmodco,
e ciò che vi par nero, sono versi tragici che per mancanza di carta
scrisse sulle pareti ,
ed ora formano la tappezzeria della sua camera.
- —

CAPITOLO TERZO 27
lucro. — Non vi apponete male, rispose lo zoppo : fece le ultime cor-

rezioni ieri ad una tragedia, il Diluvio universale, da cui spera im-


mortale fama ;
poiché non vi sarà l’ ardito che si attenti di censu-

sarlo per aver trascurato la veneranda regola dell' unità di luogo,

avend’ egli disposto si bene la tessitura del suo dramma che l'azione
succede sempre nell’ arca di Noè.
V’accerto eli’ essa è un’ opera eccellente; tutte le bestie vi parlano

e ragionano come dottori. Ei disegna di intitolarla a qualcheduno, e


sono ornai sci ore che tormenta il suo cervello per trarne una dedica;
egli afferra in questo punto l’ ultima frase. Ah, quella dedica è un
vero capo-lavoro : vi sono racchiuse in essa tutte le morali e politiche
virtù, nn sunto di tutte le Iodiche possono darsi ad un illustre, epe'
meriti suoi c per quelli che non son suoi, ma degli antenati ; non fuv vi
autore insomma che scialacquasse mai cotanto incenso. —E chi è la

persona cui è consecrato si magnifico elogio? ripigliò lo studente.

Non lo sa, disse il Diavolo, quindi il nome è tuttora in bianco. Dispera-

tamente cerca e non rinviene un uomo in cui si accoppii generosità e


ricchezza, chè i primi a cui dedicava l’opcre sue non furono gran fatto
liberali : ma pochi in oggi son coloro che spendano per tal motivo.
Gli è questo un difcttuccio di cui si sono corretti i ricchi ,
ed il

pubblico ne li ringrazia, chè in tal modo si liberò da una farragine


di pessimi libri pubblicati solo per il profitto che speravasi trarre
dalle bugiarde dediche.
—A proposito di dediche, soggiunse lo spirilo, gli è duopo eli’ io

vi narri un bel fatto. Una gentildonna di corte ,


che modestamente
conccdea le fosse dedicata una ccrt’ opera, volle vederne il concetto
pria che si stampasse, e non trovandosi lodata a norma dei proprii me-
riti, ebbe .... (Oh bontà!) la pazienza di dettarne nn’altra che inviò ,

poscia all’ autore acciò in maiuscoli caratteri facesse bella mostra di


sè nelle prime pagine del suo volume. —
— Mi pare, interruppe Leandro, che là sianvi dei ladri che en-

trano in una casa per la finestra. — Nè v’ ingannate , disse Asmodeo,


son essi tali, ma di quei notturni, che vanno a far visita ad un ban-
chiere; non li perdiam di vista, e stiamo attenti a tutto che fa-

ranno. S’ avviano verso il banco, frugano qua ,


là ,
in ogni luogo, ma
28 IL DIAVOLO ZOPPO

inutilmente, clic il banchiere, di loro assai più scaltro, parli già alla

volta dell’Olanda, lasciando vuoti gli scrigni.

— Veh! veli! disse Zambullo, un altro ladro che con una scala
di seta monta su d’un balcone. — V’ingannate d’assai, mio bel si-
gnorino ,
se credete colui un ladro. Egli è un marcliesino che dolce-

mente cerca d’ introdursi nella camera d’ una fanciulla che non sarà
,

più tale ,
ov’ ella imprudentemente vi acconsenta. È vero che sorri-
dendo le giurava d’esserle marito, e che solo a questi patti la disgra-

ziata vi acconsentiva: a chi facil giura non prestar fede mai


Ma nel commercio d’nmore i nobili son banchieri e trafficano sempre
con certezza e vantaggio.

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CAPITOLO SECONDO 49
— Sarei curioso di sapere, tornò a dire lo studente, cbe cosa fac-
cia quell’uomo là in berretto da notte ed in veste da camera. Ei sta
scrivendo con grande attenzione, mentre seduto sullo scrittoio, con
le mani appoggiate sugli esili suoi stinchi ,
cogli occhi spalancati e

digrignando i denti, veggo un piccolo e nero demonio che par lo in-

spiri. — Chi scrive, rispose il Diavolo, fe un segretario di tribunale


che, per compiacere ad un riconoscentissimo tutore, falsa un atto
giudiziario steso a favore del suo pupillo, ed il nano che gli sorride

è GrilTaele, il demonio de’ segretarii. — Questo Griffaele dunque,

replicò don Cleofa ,


non è che un vice ,
giacché se Flagel è l’ anima
del foro, mi pare che i segretarii dovrebbero essere sotto la sua giu-
risdizione — No, rispose Asmodeo; essi furono giudicati degni dell’

alto onore d’ essere protetti da un loro diavolo particolare , e giuravi


che non ha tempo da starsi colle mani in mano.
— Vedete poi nella casa vicina a quella del segretario di tribunale,
una giovine signora che occupa 1’ appartamento del primo piano. È
una vedova, e l’uomo che sta con essa è suo zio, il quale abita al piano

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30 IL DIAVOLO ZOPPO

superiore. Ammirale la pudibonda vedovella : sdegna cambiarsi in-


nanzi allo zio e va nel suo gabinetto ove le servirà di fantesca il gio-
vinetto amante.

— In casa del segretario abita pure un grosso e zoppo baccel-


liere ,
eh’ è suo parente ,
cui non ha pari al mondo per dar la baia.

Volumnio , sì vantato da Cicerone pe’ suoi molti arguti e pieni di


sale , non era certo grazioso bcrteggiatore al par di lui. Questo
baccelliere, chiamato per eccellenza in Madrid il baccellier Dono-
so, è desiderato da tutti i cittadini e cortigiani che soglion banchet-
tare; Io vogliono tutti. Ei basta solo a rallegrare i convitati ; egli è
la delizia d’una mensa, quindi pranza ogni giorno in qualche ricca
casa , di dove non esce che alle due dopo la mezzanotte. Trovasi in
ora dal marchese d’ Alcaziuas ove non vi è capitato che per semplice

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CAPITOLO TERZO 51
caso. —Come, per caso ? interruppe Leandro. — Mi spiego piùchiara-
mente , replicò Asmodeo. Disposte in fda, sulla porla del baccelliere,

eranvi questa mattina verso il mezzogiorno cinque o sei carrozze che


varii signori gli avean mandate per poter godere di sua amabile

compagnia. Fece salire i famigli nelle sue stanze, e prendendo un


mazzo di carte loro disse: — Amici miei, voi lo vedete, io non
posso farmi in quarti per contentar tutti che mi desiderano, nè
volendo disgustare alcuno de’ vostri padroni, sbriglierò rafTurc cosi :

pranzerò col re di Gori.


— Quale sarà mai l’intenzione di quel cavaliere che sta seduto
dall’altra parte della contrada, su la soglia d'una porta? aspetta
forse che una qualche vispa cameriera lo introduca in casa ? — No,
no , rispose Asmodeo ; egli è un giovine Casigliano ,
amator senti-

mentale, che per sola galanteria passa l’intiera notte, come gli amanti

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,

32 IL DIAVOLO ZOPPO

dell’ antichità, alla porla della sna bella. Strimpella di quando in


quando la chitarra, cantando romanze da lui composte , sospira

quindi, e intanto la fanciulla de’ suoi pensieri piange , dirottamente


piange . .
.
per la lontananza del suo rivale.
— Veniamo un po’ a questa nuova fabbrica separata in due corpi
di casa: nell’uno abita il proprietario, quel vecchio cavaliere che

ora passeggia nel suo appartamento, ed ora si lascia cadere sur una
poltrona. — Pare, disse Zambullo , che rumini in sua testa un gran

divisamente. Chi è costui P al lusso che lo circonda si direbbe esser

egli un uom d' alti afTari ,


un cortigiano — Eppur non è che un finan-

ziere ,
rispose il Demonio ,
incanutito in lucrosissimi impieghi che

lo arricchirono di quattro milioni. Siccome la coscienza lo rimorde

pei mezzi di cui si valse ad ammassar tante ricchezze , e vede ap-


prossimarsi l’ora d’ irsene a fare i conti all’ altro mondo, eccolo scru-
poloso : eccolo nel pensiero di fabbricare un monastero ,
lusingan-

dosi che dopo una si buon’opra avrà posa alfine la sua coscienza.

Ottenne già il permesso di erigere un convento , ma non vuoi am-


mettere che religiosi casti ,
temperanti e d’ una umiltà esemplare
quindi in ora lo tormenta la difficile scelta.

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CAPITOLO TERZO 53
Nell' altro corpo di casa abita una bella signora cbe da pochi mi-
nuti si è posta a letto, appena uscita da un bagno di latte. — Que-
sta voluttuosa c gentil signorina è vedova di un cavaliere di san I

Giacomo ,
da cui non ereditava cbe un onorato nome ; ma la vana-
rella è corteggiata da due impiegali del consiglio casigliano, che di ,

buon accordo provvedono ai bisogni della famiglia. — Ohimè ! sciamò


lo studente ; l’ aria echeggia di lamenti e grida ; è accaduta forse
una qualche disgrazia ? — Eccovi il fatto , disse lo spirito : là , in

quella bisca che vedete illuminata da lampade e candele , due gio-


vani cavalieri giuocavano alle carte. S’ inQammarono d’ ira per un

punto ,
la bile bendò loro gli occhi, impugnarono le spade, e mor-
talmente si ferirono a vicenda : il piò giovine è Aglio unico, 1’ altro

è ammogliato, c tulli e due son vicini a spirare. Il padre del primo


e la moglie del secondo, saputo il terribile disastro, accorsero, ed

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54 IL DIAVOLO ZOPPO

assordano ora il vicinato coi loro pietosi ma inutili lamenti. — Giovine


sciagurato, sciama il padre, apostrofando suo figlio che più non l’ode,
quante fiate non ti consigliai ad abbandonare il giuoco ? Quante
volle non ti predissi che perderesti onore e vita ? Ah , non è certo
mia colpa se cosi infelicemente muori. Dall’ altro lato si abbandona
alla disperazione la sciagurata donna. Abbenchè lo sposo le abbia

ginocalo la dote, vendute le gioie e perfino le sue vesti, ella è incon-

solabile in vedendolo a spirare, e fuor di sè, furente, scapigliala, con


immobil occhio non Sprigiona la parola che per maledire il giuoco,
le carte ,
chi le inventava ,
le bische e quei che le frequentano.
— Quanto compiango que'disgraziati che sono invasi dalla smania
del giuoco ,
disse don Cleofa; in quale orribile stato è soventi volte

l'aniina loro. Grazia al cielo, codesto vizio non mi domina. — Si, ma ne


avete un altro che ha il suo pregio aneli’ esso. È forse meglio cosa
l'amar le donne da partilo? e questa sera non correste rìschio d’essere
assassinato per...? Ammiro questi signori uomini: osservano i difetti
altrui col microscopio, e sono indulgenti oltre ogni dir sui proprii.
Gli è duopo eh’ io vi faccia vedere altre malinconiche scene. Ve-

dete voi in quella casa, lontana solo due passi dalla bisca, queH’uomo
grosso steso sul letto ? Egli è un canonico tocco d’apoplessia. Il suo

nipote e la sua nipolina ,


a vece di prestargli i neccssarii soccorsi

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,

CAPITOLO TCKZO 35

il lasciauo morire, e s’impadroniscono di Lutto quanto T’ha di me-


glio in casa, per fame deposito nelle mani d’un di que' tali che
custodiscon tutto che gli Tiene affidato , senza pigliarsi briga alcuna
di saper se comprati ,
ereditali , oppur rubati sieno gli oggetti che

gelosamente nasconde. Ciò fatto, i nipoti avranno tolto l'agio a pian-

gere, a disperarsi, per la morte dell’ottimo loro zìo. — L’ingrati-

tudine, il sangne freddo di que’ due sciagurati mi fan rabbrividire,


sciamò don Cleofa. L’umana schiatta sarà dunque sempre avida dei
beni altrui, degli altrui tesori, e vedrà ella ognora la morte d'un
ricco parente ad occhi asciutti, ove ubbia la certezza d’imposses-
sarsi di tutto che gli apparteneva In vita? — Così fu, e così sarà
mai sempre finche la nostra schiera, suscitatrice d’ ogni bassa pas-
sione, troverà la via al core degli uomiui. — Don Cleofa si ammu-
tolì a tai delti ,
ma fu pensiero d’ Asmodeo di allontanarlo dalle

profonde sue riflessioni, chiamando la sua attenzione su altre non


men tagrimcvoli scene.
— Guardate là quei due sgraziati a cui scavasi la fossa per
seppellirli. Erano fratelli ed ammalali della stessa malattia, ma si

curavano diversamente ; V uno avea cieca fiducia nel suo medico


l’altro volea che operasse la natura. Morirono ambidue. Quegli per
aver ingoiati tutti i rimedii che gli prescrisse il dottore ,
questi per

non volerne prendere alcuno. -


— Ma questo gli è un imbroglio, disse
Leandro. Che diancine debbe fare un povero ammalato ? — Gli

è ciò che non posso dirvi, rispose il Diavolo; contentatevi solo di


sapere che vi sono degli ottimi rimedii, ma non so se sianvi dei
buoni medici.
— Muliam di scena, proseguì Asmodeo, clic ne ho delle assai più
lielle da farvi vedere. Udite voi sulla strada un baccano dì pentole?

Una donna di sessantanni sposò questa mattina un cavalierino di


diciassette, e tutti i rombinosi del quartiere si sono riuniti per festeg-
giar le loro nozze con una rimbombante musica di vassoi ,
padelle,

pentole e caldaie. — Voi mi diceste, interruppe lo studente , che i

inatri inori i i ridicoli sono opera vostra ; ma in questo voi non vi po-
neste mano. — Oh no ,
rispose lo zoppo, nè il potea, perchè non era

libero; ma quand’anche l'avessi [>oluto, non me ne sarei impacciato.

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36 IL DIAVOLO ZOPPO

Onesta donna è scrupolosa; e non si rimarita che per gustar senza

rimorsi i piaceri che anche in tarda età pur ama tanto. Io vivo a
dannar le coscienze anziché a tranquillarle.
— Con tutto il frastuono di questa ridicola serenata, disse Zam-
Imllo, mi sembra di udirne un’altra. — Nè v’ingannate. Sono tre
forastieri che dalle otto del mattino sono in una taverna ;
l’ uno è un
grosso capitano fiammingo , l’ altro un cantante francese, ed il terzo
un ufficiale della guardia tedesca-, cantano un terzetto c beono a più
non posso, ed un ciascuno c persuaso che per l’onore della propria
nazione dee ubbriacare gli altri due. — Oh bella davvero! sciamò
don Leandro Perez, nò s’accorgono que’ balordi che oramai son
brilli tulli c tre?

— Spingete ora lo sguardo su quella casa isolata, vicino a quella


del canonico; vedrete ivi tre famigerate donne che fanno il chiasso
in compagnia di tre dissoluti cortigiani. — Alle clic mi scmbran belle!
sciamò don Cleofa ,
c non istupisco se que’ grandi si degnano di
corteggiarle. Quante moine ! quanto debbon esserne innamorate !

Quanto siete giovinetto ancora ! ripigliò Asmodco ; voi non cono-
scete per anco questa razza di signorine ,
imbellettale ancor piò
di cuore che non di viso. Ella è finzione la loro, c quantunque gli

accarezzino , non hanno per essi il benché menomo sentimento di

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,

CAPITOLO TERZO 37
amicizia, e non tendono clic ad ottenere la protezione dell’uno, e
qualche pensione vitalizia dagli altri. Le civette si rassomigliano tutte.
Per appagar codeste frinì possono gli uomini spendere c spandere,
ridursi al verde, che già saranno sempre amali alla stessa maniera;
ehi paga lo sarà ognora , come dalla maggior parte delle donne
si suole amare il marito ;
la è una regola infallibile da me stabilita

negli amorosi intrighi. — Ma lasciami che questi signori si godano


que’ piaceri che pagarono si cari ,
nel mentre che i loro servitori

che stanno aspettandoli su la strada , si consolano già nella dolce


speranza di poterli godere gratis alla lor volta.

— Di grazia, interruppe Leandro Perez, spiegatemi un altro qua-

dro che si olire in questo punto a’ miei sguardi. Tutti sono ancora
alzali in questo palazzo a sinistra. Perchè gli uni si sganasciano dalle
risa, c gli altri ballano ? Mi par che si celebri una qualche festa.

— Si festeggiano nozze ,
disse lo zoppo ; tutti i servi fan baldoria, e

non son tre giorni che in questa stessa casa vi regnava la più pro-

fonda costernazione. Voglio narrarvi questa storia ; è un po'lunghetta,


a dir vero , ma forse non vi annoierà ,
e subito si accinse a rac-
contare.

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CAPITOLO IV

Amori del (onte di Bclflor u ili Eleonora di Ccapcdes

a corte <li Madrid noverava fra' suoi più ma-


gnifici c gran signori il conte di Kclflor, in-
aila follia della giovine Eleonora di
Non disegnava di sposarla, che

figlia d’ un semplice gentiluomo non era,


parer suo, degna di unirsi a lui : voleva
farne un’ amica.

Ovunque ella andasse, era da lui seguita, e non lasciava mezzo in-
tentalo di farle intendere co’sguardi l'amor che lo struggeva: ma una
vecchia accorta quanto essere lo sogliono codeste vecchie governanti,
era sempre ai fianchi della fanciulla ,
per cui non poteva il conte nè
scriverle, nè parlarle. Malediceva in suo core la vigile Marcella, che
tale era il nome della governante , e si accresceva intanto la sua
passione col crescere degli ostacoli, e pensava e ripensava ognora

a trovar modo d’ ingannar l’ odiai issimn Argo che avea in custodia


la diletta sua Io.

La gentile Eleonora, eh’ erasi accorta delle premure del conte, non
seppe serbarsi indifierentc, e diè alimento in cuore ad un amore che

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CAPITOLO QUARTO 39
a poco a poco si fé gigante. Le mie solite tentazioni però non le ser-

bano d’ esca ,
perché il mago clic mi tenca prigione , m’ impediva
l’ esercizio di mie funzioni ; ma la natura bastò da sé sola. Essa non
è meno pericolosa di me, chè avvi una sola differenza fra noi , ed è,

eli’ essa corrompe i cuori un po’ per volta, mentr’ io li seduco in un


batter d’occhio.
Stavan così le cose ,
quando un mattino Eleonora e la sua indi-
visibile governante incontrarono , andando in chiesa ,
una vecchia

che tenea fra le mani una delle più grosse corone che fabbricasse mai
l’ ipocrisia. Le si avvicinò salutandole con bocca sorridente, volgendo
la parola alla governante : Vi conservi il cielo ! a cui Marcella ri-
spose: — Sia la pace con voi 1 — Seia domanda c lecita, siete voi la

signora Marcella , la casta vedova del signor Martino Rosetta ? La

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,

40 IL DIAVOLO ZOPPO

governatile rispose che si. — Vi trovo dunque molto a proposito, por


dirvi clic in casa mia ho un vecchio parente che desidera parlarvi.

Giunse di Fiandra son pochi giorni ; egli ha conosciuto molto, mol-


tissimo vostro marito , ed ha a confidarvi cose della massima impor-
tanza. Saria venuto a casa vostra se noo fosse caduto ammalalo ,
e
non si trovasse in oggi agli estremi di sua vita. Compiacetevi dunque,

io abito a due passi di qui ,


compiacetevi di seguirmi.
Titubava la governante, donna di spirito e prudente, temendo di
por piede in fallo ,
nè sapea a quale risoluzione appigliarsi ; ma la

furba vecchia indovinando il motivo di sua irresoluzione tosto sog-


giunse: — Mia cara signora Marcella, voi potete ciecamente fidarvi

di me. Io mi chiamo la Cicona. Il licenziato Marco di Figucrna ed il

baccelliere Mira di Bcsqua si faranno mallevadori di me, come delle


avole loro. Se vi sollecito a venire in casa mia, non è che per vostro
bene, per il vantaggio vostro. Quel povero mio parente vuol restituirvi
una somma che gli fu già tempo imprestata da vostro marito. Alla
parola restituzione, sorrise la Marcella e disse: —Andiamo, Eleonora,
andiamo a trovare il parunle di questa buona signora ; c un’ opera

di misericordia il visitar gl’infermi.

Giunsero bentosto a casa della Cicona che le fece entrare in un

salotto in cui oravi un uomo infermo , con lunga e bianca barba

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CAPITOLO QL'AHTO 41

il quale se non era inolio ammalalo, sembrava cerio di non esser un I

gran diesano. Ecco qui, cugino, gli disse la vecchia introducendo la

governarne, ecco qui la brava signora Marcella, la vedova del defunto


signor Marlino Rosetta che vi fu tanto amico. —A queste parole il

vecchio, alzando un po' la lesta, salutò come meglio potè la governante


e le fe’ segno di approssimarsi, e quando fu vicina al letto, con fioca voce
le disse: — Cara signora Marcella, oh quanto, quanto ringrazio il cielo

d’ avermi lascialo tanto di vita da [Miteni vedere e restituire cento

ducati che il non mai abbastanza pianto vostro marito, c mio affezio-

nato amico, mi prestò già tempo in Bruges per trarmi d' impaccio in un
malaugurato alfar d'onore. Non vi disse mai nulla di questo fatto?
Mai no ,
rispose la Marcella, che il cielo sci pigli ,
non me ne ha
mai parlalo. Egli era sì generoso, clic non si rammentava mai i ser-

vigi resi ai proprii amici, e lungi dall'assomigliarc a que' millantatori

che vanlansi del bene che non fecer mai , ei non mi parlò neppure
'
una volta del bene che aveva realmente fatto. — Ah, egli avea pure
la gran bell’anima, rispose il vecchio; ed io il so meglio d’ ogni al-
tro ; e per provando è duopo ch’io vi racconti come uscii fortunato

da un difficile frangente, mediante i suoi soccorsi ; ma avendo cose


a dirvi che sono d’altissima importanza per la buona memoria del
defunto ,
non bramerei di dirle che all’ ottima e discreta sua ve-
dova. — Se la è così, disse in tutta fretta la Cicona ,
parlatele, par-

latele pure da solo a sola ,


che questa signorina ed io ce n’andremo
nel mio gabinetto ; e senza por tempo in mezzo ,
lasciò la Marcella
e l’ ammalalo, con dolce violenza trascinando seco Eleonora in un’

altra camera, ove senza alcun giro di frasi tostamente le disse: —


Bella Eleonora ,
i momenti son preziosi troppo per isprecarli inutil-

mente. Voi conoscete di persona il conte di Bclllor ,


che da luogo
tempo vi ama e muore di voglia di palesarvi il suo amore; ma la

vigilanza e l’austera severità della Marcella glielo impedirono finora.

Vedendone la riuscita assai difficile, ricorse al mio ingegno, ed io


j

non mi niegai d’ accorrergli in aiuto. Quel vecchio infermo che avete


veduto è un giovine e sano cameriere del conte ,
e tutto quanto suc-
cesse finora non è che una spiritosa e ben concertala invenzione per

consolare il vostro innamorato, ed ingannare la signora Marcella.

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I j

ìì IL DIAVOLO ZOPPO

La Cicona non avea ancora terminato di dire queste parole, quando


il conte, che slavasi appiattato dietro alla tappezzeria, sbucò e gel-

tossi a’ piedi d‘ Eleonora, sciamando coll'accento della più viva pas-


sione. Madamigella, perdonale al più sviscerato amante che non polca

piii vivere senza parlarvi ,


questo adopralo stratagemma per rie-
scirvi. Se questa compassionevole donna non trovava il modo di i

procurarmi un lauto bene, io mi sarei dato in braccio alla più crudele

distrazione. Queste parole, pronunciate coll’accento della più intensa


passione, c da un nomo che non le dispiaceva, commossero la giovine
Eleonora. Stette incerta un alcun tempo sulla risposta a fare: ma ri-

tornata in sè dalla sorpresa, lo guardò ed alteramente gli rispose:

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! I

CAPITOLO QUARTO 43
— Voi credete di dover molto a questa officiosa donna che sì bene
vi serviva : ma siate certo che saranno pochi i frutti che ricave-
rete dal servigio resovi.

Così dicendo fece qualche passo per ritornar nella sala. Il conte
ne la impedì. — Non mi fuggite, adorabile Eleonora, uditemi, uditemi

per un solo istante, ve ne scongiuro. 11 mio amore è ardente sì,

ma puro tanto da non poterne temere offesa. Voi vi dolete a ra-


gione, non lo niego, dell’ artifizio usato per potervi parlare; ma
non Cavea io già le tante fiate tenuto, e sempre inutilmente? Scor-
sero sei mesi dacché vi seguo ovunqne ,
dacché son l’ombra vostra
al tempio, al passeggio ed agli spetUcoli. Vana speranza ! non mai i

la sorte mi fu propizia da potervi dire qual fosse l'alTello ch’io


nutriva per voi. La vostra crudele ,
la vostra inesorabile governante

ha sempre deluse le mie speranze. — Ahimè ! chè non mi compian-


gete ,
a vece di ascrivermi a delitto uno stratagemma dettato dall’

immenso amor mio? amore mi forzava, bella Eleonora, amore mi


additava il mezzo a tranquillar le mortali mie pene, e ne furono
colpa i vezzi che vi adornano.

Belflor non trascurò d' infiorare la tenera sua parlata di tolto che
ha di meglio la patetica rcttorica d’ un amante ,
inalbandola di
calde lagrime. Si commosse la giovinetta ,
e suo malgrado la tene-
rezza e la pietà le sursero in cuore : ma lungi dal cedere alla pro-

pria debolezza ,
più sentivasi intenerita , e più mostravasi risoluta
a voler isfuggire il pericolo.- — Conte, ogni vostro dire è inutile,
non debbo più ascoltarvi; lasciatemi uscir da una casa, ove la mia
virtù ne poiria soffrire, o colle mia grida desterò l’attenzione del
vicinalo, e farò pubblica la vostra audacia. Questi detti pronun-
ciati con fermo e risoluto accento desUrono la Cicona dalla sin
allora sua passiva indifferenza. Aveva costei le sue buone ragioni
per non volersi impacciare colla giustizia ,
e pregò quindi il conte
j
di non ispinger oltre la cosa, e questi non osò più di opporsi
alle brame di Eleonora ,
che si svincolò dalle sue mani ed usci
onorata e pura ,
quale vi entrava , da quell’ infame gabinetto, ciò
che non era per anco stato permesso ad alcuna fanciulla.

Corse subito dalla sua governante dicendo : — Usciamo, ignora

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,

44 a. DIAVOLO ZOPPO

Marcella , lasciate ogni inalile discorso. . . non m’ interrogate : siamo


ingannate ,
asciamo per carità da questa fatalissima casa. — Che vi

è accaduto, figliuola mia? rispose stupefatta la governante. Chi vi ob-


bliga a partire cosi precipitosamente ? Ve lo dirò per via ,
risposo

Eleonora; ma fuggiamo; ogni istante che qni mi fermo mi cagiona un


nuovo tormento. Qualunque fosse la curiosa smania della vecchia di

saper la ragione d’una si improvvisa partenza, fu costretta di cedere


alle preghiere della fanciulla ,
senza appagare sull’ istante la curio-

sità che la struggeva. Uscirono di tutta fretta, lasciandola Cicona,


il conte ed il suo famiglio ,
siccome tre commedianti muti per l’ira

d’ essere stati solennemente fischiati dal pubblico in una mal rap-


presentata commedia.

Appena fu in istrada, Eleonora, per quanto l'agitazione glielo


permise, raccontò alla governante tutto che le era accaduto nel ga- !

binetto della Cicona. I«i signora Marcella ,


stupefatta e senza dir

motto, ascoltò strabiliando ogni cosa, e giunte a casa, sciolse la lin-

gua e disse : Confessovi, figliuola mia , che sono oltre ogni dir mor-
tificata per il successo. Come diamine mi son lasciata ingannare da
quella vecchia strega? A dir vero, da principio il cuor mi diceva di
-non la seguire : percliò non gli diedi retta ! Si ,
dovea diffidare di

quel suo fare onesto ,


di quel suo dire mietalo ;
ho commesso una
imperdonabile bestialità, massime per una donna di tanta esperienza
quale son io. Ali ! se là, in casa di quella birbona, mi aveste sco-
perto un cosi infame intrigo, io l’avrei smascherata quell’ ipocrita,
avrei strapazzato quel caro signor conte , c strappata pelo per pelo
la barba di quel finto vecchio che m’ infilzi) tante frottole. Oh, ma
voglio tornare in quella casa, vo’ restituirgli il danaro che ricevetti
perchè sulla buona fede me lo credea dovuto, e se li trovo insieme,
non perderanno niente per avere aspettato. —E si dicendo si pose
di nuovo la mantiglia che già avea deposta ,
ed usci per avviarsi
dalla Cicona.

Il conte cravi tuttora ,


ed arrabbiavasi del pessimo esito avuto
dal suo stratagemma. Chiunque altro ne’ suoi panni avrìa deposto
qualunque suo pensiero; ma egli invece si fe’più ostinalo. Avea
molte virtù ,
ma non era certo una delle più lodevoli quella di

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"
i

!
i
CAPITOLO QUARTO 45
lasciarsi trascinare dalla tendenza ch’egli area alle amorose passioni. j

Se invaghivasi d’una donna, egli era ardente nel suo sentire, e


benché uomo d’ onore ,
lutto calpestava ,
di tutto era capace per
appagare i suoi desiderii. S’ accorse che senza l’ aiuto della signora

Marcella sarebbegli riuscito inutile ogni tentativo c risolvè di non


risparmiare cosa alcuna onde amicarsela, persuaso che la governante,
per quanto severa fosse non sarebbesi mostrata inesorabile
, alla vista

dell’oro; nè si apponeva male in giudicar cosi. Se le governanti


sono fedeli ,
gli è solo che gli amanti mancano dell’ essenzialissima

metallica qualità, o che non sono liberali a sufficienza nel regalarle.

Appena giunta la signora Marcella c che trovò tuttora i tre che


cercava , sciolse il freno alla sveltissima sua lingua , e furono mille
le ingiurie che disse in un istante sì al conte che alla Cicona, gettando
in faccia al cameriere il danaro della restituzione. Il conte, da quell'
esperto eli’ egli era , sopportò in tutta pace lo scoppiato uragano, ed
appena si accorse di un po’ di tregua, cadendo alle ginocchia della

governante, perchè la scena fosse più commovente, la scongiurò di


riprendersi la borsa ,
offrendole mille doppie di soprappiù, ov’ella

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,

46 IL DIAVOLO ZOPPO I
|

avesse avuto compassione di lui. Era nuovo per lei un si possente


scongiuro ,
uè potè quindi mostrarsi inesorabile : cessarono tosto le

invettive, si abbonacciò, e riflettendo fra se stessa che la generosità


del conte valeva assai più della promessale ricompensa di don Luigi
di Cespedes, condènse die il profitto era assai maggiore in non
badando troppo ai dettami dell' importuna coscienza. Ed ecco che
dopo una debole resistenza riprese la borsa, accettò l'ofTerta delle

mille doppie, promise di essergli utile in tutto ciò che potea, di

non badar più agli scrupoli ,


sorrise c parli da quella casa con
|
fermo in cuore di mantener la venduta fede.
Siccome sapea assai bene eh’ Eleonora era una virtuosa fanciulla
i
j
cosi non diè luogo ad alcun sospetto di sua intelligenza con il conte,

per la tema che ne parlasse a don Luigi ,


suo padre ;
ma covando in

cuore di riescire nell’ infame suo proposto ,


appena giunta in casa
così le disse : — Mia cara Eleonora , ho finalmente sfogata la mia
rabbia ;
gli ho trovali que’ tre furbi ; essi erano tuttavia storditi per
la vostra repentina e coraggiosa ritirata. Minacciai la Cicona della
vendetta di vostro padre c della punizione della giustizia , e sca-

gliai al conte di Bclflor tutte le ingiuriose parole che la collera mi


suggerì. Spero così che il garbato signorino trasanderà ogni suo ten-
tativo, c che d'ora in poi non avrò più a vegliare su di lui ,
o per
meglio dire, su de’ suoi assalti. Ringrazio il cielo che la vostra fer-

mezza v’abbia sottratta al pericolo. La contentezza mia è tale e


tanta che piango perfino 1 Oh quanto sono contenta che il suo ar-
tifizio sia andato a vuoto ;
già i grandi calcolano il disonore d’ una
onesta fanciulla Siccome un giuoco, e- quegli stessi che vantansi one-
sti e probi, riguardano quest’ azione come una galanteria ,
come non
fosse una mala azione il disonorar le famiglie. Non dico già che il

conte sia assolutamente di questo carattere ,


nè che voglia ingan-
narvi ; oh no , chè non bisogna pensar male del prossimo . . . forse

le sue intenzioni saranno legittime, saranno oneste, e benché egli


sia d’un grado da poter aspirare a cospicue nozze, alle più fastose t

dame della corte ,


la vostra bellezza può avergli suscitata fiamma

si possente in cuore, da risolversi a divenire vostro marito, e parmi


anzi, or che ci penso, che nel rispondere a’ miei rimproveri, mi

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— ,,

CAPITOLO QUARTO 47
ubbia dello od alcun che su questo punto. — Che dite mai , mia
buona amica ? arrossendo disse Eleonora. Se tale fosse la sua in-

tenzione , m’ avrebbe chiesta al padre , che non isdegnerebbe certo


di concedermi in isposa ad un uomo del suo grado. — Voi dite bene...

gli è vero ,
rispose la governante , capisco aneli' io che ... si ,
la con-
dotta del conte è sospetta , e comincio a credere che non sia un gran
bel Sor di virtù .... che si che ritorno in quell’ infame casa a dirgli

tutto che mi son dimenticala per la gran foga di dire 1 che si . .


.

,\o , no ,
mia cara ,
disse Eleonora ,
è meglio dimenticarsi 1’ acca-
duto , e vendicarsi col disprezzo — Gli è vero; questo è il miglior
partito ,
e vedo che avete più giudizio di me. Ma se noi ci appo-
nessimo male intorno ai sentimenti del conte ? Se prima di otte-
nere l’ assenso del padre si fosse proposto di ottenere con tenere
cure e sollecitudini il vostro cuore, di piacervi, affinchè il vostro
nodo fosse per ogni rispetto invidiabile c felice ? Se ciò fosse
ragazza mia , sarebbe egli un gran delitto l’ ascoltarlo ? Svelatemi

ogni vostro più recondito pensiero ; la mia tenerezza vi è nota :

avete voi una qualche propensione per il conte, o vi ripugnerebbe


il divenirle sposa?

A si maliziosa inchiesta ,
la ingenua Eleouora chinò gli occhi a
terra ed arrossendo confessò che non sentiva alcuna ripugnanza per
esso lui ; il suo pudore le impediva di spiegarsi con maggior chia-
rezza ,
ma la vecchia volpe approDltò di quel rossore ,
della mo-
mentanea sua debolezza, ed insistè perchè le aprisse liberamente
.l’animo suo. Vinta finalmente dall 'affettuoso pregare di Marcella: —
Mia diletta governante ,
disse Eleonora ,
giacché volete che tutto

io vi confidi ,
giacché ho a dirvi proprio quel ch’io penso, sì, sap-
piatelo ,
BelQor mi parve degno d’ esser amato. Quanto ,
quanto mi
parve avvenente ... ne avea udito a parlar sì tiene ,
eppure gli oc-

chi miei In giudicarono più bello che non me l’ era immaginato, e


non mi potei difendere dall’essere sensibile alle sue attrattive, alle

galanti sue parole ,


alle tante sue dimostrazioni di tenero affetto. Oh
quante volle mi foste cagion di duolo per l’infaticabile vostra solerzia
in contrariare tutte le cure ch’ei prendevasi per parlarmi, per ve-
dermi ,
e vi confesserò che in segreto io il compiansi alcune fiate

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48 IL DIAVOLO ZOPPO

e l’ho compensato così co’ mici sospiri dei mali che voi, vigilando,
gli faceste soffrire; ed anzi in questo medesimo istante il mio cuore
anziché odiarlo per la sua indegna azione, lo scasa ed incolpa del
suo fallo il vostro rigore.
— Figliuola mia , soggiunse la governante ,
giacche mi date ra-
gione di credere che il conte non vi dispiacerebbe, non vo’ lasciarvi
perdere una tale fortuna. — Vi sarei grata oltre ogni dire ,
rispose

Eleonora intenerita, della benevolenza che mi dimostrate, ove il

conte non occupasse uno dei primi impieghi di corte ,


quand’ei non
fosse che un semplice cavaliere , che allora io il preferirei ad ogni
altr’ nomò .... ma non c’ illudiamo Bcltlor è un possente e gran :

signore, alla cui mano aspirano di certo le più gentili e ricche dame
della monarchia. Gli è inutile il supporre di' ei si contenti della li-

glia di don Luigi, d’una fanciulla che non può offrirgli che una
mediocre dote. No , no ,
egli non ha per me sì teneri sentimenti ;
ei

non cerca la mia mano, il mio cuore, ma il mio disonore.


— E perchè credete voi che non v’ ami tanto da scegliervi in
isposa? L’amore fa ogni dì prodigò assai più grandi. Pare, in udirvi,
che il cielo ponesse fra voi e il conte una insuperabile distanza.
Siate giusta con voi medesima ,
Eleonora ;
ei non si umilierebbe in
unendo il suo al vostro avvenire ;
voi siete d’una nobile ed antica fa-

miglia , nè dovreblie arrossire d’ esservi marito. Oh sì , è duopo ch’io


gli parli ,
giacché voi lo amate ;
vo’ conoscere quali siano i suoi di-

visaincnti , e se saran quali debbon essere, gli darò una qualche


remota speranza. — Ah, no ,
per pietà I sciamò Eleonora : non son
d’ avviso clic andiate dal conte. Ov’ei mi stimi, cesserebbe dal farlo,

se sospettar potesse un accordo fra di noi — Eh non sono poi sì

sciocca quale mi credete ,


soggiunse la Marcella. Comincierò dal rim-
proverargli la mal concepita idea di tentar di sedurvi. Ei vorrà certo
giustificarsi. — L’ascolterò... mi paleserà le sue intenzioni... Oh
infine ,
mia cara, lasciate fare a me che, avrò cura dell’ onor vostro
siccome l’ avrei del mio.

Usci la governante sull’ imbrunir del giorno e trovò Bcltlor nei


dintorni della casa di don Luigi. Gli narrò tosto il dialogo avuto
con la sua padrona , non dimenticandosi certo di narrargli con

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CAPITOLO Ql AUTO :
49
qual destrezza area strappato alla bella Eleonora il segreto del di lei

amore per lui. Fu una vera consolazione pel conte una tale scoperta,
e mille furono i ringraziamenti che fece alla Marcella ,
colle più

acconce parole a rallegrarla ,


promettendole cioè per l’ indomani le

mille doppie, tanl’era egli persuaso del buon successo della sua im-
presa , che rotto quale egli era in queste amorose mene sapea benis-
simo che fanciulla innamorata è fanciulla quasi sedotta. Si separaron

quindi contenti l’un deU’altro, e la governante tornò di fretta dalla

fanciulla.

Stava Eleonora aspettandola con lulla l’ ansia d’ un’ amante , c


appena la vide rientrare, le corse incontro domandando quale noti-

zia le recasse. — La migliore che possiate aspettarvi, le rispose la

governante : ho veduto il conte ,


gli ho parlato ,
l’ ho interrogato e
dalle sue risposte trapelava un candore che mi accertò che le di

lui intenzioni sono pure, purissime: ci non aspira ad altro che a


divenirvi marito, e me ne fe’ tranquilla giurando per tutto ciò

che havvi di più sacro fra gli uomini. Ciò non ostante, siccome po-
tete immaginarcelo ,
finsi di dubitar di sue parole , nè volli ad-
dolcirmi per un confetto. Or tiene, gli dissi, se voi avete sì buone
disposizioni per la fanciulla, chè non oc parlale a don Luigi e
non gliela dimandate in isposu?
— Ah ! mia cara Marcella ,
risposerei tosto ,
senza dar a dive-
dere d’essere imbarazzato per niente dalla mia domauda, e vor-
reste voi che senza esser certo dell’ amore di Eleonora ,
seguendo
solo i dettami d' una cieca passione, tirannicamente l’ottenessi dal
padre suo? (jiammail il riposo di quell’angiolo di bellezza mi è
sacro, e la mia stessa felicità sagritìchcrò anziché procurarle un

istante d'alTanno; l’onore mi è guida, nè ad altro avviso clic a


procurarle il tiene.

— Mentre egli in tal modo parlava , continuò la governante ,


at-

tentamente io l’ osservava ,
tutta adoprando la mia esperienza, per
leggere negli occhi suoi se sincero fosse l' amore che mi diceva di

sentire. Clic posso dirvi? scopersi in lui l'uomo dominato da una


vera cd intensa passione; frenai a stento la gioia che provai a
simile scoperta ;
ma credetti bene, quando fui persuasa di sua

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,,

50 IL DIAVOLO ZOPPO

sincerila ,
esser quegli il tempo di non occultargli più i vostri sen-

timenti, onde assicurarvi la conquista d'un si tenero e sì cospicuo


amante. Signore ,
gli dissi ,
Eleonora non vi odia, no ;
so che anzi
vi stima , e direi quasi che non sarà punto afflitta, ove la doman-
diate in isposa al padre suo. — Gran Dio ! esclamò egli allora fuor

di sé dalla gioia. Possibile clic l’amabile, la bella Eleonora senta


qualche compassione di me ? Che non vi debbo ,
dilettissima Mar-
cella ,
per avermi tratto da una sì lunga , da una sì crudele incer-
tezza. Questa notizia in’ è tanto più cara perchè datami da voi
da voi che foste sempre così contraria a’ miei teneri sentimenti e che
mi cagionaste sì atroci affanni. Ma deh , compite la mia felicità,

fatemi parlare colla divina Eleonora : io voglio assicurarla d’ un


eterno amore ,
voglio giurarle alla vostra presenza che non sarò mai
d’altri diedi lei. Ali si, guidatemi a’ di lei piedi, e da quest’istante
io giuro a voi eterna riconoscenza, ed un incancellabile amore alla

gentile vostra padroncina.


—A tali parole, soggiunse la governante, tennero dietro mille
altre più tenere espressioni ;
infine, figliuola mia, ei mi pregò con
I

sì dolce maniera di ottenergli un segreto colloquio con voi , che


non potei fare a meno di prometterglielo. — E perchè gli faceste
|

una lai promessa? disse Eleonora csLremamente commossa. Saggia


fanciulla ,
e voi mcl diceste le cento Gate ,
debbe assolutamente
sfuggire simili colloquii , chè ponilo solo ridondarle a danno. — Si

è vero , l’ ho detto |>areccliie volte , ed è un’ ottima massima : ma è


I
lecito il non seguirla in questo caso ,
potendosi da voi ornai con-

siderare il conte quale vostro marito. — No, che non è tale ancora,
nè debbo vederlo senza l’assenso del padre mio. Guai se il mio buon
padre si avvedesse d' ima segreta umorosa corrispondenza 1 io ne
trasalisco alla sola idea. Tenero quale egli è del suo decoro, io avrei
a tremare di sua ginstissim’ ira. Ah no, Marcella, nè posso, nè
debbo acconsentire alla futtami proposta.

Si pentiva allora la Marcella dell’educazione data ad una fanciulla,


da cui era sì difficile di far deviare; ma volendo ad ogni modo
oltepcr P intento ,
soggiunse: — Mia buona Eleonora, io piango dal
piacere di vedervi si assennata. Oh cure mie bene spese ! Io vado

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,

CAPITOLO QUARTO 51

stq>erba del profitto cbe faceste di mie lezioni; la modestia, il pudore


che vi adornano sono opra mia .... ma voi adesso spingete tropp’ ol-
tre le massime della insegnatavi. morale; io direi la vostra virtù

quasi selvaggia. Quantunque severa ch’io mi sia, non approvo poi un


inesorabile rigore che s’arma egualmente e conira il delitto e contro

l’ innocenza. Una fanciulla può ascoltare 1' amante senza cessar per
questo di essere virtuosa ,
quando essa conosca la purezza di sue
intenzioni ,
ed allora non è maggior fallo il corrispondere alla di
lui passione che il provarne pietà. Eleonora’, fidatevi di mia spe-
ranza ,
chè troppo vi amo per animarvi ad un passo che possa
riescirvi fatale.

— E dove e quando credereste voi ch'io potessi parlare al conte ?

disse Eleonora. — Nel vostro appartamento, rispose la governante,

è quegli il luogo il più sicuro. Domani altor che sarà notte io stessa

l’introdurrò. — Che dite mai, mia cara, tornò a dire Eleonora:


ed io potrei acconsentire che un uomo...? — Si, si che acconsen-
tirete ,
interruppe la governante. Non la è poi uua cosa si straor-

dinaria quale voi la credete. Son cose queste che succedono tutto

di , e volesse il cielo che le fanciulle avessero sempre le ottime


intenzioni che avete voi. Ma, d’altronde, che avete a temere ? Non
sarò io con voi ? —E se il padre mio mi sorprendesse ? — Siate

certa che non lo saprà ; vostro padre non dubita punto di vostra
condotta , eh’ ei conosce la mia incorruttibile fedeltà ,
ed ha una
grandissima fiducia in me. — Eleonora, trascinata dai perfidi consigli

della furba governante e dall’amore che s’era di lei impossessato,

non potè resistere più a lungo, ed imprudentemente acconsentì alla

proposta faUale.
Non tardò guari a saperlo il conte, e fu tale e tanta la sua gioia,
che regalò subito alla Marcella le già promessele cinquecento dop-

pie ed un anello di brillanti d’ un altrettanto valore. Vedendo la

governante eh’ egli era fedel manutentore di sua parola ,


non volle
essere da meno nel mantener la sua , e nella successiva notte

allorché suppose che tutti quei di casa dormivano tranquilli, e che


non correa pericolo alcuno di essere seoperta, attaccò al balcone
con tutta la più possibile precauzione una scala di seta che le avea

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1

52 IL DIAVOLO ZOPPO

dato il conte, e dì là, non senza un qualche timore, introdusse il

tenero ed appassionalo amante nell’ appartamento della sua pudi-


'

bonda padroncina.

In questo mentre la giovinetta era agitata non poco da alcune


rillcssioni. Qualunque fosse l’ affetto che avea per Bclflor, qualun-
que le ragioni addotte dalla governante, la tormentava tuttavia il

rimorso d’ aver si facilmente acconsentito ad una visita che offen-


deva il suo decoro , ne le recava conforto il pensare alla purezza
delle intenzioni del conte. — Ricevere di notte, nella propria camera,

un uomo che non avea il consenso del padre suo, c di cui ignorava
a fondo i sentimenti , sembravate un passo non sol delittuoso ,
ma

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CAPITOLO QUARTO 53
da attirarle persino il disprezzo dell' amante suo. £ quest’ ultimo
pensiero le cagionava un sì gran dolore, che lutto occupava l’anima
sua, allor che il conte le comparve innanzi.

Gillossi subito a’ di lei piedi per ringraziarla del concessogli fa-

vore. Parea commosso dall’ amore e dalla riconoscenza, e raccertò

clic divisava divenirle marito. Ma siccome discorreva rapido su


tal proposito c che le adopratc frasi erano ambigue anziché no :

— Conte ,
gli disse la fanciulla , vo’ ben supporre che non abbiate
altre mire ,
ma mi sarà sospetta sempre ogni vostra promessa
finché non sarà convalidata dal consenso del padre mio. — Signora,
rispose Bclflor, assai prima d’ora gli avrei chiesta la vostra mano,
se il dubbio non mi fosse nato in cuore che la mia domanda avesse
potuto turbare il vostro per me prezioso riposo. — Nè io vi rimpro-

vero per non averlo fatto ancora, soggiunse Eleonora, ed anzi approvo
e vi ringrazio del vostro dilicato procedere a mio riguardo ,
ma
in ora nessun timore più vi debbe trattenere, c dovete o parlar
subito a don Luigi, o non rivedermi più mai ! — Ah ! che diceste,
più non vedervi, mai più, angelica Eleonora? E dovrò credervi
insensibile all’ amore ! Se voi mi amaste quanto io vi adoro, voi
non isdegnereste di amarmi in segreto per un alcun tempo , senza
che fosse nota la nostra Gamma al padre vostro. È delizioso il mi-
stero per due esseri strettamente uniti dai lacci dell'amore ! — Po-
tria esser tale ma non sarebbe per me che una continua
per voi ,

sorgente di amare pene. Ad una fanciulla virtuosa non si addice


segreta tenerezza. Deh , conte ,
cessate dal vantarmi le delizie d’ un
riprovevole commercio. Se io m’avessi la vostra stima, non mi
proporreste il disonore; e se queste sono le vostre intenzioni, io mi
aspetto da voi il rimproccio di non essermi per anche offesa. Ma
ohimè! soggiunse poscia, rigando le guancie di amare lagrime,
la mia sola debolezza debbo incolpare per quest’oltraggio... Ah si,

io merito il vostro disprezzo per la mia troppa condiscendenza.


— Eleonora ,
adorabile Eleonora ! sciamò il conte, gli è voi che
mi fate una sì mortale ingiuria ? Ah che la vostra troppo severa
virtù è causa de’ vostri ingiusti timori. Che ! j>er essere stato si fe-

lice d’ ottenere una dolce corrispondenza all’ amor mio ,


voi temete

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54 IL DIAVOLO ZOPPO

ch’io cessi dallo stimarvi ? Ingiusta! No, mia diletta, apprezz’io


troppo il sacriQzio che mi fate ,
e non Ila mai eh’ io nieghi a voi

la stima che vi professo, e tutto farò che da me chiedete. Parlerò

domani al padre vostro ;


porrò tutto in opra perchè acconsenta alla
mia felicità, ma non debbo celarvi che temo assai ch'ei vi si ar-

renda. — die dite? sciamò Eleonora con grande sorpresa: mio pa-
dre rifiutar la proposta d’ un uomo del vostro grado ? — Ah ! egli

è questo grado che in incute


1
il timore d’ un rifiuto. Stupite ? Udi-
temi e cesserà la vostra maraviglia.

- Sono già alcuni giorni ,


soggiunse il conte, che il re mi propose
una sposa, senza che però mi dicesse il nome della gentildonna

destinatami , destramente solo facendomi capire ch’ella è un dei più


cospicui partiti del regno ,
e che gli preme moltissimo un tal mari-
taggio. Ignorando quali fossero i sentimenti che nutrivate per me,
perchè il vostro rigore non mi permise mai di poterli scoprire, non
ho dimostrata ripugnanza alcuna al suo volere. <1 indicate ora voi ,

signora ,
se don Luigi vorrà esporsi al pericolo d’ attirarsi la col-

lera del re ,
accettandomi per genero.
— No certo. Conosco il padre mio e quantunque vantaggiosa gli

potesse sembrare la vostra parentela ,


vi rinuncierà anziché dispia-
cere al re. Ma quand’ anche il padre mio non si opponesse alla no-
stra unione, non saremmo più felici ,
chè non potreste offrirmi una
roano che il re ha già promesso ad altra ! — Signora ,
disse Bclilor,

gli è vero c debbo confessare che un tal pensiero mi pone in molla


angustia. Pure io spero, regolandomi accortamente col re ,
d’acca-
parrarmi l’animo suo, c di trovar mezzo da sfuggire la disgrazia che

mi minaccia ; e voi ,
voi stessa, bellissima Eleonora, dovete aiutarmi

in ciò , ove però mi crediate degno d’unire il mio al vostro destino.

— Ed in qual modo poss’ io prender parte a sciorre un nodo clic

vi propose il re? — Eleonora ,


mia Eleonora, diss’egli coll’accento
che simulava quello della più intensa, della più viva passione, se
non isdegnaslc la mia fede ,
io saprei esser vostro ,
senza che il

principe si credesse ofleso. — Tacque incerta la fanciulla, mal alla

a difendersi da un così ostinato attacco, e martellava la povera sua


mente perchè le suggerisse i mezzi di difesa, quando il conte le

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CAPITOLO QUARTO 55
soggiunse, pittandosi alle sne ginocchia : — Ah Eleonora, amabile
fanciulla ,
permettete , deh permettete eh' io vi sposi alla presenza
della signora Marcella ;
sarà dessa il testimonio clic farà fede della
santità del nostro nodo. Potrò cosi liberarmi di leggieri dalle odiose

catene che mi si vogliono imporre ;


che se il re insistesse a volermi

sposo della dama che mi destina , mi getterò a’ suoi piedi, gli dirò

che da lungo tempo vi amava ,


e che segretamente diveniste già la

sposa mia. Egli è clemente e non vorrà strapparmi dal seno d’una
adorata sposa ; è troppo giusto e non vorrà il disonore della vostra
famiglia.
— Che dite voi, saggia Marcella, rivolgendosi alla fino allora muta
governante , che dite voi del felice pensiero clic amor m’ inspira ? —
Ch’egli è il migliore, e che fa duopo convenire che amore fu sempre
ingegnoso. —E voi, adorabile Elcnora, clic ne pensate ? Diffidereste

voi tuttora, ricusereste voi d’approvare il mio progetto? — No, ri-

spose Eleonora, purché mio padre ne sia consapevole: ei non vi si

opporrà quando avrà udite le vostre ragioni.


— Guai s' egli fosse a parte del vostro segreto , interruppe tosto
l’ abbominevol vecchia ;
non conoscete forse il signor don Luigi ? è
schifiltoso troppo per favorire misteriosi amori. La pro|>osta d’un se-

greto matrimonio l’ offenderebbe e la sua prudenza gli farebbe te-


mere conseguenze fatali da una unione ch’ei crederebbe formata in

onta ai voleri del re. Un simile indiscreto passo lo porrja in sospetto,

e gli occhi suoi, continuamente aperti sur ogni nostra azione, gl’ im-
pedirebbero tutte le vie a vedervi.
— Ne morrei di duolo ! sciamò il cortigiano. — Ma, signora Mar-
cella , soggiuns’ egli affettando costernazione ,
siete veramente per-
suasa che don Luigi ricuserebbe la proposta d’ un maritaggio clan-
destino ? — Non v’ ha il menomo dubbio ,
rispose la governante ; ma
supponiam che vi acconsenta : scrupoloso quale egli è, non vorrebbe
mai che si trasandasse la cerimonia della chiesa, ed allora il matri-
monio saria noto a tulli in men che il dico.
— Ah mia cara Eleonora, disse allora il conte, stringendo fra
le sue le mani della giovinetta amante, c bisognerà dunque, per sod-
disfare a vani riguardi di convenienza, esporci al pericolo d’essere

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,

56 IL DIAVOLO ZOPPO

separati per sempre ? Da voi sola dipende di esser mia. Il consenso


del padre vi risparmierebbe forse una qualche inquietudine, il so;
ma poiché la signora Marcella ci provò l'impossibilità di ottenerlo,

cedete, deh cedete alle mie preghiere. Eccovi il cuor, la mano, ed


allorquando sarà giunta 1’ ora di render consapevole don Luigi della
nostra unione ,
gli paleseremo allora i motivi che ci astrinsero ad
occultargliela. — E bene, conte, disse Eleonora, io acconsento che
voi non parliate subito a mio padre. Scandagliate l’ animo del re
prima ch'io m’abbia in segreto la vostra mano; parlate al principe,
ditegli, set duopo, clic mi avete segretamente sposata. Proviamo
con questa bugiarda confidenza ... — Oh no , signora ,
interruppe
subito CclQor, odio troppo la menzogna, per coprirmi il viso con la

sua maschera ;
no ,
non potrei fingere a questo segno. E poi è tale il

carattere del re ,
che s’ ei scoprisse eli’ io 1’ ho ingannalo , sarei

certo del suo disprezzo ,


del suo abbandono.
— Ma non la Unirei ,
signor don Cleofa ,
continuò Asmodeo , se

ripeter vi dovessi parola per parola le frasi adoperate da Bclllor per


sedurre la giovinetta, e solo vi dirò che non si smenticò pur uno
dei tanti affettuosi discorsi eli’ io soglio inspirare agli uomini in sif-

fatte occasioni. Ma tornarono inutili le sue promesse di confermare


più solennemente il giuramento di fedeltà che le facea in segreto;
inutile gli tornò pure l’invocare il cielo in testimonio d'ogni suo
giuro, ch’ella era ferma, la tiella Eleonora , nel proposito di serbare

intuita la sua virtù. Spuntava l’ alba c suo malgrado dovette uscire


da quella casa.
Nel di vcgncnle, la governante che supponca vi andasse di mezzo
la propria riputazione, o a meglio dire il proprio interesse ,
in la-

sciando la sua intrapresa, cosi parlò alla figlia di don Luigi: —


Eleonora , io non saprei che cosa dirvi : voi isdcgnalc l’ amor del
conte ,
quasi clic non avesse per iscopo che una mera galanteria.

Avvi forse in lui un' alcuna cosa che vi dispiaccia? — No, Marcella;
ci non mi è sembrato mai più amabile, e nuovi pregi scopersi in lui

udendolo a parlare. — Ciò essendo, rispose la governante, che debbo


pensare di voi? io non arrivo ad intendervi. Voi l’amale di cocente
amore c ricusate d’acconsentire ad un ripiego dettato dalla necessità!

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CAPITOLO QUARTO 57

0 mal vi conosco, o non amale il conte di Beltlor siccome voi mi


ditei Che non supera l'amore allor eli’ egli è vero!
— Mia diletta, soggiunse la figlia di don Luigi, voi avete più

prudenza e più esperienza di me; rifletteste voi bene alle terribili

conseguenze d’un maritaggio contratto senza il paterno assenso?


Io si, rispose tosto la governante , che ho fatto in proposito tutte le

necessarie riflessioni, c sono assai malcontenta che ostinatamente vi

opponiate alla splendida sorte che vi si presenta. Voglia Iddio che


la testardaggine vostra non istanchi e disgusti il vostro amante; te-
mete che non istrappi il velo con cui la passione gli benda gli oc-
chi e veda a che lo serbano l’immense sue ricchezze ed i cospicui suoi

natali. Giacché v 'offre la sua fede, accettate senza titubanza alcuna.


Una data parola è cosa sacra per l’uom d’ onore e qualora, ciò che

non è neanche supponibile, ei cercasse di abbandonarvi, non son


io la vostra tenera amica? Non temete di nulla, clic ciò succedendo
sarò io stessa testimonio , c la mia testimonianza vi tranquilli

perchè saria bastante, ove fosse il caso, per la condanna d'uno


spergiuro. i

Con tali suggestioni si fu che la iniqua Marcella vinse la costanza


della fanciulla, la quale paventando il pericolo che le si minacciava,
alcuni giorni dopo cedette alle male intenzioni del conte. La vecchia
P introducca ogni notte, per il verone, nell’ appartamento della fan-
ciulla ,
e il facea uscire pria che spuntasse il giorno.
Una notte che la vecchia non l’avverti d’ uscire che un po’ più
tardi , e che già 1’ aurora cacciava innanzi a sè le tenebre , cercò
di scendere in tutta fretta, ma posto un piede in fallo, cadde stra-
mazzone in sulla via.

Don Luigi di Cespedes ,


che abitava le stanze poste al di sopra di
quelle di sua figlia,
q che crasi alzato di buon mattino per dar sesto
ad alcuni affari che gli premeano , udì il rumore della caduta. Aprì
la finestra per veder che succedesse e scórse un uomo che a stento
rialzavasi da terra ,
e la signora Marcella che sul verone si ado-
prava a distaccare la scala di seta di cui il conte erasi servito con
maggior fortuna salendo che discendendo. Stupì il vecchio; fregossi
gli occhi e sulle prime la credette un'illusione, ma dopo aver bene

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58 IL DIAVOLO ZOPPO

osservato s’ avvide che tutto era realtà e che la luce del giorno,
quantunque incerta ,
gli scopriva, ahi troppo ,
la sua vergogna.

Corrucciato da una sì fatai vista ,


compreso da una giuslissim’ira,

ei scese nelle stanze di Eleonora colla sguainata sua spada neU’una


mano ed un lume nell'altra. Ei cerca si lei che la governante sua
per ambe sagrificarie al suo furore. Batte furente all’ uscio di sua
camera e le ordina di aprire; riconoscon esse la di lui voce, e
tremando obbediscono. Egli entra a passo concitato mostrando alle

atterrite donne la nuda spada: — Vengo, ci disse con soffocata voce


e con tutta la forza d’ una intensa rabbia, vengo a lavare nel sangue
d’una infame l' ingiuria fatta al padre suo, ed a punire ìd pari tempo
la vile governante che ha tradita la mia fiducia.

E l'nna c l’altra si gettarono alle sue ginocchia, e la Marcella


esclamò: — Prima chel’ ira vostra sfoghi sudi noi, degnatevi d’udir
poche parole a nostra discolpa. Saranno esse dettate dalla più

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CAPITOLO Ql’ARTO 59
schietta sincerità. —E bene , miserabile donna , sospenderò la mia
vendetta per un qualche istante , soggiunse don Luigi ;
parla ,
pale-

sami tutte le circostanze di mia sciagura. Ma che dico io mai? Non

mi son forse note ? Una sola io ne ignoro ed è il nome dell' infame


seduttore che disonorò la mia famiglia. — Signore, soggiunse la Mar-
cella ,
il conte di BelQor è il cavaliere di cui parlate.— Il conte
di Belfiori esclamò don Luigi. E dove vide la figlia mia? e come
ha egli potuto sedurla? Donna, non mi celar cosa alcuna. — Signore,
rispose tremando la governante ,
sinceramente vi narrerò come suc-
cedesse il fatto.

Gli spacciò quindi , colorandole con arte sopraffina, tutte le belle

frasi eh’ ella aveva dato ad intendere ad Eleonora essere state

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60 IL DIAVOLO ZOPPO

proferite dal conte. Tutte le virtù che dovrebbero adornare gentil

cavaliere, furongli imprestate dalla vecchia strega, e finì col pingerlo

dilicato, tenero e sincero amante. Ma giunta alla conclusione del


suo discorso non vide via per isfuggire alla verità, e tutta la disse

d' un sol fiato ,


aggiungendo tosto e assai diffusamente le cagioni
per cui s’ erano risolti a contrarre senza di lui saputa un segreto

maritaggio, e seppe dare alle sue parole tale un colore di sincerità,


chesi calmò lo sdegno di don Luigi. S’accorse dcH’efletto di sue
parole la vecchia strega, ed allora per raddolcire il padre ogni volta
più: — Ecco, gli disse, ecco il fatto; ora puniteci, vibrale quel
ferro nel seno della figlia vostra... ma che dico? Eleonora è inno-
cente, ella non ha altra colpa che quella d’ essersi ciccameute abban-
donata ai consigli della donna a cui voi stesso l’affidaste; su me
sola piombi tutta l'ira vostra; io fui che introdussi il conte nelle
stanze di vostra figlia, io che strinsi il nodo che ai conte di Belfior
la lega. Fui cieca su lutto ciò che vi era d’irregolare in un matri-
monio da voi non approvato, per procurarvi un genero il quale, come
ben sapete, è il veicolo di dove passano tutte le grazie del re; io

non ho pensato che solo alla felicità di Eleonora ,


ed ai vantaggi che
da sì bella alleanza ne ritrarrebbe la famiglia vostra. Ah, per troppo
zelo ho tradito il mio dovere 1

Mentre così parlava l'astutissima Marcella, la giovine sua padrona


non cessava dal piangere ; ed era si intenso il dolore che trasparia
dal pallido suo volto, che il buon vecchio non potè durar oltre nel

suo sdegno. Ei fu commosso c l' ira die luogo alla compassione , la-

scio cader la spada, e dimettendo il contegno d’uno sdegnato padre:


— Ah ,
figlia mia, sciamò, rigando di lagrime il volto, quanto è mai
funesta passion l’amore 1 Inesperta, tu non prevedi tutti i tuoi mali.

La sola vergogna che la presenza d’un padre fa nascere in te, ec-


cita il tuo pianto; nè sai ancora quant’ altre ragioni di dolore e di
lagrime ti prepara forse l’amante tuo. Tu sei giovinetta ed inesperta,
nè puoi sapere come bene si ammantino i seduttori per ingannare
le troppo credule fanciulle, e come vantino poscia i loro trionfi,

senza curarsi punto del disonore di cui coprirono tutta una fami-
glia, che costernata allontanasi dall’ umana società per nascondere

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,

CAPITOLO QDABTO 61

la propria vergogna. E voi, imprudente Marcella, che mai faceste?


Vedete in quale abisso ci getta il vostro indiscreto zelo per la mia
famiglia l Gli è vero che la parentela del conte ed il suo grado pos-
sono abbagliare, ed è ciò che solo può scasarvi ;
ma, sciagurata
non dovevate forse diffidare d’ un nomo del suo carattere ? Il suo
credito, lo stesso suo potere doveva porvi in guardia contro di lui.

Ora a qual partito appigliarmi, ov’ei non mantenga ad Eleonora


la data fede? Invocar la legge ? Un uomo del suo grado facilmente

si pone al sicuro. E poi quand’ anche fosse fedele a’ suoi giuramenti,

quand' anche volesse mantener la sua parola , se il re , siccome ci

disse, lo designava a sposo d’ un’altra dama, avvi a suppor che il

principe lo costringa all’ubbidienza.


Oh ,
quanto a costringerlo , o padre mio ,
interruppe Eleonora, noi
non dobbiam temer di ciò. Il conte ci accertò che il re non farebbe
mai sì atroce violenza al di lui cuore. — Ne son persuasa anch’io ,

disse la Marcella ,
che il re ama troppo il suo favorito per usargli
cotanta tirannia ,
ed è troppo generoso per essere cagione d' un sì

i
mortale affanno ai valoroso don Luigi di Cespcdes ,
che consacrò
tutti i suoi più bei giorni in servigio dello stato.
— Lo voglia il cielo 1 disse il vecchio, che i miei sieno vani ti-

mori. Ma vo’ andar dal conte a chiedergli ragione dell’ operar suo:

gli occhi del padre ofTeso sapran scrutare nel piò profondo dell’anima
sua. Se i suoi divisamenti saranno quali il desidero, ad ambe vi per-

donerò il trascorso; ma, soggiunse poscia con tuttala più possibile

fermezza ,
se dal suo dire scoprirò in lui un perfido cuore, chiuse
tati’ e due fra quattro mura ,
pagherete il fio di vostra imprudenza
fra le lagrime e gli affanni. Ciò detto, raccolse la cadutagli spada e
‘salì alle sue stanze per vestirsi, lasciandole sole a riaversi dallo spa-
vento che loro avea cagionato.
— A questo punto della narrazione Asmodeo fu interrotto dallo

studente che gli disse: — Quantunque m’interessi la storia che mi


raccontate ,
vedo là tal cosa che mi distrae dall’ ascoltarvi attento
qual io vorrei. Vedo in una casa una donna che mi sembra bella,

sedata fra un giovine ed un vecchio. A quel che pare beono tutti


e tre squisiti liquori , e mentre il veterano cavaliere abbraccia la

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62 IL DIAVOLO ZOPPO

signora, la briccona porge di nascosto una mano a baciare al giovine,

che sarà senza dubbio il suo Narciso. — Vi apponete male , rispose

*
ìì ’ ;
1

;
i • • \ «

lo zoppo; il giovine fe suo marito, il vecchio l’innamorato. Quel


vecchio è un uomo d’ importanza , è un commendatore dell’ ordin
militare di Calatrava. Oramai si è quasi ridotto al verde per codesta
donna , il cui marito non ha che un meschino impiego a corte : ella

accarezza il vecchio per interesse , ed è infedele per l’ amor di suo

marito.
— Bello bellissimo quadro, disse Zambullo. È francese lo sposo?
— No, rispose il Diavolo, egli c spaglinolo. — Ah, ah, la buona città,
di Madrid ha anch’ essa i suoi mariti condiscendenti ; ma non ve ne
ha abbondanza come in Parigi ,
che senza dubbio alcuno è la città

più fertile in uomini di tal fatta. — Perdonatemi, signor Asmodco,


disse don Cleofa, se ho interrotto il vostro racconto; proseguitelo,
ve ne prego, poiché m’ interessa d’ assai ; havvi in esso una certa se-
duzione che mi rapisce. — Ed Asmodeo disse ;

» 80««

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,

CAPITOLO V

Seguito • couchiusione degli amori del conte di Belflor

;
on Luigi uscì di buon mattino c si recò al

palazzo del conte, che non supponendo mai


'd’essere stato scoperto, trasali al vederlo.

Mosse incontro al vecchio, c dopo averlo


i affettuosamente abbracciato: — Quanta gioia

(provo, ei disse, di vedere in casa mia il

[signor don Luigi. Sarei io si fortunato che

mi si presentasse una favorevole occasione per essergli utile ? —


Signore, rispose don Luigi, desidererei parlarvi da solo a solo.

Belflor congedò i famigli ; sedettero ambidue ed il vecchio cosi


parlò: — Signor conte, il mio riposo e l’onor mio hanno duopo d’uno
schiarimento eli’ io vengo a domandarvi. Vi ho veduto questa mat-
tina uscire dalle stanze di Eleonora , che mi ha tutto confessato
dicendomi ben anco ... — Vi ha detto ch’io l’amo, esclamò il conte,

per isfuggire un dialogo che non gli andava a sangue: ma non vi

ha che leggermente espresso l’ immenso amore che per essa io nu-


tro ; sento per lei . . . ah , ella è una fanciulla adorabile ;
spirito ,

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.
-
Q 7
61 IL DIAVOLO ZOPPO

bellezza, virtù, nulla le manca. Mi si disse altresì che voi abbiate un


Aglio vicino a compiere i suoi studii in Alcala. Somiglia desso alla

sua gentil sorella ?S’ egli è bello come lei e virtuoso come voi, ei
debb’ essere un cavalier perfetto ; sono impaziente di conoscerlo e
di offrirgli tutto che posso per suo vantaggio.
— Vi ringrazio della offerta , secco secco gli rispose don Luigi ;
ma parliamo di ciò che preme, di mia — Bisogna fargli vestire

un'uniforme, interruppe di bel nuovo il conte: penserò io alla sua


fortuna ; non invecchierà nella folla degli ufiziali subalterni , ve ne

accerto — Rispondetemi, conte, e non m’interrompete, ripigliò in


!
luon fermo il conte , nè cercate di troncarmi ognora la parola. Siete
voi disposto a mantener la data feifc?... — Nè v’ha dubbio, interruppe
Belflor per la terza Data ; manterrò la promessa di adoprarmi il più
che potrò al ben essere del Aglio vostro: contate su la parola d’un
nom sincero. — Quest’ è troppo, gridò Cespedes alzandosi: dopo aver

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. I

capii on> ori sto . 63 i

sedotta tuia figlia , osereste voi d’ aggiungeie anche l' insulto ? Ma son
nobile, e l’ offesa che mi faceste non rimarrà impunita. Ciò detto, il

lasciò, e ritornossene a casa con pieno il cuor di rabbia c mulinando


in mente mille dmsamcnli di vendetta.
Appena giunto a casa sua, disse colla massima agitazione ad Eleo-
nora c a Marcella: — Non era senza nn qualche motivo che il conte
in 'era sospetto, c male non mi apposi; egli è un traditore di cui voglio
vendicarmi. Domani un ritiro vi servirà di stanza : preparatevi e rin-
graziale Iddio se la mia collera si limila a punizinn si mite. Ciò di-
cendo andò a chiudersi nel suo gabinetto, per quivi più seriamente
rilleltcre al partito a cui dove* attenersi in un frangente si difficile.

Qnal fu mai l'affanno di Eleonora all’ udire la perfidia di Belfiori

Stelle un alcun tempo immobile, tinta in viso di pallor mortale: le i |

forze le mancarono c cadde semiviva fra le braccia della sua gover-


nante, che la credette vicina a spirare. Tutto pose in opra la vecchia

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I
,
,

66 IL III AVOLO ZOPPO


I

strega perché si riavesse dallo svenimento, e vi riusci. Eleonora


riacquistò l’uso dei sensi, aperse gli ocelli e scorgendo la governante

affaccendata in soccorrerla : — Crudele ,


disse ,
traendo profondis-
simo nn sospiro; chè mi toglieste alla felicità in cui era? Io più non
sentiva l'orrore del mio destino. Perchè non mi lasciaste morire?
f

Voi che conoscete tulle le (iene che debbono turbar il riposo di mia
vita ,
poteste ideare il barbaro piacere di conservarmela ?
Provossi la Marcella a consolarla ,
ma inacerbì invece il suo do-
lore. — Tutte le vostre parole sono inutili ,
gridò la figlia di don
Luigi, nè voglio ascoltarle ; non perdete il vostro tempo a voler com-
battere la mia disperazione; voslr’ ufizio sarebbe d’ irritarla vieppiù,
voi che mi scagliaste nello spaventevole abisso in cui mi trovo,
voi ebe vi faceste garante del sincero parlar del cunte ;
senza di voi,
non avrei ceduto all’ affetto mio per lui . . . non avrei il rossore d'es-
sere stata sedotta da un ingrato, àia non vo’ più accusar voi d’una
disgrazia che mi son meritata; io non doveva seguire i vostri con-

sigli, accettando la promessa d’ un uomo senza il consenso del padre


mio. Quantunque bello fosse per me il divenir consorte al conte di
Belfior, io dovea disprezzare la sua proposta anziché acconsentirvi
a danno dell’ onor mio ;
dovea iusomma diffidare di voi ,
di lui, di

me. La debolezza d’aver ceduto a’ perfidi suoi giuramenti, il dolore


di che fui cagione al padre mio, la macchia che recai alla mia fa-

miglia, mi rendono odiosa a me stessa ;


lungi dal temere la minaccia

d'un ritiro, io vorrei invece seppellire la mia vergogna nell’angolo


più remoto della terra.
Si dicendo non si ristava dal versar amare lagrime, dal lacerar le

sue vesti, e dallo strapparsi i bei capelli per la perfidia dell’amante

sno. La vecchia ,
per mostrarsi penetrata dal duolo della padroncina,
facea pur essa le mille smorfie, spremendo alcune lagrime che tenca
in serbo per siffatte tenere occasioni ,
scagliando mille imprecazioni
contro tutti gli uomini ,
ed al conte Belfior più specialmente. —E • fia

possibile, sciamò, che il conte, il qual mi parve sì degno e probo


sia scellerato tanto da ingannarci entrambe? Non posso rinvenir dalla
mia sorpresa, ed anzi non posso ancora persuadermene.
— Diffalto, disse Eleonora, allorché me lo immagino a’ piedi miei

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CAPI 101.0 QllXTO 67
fra me stessa io dico, ma qual saria stata la fanciulla che non si fi-

dasse a quelle dolci maniere, a que’ giuramenti de’quali chiamava con


tanta audacia in testimonio il cielo, a quegli appassionati trasporli?

se dalla sua bocca uscivan tenere parole di tenerissimo amore, erano

gli occhi suoi ancora più eloquenti ,


ci parea inebriato al sol veder-
mi no , no che non m'ingannava, non posso crederlo. Mio padre
non gli avrà parlato con la moderazione ch’è necessaria in simili fran-
genti, si saranno sdegnati, ed il conte avrà lasciato trasparire da’suoi
detti più l’orgoglio d’un grande olTeso che la tenerezza d’un amante.
Ma la mia non sarà forse che un’illusione, e mi è duopo d’uscire da
quest’incertezza : scriverò a Belfior che qui raspelto,iu questa stessa

notte, e che pretendo ch’ei venga ad apportar la calma all’agitato

mio cuore, o ad accertarmi egli stesso dell’empio suo tradimento.


Approvò la Marcella un tal pensiero, e concepì ben anche una qual-
che speranza che potesse il conte, quantunque ambizioso ei fosse, per le
lagrime che la fanciulla avrebbe sparse nel divisato colloquio, risol-

versi finalmente a divenirle marito.

Frattanto Belllor, sbarazzatosi ap[iena di don Luigi ,


ridettea alle
conseguenze che potean derivare dal modo con cui lo aveva acculto.
Prevede» benissimo che lutti i Cespedes, irritati da tale ingiuria, sor-

gerebbero a vendetta, nta ciò non gli dava gran pensiero; l’ amor suo
gli stava a cuore assai di più. La calda fantasia gli pingea diggià Eleo-
nora chiusa in un chiostro, o per lo meno severamente custodita,
da non poterla forse riveder mai più. Ima tale idea lo tormentava , e
stava rivolgendo nella sua niente la via d’antivenire questa sventura,

quando il suo cameriere gli recò un biglietto che la signora Marcella


gli avea messo fra mani: era scritto da Eleonora, ed eccone il concetto:
« Domani debito lasciare il mondo per andare a seppellirmi in un
ritiro. Disonorati!, in odio alla mia famiglia ed a me stessa, è lo stato

« deplorabile a cni son ridotta per avervi prestato fede. Io vi aspetto

« questa notte per l’ ultima volta. Nella mia disperazione io mi pro-


« curo nuovi tormenti : venite a dirmi che il vostro cuore non aceon-
• sentiva ai giuramenti clic proferiva il vostro labbro, od a provarmi
• che non mi avete ingannala, accertandomi di quanto può solo tem-
« [lenire il mio destino. E siccome dopo quanto è accaduto tra voi e il

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l

68 11. lllAVlll.il 201’ PI

• padri' mio ,
poi ivbb’ essere pericoloso un tale colloquio , abbiale! i a
* compagno uu^qiiulehc amico. Abla-uelic io riconosca ila voi ogni mia
I « disgrazia ,
senio clic mi è tuttavia cara la vostra vita.
« Elkonoha ».

Il conte lesse due o tre volte ifiiesta lettera , ed imaginandosi veder


la (iglia di don Luigi nella miserabile situazione in cui si dipingeva, ne
fu commosso. Tornò in se stessile le violale leggi (l’onore, di probità
e della ragione ripresero sul di lui animo lutto il loro impero. (ìli cadile
la benda che l’aeeiccava , e come uomo liberatosi ap|>ena da un vio-
lento accesso di febbre, arrossa d’ogni stravagante parola o motto sfug-

gitogli nel delirio, ei si vergognò di tutti i vili c infami raggiri adoprati


per appagare i suoi dcsidcrii.
— Clic fisi io mai : sciagurato ,
qual demone m’invase? Uopi-o-
messo di sfalsare Eleonora, ne lui chiamato il cielo in testimonio, finsi

che il re mi avesse proposto un partito... menzogna, |m*i lìdia, sacrilegio,

tutto ho posto in opra per corrompere l’ innocenza. Forsennato! non


era meglio ch’io mi adoprassi a sopire l’aiuor mio anziché, ricor-
rere a cosi indegni artilìzii? Ecco pertanto una nobile donzella ita me
sedotta; iol’ abbandono alla collera ile’ suoi parenti, da me disonorati
al | tardi lei, eda me fatta miserabile [icreltè mi faeca liealo. . . ah mia
maledizione ! Non debbo io riparar l’oltraggio che le feci ? Si, che lo
delibo, si che lo voglio, e sposandola manterrò la mia parola. Clii ardirà

d’opimrsi a’ miei giustissimi divisamruti? I.a sua coniliscendeiiza dee


farmi dubitar ili sua virtù ? ali no, ch’io lieti mi so quanto mi costasse
a vincere le sue ripulse, chèella non cedette solo a’ miei trasporli, ma
alla giurata lede. Ma d'altronde mi tal legame non è a seconda del mio
grado. Io che [tosso aspirare alla mano delle più ricche ,
delle pili illu-

stri donzelle dello sialo, diverrò il marito della figlia d’un semplice
gentiluomo di ristrette fortune? Che si dirà di ine alla corte? Si dirà
ch’io feci un ridicolo matrimonio!
Posto così fra l'amore e l’ambizione, ei non s-ipea a qual partilo ap-
pigliarsi, ma benché incerto si' avreblie o no s|Hisata Eleonora, non tra-

lasciò a risolversi di andarla a trovare in quella stessa notte ,


e die
Online al cameriere di av vertirne tosto la signora Marcella.

Don l.uigi intanto avea trascorsa tutta la giornata in pensando al

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CAPITOLI) PLINTO 61
•mulo ili |h»ito un riparo a l’onor suo, ma ciò gli sembrava assai difli-

cilc. Hicorrere alle leggi civili, gli era un farpubblieu il propriodisonoro,


olire alla temenza, e non senza fondamento, clic la giustizia ini i giu-

dici non sarebbero ululati d’accordo; nè si sentiva il coraggio di uudarsi


a gettare a’ piedi del re. Credendo vero che il principe volesse dare una
moglie a Bellini', temeva di fare un inulii (tasso; non gli rimaneva dun-
que che la via dell’armi c a tale partito decise di attenersi.
i\el l'eccesso d’impeto di sua collera ei pensò di maudare un car-
tello di siala al conte ,
ma rillct tendo d’essere vecchio e troppo de-
t buie per potersi fidare al suo braccio, decise valersi ili suo tiglio, i cui
colpi sarebbero stati più sicuri de’ suoi. Spetti dunque uno de’suoi servi
ad Alcala con una lettera che intimava a suo liglio di trus|uirtarsi su-
bito in Madrid per vendicare un’offesa fatta alla famiglia dei Cesjiedes.

Questo tìglio, chiamato don l'cdro, era un cavaliere di diciott'anni,

bellissimo di persona e prede tanto che in tutta la città d’ Alcala era

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!

70 II DIAVOLO ZOPPO

reputato il pii» formidabile studente dell’ università — ma voi lo cono-


scete, soggiunse il Diavolo, ed è inutile quindi eh’ io di più vi aggiunga.

È vero ,
disse don Cicuta ,
egli è coraggioso e stimabile quant’ altri

mal essere lo possa.

— Questo
- giovine, prosegui Asmodeo ,
non era In Alcala In quel

tempo, come il padre suo eretica. Il cocente desio di veder la dama


ch'egli amava lo avea ricondotto in Madrid. Ne avea fatta la conquista

al Prado, l’ultima fiata ch’ei venne a riveder la sua famiglia. Igno-


ratane tuttavia il nome, perchè gli era stato imposto di non far ri-

cerca alcuna su tal proposito ,


ed orasi ,
quant inique a malincuore,
sottomesso a si crudcl comando. F.ra l'amata incognita sua una no-
bile donzella che lo amava, ma non lìdavasi gran fatto della circo-
s]iezione e della costanza d’ uno studente, e credea di doverlo porre .
:

alla prova prima di darsi a conoscere.


Ei jiensava più alla sua bella incognita che non alla filosofìa di Ari-

stotile, e la poca distanza di qui ad Alcala lo inducea soventi volte

a mancar alla scuola come fate voi, ma colla differenza jierò ch’ei lo

facea por un oggetto, il quale era un alcun elle meglio della vostra
signora Tomasa. Perchè don Luigi, il padre suo, non giugnesse ad
accorgersi di sue amorose gite, soler a alloggiare iu un albergo posto
all'estremo della città, ove nascondcasi sotto di un supposto nome.

Non ne liscia che la mattina ad una cert’ora determinata, pertrasfe- t


j

rirsi in una casa ove la signora, causa immediata del suo poco stu-
dio, avea la bontà di recarvisi, accompagnata però da una sua ca- i

meriera . Dopo il colloquio si rintanava nell'albergo e non ne usciva

più che a notte, per godersela tutta, tutta intiera.


Successe che una notte, passando |>er un remoto viottolo, udì al-

cune voci ed alcuni strumenti che attrassero tutta la sua attenzione,


ltistette |>er ascoltare; era una serenata, ed il cavaliere che la facea

fare era ubbriaco, ed in conseguenza d’nn umor brutale : appena si

accorse dello studente, venne a lui precipitoso e senza complimento

alcuno; -
— Amico, gli disse con burbanza, mettetevi la via fra gambe;
i curiosi qui non fan fortuna. — Potrei andarmene, rispose don Perirò,

punto da queste parole, se me ne aveste pregato con miglior garbo,

ma vo’ restii re ]>er insegnarvi a parlare. Vediam dunque, rispose il

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CAPITOLO OLINTO 71

cavalier dalla serenata ,


Tediato ehi di noi due abbandonerà il suo
posto all’altro.

Don Perirò pose aneli 'esso mano alla spada, c cominciarono a bat-
tersi. Benché il suo antagonista parasse con destre™, non jHitè schi-

fare un mortai colpo, e cadde stramazzone in sul selciato. I suona-


tori tutti, che areali già ri|>osli i loro strumenti e sguainato le loro

spade per accorrere in suo soccorso, s’avrenlarono per vendicarlo.


Assalirono tutti uniti don Pedro, che in tal frangente adoprò tutto

il suo valore. Non solo difendeasi con istraordinaria destrezza da tutte


le botte che gli erano dirette, ma ne vibrava di poderose tanto, da
non lasciare in riposo i suoi nemici.

Erano ciò non ostante si numerosi ed ostinali, che la sua abilità


quale schermitore non gli avrebbe servito a nulla, c avrebbe dovuto

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/ 2 II. DIAVOLO ZOPI'O

soccombere se il conte di llelllor, passando a caso da quel viottolo,


non prendea le sue difese. Era generoso il conte e d’oli imo cuore, nè
gli resse l'animo quindi di veder colonia gente armata a danno d’un
solo, senza correre In suo soccorso. Sguaini» la spada ,
e postosi al

fianco di don l’cdro, attaccò con tanta forza con esso lui quella ciurma
di bricconi che fuggirmi tulli, feriti gli uni, timorosi d’es serio gli altri.

Libero il campo, volle lo studente ringraziare il colile del soccorso

avuto; ma llelllor rinterruppc e disse: — Lasciali! le inutili parole;

siete ferito? No, rispose don Pcdro. — Allontaniamoci di qui, con-


tinuò il conte: vedo che avete ucciso mi uomo, e sarebbe imprudenza
il fermarsi più a lungo : men che il jiensale [udreste essere sorpreso.

Camminarono a studiali e svelti passi e si internarono in un’altra via,

ed allorché furono lontani dal luogodrl combattimento si fermarono.


Itoli l’cdro, spinto da giustissima riconoscenza, pregò il conte a
non celargli il nome del cavaliere cui professava tante obbligazioni.
Belllor non tardò a compiacerlo e gli domandi» il suo: ina non volendo
lo studente farsi conoscere, rispose chiamarsi don Giovanni di Maros,
e lo accertò che eternamente sanasi ricordalo di quanto avea fatto
per lui.

— Ebbene, rispose il colile, voglio in questo stesso punto offrirvi

un’occasione d’isdehitarvi meco. Ilo questa uottestessa un appunta-


mento che non c senza pericolo, ed andava quindi in cerca d’un amico
per accompagnarmi: conobbi il valor vostro c vi proporrei di venir
conine, ove non aveste alcuna cosa - Soli tutto vostro, disse lo

studente con gran vivacità: non potrei far uso miglior della vita clic

a voi delibo, clic esponendola per voi. Andiamo, andiamo ch’io vi se-

guo. E Belllor condusse con sè don Pia Irò in casa di don Luigi,
enlraiido tulli e due |>er il verone nell’np)»nrtanieiilo di Eleonora.
E qui don Cicuta interruppe il Diavolo. — Signor Asmodco, gli

disse, come c possibile che don Pcdro non abbia conosciuta la casa

di suo [ladre? — Non [mica conoscerla, rispose il Demone: don Luigi

non l’abitava che da otto giorni, avendo cangiato di quartiere, e don


Perirò non l’area ancor saputo, cd è ciò che vi avrei dello se non j

m’interrompevate. Voi siete troppo vivace, eri avete la cattiva usanza di


troncare le parole in bocca alla gente: emendatevi da questo difetto.

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CAPITOLO QUINTO 73

Don l’ctlro, continuò lo zoppo, non credea dunque d'essere in


casa del padre suo, nè s’ accorse che la signora Marcella gli avesse
introdotti, |>oichè ella andò loro incontro senza lume in uu' antica-

mera, in cui lielllnr pregii il suo compagno di rimanersi, nel men-


tre ch’egli starebbe nelle stanze della sua dama. Vi acconsenti lo
studente e si adagiò alla meglio sur una sedia a bracciuoli, lenendo
sguainata la sjiada in pugno com'uom che teme una sorpresa. Sognava

alla felicità di cui colmava amore il conte, c s’ augurava d’essere


fortunato quaut’esso l’era, quantunque la sua bella incognita avesse
qualche bontà per lui, ma non (pianto avria desiderato, e quanto ]>er

il conte ne aveva Eleonora.


Mentri' abbamlonavasi ai dolci c strani pensieri diamante appas-
sionato, udì che si cercava d'aprir pian piano un uscio che non era
quello degli amanti ,
e vide splendere un lume dalla toppa della
chiave. Si levò d’un salto in piedi, s’avanzò coraggioso ver la porla

che s’apri, e drizzò la punta della spada contro suo padre, ch’egli
era lui por l’appunto che veniva nelle stanze d’ Eleonora onde
scoprire se il conte vi si trovasse. Il dabhcnuomo però non si cre-
dea, dopo quanto era accaduto, che sua figlia e la .Marcella avreb-
bero osalo di riceverlo ancora; ed ecco il perchè non le avea fatte
coricare in altre stanze; tuttavia avea pensato poscia che prima di
entrare al nuovo giorno nel ritiro avrebbero potuto concepire il de-
siderio di parlargli per l’ultima volta.

Chiunque tu sia, gli disse lo studente, non entrar qui, n temi di

Ina vita. A queste parole don Luigi scopri don Dedro che stava
fissandolo con attenzione. Si riconobbero. — Ah figlio mio, gridò il

vecchio, con quanta impazienza io ti aspettava! perchè non avver-

tirmi del tuo arrivo? temevi forse di turbare il mio riposo? Ah ch’io
non |>osso più gustarne nella crudele ambascia in cui sono immerso.
— O padre mio, maravigliando disse don Pedro, e siete ben voi
ch’io veggo? non sono ingannati forse gli occhi miei da fallace ras-
somiglianza? — D’onde colale stupore, rispose don Luigi, non se' tu

in casa del padre tuo? e non ti scrissi in forse ad Alcala che qui

abito da otto giorni in poi? — Giusto Iddio! esclamò lo studente-,


che ascolto! Sono dunque nelle stanze di min sorella!

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74 IL DIAVOLO ZOPPO

Non erano proferte ancora queste parole, clic il conte il «piale avea
udito «pialclie rumore, credendo si assalisse la sua scorta, uscì tosto

con nuda la spada in pugno dalle camere d’F.leonora. Al vederlo di-

venne furibondo il vecchio, c mostrandolo a suo liglio esclamò :



Ecco lo spergiuro audace clic mi rapìa il ri|>oso, c recava al nostro
onore incanccllabil macchia. Vendichiamoci; puniscasi tosto il tra-

ditore. Sì dicendo sguainava- il ferro che avea sotto la veste da cantera

e poncviisi in alto di assalir Belllor; ma don Pedro s’interpose cnc


lo impedì. — Fermatevi, |>adre mio, gli disse, moderate, ve nc prego,

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CAPITOLO QUINTO 75
i trasporti della vostra rollerà; che | «'usate voi di fare? — Figlio,

figlio mio, rispose il vecchio, tu trattieni il braccio mio vendicatore?


temi forse eh’ io sia debole o timoroso ? ebbene vendica tu l’oltrag-

gio fatto alla nostra famiglia; per questo appunto io ti richiedea in


Madrid. Se perirai, io prenderò il tuo posto; il conte dee cadere sotto
i nostri colpi, o toglierci ad ambidue la vita, come già iniquamente ci

tolse ad ambidue l’ onore.


— No, padre mio, non posso assecondarvi nella giustissima vo-
stra impazienza. Anziché attentare alla vita del conte ,
io son qui
venuto per difenderla. Ho data la mia parola; la mia lealtà il richiede.

Usciamo, conte, prosegui volgendosi a Belfior. — Ah vile, lo inter-

ruppe don Luigi, (issando don Fedro col più iroso sguardo, tu stesso
ti op|«mi ad una vendetta eh 'esser dovrebbe l’unico tuo desiderio?
mio figlio, lo stesso figtiuol mio è d’accordo col |kmTu!o che sedusse
Kleonora, la di lui sorella? ma non is|>crar di deludere il min furore.
Chiamerà tutti i mici fumigli e mi vendicheranno essi di tua viltà
c del tradimento suo.
— Signore, soggiunse don Fedro, siate meno ingiusto col figlio

vostro. Cessate dal chiamarlo un vile; ci non inerita si odioso nome.


Il conte questa notte mi salvi) la vita, e senza conoscermi mi pro-
luse d' accompagnarlo ad un ritrovo. M’ofTeri ili dividere con lui i

pericoli clic polea incontrare, senza clic suppor potessi che la mia
gratitudine mi armerebbe il braccio contro l'onor di mia famiglia.
Ella è dura, immensamente dura la mia fatalità, ma è sacra d’altronde
la mia parola, ne sarà mai ch’io debba perdere la pubblica estima-
zione qual mancator di fede. Ah si, padre, a lui debbo la vita, e debbo
a qualunque costo serbargliela in ipicsto islaute; deh calmatevi alle
mie ragioni, ed accertatevi che non sento meno vivamente di voi
l’ingiuria fattaci, e che domani cercherò di spargere il sangue suo
con lo stesso ardore con cui questa notte sono costretto a difenderlo.
— Il conte, dalla cui bocca non era sfuggito insin allora neanche,
un molto, tanto egli era sorpreso dalla stranezza dcU’avvcnlura , disse,

a don Fedro queste parole: — Voi potreste mal vendicare codest’ in-
sulto scegliendo l’armi; ofirirovvi io stesso un mezzo assai più accon-
cio a riparare il vostro onore. Candidamente vi confesserò ch’io non

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I

76 IL DIAVOLO ZOPPO

mi era proposto inai ili divenir lo sposo di Eleonora, ma clic questa


mattina ricevetti una sua lettera clic mi commosse, e che le sue la-
grime di poc’anzi mi hanno poi intieramente vinto; ah si, io non
aspiro ad altro che ad essere suo marito! — Se il re vi destina

ad un'altra donna, disse don Luigi, e come potrete voi disperi- ;

sani? Fu bugiardo il mio dire, non senza un alcun rossore I

interruppe Belflor; perdonate, ve ne prego, perdonate questa menzo-


gna ad un uomo a cui l’amore turbava la ragione; gli è un fallo che
la violenza di mia passione mi fe’ commettere, e la di cui espiazione

I sta ora nel confessarlo.

— Signore, ris|Mise il vecchio, dopo questa confessione, degna di


un cuor ben fat|p, io non ho più dubbio alcuno sulla sincerità di

vostre parole e veggo che volete riparar davvero all’ingiuria che ci


faceste: non più collera, eh’ essa è vinta dalle vostre promesse, ed
io la dimentico nelle vostre braccia. —Ciò dicendo avvicinossi al conte,
che già rnovea ver lui. Si abbracciarono e riabbracciarono più volte;
quindi RelOor volgendosi a don Pedro: —E voi, supposto don Gio-
vanni, voi che guadagnaste già tutta la mia stima por l'incomparabile
valore, e per la generosità de* vostri sentimenti, venite fra le mie
braccia, ed abbiatevi una inalterabile fraterna amicizia. — Si dicendo
abbracciò don Pedro, che risjiottosamente gli corrispose, aggiungendo
queste poche parole dettate dal più affettuoso sentire, degne vera-
mente di quell’ anima nobile: — Nel promettermi un’amicizia, di
cui andrò superbo ,
voi acquistate la mia: accertatevi ,
signore, di

avere in me un fido amico che sarà tutto vostro sino all’ ultimo mo-
< mento di sua vita.

Nel mentre di questa scena, la bella Eleonora attenta ascoltava al-


l’uscio tutto che sidicea. Volea dapprima uscire e frapporsi in mezzo
ai ferri, senza saper perchè: Marcella ne la impedì; ma allorché s’ac-
còrse la scaltra vecchia che i cavalieri si amicavano, pensò che la pre-
senza loro sarebbe stata a proposito. Ed eccole ambedue col fazzoletto

in mano correre piangendo a prostrarsi a’ pie’ di don Luigi. Temeva-


no, c non senza ragione, che dopo la sorpresa della scorsa notte non
le rimproverasse amaramente per la recidiva; ma ]>orgendo egli la

mano ad Eleonora, la rialzò dicendole: — Figlia mia, asciuga le tue

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CAPITOLO QUINTO 77
lagrime, io non li farò nuovi rimproveri, c poiché l'amante tuo man-
tien la giurata fede, io obblierò il passalo.

— Si , don Luigi, disse il conte, Eleonora sarà la sposa mia, ed a


vie meglio riparar l'offesa fattavi, jkt darvi maggior risarcimento, ed
a vostro figlio un jwgno dell'amicizia che gli consacro, offro a don Fe-
dro la mano di mia sorella Eugenia. — Ah, conle! gridi) don Luigi con
tulio il trasporto, cpial segnalalo onore vi piace compartire al tiglio

mio! Oliai padre fia di me piò contento? La gioia con cui ili’ inebbriatc
«troppo gran compenso ai sofferti affanni!

Se oltre ogni dir fu contento il vecchio dell'offerta fattagli dal conte,


non così lo fu don Fedro, il figliuol suo: egli amava ardentemente, alla

follia, la lidia sua incognita, c rimase accuorato «piiudi senza poter dir
parola; ma Belllor, che non pose ménte al suo imbarazzo, s'accommiatò
dicendo: — Im|mzienle «l'unirmi a voi tutti coi legami della parentela,

m’affretto a comandar gli ap|>arecrhi necessari! |>ei «Ine s|>onsali.

Farlito Belllor, don Luigi lasciò nel suo ap|>artamcnto Eleonora, e si

ritirò nelle sue stanze in compagnia di don Fedro, che con tutta la sin-

cerità di uno studente gli disse: — Fadre mio, non obbligatemi, ve ne


prego, a divenir lo sposo della sorella del conte: tasta eli Vi sia marito

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78 IL DIAVOLO ZOPPO

ad Eleonora, perché venga riparato all’oiior di nostra famiglia. — Che,


figlio mio, ris|>ose il padre, sdegneresti di menar in moglie la sorella

del conte? — Si, ve lo confesso, o padre mio, saria ]>er me un sup-


plizio, né vi nasconderò il perché. Amo, o per meglio dire, adoro da sei

mesi una nobile fanciulla, ln-lla (pianto dir si può; mi corrisixmde, e


non sarò felice se non finito ad essa.
— Ella è pure condizioni? infelice quella d'un padre! esclamò don
Luigi; difficilmente i figli suoi son disposti a far ciò che desidera. Ma
chi è (lessa costei che si ti innamorava? Noi si), rispnsegli don I’c-

dro: lo saprò Insinché sarà certa di mia costanza e discretezza, ma non


dubito punto che la sua famiglia essere possa una delle piò illustri di

Spagna.
— E credete voi, garbato signorino, soggiunse il vecchio, con pili

severo piglio, ch’io sarei compiacente tanto da approvare questo vostro


amorazzo da romanzo? ch’io soffrirei che rinunziastc al piò splendido
matrimonio che {tossi offrirvi la fortuna, per serbala i fedele aduna
ragazza di cui ignorate {versino il nome? No, non crediatenii così in-

dulgente, e soffocale piuttosto i sentimenti clic nutrite |ier una persona

che può essere indegna forse di averceli inspirali, e seriamente pensate


a meritarvi l’onore che il conte disse di volervi compartire. — Sono
inutili [virole, o padre mio, disse lo studente, giacché non sarà mai pos-
sibile ch’io dimentichi la da me adorata incognita; non vi sarà umana
forza che valga a separarmi da lei ... .
quand’anche mi si priqionesse

un'infante.... Taci, disse alteramente don Luigi, gli è un vantare in-


solentemente troppo una costanza che eccita tutta lamia collera: esci,
c non mi comparir piò innanzi se non disposto ad obbedirmi.
Don l’edro non osò di rispondere al padre suo, per la tema di viep-
più inasprirlo. Si ritirò in una camera, ove passi) la notte in balìa di

riflessioni malinconiche e in un soavi. Ei {(cosava, c con un alcun che di


duolo, che si saria attiralo lo sdegno di tutta la sua famiglia ricusando di

menar in moglie la sorella del conte: ma si consolava coll’idea che la

bella incognita gli sarebbe gratissima per un sì gran sacrificio, Lusin-


gavasi persino che dopo sì bella prova di fedeltà essa gli avreblie linai-

mente |>atcsato il nome di sua famiglia, che non dubitava punto sarebbe
stata eguale per lo meno a quella d’Eugenia.

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CAPITOLO QUINTO 79

Pieno ili sì belle sjieranze, usci sul far del giorno c andò al Prado

per passeggiare ,
aspettando l’ ora assegnatagli per trovarsi da donna
Giovanna; gli è questo il nome della persona in casa della quale era so-

lito trattenersi ogni di in colloquio colla sua innamorata. Impaziente


as| iettò questo momento, c appena giunto si recò al convegno.
Trovò l’incognita che era stata più sollecita dell'altre volte: ma la

trovò che scioglievasi in lagrime in compagnia di donna Giovanna, e


penetrata dal piò intenso dolore. (Jualc spettacolo per un amantei'Le
si avvicinò nel massimo turbamento e gittossi alle sue ginocchia: —
Signora, le disse, che degg’io pensare dell’ affanno in cui vi trovo

immersa? (Juale disgrazia mi annunziano queste lagrime che mi piom-


bano sul cuore? — Voi non potete immaginarvi, risjmsegli la fanciulla,

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80 IL DIAVOLO ZOPPO

la sorto fatalo che ci attornio. -


— Noi dobbiam separarci |ior sempre: è
nostro credei destino il non risederci mai più.

Erano interrotte lo sue parole da tanti e iterati sospiri, elio non sa-
prei dire se don Pedro fosso pili commosso dalle sue parole o dall’af-

fanno da cui mostrarasi compresa nel proferirle: — Giusto Iddio,


sciamò con un impeto di furore che non potè reprimere, puoi tu soffrire

che si sciolga un malo di cui fusolo ne conosci la innocenza? Ila, si-

gnora, soggiunsi’ [toscia, non sareste voi senza ragione spaventata?


siete voi certa che vogliasi strapparv i dalle braccia del più fedele fra

gli amatori? son io veramente il più sventurato degli uomini? I.a

nostra disgrazia è pur troppo vera, ris]Hisc l’incognita; mio fratello,


ila cui di|>endo, oggi mi fa la s|misìi, e me lo ha detto ei stesso. —E |

chi è questo fortunato sposo? soggiunse don Perirò innamorato con


tutta l’ansia d’un cuore; nominatelo, ch’io nella mia disperazione....
Ignoro ancora il suo nome, disse l’incognita: mio fratello non ha vo-
luto palesarmelo; m'ha detto solo ch’ei desiderava vedessi prima il

cavaliere.
— Ma, signora, disse don l’cdro, obbedirete voi senza resistenza

alcuna ai voleri del fratcl vostro? vi lascierete trascinare all’altare,


senza lagnarvi d'un si crudel sacrifizio? non farete cosa alcuna in
favor mio? Ah , io non temetti d'espormi alla collera del padre mio an-
ziché abbandonarvi: le sue minacele non valsero a scuotere la mia fe-

deltà, e lutto il suo rigore non potrà costringermi ad riposare la dama


da lui pro|H>slami, abbcnchè sarchia* cospicuo maritaggio. — E chi è
questa dama, disse l’incognita? I.a sorella del conte Ilclllor, ri-

spose lo studente. — Ah, don Pedro! esclamò l’ incognita, oltre ogni


dir sorpresa, nè v’ingannate, siete voi certo di quanto dite? «1 è pro-
prio Eugenia ,
la sorella del conte, la fanciulla che vi si propose a
sposa?
— Ma si; il conte stesso' m’offri la maiio di sua sorella. — E che,
sareste voi il cavaliere a cui mi destina il fratei mio? — Che ascolto,
esclamò lo studente alla sua volta, la sorella del conte di Reltlor sarebbe

mai la mia incognita? — Si, don Pedro, riprese Eugenia, ma è tale

c tanta la gioia che m’iuebbria, che temo quasi d’ ingannarmi o di


sognare, chè non mi par vera tanta inas|>cltata felicità.

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CAPITOLO QUINTO 81

A queste parole iloti Putirò abbracciò le sue ginocchia; pi csa quindi

la destra sua, la baciò, la ribaciò con l’entusiasmo d'un amante che


passa repentino dall’eccesso del dolore all'eccesso della gioia. Intanto
cli’egli si abbandonava ai trasporti dcU’amor suo,- Eugenia gli Iacea
mille carezze accompagnate da tenere e lusinghiere parole. — Quanti
affanni mi avrebbe risparmiato il fratei mio, nominandomi lo sposo
che mi destinava! quanta avversione io aveva concepita già per questo
sposo! Ah don Pedro, quanto vi odiava! — Bella Eugenia, come egli

è dolce quest’odio per me ! lo vo’ meritarlo atlorandov i sino all’estremo


di della mia vita.

Dopo clic questi due amanti s’ebbero dimostra tutta la reciproca

loro tenerezza, Eugenia volle saper dallo studente come nvea potuto
guadagnarsi l’amicizia di suo fratello. Don Pedro non le nascose gli

amori del conte con sua sorella, e gli narrò lutto ciò ch’era successo
nella passata notte. -Fu per essa un non dicibile piacere nel giungere

a sapere clic suo fratello dovea divenir lo S[mjso della sorella di lui che
tanto amava. Donna Giovanna era I toppo tenera della sorte della
gentil sua amica |>er non essere contenta di sì felice avventura, e ne
testimoniò sua gioia sìa lei che al giovine don Pedro, che finalmente
si separò dalla non piò incognita sua amante, do)H> essersi però accor-
dati fra di loro che non avrebbero (Lite a divedere di conoscersi quando
si incontrerebbero dinanzi al conte.
Tornato don Perirò dal padre suo, il quale trovatolo disposto ad
obbedirgli ne fu oltre ogni dir contento, tanto piò che attribuì la

obbedienza sua al tuon fermo e risoluto con cui gli uvea parlato
ueH’antecedenlu notte. Aspettavano essi notizie da Bcltlor, e non tardò
guari che ricevettero un di lui biglietto. Gli avvisava in esso di aver
ottenuto il consenso del re per il suo matrimonio e per quello di sua
sorella, come pure una considcrcvol carica per don Pedro, aggiun-
gendo che il domani poteano striglierei i due mali, giacché gli ordini
dati all’uopo erano eseguili con tale diligenza, da non lasciar dubr
Ino alcuno sui necessarii preparativi. Ei venne piscia ildo|io pranzo
a confermar loro quanto avea scritto, ed a presentare ad essi donna
Eugenia.
Non è a direi la cortesia di dun I.uigi nel ricevere la licita e gentil
82 IL III A VOLO ZOPPO

fanciulla, c quanti furono gli abbracciamenti c baci di donna Eleonora.


Don l’edro invece, per quanto ei fosse agitato dall’ amore e dalla

gioia, sep|>e frenarsi abbastanza da non dare al conte il menomo so-

spetto di loro intelligenza.

Belflor che non era intento clic ad osservare sua sorella, credette

di scorgere, malgrado la riserva cli’cssa crasi inqiosta, che don Pe-


dro non le dispiaceva. Per accertarsene vieppiù la prese un momento
in disparte e le fc’ confessare clic il cavaliere le andava a genio. Le
palesò poscia il nome c la sua nascila, ciò che non avea per anco
fatto per tema che l’ ineguaglianza di condizione non l’avesse preve-
nuta contro di lui, c clic la scaltra giovinetta Unse d'udire con istu-
pnrc c por la prima Hata.
E finalmente, dopo molti e reciproci complimenti, fu deciso che

le nozze si farebbero in casa di don Luigi. E di fatti furono celebrate

in questa sera, c non è ancora terminata la festa; ed ecco il motivo


della gioia che regna in questa casa. Tutti liallano, tripudiano, c la

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CAPITOLO QUINTO S3

sola Marcella non può dividere il contento degli altri: piange la scia-

gurata mentre gli altri ridono, pendìi! il conte di llelllor, dopo il suo
matrimonio, ha lutto confessato a don Luigi, che tosto fc’rinchiu-
dcrc la vecchia strega m monasteri o de las arrepentidas, ove le mille

doppie ricevute per sedurre Eleonora serviranno a farle fare peni-

tenza |h'I rimanente de' giorni stioi.

t
|
I

I !

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CAPITOLO SESTO 83

tale clip... — Un momento, signor Asmodeo, disse don Cleofa ad un


tratto: veggo una carrozza che passa i>cr la strada, e non vo’ che passi
i senza saper chi siavi dentro. — Zitto! interruppe lo zoppo abbassando
j
la voce, come s’ci temesse d’essere inteso: sappiate clic quella car-

rozza trascina nno dei più pesanti personaggi della monarchia. Egli
è un presidente che va a spassarsela in casa d'una sua vecchia amica.
Per non essere riconosciuto, egli fa come Caligola, che in casi simili
I
s’imparruccava.
— Ma ritorniamo al quadro che offrir volpa a’ vostri sguardi allor-
ché m’interrompeste. Vedetelo nella stessa casa ilei marchese, al piano
supcriore; non iscorgete un uomo che lavora in un gabinetto pieno

di libri e manoscritti? - Sarà, disse Zambullo, l'intendente del mar-


chese che si martella per rinvenire il mezzo di pagare i debiti del

suo padrone. — Possibile, rispose il Diavolo ,


clic siate si inesperto

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86 11. DIAVOLO ZOPPO !

>' ancora? Ma come mai vi può cadere in mente che sieno questi i fastidii

degl' intendenti di questa sorta di case? Gli è assai più facile clic |icn- !

sino a trar partito del disordine degli affari, piuttosto che ripararli.

Non è dunque un intendente quello che voi vedete, ma uno scrittore;


il 'marchese gli dà stanza nel suo palazzo, per darsi vanto di proteg-

gere i letterati. — Qncst’antorc è un grand’uomo, a quel che pare. —


Ne giudicherete or ora, disse il Demonio. Egli è sepolto fra mille vo-

lumi, a cui dà uno spietato saccheggio, eoiu|Minendonc uno in cui non

vi sarà jvarola o motto che sia suo, c benché non faccia altro che
locaree trascrivere i suoi plagi, è d'assai più vanitoso d’un vero autore.

Voi non sapete forse, continuò |>oscia lo spiritello, chi abili tre porte
più in là di questo palazzo? Or bene, vi sta la Cicona, quella stessa

donna di cui vi feci già menzione in narrandovi gli amori del conte

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CAPITOLO SESTO 87

«li Bclllor. — Oli quanto godo in vederla! dissi' Leandro. Onesta buona
vecchierellu, si cara ed utile ai giovinotti, debb’essere certo una delle
due donne che scorgo in <]uella sala a pian terreno. L'una sta ap|>og-

{
giata coi gomiti sul tarolo, facendo sostegno colla destra mano al tre-

mante capo, e guarda attentamente l’altra che con scarne e grinzose


mani è dietro a contar monete. Quale fra esse è la < aromi!’ — Quella
che non numera, disse il Demonio. L’altra, il cui nome è Pebrada,
è una rigali iera di lei socia, c si partono ili quest’ istante i frutti di

una vendita fatta ad una galante signorina che veste la sete sgualcita

della dama, anziché la modesta tela dell’o|icraia.

La Pebrada è la più scaltra nel suo mestiere: essa ha relazioni con


le più vanitose donne della città, a cui porta ogni dì la sua lista. — La
! sua lista? iiiterrupiie lo scolaro. — Ella è, disse Asmodeo, una di-

stinta di tutti gli articoli stranieri che servirono giù alla gentildonna.

Compra dalle fantesche a buon mercato e vende a caro prezzo.


— Vicino alla casa della Cicona abita un tipografo che solo so-
letto lavora nella sua officina. Sono tre ore che licenziò tutti i suoi

oj>erai, e passa la notte stampando un libro segretamente. —E quale


è dunque «picsto libro? disse Leandro. — Un trattato sulle ingiurie,

rispose il Demonio. Quest’opera tende a provare che la religione dee


preferirsi al punto d’onore, e che è meglio perdonare che vendicarsi
di un’offesa. Oh, malnato stampatore! sciamò lo studente, ha ragione
di stampare in segreto il suo infame libro. Che l’autore non si at-

tenti di farsi conoscere, ch’io sarei il primo a bastonarlo. Sta a ve-


dere adesso che la religione proibirà di difendere il proprio onore!
— Lasciali! là codesta discussione ,
interruppe Asmodeo con un
maligno sorriso. Mi pare che abbiate profittato assai bene delle Ic-

I zioni di morale che furonvi date ad Alcala, c me ne congratulo con voi.

— Oh dite quel clic più vi pare, l’ interruppe alla sua volta don
Cleofa, c l’autore di «juesla opera ridicola faccia pure i meglio ragio-
namenti di questo mondo, io non me ne curo: sono Spaglinolo cimila
ho più a caro che la vendetta; ed anzi giacche mi prometteste punire
la perfidia della mia dolce amica, io pregavi a mantenermi la parola.

— Cedo assai volonticri al trasporto che vi agita, disse il Demo-


nio. Quanto sono da me amati quegli esseri che senza scrupoli si

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88 IL DIAVOLO ZOPPO

abbandonano a lutti i moti, a tuli» le passioni da cui sono agitati.

W tosto soddisfarvi, poiché è giunto il tempo della vostra vendetta;

ma vo’dapprima farvi vedere una graziosissima cosa. Spingete roc-


chio al di là della stamperia c vedete che succeda in un apparta-

mento tappezzato di [«‘Ile muscata. — Scorgo, rispose Leandro, cin-


igie o sei donne che si pressano a chi più di porgere anfore, botti-
glie ed altri recipienti d'ogni fatta ad un famiglio, con una specie di
furente agitazione.
— Sono, disse lo zoppo, piuzoccherc che non hanno [>oco motivo
d’essere estremamente commosse. Abita in (gieirappartamento un an-
cor dovine celibatario che dace malato. Onesto amabile oersonae-

che non è quella ove stanno c si dimenano (girile donne. Due delle
sue più affezionate lo vegliano. L’una gli tira brodi, e l’altra che non

abbandona mai il suo capezzale si adopera a tenergli calda la testa,

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CAPITOLO 8KSTO 89
e a mantenergli caldo lo stomaco, mediante cinquanta pelli di mon-
tone sovrapposte l’una all’altra. — Qual èia sua malattia? domandò
Zamlmllo. — Raffreddatura di cervello, rispose il Diavolo; e vi è a
temere che il catarro gli affetti i polmoni.
Lo altre donne che vedete nella sua anticamera accorsero tutte
con de’ rimedii, in udire la sua malattiaì l’ima reca, per la tosse, sci-

roppi di giuggiole, d’altea, di corallo, di tussillagginc; per conser-


vargli l'altra i polmoni , ri è incaricata della provvista dei sciroppi di
lunga vita, di veronica, di elicriso e delle quintessenze; un’altra per
forliticargli il cervello c lo stomaco ha con se l’acqua di melissa, di
cinamomo, e l’acqua trincale, con alcune essenze d’ambra c di mu-
schio. Questa offre confezioni anacardine e belzuarine; e quella tin-
tura di viole, di corallo, di millefiori, di girasole e di smeraldi. Tutte
queste zelantissime pinzocchere vantano al famiglio del celibatario i

loro farmaci; tutte gli parlano alla lor volta, c ciascheduna gli mette
fra mani una moneta, dicendogli all’orecchio: «Lorenzo, mio caro Lo-
renzo, procura che T anfora mia ria la preferta ».

— Affò,
- sciamò don Clcofa, ch’ella è dolce la sorte di questo celi-

batario! — Oh si, disse Asmodeo, se non fossi Diavolo, invidierei la

condizione di costui.
— Ora andiamo, signore studente, andiamo a punir l’ingrata che
ha si mal corrisposto alla vostra tenerezza. Si attaccò Zambullo al

lembo del mantello d’Asmodeo, clic seco lui fendè l’acre una seconda
volta, e andò a fermarsi sulla casa di donna Tomasa.
Stava la briccona a tavola coi quattro spadaccini che avoauo inse-
guito Leandro su per i tetti: ei fremette di sdegno in vedendoli a
mangiale due pernici ed un coniglio ch’egli avea pagati e fatti portare
in casa della perfida con alcune bottiglie di generoso vino. Per soprap-
piò ili crepacuore, s' accorse clic la gioia regnava nel conv ito, c ville

dal contegno di donna Tomasu che la couqiagnia di que’ miserabili


piaceva più della sua alla scellerata. — Ah, carnefici! gridìi fuor di

se dalla collera, gozzovigliano essi alle mie spese! qual dispetto è il

nini — Capisco, gli disse il Diavolo, che tale spettacolo non debile

gran fatto divertirvi : ma chi tratta con femmine galanti dee aspet-
tarsi simili avventure: successero le mille volte a finanzieri, modici.

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90 II. DIAVOLO ZOPPO


avvocali e va dicendo. — Ab se avessi una spada, mi scaglierei su
quei ribaldi e turberei la loro gioia. — Solo contro lutti, la faccenda
non potrebbe andar bene per voi: lasciale a me la cura di vendicarvi,
che farò meglio assai che non fareste voi. Porrò io la discordia fra

que’ bravacci, soffiando loro in petto una lussuriosa smania, per cui si

armeranno gli uni contro gli altri, e vedrete tosto un subbuglio d'in-
ferno.

Soffiò didatti ed usci dalla sua bocca un vapor violaceo che scese
serpeggiando siccome un fuoco d’artifizio sulla mensa di donna To-
raasa. Bentosto uno dei convitati sentendo l’efTetto di quel soffio, si av-
vicinò alla signora e l'abbracciò con tutto il trasporto: gli altri, trasci-
nati dal potere dello stesso vapore, vollero strapparlo dalle di lei

braccia; un ciascuno vuol esser preferito, e se la contrastano: invasi


da una gelosa rabbia, dopo un non lungo diverbio, snudano le spade e
cominciano un accanilo combattimento. Frattanto donna Toraasa urla

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CAPITOLO SESTO 91

spaventala a tutta gola, ed è sossopra tutto il vicinato. La forza 1 la

forzai gridasi, ed ecco la forza clic atterra l’uscio, entra e trova due
di que’ miserabili cialtroni distesi al suolo ,
ghermisce gli altri e se
li conduce in prigione insiera con la Tomasa. Non valse alla sgra-

ziata il piangere, il disperarsi, lo strapparsi i capelli, chè gli sgherri

si commossero quanto Zambullo che ridea a crepapelle con Asmodeo.


—E cosi, disse il Demonio allo studente, siete contento? — Non
ancora, disse don Cleofa. Ad essere pienamente soddisfatto ho dnopo
che mi portiate su le prigioni, ond’io m’abbia il piacere di veder rin-
chiusa quella perfida che si fe’ giuoco dell’amor mio; il mio odio per
essa crebbe tanto in ora, più di quanto l’ebbi già amata. — Non ne
dubito, soggiunse Asmodeo; e mi troverete ognora pronto a secondarvi
nei vostri desiderii, quand’anche fossero contrarii ai miei, purché ciò
sia per vostro bene.
— Volarono tutti e due su le prigioni, nel mentre che giungevano

strascinati i due cialtroni, che furono tosto chiusi in un oscuro carne-


rotto. — Tomasa fn abbandonata su poca paglia con tre o quattro
|

altre donne di uiala vita, clic erano stale là condotte nello stesso
giorno, per essere poi trasferite alla domane nel luogo destinato alle
femmine che le assomigliano.

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92 IL DIAVOLO ZOPPO

— Adesso non proprio contento, disse Zambullo, perchè gustai piena

vendetta: la mia tenera Tomasa non lasserà una notte felice siccome
si riprometteva. Andiam ora dove più vi aggrada per continuare le no-
stre osservazioni. — Non vi è luogo più opportuno a ciò fare di questo,
disseto spiritello. In «paste prigioni trovasi un gran numero di colite-

voli e d’innocenti : è questi un soggiorno cito serve «li castigo agli uni,
ed affina l'innocenza e la virtù degli altri, (ili c d’iuqio che vediate al-
cuni prigionieri d'ambe le sorta, e dicavi perchè sou tra' ferri.
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94 IL DIAVOLO ZOPPO

avvelenato uno straniero che mori l’altro giorno nella sua taverna.
Dicesi che la qualità del vino l'abbia tallo perire, ma l’oste ne accusa la

quantità: e la giustizia il crederà, che lo straniero era tedesco. — E chi


ha ragione, l’oste od i suoi accusatori? — Egli è un problema, rispose
il Diavolo. È bensì vero che il vino era fatturato, ma affé clic il Tedesco
ne bevette tanto che i giudici possono in tutta coscienza mandar l'oste

pe’ fatti suoi.

Il secondo è un assassino di professione, uno di que’ scellerati chia-

mali braci che [ter quattro o cinque doppie prestano gentilmente l’opera
loro a lutti quelli che vogliono fare questa spesa per isbarazzarsi se-
gretamente d'uu 'incomoda persona; il terzo, un maestro di ballo che
veste da damerino, e che ha fatto fare un mal passo ad una sua scuo-

lara; ed il quarto c un bellimbusto clic fu sorpreso nella scorsa setti-

mana dalla ronda, mentre saliva per un verone all’appartamento d’una


signora, il di cui marito era assente. Potrebbe trarsi d'impaccio pale-

sando i suoi amori; ma vuol piuttosto passar per ladro ed esporsi a


perdere la vita, che compromettere l’onor della sua dama.
— Che raro e discreto amante, disse lo studente; convicn confes-
sare che la nostra nazione vince l’altre in fatto di galanteria. Scom-
metto che un Francese, per esempio, non si farebbe impiccare come il

faremmo noi, per un delicato riguardo. — Oh no di certo, disse il Dia-


volo: salirebbe piuttosto su di una finestra per disonorare la douna che
avesse della propensione per lui.

In una stanzuccia vicina a quella di questi quattro uomini vi è una


famosa strega che gode fama di saper fare cose impossibili. In virtù
|

I
dell’arte sua, ricche vecchie trovano, dicesi, bei giovinotti che le amano
senza interesse alcuno; i mariti diventano fedeli alle mogli, e le civette

s’ innamorano davvero dei ricchi cavalieri che fanno loro la corte; aia
nulla v’ ha di più falso. Ella non possiede altro segreto fuor quello di

l
persuader che ne possiede, e di vivere agiatamente per questa pubblica
credenza
Al disopra di quella stanzuccia vi è uno scurissimo camerotto in
cui sta rinchiuso un giovine oste. — Un altro taverniere, sciamò Lean-
dro: questa genia vuol essa dunque avvelenare lutto il mondo? — I !

Costui, rispose Asinodeo, non è in prigion per questo. Lo sciagurato

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CAPITOLO SETTIMO 95
fu arrestato ieri l’altro, e in poche parole vi narrerò il motivo di sua
prigionia.

lln vecchio soldato, giunto pel suo coraggio, o a meglio dire per la
sua pazienza, ad essere sergente di compagnia, venne a far reclute
10 Madrid. Avendo chiesto alloggio in una taverna ,
gli fu risposto
ch’eranvi, a dir vero, delle camere vuote, ma che non era fattibile

11 cedergliene pur una, perchè tutte le notti uno spirito folletto

maltrattava gli stranieri ch’eran temerarii tanto da abitarle. Questa


notizia non fe’ ne caldo ne freddo al valoroso sergente. — Che mi
si metta, diss'cgli, nella camera che si vorrà: datemi un lume ,
del
vino, una pipa e del tabacco, e avvenga poi quel che vuol avvenire,
che vi consiglio a non inquietarvi per il resto: gli spiriti hanno dei
riguardi per i vecchi e bravi soldati che imbianchirono i loro capelli
sotto il peso dell’armi.
Fu dunque a|>erto al nostro sergente una camera, in vedendolo si

coraggioso, e gli si portò tutto che avea chiesto. Che fare? si mise a
bere ed a fumar. F.rn trascorsala mezzanotte, ed il folletto non avea
ancor turliato il profondo silenzio clic regnava in tutta la taverna:
si sarebbe detto ch’ci rispettava il nuovo pigionante; ma fra l'uno e -

i due tocchi udì il sergente un tafferuglio, come si suol dir, d’in-

ferno, prodotto da uno strascinar di catene, e vide poscia entrar


nella sua camera uno spaventevole fantasma avvolto in un ampio o
negro manto, e cinto d'ogni parte da catene ili ferro. Quest' appari-
zione non isconccrtò per niente l’impavido nostro fumatore; sgnainò
la spada, si adirassimo allo spirito, e gli regalò di piatto in sulla testa,
senz’altro dire, una fortissima botta.

Il fantasma, che non era abituato a trovar ospiti così arditi, diè ì

un grido; c vedendo che il sergente pareva volesse ricominciare, si


;

prostrò umilmente a’ di lui piedi, dicendo: — In grazia, mio buon si- j

gnorc, non mi maltrattate di pili: abbiate pietà d’un povero diavolo clic
qui prostrato implora la vostra clemenza; per Marte ve ne scongiuro,
ch’era anch’egli un terribile spadaccino. — Se vuoi serbar la vita, ri-
spose il soldato, vo’ saper chi sei, e senza contarmi frottole, chè ciò

succedendo ti spaccherei in due, come gli antichi paladini spaccavano

i giganti che incontravano. — A queste parole, lo spirito, vedendo che

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96 IL DIAVOLO ZOPPO

l’nflare faceusi serio, s’appigliò al miglior partito, ch’ero quello di con-

fessar tutto.
— Sono, diss'egli al sergente, il primo garzone dell’osteria, c mi
chiamo Guglielmo; amo Giannetta, l’unica lìglia dell’albergatore, e so

elle non le dispiaccio: ma siccome il padre suo e la sua madre vorreb-


bero maritarla ad un clic fosse di ine più ricco, cd io, onde obbligarli a
scegliermi per genero, son d’accordo con la fanciulla che tutte le notti

mi sarei travestito da fantasma: mi copro di fatti con un lungo mantel-


lo, m’attacco al collo una catena del girarrosto, con la quale corro per

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capitolo serrino 97
(ulta la casa, dalla cantina al granaio, facendo lo schiamazzo che avole
udito, e giunto all’uscio della camera dei padroni mi fermo e grido: —
• Non avrete inai da me riiniso sinché Giannetta non sarà la moglie di
Guglielmo ».

Dopo aver pronunciato queste parole, uITctlandn una voee rauca e

grossa, proseguo a scuotere le catene, ed entro quindi da una finestra

nello stanzino di Giannetta a renderle conto del mio operato. Signor


sergente, proseguì Guglielmo, voi capirete clic questa è la schietta ve-

rità : io so che dopo una tal confessione voi potreste rovinarmi, dicendo
ni mio padrone ciò che succede; ma se voi volete aiutarmi, a vece di

farmi danno, giuravi che la min riconoscenza... — E che cosa potrei fare
|>er te? interruppe il soldato. — Voi non dovete, soggiunse giovinetto, il

che dir domani d’aver veduto lo spirito, c che fu tale e tanta la vostra

paura.... — Per i baffi d'< Irla odo! (mura! paura! rabbiosamente sciami)
quel valoroso; e voi pretendereste clic il sergente Annibale Antonio Que-
branlador dicesse ch’egli ebbe paura? Amerei meglio di dire che cento
mila diavoli in 'avessero.... — Veramente eie) non è affatto affatto neces-

sario, disse alla sua volta Guglielmo; e poco mi cale qualunque siasi il

come |>arlcrelc, ove però mi secondiate nella mia impresa: allorché saio
lo sposo di Giannetta, clic avrò una casa, una taverna, e tutto quanto
mi farà duo|>o per ben servire gli accorrenti, allora vi Sarà banchetto
gratis in ogni dì per voi c i vostri amici. — Come siete caro, come
siete gentile, miglior Guglielmo, sciamò il sergente, con una certa tal
quale ironia: mi proponete di dar mano ad uno stratagemma, ad una
cosa clic non è poi lauto da poco per pigliarsela a gabbo ma voi
siete eosi garbato che non vo’ pensare alle conseguenze. Or via, con-
tinuate la vostra scena, ch’io m’incarico del resto.

iliffalti all'indomatlina il sergente disse all’oste cd all’ostessa: —


Ilo veduto lo spirito e gli ho parlato; lo trovai ragionevolissimo.

Solili, mi disse, il bisavolo dei padroni di questa taverna. Io aveva una

figlia che promisi al padre del nonno del suo garzone di bottega,
ma ad onta della mia promessa la maritai ad un altro, c morii [hico

tempo dopo: d’ allora in poi io soffro e (Kirto la pena del mio sper-
giuro, e non avrò ri|>oso se non quando uno della mia famiglia avrà
svisalo un individuo di quella di Guglielmo; ed ecco il perchè tulle
98 IL DIAVOLO ZUPPO

le notti io velici in questa casa: ma egli è inutile il mio dir di unire


Giannetta ed il garzone in matrimonio: il ligiindi mio iiipole fa il gonio,

ed auelie la ili lui consorte; compiaceteli dunque, signor sergente.

di dir loro die se non acconsentono al |>iù presto a ciò clic desi-
dero, sarò costretto di veuirc ai fatti, c tormentar l' uno e l'altra in

modo strami.
L’oste, dabbenuomo, fu scosso da tal discorso, c l'ostessa, ancora più

buona pasta di suo marito, parendole di vedersi già il fantasima alla


cintola, acconsentì che si facesse il maritaggio il dì vegnente. Guglielmo

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1

CAPITOLO SETTIMO 99 |

(ti lì a poco tempo aprì una lai erti» in un altro rione della città, ed
allora il sergente Quebrantador andava s|M'sso a visitarlo, ed il novello j

taverniere, |ier gratitudine, gli dava a bere (piando e quanto voleva,

il clic andava tanto a genio del soldato die non amando d’ esser solo ;
i

conducila tutti i suoi amici a questa licitola, vi faceva gli arruola- I •

menti,' e vi ubbriarava le reclute.


i

Ma alla fin One l’oste si stancò d’inumidir tante gole eternamente |

secche, ed aprì su tal projiositn l’animo suo al soldato, il quale non i

parendogli infatti di o!trc|iassarc i patti, fu tanto ingiusto )>cr trattare

(ìuglielmo quale un ingrato. Questi risposi', l’altro riposto, e batti e riha- I

disci, la conversazione terminò con alcune piattonale ricevute dall’oste.

:
i
' I

Molli che si erano fermati ad udire il diverbio, vollero prendere la parte

del |Kidronc della taverna, e Qucbrantador diè stoccate a Ire o quattro,

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t

100 II. DIAVOLO ZOPPO


nè si sarebbe ristato cosi inaspettatamente se non veniva assalito
da mia folla di sgherri die l’ imprigionarono rpial perturbatore del
pubblico riposo, l-'n condotto in carcere c là disse tutto ciò die vi
narrai, e si fu allora die la giustizia mandò ad imprigionare anche
tiuglielmo, ed ora
— Nella prima stanza a sinistra, sopra il disgraziato Guglielmo, vi
sono due uomini degni delia vostra pietà; il primo è un giovine came-
riere cui la moglie del suo padrone non quale un sen o il lo trattava ;

marito s'insDspctli, e per una mal fondata gelosia l’accusò di mala vita
e fu arrestato. —
Il secondo, colpevole (pianto il primo, è vieino a

perdere la vita; egli è donzello d'una duchessa a cui fu rullato un


grosso diamante, ed è accusato del furto. Sarà domani tradotto in
giudizio e tormentato si da dover confessare il ladroneccio, mentre
il vero ladro è una bencvisa cameriera sulla quale nessuno osa di
sospettare, tanto essa è amala dalla di lei padrona.
Ah signor Asmodeo, disse Leandro, soccorrete, ve ne prego, que-
sto povero disgraziato: la sua innocenza mi parla in di lui favore; to-
glietelo col vostro potere ai cnulcli ed ingiusti supplizii che lo minac-
ciano: ei merita... — Che dite mai, signor studente, iutcrrup]>c il Diavolo,
jnitete voi credere ch’io mi opporrò ad un’azione iniqua, e che impe-
dirò che muora un innocente? Egli è pregare un procuratore di aste-
V
nersi dal rovinare una vedova od un orfanello.
Pregovi dunque di non volere ch’io faccia cosa alcuna coni varia al
mio interesse, a meno che non ne possiate avere un considerevole van-
taggio. D’altronde, quand'anche io volessi liberar questo prigioniero,

il potrei forse? — Come, disse Zambullo, voi non avete il potere di


sottrarre un uomo da una prigione? — No certo, rispose lo zoppo.
Se letto aveste V Enchiridion o Alberto il Grande, sapreste che nè io

uè i mici confratelli possiamo dare la lilM’rlh ad Un prigioniero: io


stesso, se avessi la disgrazia di trovarmi fra le zanne della giustizia,

non potrei cavarmene che col denaro.


— Nella camera vicina, dalla stessa parte, vi alloggia un chirurgo,

accusalo c convinto di avere, jier mal fondata gelosia, fatto una cac-
ciata di sangue a sua moglie pari a quella di Seneca; egli ebbe oggi
la tortura, c dopo aver confessato il delitto di cui era accusato, palesò

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CAPITOLO SETTIMO 101

inoltre che da diecianni adoperava uno stratagemma nuovo d'assai


|KT procurarsi dei clienti. Di notte quest’ infame uomo feriva con una
baiiuictta i passeggeri, fuggendo quindi prontaincntc per una porti-
cina segreta che metteva nclhwma casa: gridava lamentoso intanto il

I v
meschino ferito, ed accorrevano in di lui soccorso tutti i vicini; allora

il chirurgo veniva anch’egli a veder che fessevi di nuovo, c trovando


un uomo immerso nel proprio sangue, lo faceva t ras] Mu tare in casa
sua, ed ivi la stessa mano che lo avea colpito il merlicava.

Ad onta della confessione fatta da questo crude! chirurgo, e ch’egli


meriti mille morti, non cessa |mtò dal lusingarsi che gli si farii la

grazia per essere parente di madama la nutrice dell’Infante: oltre di


ciò dimvvi ch’ei possiede un’acqua niarav igliosa, di cui nessun altro

conosce il segreto, acqua tale che ha la' virtù d’imbiancar la pelle, e

di trasmutare una grinzosa faccia in un viso di giovinetta; e quest'acqua


incomparabile serve qual fontana di Giovinezza a tre dame di corte
che morirebbero d'aflanno ove non potessero salvare dalla meritata
punizione codesto infame ,
per la tema che loro mancasse l'acqua
di cui tanto abbisognano onde non iscomparire in faccia alle gio-

vinette, ed attirarsi ancora un benigno sguardo da qualche gentil ca-


valierino. Ei si affida tanto sul biro eredito ,
o, so meglio vi piace, su

l'acqua meravigliosa, che s’ addormentò tranquillo, nella s)>cranza

clic risvegliandosi riceverà la consolante notizia di sua liberazione.


— Veggo su di un canile, nella stessa camera, un altro clic mi par
che dorma un pacifico sonno; bisogna che i suoi affari non siano dei
peggiori. — Sono invece d’una natura alqpanto scria, rispose il De-
monio. Onesto cavaliere c un gentiluomo Discaglino che si arricchì

con un col|Midi archibugio; ed ecco il come. Sono quindici giorni che


cacciando in una foresta in compagnia del suo fratei maggiore, padrone
dima rendita ragguardevole, lo uccise in fallo, tirando alle pernici. —
Fortunatissimo quiproquo per un cadetto 1 sciamò don Cleofa ri-

dendo. — Si ,
rispose Asmodeo: ma i collaterali che vorrebbero appro-
priarsi l’eredità del defunto, chiamarono innanzi ai tribunali il suo uc-
cisore, accusandolo d’aver commesso un delitto per divenir runico
erede della famiglia. Si è fatto prigione da se stesso, e sembra sì a filino

per la morte di suo fratello, clic non si può neanche immaginare che

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102 li. ni ivm.« zoppo

gli volesse tor la vita. — Ma non ha a egli riini»rovcrarsi nulla fuorché

la |ioca sua destrezza? — No, non ebbe ei niala volontà; ma quando


un primogenito possiede tutti i beni di sua famiglia, noi consiglierei
mai d’andare a caceia con il suo fratei cadetto.
— dilaniale quei due ragazzi clic in un cantuccio, vicino al gen-
tiluomo di Discaglia, se la passano allegramente come se fossero in

libertà. Sun due veri picarut. Ve ne ha uno principalmente che potrà


un giorno far di pubblica ragione la stona delle sue furberie, senza * :

tema di annoiare i suoi lettori: egli è un novello (ì usinano tl'Alfarachr;

vedetelo, gli è quello che ha il giustacuore di velluto bruno ed un


pennacchio sul suo cappello.
Non son tre mesi ch’egli era in questa città, qual paggio del conte
d'Onato, c sarchile tuttora al di lui servizio, senza una gherminella
clic vo’ raccontarvi, e che fu cagione di sua prigionia.
(Questo giovine, chiamato Domingo, ebbe un dì, in casa del conte,

cento colpi di frusta, fattigli regalare dallo scudiere della sala, n meglio
dal direttore dc’pnggi, per un certo giuoco di mano che a dir vero

li meritava. Questa correzioncella stette assai tenqio impressa in cuore

del giovinetto, che risolse alla fine di vendicarsene. Avea il furfantello

notato più d’una fiata che il signor don Conto, è il nome dello scudiero,
si lav ava le mani con acqua di fior d’arancio, ed ungessi il corpo con
paste di garofani c gelsomini; egli avea di fatto tanta cura della sua
persona quanto ne suole avere una vecchia civetta; era infine uno
di quegli sciocchi ohe credono d’essere amati da tutte le donne clic

a caso li guardano in viso. Una tale osservazione gli fe’ nascere un


pensiero di vendetta ch’ei comunicò ad una giovine cameriera di lui

vicina, sua intima amica, della quale abbisognava per mandate ad


effetto il concepito suo divisalucnlo.
!

Questa cameriera ,
di nome Fioretta, (ter jtolergli parlare con più
di libertà, il faeea credere suo cugino in casa di donna bimana sua
padrona, il di etti padre era in allora assente. L’astuto Domingo, diqto
aver istrutta la sup|tosla parente di quello clic far dnvea, entri) un bel
mattino nella camera di don Como e In trovò che stava [trovandosi mi
abito nuovo, pavoneggiandosi dinan/.i ad uno s[tooehio, entusiasta di

sua bella figura. Finse il paggio d’ammirar quel Narciso, e simulando

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CAPITOLO SETTIMO 105

un {'"ili lras|torlo disse: — Davvero, signor don Como, voi avete ii

contegno d’un principe. Veggo tuttodì grandi superbamente vestili,

I l

ii
!

'
*

. »

ma non uno di essi con lutti i suoi begli abili |tolrehbc starvi «pa-
ragone. Non so se essendovi servo, t|ual io vi sono con mio gran vanto,
io reggavi con troppa prevenzione in favor vostro; ma, di certo, io
non vidi cavaliere a corte che vi ecclissi.

Sorrise lo scudiero a quel discorso die piacevolmente lusingava la


sua vauitù, e ris|Hise affettando un'amabil disinvoltura. — Tu mi aduli,

amico mio, o convien dire clic tu mi voglia un gran Itene, e clic |>er

conseguenza la tua amicizia ti faccia scorgere in me dei meriti che la

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104 IL DIAVOLO ZOPPO

natura mi lia ritintati. — Non lo credo, rispose l'adulatore, [miche non

i v' ha persona che non dica lo stesso, lo vorrei che voi udiste quel che
mi dicea ieri l'altro ancora una mia cugina che serve in gasa d’ una
nobile zitella.
IkmCumo il richiese tosto di tutto clic gli avea detto sua cugina.

Non la Univa mai, rispose il paggio, di [tarlar del vostro ltcl portamento,

|
dei pregi di tutta la vostra persona; e quel che vi ha di meglio si è che
! in tutta conlìdenzn mi disse che donna Luziunu, sua padrona, va in

estasi allorché [tuo vedervi stando dietro alla persiana, ogni volta clic

passate dinanzi alla sua casa.


Chi mai può essere questa «lama, disse lo scudiero, c dove abita
essa? —-Clic! rispose Domingo, non conoscete la figlia unica del mae-
stro di caiii[Kt don Fernando nostro vicino? — Ah si, ora mi ricordo,
disse don Como, d’aver udito più volte a vantar le ricchezze c la Itel-

lezza di questa l.uziana; ell'è un eccellente partito. Possibile ch'io mi


abbiti meritata la sua attenzione? — <Jual dubbio, ris|Hise il paggio : me
lo disse mia cugina, che quantunque cameriera non è bugiarda, e mi
fo garante di lei' come di me medesimo. — Se questo c vero, disse lo

scudiero, vorrei parlare in segreto con questa tua parente e guadagnar-

mene l’animo con qualche rcgaluccio, siccome c d'uso, c se ella mi con-


siglia di prestare la mia servitù alla sua padrona, vo’ cnndur a buon line

I quest’avventura. E [lerché no? egli è vero che v’ha una qualche di-
stanza dal mio grado a ([nello di don Fernando; ma son gentiluomo an-
ch’io, ed ho cinquecento bei ducati di rendita. — Veggonsi ogni dì dei

I
maininomi che sono assai più stravaganti che non sarebbe questo.
11 paggio incoraggi don Como nella sua risoluzione, e gli pmcuiò un
colloquio con sua cugina, lu (piale, trovando lo scudiero prontissimo

a creder tutto, raccertò clic la sua padrona avea per esso lui una grande .

simpatia. — Migliaia di liate m'interrogò sul vostro conto, gli dissi*, e


ciò che le risposi non vi fc’ certo perdere nell’animo suo; in somma,
signore scudiero, voi [miele vantarvi ed a buon diritto, che donna I.u-
ziana vi ama; in segreto si, ma ella vi ama. Palesatole arditamente le

vostre legit lime intenzioni, e provatele che siete il più galante cavaliere

di Madrid, come non vi ha dubbio che siete il piti avvenente; fatele

j
soprattutto qualche serenata, ch'ella aggradirà più d’ogni altra cosa; ed

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CAPITOLO SETTIMO 105

io farò di lutto per farle conoscere l’amor vostro, e spero che i miei
buoni ulicii non vi saranno inutili. — Don Como, fuor di sé |
m i- la

gioia di veder la cameriera prendersi tanto a cuore i suoi interessi,

l’abbracciò più volte, e mettendole in dito un anello di jhico valori',

ch’egli avea portato con sé per fargliene un dono, le disse: — Mia j


I lì
cara Fioretta, io non vi dono questo piccolo brillante che come una !

caparra di nostra conoscenza; una maggiore ricoui|>cnsa vi proverà la

gratitudine clic vi professo jier i servigi che mi presterete.


Era impossibile clic don Como fosse più soddisfatto del colloquio

avuto con la cameriera. Dimodoché, non solo ringraziò Domingo di aver-


glielo procurato, ma lo regali) ben anche di un paio di calze di seta
e di alcune camicie guernite di pizzo, promettendogli di non lasciar
isfuggire circostanza alcuna per essergli utile. Poscia, consultandolo su

ciò ch’egli aveva a fare: — Mio buon amico, gli disse, che ne (>ensi

tu? Mi consiglieresti tu di cominciare con una lettera appassionala e


sublime a donna Luziana? — Questo è il mio parere, rispose il paggio:
fatele una dichiarazione amorosa in istil sublime; il cor mi dice che
! la riceverà assai bene. — Lo credo anch’io, rispose lo scudiero; e che

clic succeda, farò cosi. Si misi' tosto a scrivere, c dopo aver lacerato
l>erlo meno venti abbozzi, ei giunse lilialmente a raccozzare un in-

zuccherato bigliettino che il fe’ contento. Lo lesse a Domingo, il quale


dopo averlo ascoltato con grandi ammirazioni mimiche, s’ incaricò di
|M>rtarlo tosto a sua cugina. — Era concepito in questi concettini te-

neri e ricercati:

« Da lunga |>ezza, amabile Luziana, egli è che la fama divulga ovun-


« que tutti i vostri pregi, e ch’io mi lasciai infiammare per voi d’arden-
« tissimo amore. Pure, malgrado l’incendio da cui son consunto, non
« ho mai ardito farvciie motto: ma siccome mi pervenne che voi vi de-
« guato di volgere ver me le belle vostre pupille allor ch’io passo di-
« nunzi alla persiana che invola a mortai occhio la celeste vostra beltà,
« e elio per un'influenza del vostro pianeta, tanlo per me bcuciico, voi
« siete disposta ad amarmi, io imploro che mi sia concesso di conse-
« orarmi a vostro servo. Se sarò felice tanto d’ottener tal concessione,

« io rinuncio a tutte le donne passate, presenti e future.


« Don Coho della Higuera ».

<t

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,

106 IL DIAVOLO ZOPPO

Il paggio c la cameriera non trasandarono certo di godersela alle


spalle del signor don Conio, e di ridere di sua lettera; ma non si con-
tentarono di ciò: dettarono insieme una tenerissima risposta clic Fio-
retta scrisse di suo pugno e clic Domingo portò il giorno appresso allo
scudiero, quale una missiva di donna Luziana. Eccone le parole:

• Ignoromi chi possa avervi sì bene informato de’ segreti miei sen-
I
« tiinenti. Egli è un tradimento che mi fu ordito; ma chiunque siasi il

« traditore, lo perdono, poiché fu cagione clic mi palesaste l’amor vo-


« stro. Di tutti gli uomini ch’io veggo passar nella contrada, voi siete

« quello che si attira di più i mici sguardi, «1 acconsento che siate il

« mio amante: forse non dovrei volerlo, ed ancor meno dirvclo; ma se


« erro, il vostro merito mi scusa.
j

« Donna Lcziasa ».

Quantunque questa risposta fosse un po’ ardita per la figlia d’un


maestro di canqio, poiché gli autori non vi avean badalo tanto pel sot-
tile, il presuntuoso don Como non ne concepì sospetto alcuno: egli avea

a sufficienza buona opinione di sé per credere clic una dama poteva di-

menticar per lui le proprie convenienze. — Ah Domingo! sciamò in

aria di trionfo, dopo aver letto ad alta voce la supposta lettera, vedi
vedi se la vicina mi ama? Sarò fra poco il genero di don Fernando, o
non sarò don Como della lliguera.

— Non v’ ha dubbio, disse il furbo confidente: voi avete fatta una


terribil breccia nel cuore della fanciulla. Ma a proposito, soggiunse,

mi ricordo adesso che la cugina mi ha raccomandato di dirvi che do-


mani al più tardi facciate fare una serenala alla sua padrona, per finir
d’innamorarla pazza di vossignoria. — Certo che sì, disse lo scudiero:

tu puoi accertare tua cugina clic sanò ligio al suo consiglio, e clic do-

mani, senza fallo, udrà nella sua contrada a mezzanotte uno dei mi-
gliori concerti che siansi dati a Madrid. Diflatti ei fu da un valente pro-
fessore di musica ,
e dopo avergli comunicato il suo divisamento, lo
incaricò di tutto che era necessario per l’esecuzione del medesimo.

Mentre era tutto intento per la serenata, Fioretta, già prevenuta dal
paggio, vedendo la sua padrona di buon umore, le disse: — Signora, vi

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CAPITOLO SETTIMO 107

preparo un bel passatempo. Luziana le domandò che fosse. — Ohi ve-


ramente, soggiunse la servotta ridendo come una (tazza, non è un gran
che. In originale, chiamato don Como, direttore dei paggi del conte
d'Onato, si è avvisato di scegliervi per la dama, signora de' suoi pen-

sieri, c dee, domani a sera, onde voi non l'ignoriate, regalarvi d’uno
strepitoso concerto vocale ed istrumentalc. — Donna Luziana ch’era
naturalmente allegra, e che non iscorgeva conseguenza alcuna nella
galanterìa dello scudiero, lungi dal prendere in sul serio la cosa ,
si

riprometteva anzi un piacere nell’udir la serenata. Cosi questa dama,


senza salterio, concorreva a vieppiù confermar don Como in im errore
ili cui ella si sarebbe adontata nel solo immaginarlo.
Finalmente, la mute dell’indomani, apparvero dinanzi al balcone di
donna Luziana due carrozze da cui scesero il galante scudiero ed il

suo confidente, accompagnali da sei uumini sì cantanti che suonatori

i che cominciarono un lunghissimo concerto. Suonarono molle arie


nuove e cantarono molte strofe di canzoni che si aggiravano tutte sul
|totere che ha l’amore di unire amauli d’inegual condizione, ed a cia-

scuna strufa che la figlia del maestro di campo applicava a se. mede-
sima, rideva di tutto cuore.
Finita la serenata, don Como rimandò i professori di musica alle

proprie case nella stessa carrozza in cui erano venuti, e stette nella
contrada con Domingo fintantoché i curiosi colà chiamati dalla sere-

nata si fossero dispersi. Dopo di che si avvicinò al balcone, dal quale


subito la Fioretta, con il permesso della sua padrona, gli disse, alzando
un poco la persiana : — Siete voi, signor don Como? — Chi m’inter-
roga? rispose egli con melliflua voce. — Donna Luziana, soggiunse la

cameriera, che bramerebbe di sapore se la serenata di poco fa si deve


alla vostra galanteria. — Non fc, rispose lo scudiero, che una caparra
delle feste che il mio muore prepara a questa meraviglia del giorno,
ove però essa voglia accettarle da un amante sagrificato su l’altare di
sua bellezza.
A questa sdolcinata espressione figurata, la dama si trattenne a
stento dal ridere, e Fioretta dalla finestra disse allo scudiero nel tuon più
fermo che le fu possibile: — Signor don Como, si scorge assai bene che
non siete novizio nella galanteria; egli c da voi che i cavalieri innamorati
108 IL DIAVOLO ZOPPO

dovrebbero imparare a servir le loro dame. Sono contentissima della

vostra serenata, e non me ne dimenticherò piti mai; ma, soggiunse,

allontanatevi, clic potremmo essere ascoltati: ci parlerem più a lungo

un’altra tinta. Si dicendo chiuse la linestra, lasciando contentissimo


lo scudiero in mezzo della strada, e maravigliato il paggio di vederla a

rappresentar una parte in tal commedia.


La piccola feslicciuola, compresa la carrozza e la immensa quantità
«li vino
bevuto dai professori di musica, costò cento ducati a don Como,
e due giorni dopo il suo confidente gli fece fare ima novella spesa, ed

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... - „ . _ 9
CAPITOLO SETTIMO 109

ecco il come. Avendo saputo che Fioretta dovea la notte di san Gio-
vanni, notte sì celebre in questa città, andar con altre fanciulle sue
compagne alla pesta del sotillo (t), il bricconcello immaginò di dar loro

una magnifica dilezione a s|iese dello scudiero.

— Signor don Como, gli disse la vigilia di san Giovanni, sapete qual

festa corre domani? Vi avverto clic donna Luziana vuol essere alla

punta del dì sulle sponde del Manzanare, per vedere il lotillo; non
ho d'iuqHi di aggiugnere di più al corifiH) de' cavalieri galanti ,
nò credo
siate tale da trascurar una si bella occasione di regalare la gentil signora

del vostro ciiore e le sue compagne. — Per l’amor che le porto, disse
don Como ,
non tralascierò di farmi onoro, e ti so grand’ obbligo
|>er l’avviso datomi. Vedrai s’io so prendere la palla al balzo. — Dif-

ratti il giorno dopo, di buon mattino, quattro servitori del palazzo, con-
dotti da Domingo e carichi d’ugni sorta di leccardumi freddi, cucinati
I otti in vario modo, di confetti e bottiglie di prelibato vino, giunsero su

le rivede! Manzanare, ove Fioretta c le sue compagne ballavano quali

ninfe al sorger dcll'aurora.

La gioia si pinse sul volto delle fanciulle «piando il paggio fc’ sospen-
dere le leggiere lor carole, per offrirle un’ottima refezione a nome
del signor don Como. — Sedettero su l’ erba e cominciarono a far
onore al banchetto, smascellando dalle risa dello sciocco che ne facea
le spese; chè la caritatevole cugina di Domingo non avea trasandato
(('informarle di tutto.

Mcntr’erano sul più bello della loro festa, videro comparire lo scu-

diero magnificamente vestito, a cavallo d’una chinea del conte ricca-


mente bardata. Ei venne a raggiugnere il suo confidente ed a salutare la
brigata che» alzatasi in pie’ per onorevolmente accoglierlo, il ringraziò

di tanta cortesia. Cercava cogli occhi, fra le fanciulle, donna Luziana,


|ier indirizzarle la parola, ed Sfoggiarle un retorico complimento che
avea composto canunin facendo; ma Fioretta, tiratolo in disparte, gli

disse come una indisposizione di salute non avea permesso alla sua pa-
drona di pigliar parte della festa. Don Como si mostrò afflittissimo di

(t) Batto particolare tirati Spagnuoti.

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r~

110 IL DIAVOLO ZOPPO

questa notizia, c domandò qual male avesse la cara sua Luziana. — Ha


un forte raffreddore, rispose la scaltra fantesca, e ciò per essere stata

quasi tutta la notte della serenata sul balcone e senza velo, parlandomi
di voi. — Lo scudiero si consolò d’una disgrazia clic proveniva da si

liella causa, pregò la cameriera di continuargli i suoi buoni ulìzi presso

la padroncina, c tornò al palazzo, contento ogni volta piò per essere


tanto amato.
In questo frattempo don Como ricevette una lettera di cambio, e ri-

scosse mille scudi d’oro clic furongli s|iedili dall' Andalusia, iter la sua
|>artc all’eredità lasciatagli da uno de’ suoi zii morto a Siviglia. Contò
a dovere questa somma c la pose in uno scrigno alla presenza di Do-
mingo, che fu attento all’alto c senti tosto una forte tentazione di far
suoi iiue’ begli scudi d’oro c tras|>ortarU seco in Portogallo. Palesi) la

sua tentazione a Fioretta, proponendole d’csscrgli compagna in viag-

gio, e benché una tal proposta sembrasse degna d’un maturo rillesso,

la cameriera, briccona quanto il paggio, accettò di botto. I na notte


infine, mentre lo scudiero, chiuso nel suo gabinetto, marlellavasi il

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I

CAPITOLO SETTIMO HI
cervello a comporre una enfatica lettera per donna Luziana, Domingo
trovò il mezzo d'aprire lo scrigno ov’ernno riposti gli scudi d’oro; se

ne impadronì e fuggì subito di casa colla sua preda, e si portò sotto


alle finestre di donna Luziana, ponendosi a contraffare un gatto che
miagola. La cameriera, a questo segnale, clic era il convenuto, non si

fe’ aspettare lungo tempo, e, pronta com’era a seguirlo in ogni luogo,


uscì con lui da Madrid.

Lusingavansi i bricconi d’aver il tempo di giugnerc in Portogallo

prima d’essere colti, ove fossero inseguiti; ma per loro disgrazia, don
Como nella stessa notte si accorse del ladroneccio e della fuga del suo
confidente c ricorse subito alla giustizia, che mise le sue genti sulle
tracciedel ladro. Lo arrestarono a Zebreros colla sua ninfa, c furono

tutti due ricondotti: la fantesca fu chiusa nel convento delle Pentite,


i e Domingo in questa prigione.
— Pare che lo scudiero, disse don Clcofa, non abbia perduto i suoi
scudi d’oro; gli saranno stati, senza dubbio, restituiti. — Sinora no,
rispose il Diavolo; servono di prova del delitto, e la giustizia non se
ne spropria così facilmente; e don Como, la cui storia è divulgata per
tutta la città, non ricupera i suoi denari ed è da tutti sonoramente
beffato.

Domingo e l’altro prigioniero che sta con esso lui, continuò lo zoppo,
hanno per vicino un giovine cortigiano che fu qui condotto per aver .

dato, in presenza di Icstimonii, uno schiaffo al proprio padre. — Oh


cielo! gridò Leandro, che cosa mi dite mai? Sia pur malvagio un fi-

glio, è egli mai possibile che |hiss;i alzar la mano contro del padre
suo? — Il caso non è senza esempio, rispose il Diavolo, e vo’ raccon-

tarcene uno dei più celebri. — Sotto il regno di don Pedro i, sopran-
nomato il Giusto ed il Crudele, ottavo re del Portogalllo, un giovine di
vent’anni cadde fra mani della giustizia per uno stesso motivo. Don
Pedro, maravigliato al par di voi della novità del caso, volle, interrogar i

la madre del colpevole, c lo fe’con tanta destrezza, che dovette con-


fessar che quel fanciullo non aveva altrimenti battuto il padre suo. Se
i giudici del consiglio casligliano destramente interrogassero la madre,

potrebbero forse avere una egual confessione.


Spingiamo l’occhio adesso in quel sotterraneo posto al di sotto di

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I

H2 IL DIAVOLO ZOPPO

que’ tre prigionieri che vi mostrai, e vediam che si faccia. Li vedete


que’ tre sciagurati? sono assassini da strada, viciui a salvarsi mediante
una fuga; essi ebbero una lima sorda nel pane, ed ban già limato mia
grossa spranga della inferriata di dove potranno scendere nella corte,
da cui usciranno nella contrada. Sono prigioni da dicci mesi, c son

più di otto che dovrebliero aver ricevuta la ricompensa pubblica delle


loro imprese; ma, grazie alla lentezza della giustizia, eccoli a momenti
di bel nuovo pronti ad assassinare altri viaggiatori.

— Guardate ora in quella sala bassa, e scorgerete da venti a trenta


uomini distesi su poca paglia: son borsaiuoli, truffatori e va dicendo.
Ne vedete voi cinque o sci che menano pugni senza misericordia ad
un povero operaio, stato imprigionato quest'oggi per aver ferito un
arciere con una sassata? — E perchè lo batton essi? sciamò Zam-
|

bullo. — Perchè non ha pagato ancora la ben’entrata. — Ma lasciamo


al loro destino codesti miserabili, allontaniamoci dallo squallore delle

prigioni, c volgiamo i nostri sguardi su cose che son migliorìe in un


più allegre.
I

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i

CAPITOLO Vili

Aimodeo t» vedere > don Cleof» mollo «Uro perenne o gli nirrt tulio

ohe loro successe nello gi ornila.

Asciarono essi i prigionieri e si trasferirono in

un altro rione della città, fermandosi su di


un gran palazzo, ove il Demone disse allo

studente: — Ilo volontà che voi sappiate ciò


che in oggi fecero tutte le persone che allog-
giano nei dintorni di ipicsto palazzo, locchè

l«itrà divertirvi assai. — Non nello dubbio,


rispose Leandro, l’regovi dunque a dar principio da quel capitano
che sta ponendosi gli stivali; ei debbo avere un qualche affare di

con seguenza che lo chiami in tutta premura altrove. — Egli è, disse

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. —

114 IL DIAVOLO ZOPPO

lo zoppo, un espilano in procinto «l’uscire da Madrid ; i suoi cavalli

l’aspettano sulla strada, e dee partire alla volta di Catalogna , ove


stanzia il suo reggimento.
Siccome non nvea danaro, ricorse ieri ad un usuraio: — Signor San-
guisuga, dissegli, non potreste imprestarmi un migliaio di ducati? —
Signor capitano, rispose l'usuraio in tuon dolce e buono, non gli ho : i

ma può darsi ch’io trovi un tale che ve l’iiupresti, cioè dire, che ve
ne darà quattrocento contanti, in buona moneta, purché gli facciate

la ricevuta di mille, c sui quattrocento che riceverete, io ne terrò I

sessanta, se siete contento, per la senseria. È tanto scarso il danaro in

oggi.... — Quale usura! sciamò rabbioso l’uflìcìale; seicentoscssanla


ducati, per treccnquaranta! Quale bricconata! quale assassinio! Alla

forca uomini di tal sorta!


— Non andate in collera, signor capitano, continuò con tutta flemma
l’usuraio: e «li che vi lagnate? vi costringo io forse a ricevere i tre-

centoqnaranta ducati? Siete voi il {ladrone di prenderli o eh rifiu-

tarli. Non avendo cosa alcuna il capitano da opporre a questo discorso,


lo lasciò; ma «lupo matura riflessione che gli conveniva ad ogni costo

partire, perchè il teiiqx) lo stringeva e non polea qnindi fare a


meno del danaro, «juestn mattina fu di nuovo in casa dell’usuraio; lo
incontrò sull’uscio, ravvolto in un mantello nero, con grandi glia di
tela, capelli corti ed una grossa corona in mano guernita di meda-
glie. — Eccomi a voi, signor Sanguisuga, gli disse; accetto i treccn-
quaranta ducati, per la gran necessità in cui trovami di danaro.
Ora vado a messa, rispose in tuon grave l’usuraio, eil al mio ritorno
venite, che vi darò la pattuita somma. — Eh no, soggiunse il capi-
tano; rientrate, di grazia in casa, che tutto sarà fatto in un momen-
to; ho bisogno d’essere sbrigato subito per la' gran premura in cui
sono.... — Non {tosso, rispose Sanguisuga; 6 mio costume d'udire
tutti i giorni la messa, prima di attendere a qualunque siasi affare

mondano: ella è una regola che ini sono prefissa, e voglio osservarla
religiosamente per tutto il resto di mia vita.

Qualunque si fosse l’impazienza dell’ufTIziale di avere il danaro, gli

è stato d’uopo di cedere alla regola del pio Sanguisuga; s’armò dun-
que di sofferenza, e quasi temesse che i ducati non gli sfuggissero,

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CAPITOLO OTTAVO 115
accoin|>agiiò l'usuraio alla chiesa. Udì la messa seco lui, dopo di che
sperava che sarebbe uscito; ma invano, che Sanguisuga gli si appressò

all'orecchio e dissegli: — Uno dei più valenti predicatori di Madrid


a momenti salirà sul pulpito, e non vo' perdere la di lui predica.
Il capitano ,
a cui In premura gli iacea sembrar sì lungo il

tempo, era fuori di sò |>er questo nuovo ritardo; ciò non ostante |>ensò
bene «li soffermarsi in chiesa. Venne l’oratore e predicò coni iti l’usura.

Si entusiasmò l'uflìriale per la gioia, ed osservando l'impassibile volto


dell’usuraio, disse a se stesso: — Se questo giudeo si lasciasse com-
movcre; seicento ducali soli ch'ei mi dasse, io |>arlirei contento. —
finalmente, terminata la predica, 1’usurain usci. I.o raggiunse il ca-

pitano, c dissegli: — Ebbene, che vi jKire di quel predicatore? non è


116 It DIAVOLO ZOPPO

egli energico nel suo dire ? io ue sou tuttavia commosso. — Sono


allatto affatto del vostro parere, rispose l' usuraio : ha trattato con
gran maestria il suo soggetto, egli è davvero un uom sapiente: ha

fallo bene il suo mestiere, andiamo ora noi a fare il nostro.


—E chi son esse quelle due giovinette coricate insieme che si

sganasciano dal rìdere? sciamò don Clcofa: mi sembrano vis|ie e al-

legre. — Sono, rispose il Diavolo, due sorelle che fecero seppellire


il [nube loro solo questa mattina. Era desso uu burbero, nemico del
matrimonio, o, a meglio dire, avverso a dare uno stalo alle sue liglie,

che non volle mai maritarle per quanti buoni parliti gli sicno stali

proposti. 11 carattere del defunto è l’argomento dei loro discorsi. —È


morto finalmente, dicea la maggiore, è morto lo snaturato padre che
ci volea barbaramente fanciulle in eterno; non si opporrà più ai no-
stri desiderii. — In quanto a me, sorella mia, soggiunse la minore,

piace l'arrosto anziché il fumo; io voglio un uomo ricco, foss'egli an-

che bestia, ed il grosso don Bianco è l’uomo nato fatto per me. —
Adagio, adagio, sorella mia, giacehè non is]mserenio che quelli che ci
sono destinati, che i nostri matrìnionii sono scrìtti iu cielo. — Me ne
rincresce, a dir vero, rispose la minoro, |X rchò L
temo che il [ladre

nostro essendo lassò non ne laceri il foglio. — Non |iotè trattenersi

la maggiore dal ridere a questo motto, ed ambedue tuttavia ne


ridouo.
—-Nella casa vicina a quella delle due sorelle, ed in una camera
amniobigliata sta una giovine liellezza aragonese. La vedo rimirarsi
in mio sjx'cchio a vece di ]H>rsi a letto: si pavoneggia per le pro-
prie grazie, perchè incatenarono quest'oggi al suo carro un casca-
morto di piò. — Studia essa in quest 'istante nuovi vezzi, ed uno ne
ha trovato che farà domani mirabile effetto su lo sgraziato novello

amante. Saria un tradir se stessa il non cercare di accalappiarlo ogni

volta piò: capperi! è uomo da cui si pulì sperar molto; e didatti son
{•oche ore che disse* ad un suo inesorabile creditore: — As[>cttalc,

mio buon amico, aspettale ancora alcuni giorni, perchè son vicina

ad un assestamento di conti con uno dei principali ]>ersonaggi della


dogana, e sarete pagato.
—-E inutile ch'io vi domandi, disse Leandro, ciò che ha fatto quel

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CAPITOLO OTTAVO 117

cavaliere che presentasi adesso a’ miei sguardi; ei debile avere spesa

tutta la giornata a scriver lettere, poiché ne vedo una quantità sul suo
scrittoio! — Ciò che vi ha di bollo, ris|xise il Diavolo, si è clic quelle

lettere sono tutte di un tenore. Scrisse quel cavaliere a tutti i suoi

amici assenti, per dir loro un’avventura successagli oggi dopo il mez-
zodì. Egli ama una vedova di trent’auui, severa e bella; le è tenero

di ogni cura e riguardo, e pensa seriamente di sposarla; accetta la

signora la fattale proposta, e nel mentre che farinosi i preparativi per

le nozze egli e libero di andar da lei. Or tiene, quest'oggi vi fu, c


l’azzardo volle che non vi fosse alcuno ]>er annunziarlo: entra egli
nell’ap(iarlamento della fidanzata che trova coricata sur un letto pro-
fondamente addormentata. Le si appressa bel bello in punta di piedi,
e giovandosi dell’occasione ,
le imprime furtivo un bacio sulle ver-

miglie labbra; si sveglia la bella e sospirando teneramente dice: —


« Ancorai ah lasciami in rifxiso, mio adorato Ambrogio ». Il cavaliere,

da uom di spirito, risolve sul campo, esce dall’ appartumento ed


incontrando Ambrogio gli dice: — Non istale ad entrare, chè la vo-
stra padrona ha d’uopo di riposo.
Due case piò in là di quella del cavaliere, veggo in un piccolo al-

loggio un certo marito che si addormenta tranquillamente ai rimpro-


veri che sua moglie gli fa d’aver passato tutta intiera la giornata

fuori di casa. E griderebbe assai di piò se sa]>esse come ha con-


sumalo il teui|io. — Sarà stato senza dubbio occupato ila qualche
galalite avventura. — Avete colto nel segno, disse il Diavolo; uditemi
clic ve la racconto.
— L’uomo di cui si tratta è un borghese ]>cr nome Patrizio; egli

è uno di que' mariti libertini che non vogliono saperne di fastidii, e


die vivono da spensierati come se non avessero né moglie né figli; e
sì ch’egli ha una bella, amabile c virtuosa consorte, due lìglie ed un
figlio e tutti tre ancora nella loro infanzia, l'scì di casa questa mat-

tina senza pensare se fessevi del pane per la famiglia, cosa che suc-

cede le spesse volte. Traversando la gran piazza, l’apparecchio del


combattimento dei tori il soffermò: tutt’ all’ intorno erano già innal-
zati i palchi, ed i piò curiosi accorrevano già a prendervi posto.
Nel mentre che baloccandosi guardava or questi or quegli , si
118 IL 1)1 AVOLO ZOPPO

accorge d’uoa svelta signorina vestita di tutto punto che scendendo i

gradini d’uno dei palchi, lasciava intravedere una ben tornita gamba
coperta d’uua calza di seta color di rosa trattenuta da una giarrettiera
d’argento; non vi fu bisogno d’altro perchè il nostro borghese per-
desse la testa. Si avvicinò alla signorina, che era insieme ad una sua

compagna che bastava da sè sola ])er dar a conoscere ch’erauo esse

due avventuriere: — Signore, loro disse, se posso esservi utile, voi

non avete che a parlare, e mi troverete disposto ad ubbidirvi. — Si-

gnor cavaliere, gli rispose la ninfa dalle calze color di rosa, non è a
disprezzarsi la vostra gentile offerta: abbiaci diggià accaparrale le

nostre sedie, ed ora andiamo a far colezione, che siamo uscite di buon
multino senza bere il nostro solito cioccolato, e giacché siete tanto
amabile d’oflrirci la vostra servitù, andrem, se così vi piace, in un
qualche luogo in cui si possa mangiare un bocconcino, ma che sia però
allattato: voi sapete che le fanciulle non debbono mai esporsi, onde
serbar illeso il lor decoro.

A queste parole, Patrizio facendosi più contegnoso e civile che non


era duo|>o, condusse le prineipeue in un’osteria del sobborgo ,
ove
entrando chiese da colezione. — Che volete? gli disse l’oste; ho i re-

sti d’un gran banchetto che fu dato ieri qui: pollastipili ingrassati in
casa, pernici del reame di Leone, piccioncini della Vecchia Casliglia,

«1 un mezzo prosciutto dell'Est remadura. — Ecco (pianto può bastare,


disse il braccicre delle vestali. Signore, voi non avete più che a sce-
gliere; clic cosa bramate? — Ciò clic piace a voi, risposero; noi non
abbiam altro piacere che il vostro. — Il borghese allora comanda
due pernici e due pollastri freddi, ed un’apjmrtala camera, che le sue
dame sono schifiltosissime in fatto di convenienze.

Entrano essi in un gabinetto, ed un momento dopo si recan loro le

pernici cd i pollastri con pane e vino. Le nostre Lucrezie, dotate di


un eccellente ed altissimo appetito, cominciano a far guasti terribili

nei piatti nel mentre che il baggiano, al quale toccherà [vagare il conto,
si delizia nel contemplare la sua Lisetta (è tale il nome della sua diva),

ed ammira le brevi e bianche mani su cui risplende una bella e grossa


gemma, guadagnata dalle medesime; le prodigalizzai nomi di stella,

di sole, e non può mangiate, lanl’è la gioia d’aver fatto un sì felice e

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CAPITOLO OTTATO 119

bell’incontro. Le domanda s’ella ha marito, a cui risponde che no, ma


ch'ella è sotto la direzione d’un fratello, e se avesse aggiunto, per
parte di Adamo, avria detto la verità.

Intanto le due arpie non solo divoravano ciascuna il suo polla-


strello, ma bevevano in ragion del mangiare che facevano, e. mancava
quindi il vino. Il dabbennomo corre egli stesso a cercarne per averne
più presto, e non è uscito ancora che Giacinta, la compagna di Lisetta,

mette le ugnc addosso alle due pendei rimaste sul piatto e le colloca

in una gran saccoccia di tela, nascosta sotto la vesta. Toma il nostro


Adone con il vino fresco, e veduta la tavola rasa, domanda alla sua

Venere se desidera ancora qualche cosa. — Si, diss’ella, due di quei


piccioncini di cui ci parlava l’oste, purché sieno eccellenti; altrimenti

un pezzo di prosciutto dell’ Estremadura potrà bastare. Non erano


dette queste parole ancora che già Patrizio ordinava i tre piccioni

ed una grossa fetta di prosciutto. I nostri uccelli di rapina ricomin-

ciarono a beccare, ed intanto che il borghese è obbligato ad allon-


tanarsi una terza volta per andare a domandar del pane, due piccion-
cini volarono a tener compagnia ai prigionieri della saccoccia e si

divisero il terzo.
,

140 IL DIAVOLO IOPPO

Finita la colazione, ch’ebbe termine con i fruiti (Iella stagione, l'in-

namorato Patrizio si avvicinò a Lisetta |>er is| negarle la forza dell'a-

more clic nutriva già |>er lei ;


ma la furba civettuola ricevè freddamente
la dichiarazione ilei buon uomo, e gliela troncò a mezzo dicendogli
ch’eravi tempo a tutto c che non eran cose da dirsi in una taverna,
i ed udendo a scoccar l’una dopo il mezzodì: —- Ah, mia cara Gia-
cinta, sciamò Lisetta, quanto siam disgraziate! non troverem piò posto
per veder la caccia dei tori. — Oh, risjxise Giacinta, non ci pensare:
che questo cavaliere ne riconduca là dnv’cbbtmo il piacere d’ incon-
trarlo, c non istarc a prenderti jx'iia del resto.

Prima d’uscire dalla taverna, bisognò pagare il conto, che fc’salir


la spesa a cinquanta reali. Il borghese diè mano alla borsa, ma non
trovandovi clic soli trenta reali, fu costretto a lasciare in pegno il

fermaglio d’oro della sua grandiglia. Accompagnò quindi le due si-

gnorine alla caccia dei tori, situandole a lutto loro bell’agio su di un


palco, il cui proprietario, amico suo, gli fc’ credito pel nolo.
Apjiena sedute, domandarono dei rinfcschi : — Muoio di sete, dice

l'ima, quel prosciutto mi ha destata un’arsura d’inferno; ed anch’io,


dice l’altra, berrei pur volentieri una limonata. Patrizio che capiva
assai bene dove andava a battere la solfa, le lascia per correre a cer-
car dei liquori; ma si fei-ma per via e dice a se stesso: — Ove corri,

insensato? ma non pare che tu sii padrone di cento doppie? E sì tu

non [Missicdi neanche un maravedis (i). — Che deggio fare? Tornar


dalla dama senza portarle quel che desidera, non è convenienza; e
d’altra parte come abbandonare insili più (sello un’ impresa così bene

avviala? Ah no, non jxisso risolvermi.


Mentr’era in forse, scopri fra gli spettatori uno de’ suoi amici che
gli avea soventi volle offerta la sua borsa, e ch’ei per orgoglio avea
sempre ricusato. Non bada più alla vergogna in quest’ occasione
premurosamente il raggiunge e si fa dare a prestito una doppia, colla
quale, riacquistato lo spirito, corre da un acquafrescaio e fa portare
alle sue principesse tanti gelati, biscotti, rinfreschi, confetti, che quasi
quasi la doppia non era bastante per la nuova spesa.

(I) rirtol» monna ili rame ilei latore il* un centralino.

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l‘22 IL DIAVOLO ZOPPO

passi dalla porla, e lascia trascorrere una quali^e ora senza accor-
gersi clic le signorine si burlino di lui; si maraviglia solo che don Ga-
spare non esca mai, e teine che il fratello ceni quella sera in famiglia.

Intanto battono le dieci, le undici ore, la mezzanotte: allora comin-

cia a perdere un po’ di speranza e a dubitare della buona Tede della

sua dama. Si avvicina alla porla, entra catellon catellone in un oscuro


corridoio ,
a metà del quale trova una scala; ma non osa di salirvi,

fende l’orecchio eil ascolta un suon confuso e misarmonico come di

un cali che abbaia, d'un gatto che miagola e d’un fanciullo che piango.
Ma finalmente è persuaso d’essere stato schernito, c ciò che vieme-
glio lo persuade si è che, giunto a cupo del corridoio, si trovò in un'al-
tra via che non era quella in cui era stato posto in sentinella.
Si corruccio allora dello sprecato denaro, e lornosseiic a casa ma-
ledicendo di tutto cuore le calze color di rosa. Bussò alla porta, e

|*U

l'afflitta sua consorte, con le lagrime agli occhi evi il rosario in mano,
gli aperse, dicendogli con una commoventissima voce: — Ah Patrizio!

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CAPITOLO OTTAVO 123

0 puoi lu abhaiidoi^pe cosi la lua casa e prenderli si poca cura ili

tua moglie, de’ tuoi figli? Che hai tu fatto dalle sei del mattino a
questa parte? Non sapendo il marito che cosa rispondere a siffatta

Interrogazione, ed indispettito di essere stato lo zimbello di due sgual- M


t »
drine, si spogliò e si pose a letto senza proferir parola. Sua moglie,
eh’è in lena di moralizzare, gli fa ora una.prcdiea.... ed egli si addor-
menta.
-
— Ora, proseguì Asmodeo, dirigete i vostri occhi su quel gran pa-

lazzo clie è accanto a quello del cavaliere che scrive la circolare ai

suoi amici, per dir loro la rottura del suo matrimonio con l’amante

d'Ambrogio. Non vedete voi una giovine signora coricata sur un letto

di seta cremesina, ricamata in oro? — Si, disse don Cleofa, vedo


una donna addormentala, e, se non mi sbaglio, veggo anche un libro
sul suo capezzale. — Sta bene, soggiunse lo zoppo. Questa dama è
una contessina spiritosissima, ed allegra tanto da non dirsi; da sei

giorni pativa un'insonnia che in travagliava assai. Si risolvè oggi di

consultare un medico, e inalidii per uno dei più tronfili e gravi di tutta

la facoltà. Ei giungi*, esamina, interroga ed ordina un rimedio addi-

tato, dice egli, da Ippocrate. I.a dama scherzò su l’ordinazione, «I


j

il medico, animale stizzoso, non secondò lo scherzo cd anzi le disse

con tutta la gravità dottorale: — Madama, Ip|xicratc non è uomo da


essere posto in ridicolo. — Uh, signor dottore, rispose la contessina

con tutta la serietà, mi guarderei bene dal heirnrmi d'un autore sì

celebre e si dotto: io lo stimo tantoché siili |iersuasa già che apren-


dolo solo guarirò dalla mia insonnia: nello una versione del dottis-
simo Azero nella mia biblioteca; è la migliore; anzi mi si rechi tosto.

I ritratto, ammirate la malia di tal lettura, non è alla terza pagina e


dorme già profondamente.
— Nelle scuderie di questo palazzo medesimo vi è un povero soldato
monco che i palafrenieri lasciano dormire per carità su la paglia. Iti

giorno chiede l’elemosina, ed ebbe non lui molto un bellissimo dia-


logo con un altro pitocco clic halle la birba vicino al Buen-Hrtiro,

sul flussaggio della corte. Questi fa assai tiene i suoi alluri, ha lutti

1 suoi comodi, ed ha una figlia ibi marito che fra i mendicanti ha fama
di essere ima delle piò ricche eredi. Il soldato, accostandosi al (ladre

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f$4 IL DIAVOLO ZOPPO

dalle piccole monde (Maravedis), gli disse: Senaf mendigo, io ho per-


duto un braccio, non posso più servire il re e son ridotto ad umi-
liarmi a tulli que’ che passano, come fate voi, se voglio strapparmi

il bisognevole alla mia sussistenza; so elio egli è, fra tutti i mestieri,

quello che fornisce meglio il necessario a chi lo esercita, e gli manca


solo d’essere un |>o' più onorevole.... — S’ei fosse tale, rispose l’al-

tro, non saria più buono, poiché tutti gli uomini mendicherebbero.
— Dite benissimo ,
rispose lo storpio : ma veniamo a noi. lo sono
dunque un vostro confratello e vorrei unirmi a voi in parentela: da-

temi vostra figlia. — Che dite mai, amico mio, replicò il ricco pi-

tocco; le conviene ben altro sposo: voi non siete abbastanza storpio

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CAPITOLO OTTAVO 125

per essere mio genero; io ne voglio nno cosi malconcio da destar


pietà perfino agli usurai, ai... — Ma che, disse il soldato, non sono in

forse abbastanza disgraziato da poter commovere chi che sia? — Eh


via, basta basta, vi ripeto, burbanzoso soggiunse l'altro, voi non
siete che monco ed ardite di aspirare alla mia figlia! Sapete voi che
l’ho rifiutata ad uno cui furono amputate tutte e due le gambe?
— Non debbo, continuò il Diavolo, oltrepassare la casa vicina al

palazzo della contessine, senza farvi osservare un pittore ubbriacone


ed un satirico poeta. Il pittore usci di casa questa mattina a sette ore

con fermo in mente il divisamenlo di cercare un confessore per sua


moglie ammalata; ma volle il caso che incontrasse uno de’ suoi amici
die seco il condusse in una taverna, di dove non usci che alle dieci

della sera. Il poeta, che vuoisi ricevesse più volte tristi regali pei

suoi epigrammi, dicea or ora in un caffè, con un tuono da Rodo-


monte, parlando d’uno che non era presente: Egli è un facchino
a cui vo’ dare cento bastonate. —E lo potete fare, gli rispose un
beffardo, chè ne avete una raccolta.
— Ma non debbo dimenticare una scena successa oggi in casa
d’un banchiere che abita in questa stessa via, da poco tempo ritor-
nato a Madrid. Non son tre mesi ch’egli è reduce dal Perii con im-
mense ricchezze. Suo padre è un onesto caparelo (i) di Viejo de Me-
diana, grosso villaggio della Vecchia bastiglia, vicino alte montagne di

Sierra d'Avila, dove vive contentissimo di sua sorlc con la propria


moglie che ha la stessa età, cioè sessantanni.

Già da moltissimo tempo il loro figlio avea abbandonalo la paterna

casa per irsene alle Indie a cercar una miglior fortuna di quella che |

i genitori potevangli procurare. Vent’anni erano trascorsi dacché non


lo aveano più veduto. Ogni giorno pregavano il ciclo perchè lo pro-

teggesse, e tutte le domeniche faceanlo raccomandare sul pulpito


j

dal curato che era uno dei loro amici. Neanche il lianehiere, quan-
tunque in prospera fortuna, non li obblió giammai. Tostochè ebbe
preso stanza, risolvette di recarsi ei stesso a riconoscere lo stalo loro.
Ei disse quindi a’ suoi domestici di non istare in pena per lui, e parti,

(1) Cialtaltino

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m il. nuvolo zoppo
sanimi» quindici giorni, tulio solo verso il paese die lo ville a nascere.

Erano le dieci della sera ed il buon ciabal lino dormiva tranquillo


vicino alla sua consorte, allorché svegliossi di soprassalto al rumore
die Tacca il banchiere picchiando la |iorla lidia modesta loro casi-
pola.— Chi picchia? — dissero. Aprite, aprile! sono il ligliuol vo-
stro,son — Eh
Francillo. via, rispose il buon uomo, fate la vostra

che
strada, ladri, non die
qui v'è a fare |>cr voi: Francillo è all’ Indie,

seppure non è morto. — Vostro Figlio non è pili all' Indie, soggiunse

il banchiere; egli è ritornato dal Perii, egli è lui che vi parla, non
gli riliulate di entrare nella casa paterna. — Alziamoci, diaconi»,
disse allora la moglie, io creilo benissimo ch'egli è Francillo, eil anzi

mi sembra di riconoscerne la voce.

.Si alzarono in fretta tulli edue: il padre accese un lume, e la ma-


dre corse ad aprire la porla: guarda in viso Fraudilo e riconosciu-

tolo, le si getta al eolio e lo stringe con tutta l'espansione d’un caldo

: .
.

amor materno, fra le sue braccia. Mastio diaconie, commosso anche

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CAPITOLO OTTAVO 127

egli quanto sua moglie ,


abbraccia alla sua volta il lìgliuol suo , c
beati tutti c tre d’essere riuniti dopo una si lunga assenza, non pos-
sono saziarsi di darsi l’un altro prove del piacere che sentono in
rivedersi

Dolio un primo sfogo di così dolci trasporli, il banchiere tolse le

briglie al suo cavallo, e Io condusse in una stalla ove riposava una


vacca, unico tesoro della casa. Narrò poscia a’ suoi geuitori il lungo
suo peregrinare, c come egli recasse con sé molte ricchezze dal Perù.
Fu lungo il suo dire, ed avrebbe infastidito tuli’ altri uditori; ina

un figlio che racconta le proprie avventure non può stancare mai l’at-

tenzione d’un padree d’una madre; nonv’è per essi la più minuta
circostanza clic possa loro riescire indifferente: erano avidi di tutto
udire , e la menoma cosa faceva sovr’cssi una viva impressione di
gioia o di dolore.

Terminalo ch’egli ebbe il suo racconto ,


offri loro una parte di
sua fortuna , c pregò il padre a voler cessare dal faticar suo lungo.
— No, mio buon figlio, gli disse mastro Giacomo, amo il mio me-
stiere e non vo' lasciarlo. — Conici disse il banchiere, nè vi par
tempo ancora di riposare? Io non vi propongo di venire a Madrid
con me, ben sapendo che la città non ha per voi allettamento al-

cuno, nè vo’ sturbare in verun modo la vostra tranquillità; ma tra-


lasciale almeno da un lavoro penoso, )iensate che alla vostra età è
necessario che finalmente vi riposiate, e che è mio pensiero che
d’ora in avvenire meniate una vita agiata, giacché il lìgliuol vòstro
può procurnrvene i mezzi.

La madre fu del parer del figlio, e mastro Giacomo si arrendette.


— Ebbene, Fraudilo, diss’egli, per contentarli io non lavorerò più
per tutti gli abitanti del villaggio; rattopperò solo le mie scurivo e

quelle del nostro buon amico il curato. — Ferma la convenzione, il

banchiere sorbì due ova fresche, si adagiò vicino al padre suo, e


dormì quel sonno che solo i figli che lo assomigliano ponno conce- i

pirne la soavità.

Alla domane Francillo lasciò loro una borsa di trecento doppie


c tornossene a Madrid. Ma ci fu estremamente sorpreso questa mat-
tina in vedendo inaspettato comparire mastro Giacomo. — Glie vuol

128 IL DIAVOLO IOPPO

dire la vostra visita o padre mio? — Vengo, rispose il vecchio, a re-

stituirti la Imrsa che mi hai donata: eccoti l'oro tuo: io vo’ vivere coi

prodotti del mio mestiere: muoio di noia dacché più non lavoro. —
Ebbene, padre mio, soggiunse Franeillo, tornate pure al villaggio ad
esercitare il mestier vostro, ma solo per levarvi dalla noia. Riprendete
la vostra borsa, e non fate risparmio alcuno della mia. — Ma, Pio
mio! che cosa debbo farne io di tanl’oro? — Soccorrete i poveri,

rispose il banchiere; disponetene a norma dei consigli del curato.


Contento il ciabattino di tal risposta, se ne tornò felice al natio

suo villaggio.
Fu una gioia per don Cleofa la storia di Franeillo, e stava per en-
comiare l’ottimo cuore del banchiere, allorché acutissime grida lo

deviarono dal suo proposto. — Signor Asmodeo, diss’egli, che cos’è

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CAPITOLO OTTAVO *29


mai un tal rumore ? — Queste grida che riempiono l'aere, rispose il

Diavolo, partono da una casa che serve d’ospedale ai pazzi ; si sfia-

tano que’mcschini a furia di cantare e di strillare. — Noi dobbiam


esser loro vicini: andiamo, amliam tosto a vedere codesti pazzi.

Vi procurerò volontieri questo passatempo, narrandovi il perchè )>er- I »

dettero la ragione. Detto fatto, lo trasportò su la rata de losloeoi (1).

(I) L’ ile’jtazu.

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CAPITOLO NONO 131

giuocatori ,
saltimbanchi, tristi e buoni, giovani e vecchi: ora biso-
gna che io dicavi per qual motivo la testa diè lor di volta; pas-

siam da una cella all'altra, e cominciali! dagli uomini.


Il primo che presentasi, e che sembra furioso, è un novellista ca-
sigliano, nativo di Madrid , ma fiero borghese che patisce di nostal-
gia più d'un antico cittadin di Roma. Ei divenne pazzo pel dispiacere
di aver letto in una gazzetta che venticinque Spagnuuli s’eran lasciati

dar le busse da cinquanta Portoghesi.


Egli ha per vicino un licenziato che moriva di voglia d’avere un
beneficio; per dieci anni continui si ammantò alla corte col saio
dell’ipocrita, ed ora la disperazione di vedersi ognora trascurato nelle
nomiue gli sconcertò la testa; ma in mezzo a’ suoi mali egli è febee,

poiché si crede d’essere l’arcivescovo di Toledo, e se non lo è, se lo

immagiua, ed a me par tanto più febee, in quanto che la sua pazzia è


un bel sogno che pare non bnirà che colla sua vita, senza ch'egli
abbia, morto che sia, a render conto al mondo di là del modo con
cui amminist rò le rendite.

11 pazzo che vien dopo è uno sciagurato pupillo, il cui tutore lo ha

dichiarato tale nella ferma intenzione di impadronirsi di tutti i suoi

beni: il [invero ed inesperto giovinetto perdette infatti il seuno [ter la

rabbia, dacché si vide rinchiuso. — Dopo il pupillo vi è un maestro

di scuola che si ostinò a trovare il Paulo post fulurum del verbo greco;
ed un mercante poscia la cui ragione non resistè alla notizia d’un

naufragio, dopo aver date prove di costanza e fermezza nel fare due
dolosi falbmenti.

11 personaggio che giace sdraiato nella vicina cella è il vecchio


capitano Zanubio, cavaliere napolitano venuto già da qualche tempo
a stanziarsi in Madrid. La gelosia lo ridusse nello stato in cui lo ve-
dete: eccovene la stona.

Egb uvea una giovfn moglie chiamata Aurora, che custodiva a vi-

sta, e la sua casa era inaccessibile agb uomini. Non usciva Aurora

fuorché [ier andare alla messa, ed accompagnata sempre dal vecchio


suo Titone, che qualche volta la conducca a prender aria in una terra
vicina ad Alcantara. Ciò non ostante, un cavaliere chiamato don (iar-

da Pachcco, che l’avea veduta per caso in chiesa, concepi per essa
132 IL DIAVOLO ZOPPO

un violento amore: era questi un giovine intraprendente c degno di


attirare a sò gii sguardi d’una Isella donna.

La difficoltà d’introdursi in casa di don Zannili) i non distolse don


Garcia dallo sperare, e siccome non uvea per anco barba ed era un
bel giovinetto, si travesti da fanciulla, si munì d'una borsa ili cento
doppie e fu alla terra del capitano, ove seppe cbe dovea recarsi

presto con la vezzosa moglie. Parlò colla giardiniera c le disse

cou l’enfasi d’una eroina da romanzo, |>erseguitata da un mostro, da

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CAPITOLO NONO <53

un gigante: — lluona donna, io gettonai nelle vostre braccia, e pre-

govi ili aver pietà di me. Io. sono una fanciulla di Toledo, d'illustri

natali e ricca; vogliono i miei jaarenti sagrificamii con un uomo ch'io


abborro. Fuggii dalla loro tirannide, ho d’uopo d’un asilo, e qui sarei
sicura; deh, lasciate ch’io mi fermi in questo luogo sintaulochè la

mia famiglia muli pensiero c che più dolce divenga la mia sorte.

Eccovi la mia borsa, soggiunse porgendogliela, ricevetela; essa è


tutto che vi |M>sso offrire in quesl’islanle; ma spero che un di salò
in istato di meglio ricompensare il benefizio clic mi farete.

Commossa la giardiniera da mi tale discorso, e più dalle gentili

promesse, rispose: — Si, fanciulla mia, che vo’ esservi Utile, conosco
delle giovinette che furono sagrificate ad essere compagne a vecchi
mariti ,
so che non ne sono troppo coniente e mi niello nei loro
panni. Non potevate rivolgervi a cui vi compiangesse più Vi darò

una cameretta appartala ove non avrete a temere ih cosa alcuna.


Furono eterni i giorni che passò don tìarcia in quella villa senza

che venisse appagata la sua impazienza di veder giugnerc la bella

Aurora; ma ella vi arrivò finalmente e con seco il suo geloso consorte


* 134 IL DIAVOLO ZOPPO

clic non tralasciò certo, secondo la sua abitudine, di visitar tutti gli
appartamenti, i gabinetti, le cantine, i granai, i sotto-scala, le soffitte,

Iter veder se rinveniva un qualche nemico deH'onor suo. La giardi-


niera, che il conosceva, non tardò a narrargli come una signorina
le uvea chiesto un ricovero.
Zanubio, benché diffidentissimo, non ebbe il menomo sospetto dello

stratagemma; curiosità lo spinse solo a conoscere l’iucognita, la

quale lo pregò di volerle concedere di tacergli il suo nome, dicendo


doverlo fare per un riguardo alla sua famiglia da lei disonorata in
certo modo con la sua fuga; gli spacciò quindi un romanzo con tanto
spirito e facondia clic il capitano ne fu incantato e sentì nascere
dell’affezione per quell 'amabile fanciulla a cui offri i suoi servigi, e
lusingandosi ch’ella potesse essere d’inciampo a qualche segreto ma-
neggio di sua moglie, la pregò ad esserle amica e compagna.
Ap|>ena Aurora vide don Garcia, si turbi), arrossì, senza sapere il

perchè : s’accorse il cavaliere e subito pensò lo avesse notato nella

chiesa dove l’avea veduta: ]>cr accertarsene le disse, tosto che potè
trattenersi con lei senza testimonio alcuno: — Signora, mio fratello
mi parlò di voi soventi volle: dissemi che videvi uu momento in una
chiesa; d’allora in poi ei vi nomina mille volte al giorno, od è in uno
stato che merita tutta la vostra compassione. —
A queste parole, Aurora fissò don Garcia con una maggiore atten-
zione che non avea fatto ancora, e gli ris|>nse: — Voi rassomigliate
troppo a questo fratello, ]>erch’ io sia più a lungo ingannata dalla
vostra astuzia : ben mi accorgo clic il vostro non è che un travesti-
mento. — Kicordnmi die un dì, mentre udiva la messa, apertomisi
a caso il fitto velo che mi copriva il viso, voi mi guardaste: vi tenni

d occhio poscia |>er curiosità e vidi le vostre pupille ognora vòlte su


di me. Oliando uscii, credo mi abbiate seguita ]ier sa|>ere chi fossi, ed
in qual via fosse la mia abitazione. Ilo detto credo, perchè non osai
girar la testa per vedervi; mio marito, che m’era n’tianchi, sarebbesi

accorto di questo mio moto, evi ascritto me lo avrebbe a colpa. Il giorno


appresso e gli altri susseguenti, fui nella stessa chiesa, vi rividi, e i

vostri tratti mi rimasero si bene impressi, da riconoscerli ad onta del



vostro travestimento.

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,

CAPITOLO NOTTO 133


— Ebbene, signora, soggiunse don (iarda, che serve niegarlo? Sì

10 sono un uomo invaghito delle vostre grazie: son don Garda Pa-
checo, qui trascinato dall’amore sotto mentite spoglie. —E Voi cre-

dete senza dubbio, rispose Aurora, che approvando il vostro folle


amore, non mi opporrò aH'artiflzio usalo, e che anzi vi sarò favo-
revole nell’ ingannare il mio consorte? V’ingannate, signore, e di

questo passo corro a scoprirgli il tutto, chè ci vadell’onor mio, del


mio riposo; e me felice d’avere un' occasione si bella per provargli
che la sua vigilanza è meno sicura della mia virtù, e che, quantunque

geloso e diffidente, è cosa assai più difficile l’ ingannar me che lui.

Non erano pronunziate ancora l'ultime parole quando comparve


11 capitano, die pigliando tosto parte al loro conversare cosi disse: —
Che dicevate di bello, le mie signore? — Si discorreva, rispose to-

sto Aurora, dei giovani cavalieri che vogliono farsi amare dalle belle

e giovinette spose, a cui toccavano vecchi mariti ;


ed io dicea che
se vi fosse un di questi bellimbusti, abbastanza ardito per intro-

dursi in casa vostra sotto mentite spoglie, saprei ben punire la sua

tracotante audacia.
—E voi, riprese Zanubio, volgendosi a don Garcia, come ve la

si) righereste in simil caso con il giovane cavalicro? — Don Garcia


fuori di sè, turbato oltre ogni credere ,
diè rapida un’occhiata alla

bell’Aurora, quasi rimproverar la volesse, quindi alla meglio si ac-

ciugea a rispondere al capitano, che sarebbcsi avveduto del suo im-


barazzo, se non giungea in quel punto un servitore ad avvertirlo
che un uomo giunto da Madrid desiderava di parlargli: uscì dun-
que per andare ad udire che si volea da lui.

A pi vena uscito Zanubio, gettossi don Garcia ai piovi i d’ Aurora e le

disse: — Ah signora, e qual piacere è il vostro di vedermi confuso,


imbarazzato... Sareste voi cotanto barbara d’espormi alla furibonda
collera di vostro marito? — No, Pacheco, gli rispose sorridendo la si-

gnorina; le giovani spose di vecchi e gelosi mariti non sono sì cru-


deli ; volli farvi un po’ di paura e nulla più. Siate ora ragionevole e | «ar-

ti te tosto onde isfuggire il pericolo d’essere scoperto da mio marito.


Non volle Pacheco arrendersi a’di lei consigli e trasportato dal-

l’amore e tuttora a’ suoi piedi, mille, mille proteste amorose le fece,


156 IL DIAVOLO ZOPPO

scongiurandola di permettergli d’esserle virino sotto le mentite spo-


glie che vestiva inutile domanda, rifiutasi la bella Aurora, c pre-

gali) d’alzarsi, ma l’insistente don tìareia s’impadronisce di sua

mano, c baciandola teneramente, nuove e più tenere appassionate


gli suggerisce amore: le ode Zanubio che era di ritorno,
espressioni

la gelosia lo aceicea e non dubita punto clic don Gareia essere possa
nn corrisposto amante.
Furibondo corre nel suo gabinetto per prendere le pistole; ac-

cortisi di lui que’ sciagurati, e non isperando di poterlo dissuadere,

cercano un mezzo di salvamento e ciondoli tosto a doppio giro


I’ uscio dopo usciti dall’appartamento ;
con seco portano le chiavi

c volano Ini t i e due in un villaggio vicino ove don Gareia avea


lasciato il suo cameriere e due buoni cavalli. Là giunto, spogliò gli
CAPITOLO MONO 137

abiti da donzella e vesti quelli che gli convenivano, quindi presa


Aurora in groppa, l’ accompagnò in un convento, ove essa avea di-
visato d'essere condotta, c la cui badessa era una di lei zia. Dopo
tutto ciò, don Garcia ritornò in Madrid per qui aspettare le conse-
guenze di tale avventura.

In questo mentre Zanubio, vedendosi prigione, si pone ad urlare


ed a chiamar gente: accorre un servo in udendo la sua voce; ma
inutilmente, che le porte erano chiuse a chiave. Tenta il capitano
di gettarle a basso, ma resistono esse alla sua rabbia, ed intanto il

tempo passa; disperato di non potervi riuscire, impaziente di rag-

giungere i fuggitivi, si appiglia ad un estremo (tarlilo suggeritogli

dall'estrema collera, e gettasi dalla finestra colle pistole in mano:

cade bocconi sul suolo, si rompe il capo c giace steso a terra privo
di sensi e moto. Giungono i famigli e lo portano sur un letto, gli

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138 IL DIAVOLO ZOPPO

spruzzano d’acqua il viso, e lauto si affaccendano e tante gliene

fanno clic lilialmente ricupera i perduti sensi; ma con essi riacquista

il suo furore, c chiede ove ita fosse la sua consorte; gli fu risposto

ch’ella era uscita con la st laniera dama per la porticina del giardino.

Ordina tosto che gli si diano le sue pistole, ed è forza l’ubbidirlo, fa


insellare il suo cavallo e parte, non curante adatto di sua ferita, pren-
dendo una via diversa da quella battuta dai fuggitivi. Trottò tutto il

giorno, ma inutilmente, c sopraggiunta la notte, si fermò in un’osteria I

di villaggio per riposare ma la fatica ; e la ferita gli eccitarono una


febbre cerebrale che poco mancò non lo trascinasse al sepolcro.

Per finirla in due parole, restò quindici giorni ammalato in quel

villaggio, poscia ritornò alla sua villa, ove, senza posa occulto di
sua disgrazia, smarrì a poco a poco la ragione. I parenti d’Aurora
appena il seppero, lo fecero condurre a Madrid per rinchiuderlo fra
i pazzarelli. Sua moglie è tuttora nel convento, ove pensano di la-

sciarla qualche tempo per punirla d’una scappata, o, se più vi piace,

d'un fallo, di cui essi soli ne furono la causa.


Dopo Zanubio, proseguì il Diavolo, vi è il signor don Biagio Dc-
sdicado, cavaliere di gran merito: ei debbe la disgrazia che lo op-
prime alla morte immatura di sua moglie. — Ciò mi desta meraviglia,
disse don Clcofa: — Pazzo un marito per la morte di sua moglie!
non credea si potesse coniugalmente amare a divenirne pazzi. —
Adagio, adagio, interruppe Asmodco: don Biagio non è già divenuto
matto per la morte di sua moglie, ma bensì perchè non avendo prole
dovette restituire ai parenti della defunta cinquantamila ducati che
aveva avuti in dote.
— Oh allora gli è un altr'aflarc, disse Leandro; non istupiseo
più di sua disgrazia. — Ora ditemi chi sia quel giovinetto die salta
come un capriolo nella stanza vicina ,
e che tratto tratto si ferma e
ride sgangheratamente? ma questi è un pazzarello molto allegro.

Didatti la sua follia ha origine da un eccesso di gioia. Era jwrtinaio


d’una cospicua casa, vivea tranquillo, quando seppe un dì che un ric-

chissimo finanziere lo avea lasciato unico crede d’immense facoltà;


fu tale e tanto l’eccesso del piacere, che al meschino diè di volta

il cervello.

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,

CAPITOLO nono 139


Date ora un’occhiata a quel ben tarchiato giovine che canta ac-
compagnandosi colla chitarra; egli è un pazzo melanconico, un amante
cui la noncuranza della donna amata ridusse a tanta e tale esalta-

zione di mente che si dovette rinchiuderlo. — Sciagurato! gridò lo


studente, ci merita compassione. Permettete ch’io pianga sulla di lui
disgrazia. La è pur dura cosa essere innamorati d’una beltà tiranna,
c tutti possiam essere soggetti a questa crudele sventura. — Dal vo-
stro dire si scorge, rispose il Diavolo, che siete un vero Casligliano;

gli è d’uopo d’esser nati in quel regno per avere una tempra cosi
sensibile da divenir pazzi per il dispiacere di non essere corrisposti
in amore. Non son sì teneri i Francesi; e se voleste sapere qual sia
la differenza che passa tra un Francese ed uno Spagnuolo in fatto

d’amore, vi reciterò la canzone che questo pazzo canta, da lui mede-


simo composta son pochi istanti :

CANZONE SPAGNCOLA

Ardo y Doro sin sosiego :

Dorando y ardiendo tanto:


Que ni et Danto apaga el fuego
Ni cl fuego consume el Danto.

Àrdo e piango senza posa,


Ma non fora mai che il pianto
Spenga il fuoco ond’ardo io tanto,
O in me cessi il lagrimar.

Questo è il dire d’un cavaliere spagnuolo mal corrisposto dalla sua


adorata; ora ecco come un Francese si lamentava son pochi giorni
nella stessa circostanza.

CANZONE FRANCESE

L'objet qui règne dans mon coeur


Est toujours insensible à mon amour fidile.
Mes soins, mes soupirs, ma langueur,

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-

140 IL DIAVOLO ZOPPO

Ne sauraicnt attendrir celle heauté cruelle.

O ciel ! esl-il un sort plus aflreux quc le micn?


Ali! puisque je ncpuis lui plaire,

Je renonec aujour qui m’tclaire ;

Vcnez, mes chersamis, m’cnterrer chez Payen.

Ah! la donna del mio core


Non risponde all’aninr mio,
Non si more al mio dolore,
A’ miei teneri sospir.
Avvi, o ciel, deslin più fero?
Ali, se vano è ’i mio furore,

Da Pagano, irato c fiero,

Vo’ mie pene a seppellir.

Questo Pagano sarà probabilmente un oste, disse don Cleofa. — Vi


apponeste bene, rispose il Diavolo. Ma mliam ora gli altri pazzi. —
Vedrei volentieri le donne, se così vi piacesse, gli soggiunse Leandro,
giacchi: ardo dall’ impazienza di conoscere la loro pazzia. — Voglio
contentarvi, ma dapprima dovete dare un’occhiata a due o tre scia-
gurati: può esserv i lezione la loro tlisgrazia.

Guardate attentamente nella camernccia che vien dopo quella del


suonatore di chitarra: contemplate quel viso pallido, scarnato, che di-
grigna i denti e sembra in atto di mordere le sbarre di ferro della sua
finestra; egli è un onesto, un brav issim’uomo cui un malefic’astro
presiedeva alla sua nascita, e clic con tutti i meriti non giimse in

vent’anni ad assicurarsi un tozzo di pane, per quante fossero le sue


sollecitudini, l'amor suo al lavoro. Il meschino perdette la ragione in
vedendo un moscerino farsi elefante col mezzo dell’aritmetica, c in

un sol giorno.

Il vicino di questo pazzo è un vecchio segretario che die’ ad im-

pazzare per non aver saputo sopportar l’ingratitudine d'un gran


signore che fedelmente servi per scssant’ anni. Non v’ha lode che
compensi lo zelo e la fedeltà di questo disgraziato, alieno sempre dal
domandare: egli era persuaso che dovessero parlare a suo vantaggio i

proprii servigi, la propria assiduità; ma il suo padrone, lnnge dal

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CAPITOLO NOKO 141
rassomigliare ad Archelao, re di Macedonia, che ricusava a chi chie-
deva c concedeva a chi non domandava, mori senza ricompensarlo:
cioè gli lasciò quanto basta per vivere gliestremi suoi di nella miseria
e fra i pazzi.

Vedetene ancora un solo ; egli è quello che co’ gomiti appoggiati


alla finestra sembra immerso in profondi pensieri. Conoscete in lui

un tenor hidalgo de Tafalla, picciola città della Navarra: venne ad


abitare in Madrid dove sprecò assai male i suoi danari. Avca la sma-
nia di voler conoscere tutti i begli spiriti e regalargli, e v’era quindi

convito ogni dì in casa sua, e sebbene gli autori, ingrata e mal-

creata genia, lo burlassero nello stesso mentre che lo scorticavano,


non rìstò dal suo malvezzo di farsi mangiar vivo finché non ebbe
più un obolo. — Impazzi, son certo, disse Zambullo, per essersi ma-
lamente ridotto — Oibò,
al verde. rispose Asmodco, egli è matto solo
per non essere più in islato di proseguire nelle sue prime usanze.
— Veniam dunque alle femmine. — Come, disse lo studente, non ne
vedo che sette od ottol Credeami che fossero assai più. — Tutte le

pazze non sono qui, disse il Diavolo sorridendo. Vi porterò, se lo


volete, in un’altra parte della città ove avvene un palazzo pieno. —
No no, rispose don Cleofa, mi basta di veder queste. Avete ragio-

ne, chè queste son quasi tutte donne di buon casato, e ve ne ac-
corgerete se ponete occhio alla candidezza dei loro vestiti. Ecco la

cagione della loro pazzia.


Nella prima camera vi è la moglie di un corregidorc , a cui la

rabbia d’essere stata chiamata borghese da una dama di corte , le

sconvolse lo spirito; nella seconda vi è la sposa di un tesoriere


generale del consiglio dell' Indie; impazzi la meschina. pel dispetto
d’essere stata obbligata, in un vicolo, di far indietreggiar la sua
carrozza onde lasciar passar quella della duchessa di Medina-Celi;
nella terza stassene una giovine vedovella di famiglia bottegaia, la

qnalc perdette il cervello per non aver saputo accalappiare un gran


signore con eui sperava di passare a seconde nozze; è la quarta
occupata da una nobile fanciulla chiamata donna Beatrice, di cui
vo’ raccontarvi le avventure.

Questa damina avea un’amica che chiamavasi donna Mencia, colla

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142 IL DIAVOLO ZOPPO

quale era indivisibile compagna e vedeansi ogni di. Un cavaliere del-

l’ordine di San Giacomo, uomo ben fatto e. galante, contrasse la

loro amicizia c le fc’ rivali : disputarono esse vivamente il di lui

cuore cbe sentì maggior propensione per donna Mencia , e che fu


scelta quindi a sua consorte dal cavaliere.

Donna Beatrice, gelosissima del potere delle sue grazie, concepì

mortai dispetto in vedendosi posposta ,


e nutriva in (ietto da vera
Spaguuola un violento desiderio di vendetta, quando ricevè un bi-
glietto di don Giacinto di llomarate, altro amante di donna Men-
cia. Le scriveva questo cavaliere, che al par di lei rabbioso per il

maritaggio della propria innamorala, era fermo di battersi a qua-


lunque costo con il cavaliere cbe gliel’avca rapita.

Questa lettera fu gratissima a Beatrice la quale, bramando solo

la morte dello spergiuro, sperava che don Giacinto avrebbe ucciso


il suo rivale. Mentre stava impazientemente aspettando così cristiana
satisfazione, successe che suo fratello attaccò briga con esso lui , ed
ebbe due stoccate per cui dovette soccombere. — Spettava a donna
Beatrice di tradurre dinanzi ai tribunali l’uccisore di suo fratello; ma
obbliò essa un tal dovere per dar tempo a don Giacinto di battersi
col cavaliere di S. Giacomo: evidentissima prova che le donne sono
gelose di lor bellezza sur ogni altra cosa. — Pallade così puniva Ajace
della profanazione del suo tempio con l’insulto fatto a Cassandra,
sol quando il sacrilego Greco l’ebbe vendicata del giudizio di Paride.

Ma, ohimè, donna Beatrice, men fortunata di Pallade, non assaporò il

piacer della vendetta, llomarate cadde sotto i colpi del cavaliere, ed

il dispetto provato dalla dama, in vedendo impunita la ricevuta offesa,


le turbit la ragione.

Delle due infelici cbe vengon dopo, l’una è l’avola d’un avvocato,
una vecchia marchesa l'altra: la prima, pel suo mal umore, era la di-

sperazione di suo nipote, che pensò bene di qui rinchiuderla; è l’altra

una donna cbe fu sempre idolatra di sua bellezza; anziché rassegnarsi

di buon grado, piangea mai sempre in vedendo le sue attrattive per-


dere di lor possanza ogni giorno più, sì cbe consultando un bel mat-
tino il fedele specchio, stupì di sè e le svaporò il cervello.
— Meglio per lei ,
disse Leandro forse
: il disordine di sua mente

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CAPITOLO NONO 143

non le lascia più in ora scorgere i guasti dell' inesorabile tem|>o. —


No certo, rispose il Diavolo: lungi dal vedersi un aggrinzato viso di

vecchia, il suo colorito le sembra un misto di gigli e rose ;


essa vede

scherzare intorno a se le Grazie e gli Amori; si crede, a farla breve,

la ciprigna dea. — Dunque, ripigliò lo studente, non è meglio ]>er lei

d’essere pazza che di conoscersi' qual è? — Si certo. Or via non ab-


biaci più che una dama da vedere, ed è quella che abita l’ultima cella

ed a cui il sonno chiuse le pupille, dopo tre giorni e tre notti di con-
tinua agitazione; ella è donna Einercnziana: guardatela attentamente;
che ne dite? — Ella è bellissima, ris|x>se Zambullo. Peccato! è dun-
que vero che una si vezzosa donna divenne pazza? Ala per qual mo-
tivo è dessu in si misero stato? — Ascoltatemi con tutta l’attenzione,

chè vi narro tosto la compassionevole storia di sua disgrazia.


Donna Emerenziana, figlia unica di don Guglielmo Stefani, traeva

a Siguenza, nella paterna casa, giorni felici, che don Chimene di Li-
zana venne ad amareggiare colle galanterie da lui poste in opra onde
144 IL DIAVOLO ZOPPO

giungere a piacerle. La sciagurata non mostrassi solo grata alle sol-


lecitudini del cavaliere, ma ebbe la debolezza di credere agli artifìzii

usali affine di parlarle, e di accondiscendere ad uno scambievole giu-


ramento di fedeltà.

La loro nascita era eguale, ma la dama però polca considerarsi

quale uno dei più splendidi partiti di Spagna, e don Olimene invece
non era che un cadetto. Eravi un altro ostacolo alla loro unione. Don
Guglielmo odiava la famiglia dei Lizana, cosa ch’ci dava a divedere
co’ suoi discorsi ogni volta che rammentavasi in sua presenza alcuno

di quella schiatta, e parca che don Olimene fosse odiato sopra ogni
altro della sua razza. Emerenziana, afflittissima nello scorgere tai sen-
timenti nel padre suo, concepiva tristi presagi per l’amor suo: tut-
tavia non si stette dall'alibandonarsi alla sua passione, e dal conce-

dere notturni e segreti colloquii a Lizana, mediante i buoni uffizii di

una fantesca.
Successe che una notte don Guglielmo destossi, per combinazione,
nello stesso momento in cui Lizana entrava in casa della sua bella;
credè di udir qualche rumore neU'appartamento di sua figlia, poco
discosto dal suo, e bastò questo per mettere in pensieri un padre che
era già diffidentissimo; pure, benché sospettoso, la condotta di Eme-
renziana era sì scaltra, da lasciargli dubbio su la di lei intelligenza

con don Chimenc; ma non essend’esso tale da spingere tropp'oltre la

sua buona fede, si alzò bel bello dal letto, aprì la finestra che guar-

dava sulla via, ed ebbe la pazienza di stare alla vedetta finché vide
discendere, affidato ad una scala di seta, Lizana, che riconobbe al

chiaror della luna.


Quale spettacolo per Stefani, per il piò vendicativo ed il piò bar-
baro mortale che vedesse a nascere la Sicilia I Frenò la collera che
l’invadeva, nè volle con intempestivi rumori far sì che gli fuggisse la

piò desiata vittima che anelasse il feroce odio suo. Fremendo aspettò
aH’indomani che fosse svegliata Emerenziana per entrare nel suo appar-
tamento. Trovatala sola, e fissando su lei due occhi scintillanti: — Scia-

gurata, giacché la nobiltà del tuo sangue non ti rattenne dal macchiarti
d’indelebile, infame macchia, preparati a soffrir giusto castigo. Que-

sto ferro, soggiuns’egli, sguainando un pugnale, questo ferro ti torrà

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CAPITOLO NONO 145
di \ ita, se lu non palesi il vero. — Olii è I’ audace che disonori) hi
*
mia tamiglia?

:i

•i

. *

Stelle muta per la sorpresa Emerenziana, e si atterrita da tal mi-


naccia clic non potè profferir parola. Ah miserabile! continuò il (la-

dre, il tuo silenzio, il turbamento tuo mi provano, ahi troppo, il tuo


delitto. E credi tu, perversa figlia, ch’io tutto non sappia? Io stesso
vidi il temerario, e riconobbi in lui don Olimene; nè liastava che III

ricevessi di notte un uomo nelle tue stanze, ch’ei dove» essere ben
anche il mio più crudel nemico. Ma ch’io sappia tutto l’oltraggio;
nulla mi si celi; solo coll’essere sincera puoi salvar La vita.

La fanciulla, a quest’ ultime parole, cominciando a nutrire qual-


che speranza di sfuggire alla funesta sorte di cui era minacciata,

- t

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,

146 IL DIAVOLO ZOPPO

riacquistò qualche po’ di coraggio e si rispose a don Guglielmo: —


Signore, non fu fattibile ch’io mi riliutassi d’ascoltar Lizana: prendo
il cielo in testimonio della purezza de’ miei sentimenti. Sapendo egli

l'odio vostro |>cr la sua famiglia, non ardiva ancora di chiedere il

vostro consenso, e non si fu clic |>cr [tensare al modo di ottenerlo

ch’io gli ] armisi di venir da me. —E chi era, soggiunse Stefani , il

fattorino incaricalo di |iortar le vostre lettere? — Uno dei vostri paggi

disse la figlia, die con tutto il core si adoprava — Basta! ri-

sjiosc il (ladre, nulla più mi abbisogna di sa|>crc; mi resta or solo

di mandare ad effetto il mio divisamento. Ciò detto, c non riuguai-


nando inai lo stile, le fece prendere carta e calamaio e l’astrinse a
scrivere un biglietto all’amante suo, che si le dettava ei stesso :

« Mio caro sposo, unica delizia della tuia vita, ti avverto che il

• padre mio partiva, son pochi istanti, per la sua villa, di dove non
« tornerà che domani : approfitta del suo allontanamento, vicinili a
« trovare, ch’io mi lusingo sarà tarda la notte a giugnere per le,
« come lo sarà per me che desio di riabbracciarti ognora ».
Dopo die Emerenziana ebbe scritto e suggellato questo perfido bi-

glietto, don Guglielmo le disse: — Chiama il paggio che si bene


adempie siffatte commissioni , e digli di portar subito la lettera a

don Olimene , nè S]>erar d’ ingannarmi: nascosto in un angolo di


questa camera, gli occhi miei saranno fitti ne’ tuoi, c guai, guai a te
se ti sfugge un motto, un gesto che [«issa insospettirlo, questo pu-
gnale ti cercherebbe il cuore. Troppo conosceva Emerenziana il pa-
dre suo perchè fosse osa disubbidirlo; e consegnava quindi, siccome
l’altre fiate, il fatai biglietto nelle mani del paggio.
Stefani allora rimise nella guaina^ il ferro ,
ma non abbandonò la

figlia d’un (lasso in tutto il di; non la lasciò (tarlare da sola a solo
con chicclicssia, e sì ben condusse la bisogna che non |>olè Lizana <

essere falbi esperto dell’agguato die gli si tendea: non era per anco .

ben fitta la notte, clic già il giovine cavaliere era al datogli con-
vegno; ma appena (Mise il piè nel palazzo della sua bella, si sentì af-
i
ferrare da tre uomini dalle vigorose braccia, clic il disarmarono senza
1 ch’ei (Hitesse opporre una difesa, gli annodarono un fazzoletto alla

bocca onde inqiedirgli di gridare, gli liemlaron gli occhi e Ingannigli

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CAPITOLO MINO 147
le ninni ilici m itile spalle : lo cacciarono <|iiìikIì in mia carrozza
apparecchiala ull'unpo, in mi salirono tulli e tre |ier meglio essere

garanti del cavaliere, die condussero alla villa di Stefani, vicina al

|
villaggio di Miedes a quattro leghe da Siguenza. Partiva un momento
dopo don Guglielmo in un'altra carrozza con la figlia, dne fante-
sche, «1 una rabbiosa pulzellona ch'egli avea preso al sito servizio

,
quel dopo pranzo. Condusse [iure tutti i suoi famigli, meno un vec-

chio cameriere che era ignaro alfallo del ratto di l.izana.


Prima che spuntasse il di furono a Miedes. I,a prima cura del signor
Stefani fu di far rinchiudere don Citimene in un sotterraneo a vòlta, che
non ricevca che una deboi luce da un buggigatolo così stretto da non
lasciar passare un uomo: ordinò poscia a Giulio, il suo cameriere di
confidenza, di dare per nutrimento al prigioniero pane ed acqua, per

letto un po’ di paglia, dicendogli ogniqualvolta gli porterebbe da man-


giare: — Ecco, vii seduttore, ecco come don Guglielmo tratta que’ che
. furono ardili tanto per offenderlo. — Questo crudcl Siciliano non fu

men-fierocon la sua figlia: la chiuse in una camera, priva persinodclla

vista della campagna, le tolse le cameriere, e le diede (ter carccriera


hi vecchia (hi lui sedia a tale uffizio, la più rabbiosa donna del regno
|>er tormentar le fanciulle destinate a vivere sotto la di lei custodia.

Così decise trattare i due amanti. Ma non intendeva che sì finir

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148 11. DIAVOLO ZOPPO

dovesse la cosa, che fermo avea di sbarazzarsi di don Olimene, cer-


cando però ogni via dì commettere impunemente un tal delitto, ciò

clic sembravagli un po’ difficile. Siccome crasi servito de’ suoi fami-
gli per rapire il cavaliere, non polca lusingarsi che rimanesse sepolto
il suo reo misfatto. A qual partito appigliarsi per non aver a che
fare con la giustizia? Egli era uno scellerato, quindi non titubò: dii: il

convegno a’ suoi complici in una casa lontana dal castello, e dimostrò


loro tutta la sua satisfazione per l’operato, dicendogli che per rico-

noscenza volea gratificarli d' una cospicua somma di danaro dopo il

convito clie avea apparecchiato. Sedettero infatti a mensa, da cui non


doveano più rialzarsi, perchè Giulio, d’ordine dell’ infame, tutti li

avvelenò. Appiccarono poscia il fuoco alla casa, e prima che le fiamme

potessero attirare gli abitanti del villaggio, assassinarono essi le

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CAPITOLO SONO 149
cameriere d’Emercnziana ed il piccolo paggio di cui già vi feci cenno:
gettarono i lor cadaveri fra gli altri, ed abbandonarono la casa che
ben presto fu ridotta in cenere, senza che potessero i villani dei din-

torni impedire o diminuire la voracità delle fiamme che rapidamente


ridussero in cenere la casa tutta, (sii era orrendo in vedere l’infame
Siciliano a simular dolore: piangea, il perfido, la morte de' suoi
famigli!

Certo così del silenzio di chi potea tradirlo, ei disse al suo confi-
dente : — Mio caro Giulio, ora son tranquillo, e potrò, tosto che mi
piaccia, toglier la vita a don Chimene; ma pria d’ immolarlo all’onor

min, vo’gioir del suo penare. La miseria c l’orrore d’una lunga pri-
gionia gli sarà peggior di morte. Ed in veni Lizana lamentava senza
posa la sua disgrazia, e non isperando più di riveder la luce ,
nulla

desiava più clic una pronta morte onde uscir da tante pene.
Ma Stefani cercava ovunque, e sempre invano, quel riposo da lui

sperato in commettendo l’atroce delitto. Non erano trascorsi tre giorni

clic già 1’ agitava un sospetto nuovo. Temea che Giulio, portando

quel po’ di pane al prigioniero, vincer non si lasciasse dallo sue pro-

messe, e questa tema gli suggeriva nuovi delitti: perder l’uno, far
saltar le cervella all’altro con un colpo di pistola. — Diffidava Giulio

c temea che il suo padrone, dopo essersi liberato di don Chimene,


lo avrebbe sacrificato alla propria sicurezza: scaltro c birbante sic-
come egli era, divisava salvar la pelle c fuggir una notte seco por-
tando quanto eravi di meglio e di più ricco c di più facile trasporto

nel palazzo del suo signore.

Ecco ciò che meditavano queste due oneste persone, allor che un
I

giorno furono sorpresi sì l’uno che l’altro, a cento passi dal castello,
da quindici o venti zaffi, che li circondarono tutto ad un tratto gri-
dando: In nome del re e della giustizia. Impallidì don Guglielmo e
si turbò; ma facendo forza a se stesso, ebbe l’ardir di chiedere clic

si volea. 11 vostro arresto, gli rispose un tale che parca comandasse


a quella sbirraglia : siete accusato d’aver rapito don Chimene di Li-

zana; ho incarico di far ricerca di questo cavaliere nel vostro ca-


stello e di assicurarmi di voi. Stefani non udiva ancora la risposta

che, persuaso non esservi più scampo, divenne furioso: inarcò due
150 IL DIAVOLO ZOPPO

pistole c disse che non permetterebbe mai che si visitasse la sna

casa, e che avrebbe scliiaccialo il capo a lui che si mostrava di co-


mandar a quella ciurma, se non si allontanava e tosto con i suoi

seguaci. Sprezzando il capo una tal minaccia ,


si avanzò il primo
ver il Siciliano, che scaricò un colpo di pistola e lo ferì nel viso;

ma quel colpo di pistola gli costò la vita, che due zaffi lo appun-
tarono sì bene die cadde morto ,
e vendicarono così il loro capo.

Giulio non si oppose al proprio arresto, e non fu duopo interro-


garlo per sapere se don Chimcne era nel castello, che tanto con-

fessò il famiglio, accusando di tutte le atrocità l’estinto padrone.

Condusse il comandante ed i suoi arcieri nel sotterraneo, ove

eravi Lizana disteso su poca paglia legato al par d’ un malfattore.

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,

CAPITOLO SOSO 151


cedi , armati sino alla gola, che fosse quello l'estremo momento di

sua vita; e quale non fu la di lui sorpresa in udendo che que’tali


che area supposti a suoi carnefici erano invece i suoi liberatori 1

Uopo che lo slegarono c che lo trassero dal sotterraneo, ringrazian-


doli di sua libertà, chiese loro come sapessero che giacca prigione in

quel castello. — Uditemi, gli rispose il comandante, che ve lo narro


|

tosto ed in pochissime parole.

Nella notte che foste rapito, uno di coloro che vi pose le mani

addosso e che area un’ amante a due passi dalla casa di don Gu-
glielmo, le fu a dire addio prima di sua partenza per la campagna,
svelandole imprudentemente il progetto di Stefani. Fu segreta questa
donna per due o tre giorni; ma essendo corsa voce a Siguenza del-
l'incendio di Miedcs, c che parve strano a tutti come i famigli del

Siciliano fossero rimasti vittima di tal disgrazia, si cacciò dessa in

mente che l’incendio dovea essere l’opra di don Guglielmo. Volendo


vendicar l'amante, fu da don Felice il padre vostro, c gli narrò tutto
che sapea. Furente don Felice di sapervi in balia di un uoin feroce,
capace d’ogni misfatto , menò seco la donna dal corregidore che
dopo aver tutto udito, non titubò nel credere che Stefani meditasse
di farvi soffrire lunghi e penosi tormenti, e ch'ei non fosse il dia-
bolico autore di quell’ incendio; ciò che volendo accertare, mi spe-
diva questa mattina l’ordine a Rctortello, luogo ove sono stanziato,
di montare a cavallo e di trasferirmi con questa scorta al castello

del Siciliano, di ricercarvi e d’ impadronirmi di don Guglielmo o morto


o vivo. Sono oltre ogni dir contento di mia commissione per quel
che vi riguarda, ma ho il dispiacere di non poter trascinar vivo il

coljievole a Siguenza. Si ribellò c fummo costretti a ucciderlo.

Ciò detto, il comandante dei zaffi soggiunse a don Olimene: —


Signor cavaliere, ora debbo stendere processo verbale dell’accaduto,
c partirei» di poi per soddisfare l’impazienza che avrete di trar di
affanno la vostra famiglia, l'n momento, signor comandante, sciamò
Giulio in questo punto : vo’ fornirvi materia da far piò lungo e più

interessante il vostro processo verbale; vi è ancora un prigioniero da


mettere in libertà. Donna Emerenziaua giace in un’oscura camera,
guardata a vista da un’ inesorabile carceriere che non lascia passar

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152 IL DIAVOLO ZOPPO

momento senza corracciarla ,


mortificandola di continuo sui di lei

trascorsi. — Cielo I disse Lizana, il crudo Stefani non fu dunque


pago di sfogare su me la sua barbarie? Andiam tosto a liberare que-
sta infelice dama dalla tirannide della sua governante.

E qui Giulio guidava il comandante, don Citimene e cinque o sei

arcieri, alla camera che servia di carcere alla figlia di don Guglielmo:
bussarono alla porta, e l’apriva la vecchia strega. La è facil cosa di
concepire il piacere che gustava Lizana in pensando di poter riab-
bracciare ramante sua, dopo il lungo suo disperar di più vederla.
Rinasceva in lui la speranza, anzi non dubitava più di sua felicità,
giacché chi avea diritto di opponisi non era più. Appena vide Emc-
renziana, corse a' suoi piedi ma chi potrebbe esprimere il dolore

da cui fu compreso, non rinvenendo' più in essa la tenera amante clic

corrispendesse a’ suoi tras|>orti, ma un’infelice a cui il dolore avea


tolto il senno? L’iniqua sua custode, co’ maltrattamenti suoi, era la

causa di sua puzzia. — Stette un alcun tempo pensierosa e mesta; ma


tutto a un tratto credendo d’essere la bella Angelica stretta d'asse-
dio dai Tartari nel forte d’Albraca, s’immaginò che tutti loro clic la

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CAPITOLO SONO 155
circondavano fossero paladini elle accorrevano a soccorrerla. Era Or-
lando, al suo dire, il comandante de’ sbirri; Brandiina ite, Lizana;
Giulio, Uberto di Lione; e vedea negli altri ,
Antifurte ,
Clarione , |

Adriano e i due figli del marchese Oliviero. Fu gentile nel riceverli,

c disse loro : — Prodi cavalieri, non temo io più l’imperatore Agricane


e la regina Marfisa; il vostro valore, conosciuto ovunque da tulle

l’ anime gentili a cui sovrasta la sventura, basta a difendermi contro


tulli i guerrieri dell’ universo.

Gli arcieri nell’ udirsi a chiamare da Emcrcnziana con nomi cosi

sonori, quantunque non ne conoscessero la loro celebrità, sorrisero,

ben supponendo che sarebbero stati famosi gli Antifurti, i Clarioni e


va dicendo, ma non così don Chimene, vivamente afflitto di veder

la donna che tanto amava in tale stato per cagion sua; poco mancò
non divenisse pazzo anch’csso. Si lusingava tuttavia che ripiglierebbe
l’uso di sua ragione, e ciò sperando: — Mia diletta Emerenziana,
teneramente le disse, nè riconosci il tuo Lizana?. richiama i tuoi

assopiti spiriti: sappi che ebbero un termine le nostre pene: non


vuole Iddio che due cuori da esso lui riuniti sicno separali, e l’ inu-
mano {ladre che ci perseguitava non può più esserci nemico, poiché
giunse alfine il di in cui dovea pagare il fio di tutti i suoi misfatti.

La risposta che diede a queste parole la figlia del re Galafronc fu

una nuova concione ai valorosi difensori d’Albraca, che questa volta


non li fe’ sorridere. Lo stesso comandante, quantunque di natura poco
compassionevole, sentì alcuni moli di pietà e disse a don Chimene,
clic vedea oppresso dal dolore: — Signor cavaliere, non vogliate di-

s|ierarc della guarigione della vostra dama : a Siguenza vi sono dei

dottori in medicina che sapranno ridonarle la ragione, sperate nel

loro sapere ed allontaniamoci tosto da questo luogo che rammemora


delitti, e delitti orrendi «la far rabbrividire l'uomo il più rotto alle
malvagità. Si volse allora a’ suoi soggetti e disscgli: — Voi, signor
Uberto di Lione, dirigendo il discorso a Giulio; voi clic sapete dove
sono le scuderie del castello, menate con voi Antifurte e idue figli del

marchese Oliviero; scegliete i meglio corsieri, ed attaccateli al carro


della principessa ;
in questo mentre io detterò il processo verbale.
Si dicendo ei cavò di tasca un calamaio e della carta, e dopo avere
ao 1

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154 IL PI AVOLO ZOPPO
/
scritto tutto che dovea, diè la mano ad Angelica per aiutarla a scen-

dere nel cortile, ove per cura dei paladini erari una carrozza a quat-
tro muli pronta a partire: vi sali dentro con la dama e don Citimene,
facendovi adagiare anche la vecchia pnlzellona, di cui credette che
il corrcgidore avria bramata la deposizione. Ma non è tutto: per or-
dine del capo della brigata, fu incatenato Giulio, e cacciato in un’al-
tra carrozza con il cadavere di don Guglielmo. Gli arcieri montarono
di nuovo sui Ioni cavalli, e si avviarono tutti ver Siguenza.

La figlia di Stefani disse, cammin facendo, mille stravaganze che

furono colpi di stile al cuore dello sciagurato amante. Era estrema la

di lui collera in vedendo la governante. — Siete voi ,


crudele vecchia,
le dicea, voi che con le vostre persecuzioni spingeste Emerenziana
a si duro stato. — Giusti lìeavasi la guardiana con ipocrisia, e dicea

che tutta la colpa era del defunto. — Egli è al solo don Guglielmo,
rispose , che si debbe ascrivere questa disgrazia: veniva ogni di,
questo barbaro padre, a spaventare sua figlia con minaccie tali per cui
impazzi.
Appena giunti a Siguenza, il comandante fu a ragguagliar di sna

commissione il corrcgidore, che tosto interrogò Giulio e la vecchia


governante, facendoli rinchiudere poscia nelle prigioni di quella città,
ove son tuttora. Il giudice udì anche Lizana, che dopo il suo rac-
conto si congedò per recarsi alla casa patema ,
di dove sbandì la

tristezza per ricondurvi la gioia. Quanto a donna Emerenziana, volle


il corregidorc che fosse condotta a Madrid ove avea uno zio materno.
Questo pio c buon parente , che non desiderava altro che di avere
l’amministrazione delle sostanze di sua nipitc, fu chiamato a suo tu-
tore. Come non potea esimersi dal dar a divedere di desiderar che
ella rinsavisse, fu sollecito di ricorrere ai più famosi medici, e non
ebbe a jventirsi, che dopo avere sprecato il lor latino ,
dichiararono
essere il male della donzella impossibile a guarirsi. Non gli parve
vero al tutore di qui far rinchiudere la pupilla che, secondo le apjta- •

renze, vi starà per il resto de’ suoi di.

Triste destino ! sciamò don Cleofa; ne son veramente afflitto; donna


Emerenziana meritava miglior fortuna. — E di don Olimene che
ne avvenne? amerei sapere a quale partito siasi appigliato. —A

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CAPITOLO HOMO 155
ragionevole partito , rispose Asmodeo : vedendo irrimediabile quel
male, si recò alla Nuova Spagna, e spera, viaggiando, di [lerderc a
poco a fioco la memoria d'una donna clic la sua ragione ed il suo
riposo vogliono ch’egli la dimentichi Ma giacché vedeste i pazii
rinchiusi, ora vo’ che vediate quei che meriterebbero d’esserlo.

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Il cui *<tggHlu ò iiicnaurilule

livolgiamo i unsi li sguardi alla lillà, e maini

a mano che rinverremo persone degne d’es-


sere annoverate fra quelle che sono qui rac-

chiuse, cche abbiam testèconsidcrate,vi saprò


dire come loro il cervello frulli. — Eccone
Uggia una che non vo’ lasciar passare inos-
ervata: è uno sposo novello. Sono otto giorni
in punto che gli raccontarono le civetterie d’una sgualdrinella da
esso amata; gli corse il sangue alla tosta e senza riflettere, lasciandosi

trasportar dall'ira, fu in casa deU’amanle sua «1 ivi ruppe tutte le

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CAPITOLO DECIMO 157

suppellettili della civetta, fe’ uno sgombramcnto di casa per la finestra,

ed il giorno dopo le diè la man di sposo. »— Un uomo di tal fatta

merita certo d’essere inquilino in questa casa.


Egli ha un vicino, soggiunse lo zoppo, che non reputo più savio di
lui; è desso un uomo di quarantacinque anni circa, che ha abbastanza

del suo per vivere, e lo sciocco agogna di farsi schiavo collocandosi j

al servigio di qualche grande. — Scorgo la vedova d’uu giureconsulto:


la poveretta ha dodici lustri compiuti, suo marito è vicino a morire, ed
essa meilita già di ritirarsi in un convento, per preservare la sua ripu- i

lozione dalla pubblica maldicenza.


Scorgo pure due pulzelle, o a dir meglio, due fanciulle di cin-
quant’anni, le quali fanno voti al cielo perchè voglia aver la bontà di
chiamare a sè il padre loro che le tien rinchiuse come due ragazzine;
speran esse dopo la sua morte di fare amltedue un matrimonio di
inclinazione con giovinotti di primo pelo. —E perchè no? disse lo
studente. Vi sono uomini di si bizzarro gusto! — Nè lo niego,
risjHise Asmodeo: [votrebbero trovare chi le sposasse, ma non do-
vrebbero lusingarsene: ed è in questa speme appunto che riconosco
la lor pazzia.

Non avvi paese in cui le donne pensino alla propria età. L’ignoran
sempre. — Non è scorso un mese clic a Parigi una fanciulla di qua-

ranl’otto anni ed una donna di scssantanove furono chiamale innanzi


ad un commissario per fare testimonianza a favore d’una vedova, loro
amica, di cui poncasi in forse la virtù. Il commissario interrogò dap-
prima la donna maritata, chiedendole quali fossero gli anni suoi, ed
essa, quantunque portasse scritta in fronte la fede di nascita, sfac

còttamente rispose non aver che quarantanni. Finito l’interrogatorio,


si volse alla fanciulla: —E voi, madamigella, le tlisse, qual è la vo-

stra età? — Discorrimi) d’altro, signor commissario, gli rispose: è

questa una domanda inutile. Che cosa dite mai, signorina? Non sa-

pete voi che in giustizia.... — Oh non v’ha giustizia che tenga, in-
terruppe con mal garbo la fanciulla. Vorrei un po’ sa [te re che cosa
importi alla giustizia di sapere la mia età? Non debbono essere que-
sti i suoi fastidii. —Ma io non posso ricevere la vostra deposizione,
senza che mi diciate quanti anni avete; cosi vuol la legge. — Se

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158 IL DIAVOLO ZOPPO

questo è proprio necessario, fissatemi attentamente , e datemi l'età

che vi pare io mi debba avere; ma in buona coscienza.

Il commissario, dopo averla attentamente fissata, fu si cortese per


non segnarle che vent’otto anni. Le domandò poscia se conoscea da
lungo tempo la vedova per cui facea testimonianza. — Prima che si ma-
ritasse, rispose. — Ho dunque giudicato assai male di vostra età;
non vi diedi che ventott’anni, e son ventinove che la vedova c mari-
tata. — Ebbene, sciamò la fanciulla, scrivetene trenta. — Ciò non
saria regolare; ne aggiungeremo una dozzina. — No, no, rispose in

tutta fretta la ragazzina; lutto che posso fare, per contentare la

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CAPITOLO DECIMO 159
giustizia, si è di aggiungere ancora un anno, e non un mese di più,
si trattasse ben anche deU’onor mio. ,

Uscite clic furono queste due donne dalla casa del commissario,

la maritata disse alla fanciulla: — Oli guardate quel bell'iiigegno che


- ci

Credea abbastanza sciocche ]>er dire a lui quanti fossero veramente i

nostri anni: è anche troppo che sien notali sui registri della parroc-

chia, senza ch’ei li scriva ancora sulle sue cartacce, acciò li sappian
tutti. — La sarebbe una bella cosa l'udire in tribunale, innanzi a

tutti que' parrucconi: — « Madama Richard, d’anni sessanta e più, a


« madamigella Permeile, d’anni quarantacinque, interrogate >. —
Mi rìdo ben io di tutto questo: a buon conto ho lasciato vent’anni

nella penna, e faceste assai bene a far lo stesso anche voi. — Clic

cos’è codesto far lo stesso? rispose la fanciulla con una mal repressa
ira; son vostra serva, ma non ho più di trenlacinque anni. — Eli,

ragazzina mia, soggiunse l’altra in luon beffardo, a chi volete darlo


ad intendere? vi ho veduto a nascere, c parlo di cose di lunga data;

mi ricordo d’aver veduto vostro padre, cd allorquando cessò di vi-

vere non era più giovine, e che mori son già quaranl’auni. — Mio
padre, mio padre, interruppe la fanciulla, sdegnata della franchezza
di colei; quando mio ]>adrc sposò la madre mia, era sì vecchio che
non polca più aver figliuoli.

Veggo in una casa, disse poscia lo spiritello, due uomini che non
debbon aver certo fior di senno. L’uno è un figlio di famiglia che non

sa nè risparmiare il danaro, nè farne senza, ed ha trovato il modo di

averne sempre. Quando ne ha, compra libri che vende quando è ri-

dotto al verde, per la metà del prezzo che gli costarono, fe l’altro un
pittor forassero clic fa ritratti da donna; egli è valcutc, disegna cor-
rettamente, pinge a maraviglia e non ne sbaglia uno nella rassomi-
glianza; non adula chi ritratta ed imaginasi d’aver lavoro. Inler slullot

referalur.

— Come? esclamò Io studente, parlate anche latino? — Qual me-


raviglia? rispose il Diavolo. Io parlo bene ogni sorta d’idioma: so
l’ebreo, il turco, l’ arabo ed il greco, e non son tuttavia nè orgo-
glioso, nè [>eda lite; sono quindi un alcun po’ migliore de’ vostri eru-
diti del giorno.

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160 IL DIÀVOLO ZOPPO

Volgetevi a sinistra e vedete in quel gran palazzo una signora am-


malata, attorniata da molte donne che la vegliano: è la vedova d’un

ricco e celebre architetto, smaniosa d'esser nobile. Ha fatto già poco


il suo testamento, ed ha diviso i suoi immensi tesori fra varii geo -

tiluomini die non la conoscono neanche; ti fe’ suoi legatarii per i loro

gran nomi. Le chiesero se non volea lasciare cosa alcuna ad un certo


tale che le avea reso grandi servigi. — Ohimè 1 no, rispose con un

ben espresso aflanno, c me ne rincresce molto; non sono si ingrata

per nìegarc che gli debbo molto, ma egli è una persona di bassa con-

dizione, ed il suo nome disonorerebbe il mio testamento.


— Signor Asmodeo, interruppe Leandro, ditemi in grazia se quel

vecchio là, che vedo lutto intento a leggere in un gabinetto, non


sarebbe anch’egli degno d’essere qui all’ospedale dei malti? — > I

Nè v’ ha dubbio, rispose il Diavolo: egli è un vecchio licenzialo che


corregge le prove di stampa d on’ o|htu che vuol fare, di pubblica

ragione — Sarà forse un’opera di morale o di teologia. — Oibò,


soggiunse lo zoppo; sono poesie, ardite anzi che no, da lui composLe
in temi»o di sua gioveutii. A vece di bruciarle o lasciarle perire, le

fa stampare adesso, per tema che quando sarebbe morto gli credi
non le facessero veder la luce, castigandole |ier un rispetto al ca-
rattere dell’autore ,
togliendo loro il silo che il dabbenuomo crede
d’avervi cosparso per entro ad esse.

Farei malissimo a nulla dirvi d’ una donnicciuola elio abita in casa


di questo licenziato; ella è si persuasa di piacere agli uomini, che
annovera tutti cui parla fra le sue conquiste.
Ma ecco, alla distanza di soli due passi, un ricco canonico. Egli
è dominato da una singolarissima follia; se vive frugalmente, non lo

fa ]>er penitenza o per sobrietà; s’ci non ha carrozza, non è |ier

avarizia. — E che fa dunque delle sue rendile? — Ammassa dell’oro.


— A qual fine? vuol egli fare delle elemosine? — No: compra quadri,
mobili, gioie, preziose suppelletHi, e non già per goderne mentre è io

vita, ma [>er lasciare (piando morirà un inventario chegli faccia onore.

— Ma questa è grossi, disse Zambullo ed è possibile che : sianvi

uomini di tal carattere? — Si, vi dico, rispose il Diavolo, egli ha


questa pazzia : ei gongola in pensare che sarà ammirato il suo

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CAPITOLO DECIMO 161

inventimi. Ha egli comprato, per esempio, un bello scrittoio? lo fa

accuratamente coprire c chiudere in un guarda-mobile, allineile so-

migli abbastanza nuovo agli occhi dei rigattieri che verranno a mer-
canteggiarlo dopo la sua morte.
Vediamo ora uno de’ suoi vicini che non vi sembrerà meno pazzo;
è desso un vecchio celibe ,
giunto poco fa dalle isole Filippine in
Madrid, con una ricca eredità che il padre suo, già uditore dcll’udienzn
di Manilla, gli lasciava. La sua condotta è alcun che stravagante; ei

passa tutta la giornata nelle anticamere del re e dei ministri. Nè


crediate che sia un ambizioso che brami avere una qualche inqiortante
carica; non ne desidera e non ne chiede alcuna. — Dunque, mi direte,

ei non recasi colà che per corteggiare? — Nemmeno; non parlò mai

al ministro, anzi non ne è conosciuto e non si cura di esserlo. —


Quale è dunque il suo scopo? — Eccolo. Vorrebbe che si persua-
desse il pubblico eh’ egli ha del credito. — Oh che grazioso originale,
sciamò don Cleofa, dando in uno scroscio di risa; gli è uno spendere
pur male il suo tempo : avete ragione di annoverarlo fra i pazzi da

legare. — Oli! soggiunse Asmodeo, ve ne vo’ far conoscer altri che


sarebbe ingiusta cosa il credere che fossero dotati di maggior senno.
— Considerate in quel gran palazzo, ovo scorgete tante candele ac-
cese, tre uomini e due donne sedute intorno ad un tavoliere; cenarono
insieme, e giuncano ora alle carte per passar la notte, e dopo ognuno
va pe’ fatti suoi. Ecco il continuo affare di quelle dame e di quei
cavalieri; ogni sera adunatisi insieme e non si lasciano clic all'aurora

per dormire saporitamente sino al momento clic le tenebre ritornano


a fugare il giorno. Ilinunziarono essi alla vista del sole ed alle bel-

lezze della natura. Al vederli attorniati da tanti cerei non si direbbe


che sono estinti a cui si delibati rendere gli estremi ufficii ? — Questi
soli pazzi clic non è duopo il chiuderli, disse don Cleofa, che si chiuser
già da per se stessi.

— Vedo immerso nel sonno, ripigliò lo zoppo, un uomo eh’ k* amo


ed a cui voglio un gran bene, perchè aneli’ esso mi ama, ed è vera-
mente foggiato a modo mio. Egli è un vecchio baccelliere idolatra
del bel sesso. Parlategli d’una bella donna, ed il vedrete infiammarsi,
trasandarc ogni bisogna, c pendere dal vostro labbro con indicibil

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r

I
162 IL DIAVOLO ZOPPO

gioia; se gli dite ch’ella ha una piccola bocca, due labbra vermiglinzze,
denti d’avorio, carnagione alabastrina, in una parola se gliela pingetc

(
parte a parte, sospira ad ogni vostro detto, straluna gli occhi, c cade
in deliquio per voluttà. Son due giorni che traversando la viad’Alcala,
si arrestò su due piedi dinanzi alla bottega d’un calzolaio da donna,

per ammirare una scarpetta. Uopo averla contemplata con una assai
maggiore attenzione che non meritasse, disse con l’aria d’uno sve-
nevole, ad un cavaliere che l’ accompagnava: — Ah! amico mio, ecco
una scaqva incantatrice: oh quanto il piede per cui è fatta debb’essere
gentile; gli è troppo il piacere ch’io provomi in vederla; allonta-
niamoci, allontaniamoci di qui; questo lungo è pericoloso.
— Segnatelo in nero quel baccelliere, disse Leandro Perez. —
Diceste saviamente, rispose il Diavolo; ma non debbo poi segnare
in bianco il sno più prossimo vicino, un auditore tanto originale che,
per aver carrozza, arrossisce quando è obbligalo a servirsi d’una

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CAPITOLO DECIMO 163
da nolo. Facciamo un mazzo di quest' auditore con un licenziato suo
parente che possiede un grosso beneficio in una chiesa di Madrid,
c va quasi tutti i giorni in una carrozza da nolo, per risparmiarne
due bellissime, e quattro vispe mule che tiene a riposare in iscudcria.

Vedo nel vicinato dell’ auditore e del baccelliere un tale a cui


non si può, senza (leccare d’ ingiustizia, rifiutare un posto fra i paz-
zarelli. È questi un uomo di sessantanni che fa all' amore con una

giovinetta; la vede ogni giorno, e erede piacerle in raccontandole i

suoi trionfi in amore di cinquant’ anni or sono; pretende in somma


di guadagnarne l' affetto parlandole della sua passata amabilità.

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i6ì IL DIAVOLO ZOPPO

Si può accoppiare questo vecchio ad un altro che se la dorme tran-


quillo a dicci passi da noi, un conte francese venuto a Madrid per
vedere la corte di Spagna: questo vecchio signore sta per compiere
l'ultimo anno del suo quattordicesimo lustro, c brillò ne’ suoi begli

anni alla corte del suo re: ognuno ammirava allora la licita sua persona.
1

le sue gentili maniere, c soprattutto il suo buon gusto nel vestire. Egli
ha conservato tutti i suoi abiti, c li porta ancora dopo cinquanl' anni
a dispetto della moria, che volubil cambia ogni giorno nel suo paese;
ma citi che v' ha di più bello si è clic immaginasi di avere ancora in

oggi le stesse grazie clic lo adornavano nel tempo di sua gioventù.

— Senza titubanza alcuna, disse don Clcofa, mettiamo questo signor


francese fra quelli che sono degni di stare a dozzina nella caia de lo*
Incoi. — Ho pure una cameretta, rispose il Diavolo, per una signora

che abita in un granaio, accanto al palazzo del conte: è dessa una


vecchia vedova che, per eccesso di amore verso i suoi figli, ebbe la

debolezza di far loro una donazione di tutti isuoi tieni, col patto che
le avrebbero [lassata una meschina pensione vitalizia, c che per gra-
titudine gli sconoscenti non le pagano mai.
Vorrei mandare nello stesso luogo un vecchietto clic la vuol far da
giovine, di buona famiglia, il quale non ha un ducato ancora che gin
lo spende, c non potendo star senza monete, si appiglierebbe a qua-
lunque pallilo per averne. Sarai] quindici giorni che la sua lavandaia,
a cui dovea trenta doppie, venne a dimandargliele, dicendo che ne

uvea bisogno per il maritaggio suo con un cameriere clic l’uvea richiesta

a sposa. — Tu hai dunque dell’altro danaro? le disse, poiché dove


diancine avresti tu ritrovato un cameriere che ti sposasse per trenta
doppie? — Eh, certo che ma a dir vero, oltre alla somma che mi
dovete, ho in serbo dugento ducati. — Duecento ducati ! sciamò com-
mosso, dugento ducati I... aitò di Bacco clic se tu me li dai, li sposo
su due piedi. — Fu preso in parola, e la lavandaia è diventata sua
moglie.
— Bisogna tener tre posti per tre personaggi clic tornano dnU’aver
cenato, ed entrano in questo palazzo a mano destra ove stanno di
casa. L’uno è un conte che ha la malinconia di voler essere cultore
delle belle lettere; l’altro è suo fratello, licenziato, ed il terzo è un

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CAPITOLO DECIMO 165
bello spirito loro amico. Non si separano quasi inai, e vanno sempre
insieme a far le loro visite. Non pensa il conte che a lodar se stesso,
lo loda il fratello, non dimenticando la propria persona ,
ed il bello

spirito poi è sopraccarico d'affari, che debbe lodarli tutti due, im-
mischiando ai loro un qualche elogio anche per sé.

— Ancora due posti, l’uno per un vecchio borghese amatore dei


fiori, che non avendo guari di che sfamarsi, mantiene una giardiniera
e un giardiniere perchè abbiati cura di mia dozzina di piante che sonovi
nel suo giardino; 1’ altro per un istrione che lamentando le peripezie

che vanno unite alla vita comica, dicca ier l’ altro ad alcuni suoi com-
pagni: — Davvero, amici miei, che sono annoiato dell’arte mia: vorrei

essere piuttosto un gentiluomo di campagna con mille ducati di ren-

dita, anziché un comico qual sono.


Ma dovunque io volga gli occhi, proseguì lo spiritello, non veggo
che cervelli mal sani. Eccovi un cavaliere di Calatrava, che è sì fiero

e vano d’aver segreti abboccamenti con la figlia d’ un grande, che


crede già di esser pari ai primi personaggi della corte. S’assomiglia
a Villo, che già credcnsi genero di Siila jicrchè non lo sdegnava la figlia

del dittatore; c questo paragone è giusto più che non pare, (piando
saprete che questo cavaliere ha, come il romano, un Longareno, o a
meglio dire un abbietto rivale, ma di lui assai più amato.

Direbbesi che gli stessi uomini rinascono di quando in quando sotto


nuove forme. A ina' d’ esempio, io riconosco in questo scrivano di
ministero quel Bollano che non avea riguardi per alcuno, e che rompea
in visiera a tutti coloro che non gli andavano a sangue. In questo

vecchio presidente mi par di riconoscere Fufidio che imprestava il suo


danaro al cinque (ter cento al mese; e Marseo che regalò la casa sua |
j

paterna alla commediante Origo, rivive in questo figlio di famiglia ;

che spreca con una donna di teatro la casa di campagna eh’ egli ]X>s-

siede vicino all’ Escuriale.

Era in lena a dire Asmodeo, ed avrebbe continualo se non udia


tutto a un tratto accordare strumenti musicali: fermossi allora e disse

a don Cleofa: — Sull’ angolo di questa strada vi sono de’ suonatori che
si apparecchiano per fare mia serenata alla figlia d’un alcadc di corte:
sedesiderale esser vicino a loro, non avete che a parlare. — Amo assai

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,

166 IL DIAVOLO ZOPPO

la musica, rispose Zambullo; avviciniamoci dunque a que’ filarmonici,


vi sarà forse fra ili loro chi canterà : non avea dette ancora queste
parole, che già poggiavano sur una casa vicino a quella delt'alcade.

Furon suonate dapprima alcune arie italiane, e quindi due fra di

loro cantarono alternativamente le seguenti strofe:

I Si de tu hermosura quiercs
l'uà copia con mil gracias:
Escucha, porgile pretendo
El pintarla.

Sr di tua bellezza cerchi

Una copia e di tue grazie

M' odi attenta e slatti certa

Céh* io dipingerti saprà.


i

Es lu frenle loda nievc

Y el alabastro, balallas

Oflrenciò al Amor, liaziendo

En ella vava.

IC di neve c d'alabastro

Quel tuo viso che V/int ore

Orgoglioso disprezzava
Fino al di che In %fid i».

Amor labro de tire oojas

Ibis arcos para su aljavn-

Y dehaxo ba descubierlo
Quirn le mala.

Fé’ 1* Amor delle Ine ciglia

Due begli archi pel turcasso.

Ma la folgor che V uccide


V infelice vi Iroeit.

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CAPITOLO DECIMO 167
Eres dia na de el lugar
Vandolcra de las almas.
Iman de los alvedrios,

Linda alliaja.

/ ) vslii luogo sci signorili

Rapilrice sei d'ogn alma,

Tu se' un mobile preziosi i,

Calamita del voler .

Un rasgo de tu hcrmosiira
Quisicra yo rctralarla ;

One es eslrella, es cielo, es sol ;

N'os es sino el alva.

lo rilrar lu tua bellezza

Con un mollo sol vorrei —


Tu se' stella, cielo , sole....

lYo, sei l’alba ifitn bel di.

Le strofclte sono graziose c (liticate ,


sciamò Io scolaro. — A voi
sembrano tali ,
disse il Diavolo , perchè siete spagiiuolo : se fossero
tradotte in francese od in un’ altra lingua, non farebbero una sì India

comparsa; i lettori d’ un’ altra nazione non approverebbero le espres-


sioni figurate, e vi troverebbero una bizzarria di concetto che gli

ecciterebbe al riso. Ciaschedun popolo ama i proprii modi, il proprio


genio: ma lasciam da parte le strofe c chi le cantò, e andiamo a sentire

dell’altra musica.

Guardate quei quattro celli che compariscono improvvisamente in


capo alla strada; vedeteli come scagliatisi rapidi sugli sgraziati filar-

monici. Questi si fanno scudo de’ loro strumenti ,


che mal potendo
resistere all' impeto delle percosse volano in pezzi. Ecco giungere in

loro soccorso due cavalieri, uno de’quali è l’innamorato che fece fare
la serenata. Con quanta furia non si avventan essi sugli aggressori!

Ma questi che gli son pari in destrezza ed in valore, gli aspettano di


168 IL DIAVOLO ZOPPO

piè formo. Scintillano le loro spade! Cade un difensore degli assaliti,

gli 6 il cavaliere clic diè la serenata, e cade mortalmente ferito; il suo


compagno, che se ne accorge, prende la fuga; fnggono alla lor volta

gli assalitori, spariscono i suonatori. Non resta sul terreno che lo sgra-

ziatocavalicre,fattocadavere per prezzo della sua serenata. Contemplate


ora la figlia dcll’alcnde; ella è dietro alla persiana della sua finestra,
rii dove fu spettatrice di tutto che successe; ma questa iniqua è si

fiera, si vaua di sua bellezza, quantunque comunissima, che a vece di


piangerne i funesti effetti, se ne compiace e credesi più amabile di
prima.
Nè qui finisce, soggiunse lo zoppo. Ecco un altro cavaliere clic fer-
masi nella strada presso lui che nuota nel proprio sangue, onde soc-
correrlo se pur Ila possibile; ma -
menti egli s’adopra a
’ si pietoso
uficio, è sorpreso dalla ronda che lo conduce in prigione, ove rimarrà

Seggg

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CAPITOLO DKCIMO 169
|M>i'ta del Sole rabbrividireste allo spettacolo die succede. 1*01' la ne-
gligenza d' mi cameriere si è ap|>iceato il fuoco ad un palazzo, c già
molti preziosi arredi furono ridotti in cenere; ma quantunque grandi
sieno i danni della vorace fiamma, don Pedro d’ Esentano, a cui ap-
|>ar1ieiie quel magnifico palazzo, non ne lamenterà la perdita, ove

.
possa salvare Serafina, l'unica figlia sua, che trovasi in pericolo di vita.

Desiderò don Cleofa di veder l’ incendio, e dallo zop|M> fu subito


lras[xirtnto alla porta del Sole, sulla casa dicontro a quella clic era

già tutta in fiamme.

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CAPITOLO XI

r (li rio che fece Asimwlm in «piroto frangente

» prò di don Clcof*

PIO POPPO O f j ooooooo'


a gemili e le confuse voci di chi gridava al
g |

'

j
fuoco, di chi domandava dell’acqua, furono

.
,1
ì\'-'aw *
e l
,r' me COiC c * ,e udirono, senza che nulla

5 f(T?\w L i
distinguessero ancora in queU’ardente vora-

jg |j
; RÌhc- Ma poco tempo dopo videro che uno
* scalone, di dove salivasi agli appartamenti
h ’ì *ì* -?
^V^’

(j

n
O CQOOCOOOl
T-l l-H-X
;
joooooooiol .

j di don Pedro, era Intlo in fiamme; e videro

poscia nscir dalle finestre vortici di fiamme e nugoli di fumo.


L' incendio è nel suo furore, disse il Demonio: il fuoco è già arri-
vato al tetto c n’escon le scintille. La devastazione è tale che inutil-
mente accorre la moltitudine, dii* non Da possibile di opporvi un riparo
e rimane essa costernata e immobile a guardarlo. — Rinvenite coll’oc-

chio tra raflbilala gente nn vecchio in veste da camera : egli è il signor


d' Escutano — nc udite i lamenti, le grida interrotte dai singhiozzi?
Ei si rivolge a tutti che io circondano, pregandoli eoi pianto più che

con le parole a liberar la figlia sua; sono inutili le promesse d'una

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CAPITOLO l'XDBCiao 171

larga rie* impernia, ninno ardisce espor la propria vita a salvezza della
fanciulla, bella quanl' esserlo si {tossa e di soli sedici anni. — Vedendo
inutile rieseire ogni sua preghiera, disperato ornai il padre di veder
salva la diletta liglia, strappasi i capelli e offende il viso e si batte il

petto, e nell’ eccesso del suo dolore il direste un forsennato. — Con-


templale rjuadro più lagrimoso ancora: Seralina giace supina al suolo
uel suo ap|>artamenlo, fatto deserto dalle sue cameriere, e vicina ad

esser vittima del terribile elemento che già già ser|teggia intorno alla
sua camera non v’ Ita più mortale che salvar la possa.
— Ah, signor Asanodeo, sciamò Leandro l’crcz, spinto da un sen-
timento di generosa compassione, cedete alla pietà di cui soli com-
preso, deh non rigettate una mia preghiera! salvate quest amabile ’

fanciulla da una certa morte, e sia questo il compenso al servigio

che vi prestai. Non vi op|Hinctc, come già poco avete fallo al mio
pregare, che ne sarei mortalmente afflitto.

Sorrise il Diav olo al dir dello studente — Signor Zanihiillo, dissegli,

voi avete tutte le doli d'un cavaliere errante: siete coraggioso, com-
passionevole delle {iene alimi, e prontissimo a soccorrer giovani don-
zelle. Non sareste voi forse capace di slanciarvi in mezzo alle fiamme
siccome un Amadigi |>er lilierar Seralina e restituirla sana e salva al

{ladre suo? — Volesse il cielo, sciamò don f.lcofa, che se la cosa


fosse {Missibile, non starei in forse dal tentarla. — I.a vostra morte,

ris|Nisc lo zop|>o, sarebbe il solo guiderdone ili si la-ila impresa. Vel


dissi io già che ogni umano sforzo sarebbe inutile in tal frangente; ma
vo’ far {lago l' ardente vostro desiderio: stale attento al modo con cui

mi ado|>cro a salvar questa fanciulla.

Disse, e tosto sotto le forme di Leandro Perez, con gran meraviglia


dello scolaro, si cacciò tra il |m>|N)Io, rupia* la folla e lanciossi nel fma-o,
come nel suo elemento,» vista de' circostanti che, compresi dallo spa-
vento, lo disapprovarono con un grido generale. (Juale stravaganza!
dicea 1' uno; come mai l’ avarizia potè acciecarlo tanto 1 Se non fosse
{razzo ila legare, la promessa ricouqieusa non l'avrebbe trascinato ad
una certa morte. Quest' ardito giovine sarà l'amante della figlia di

don Peilro, che nella sua disperazione risolse salvar l’oggetto deU'amor
suo, od incontrar la morte.

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174 II DIAVOLO ZOPPO

Nessuno erari cui non fosse |>ersuaso die corsa avria la sorte d'Ein-

pedoclc (1), quando un minuto dopo il videro uscir di mezzo alle liamuie
con Scrafìna fra le braccia. Fu un grido di gioia, e furon mille le lodi

die diè il jmpolo stujtefattn al prode cavaliere, lln fortunato ardire


non ha censori, ed anzi parve agli spettatori che fosse il prodigio un
naturalissimo effetto del coraggio spagnuolo.
Siccome la fanciulla era tuttavia svenuta, non ardiva il padre di ab-
bandonarsi alla gioia : temea che dopo di essere si felicemente salva

(I) Porla C filosofo Mt iltaivo dio ai slanciti orile fiamme ilell' Finn.

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CAPITOLO UNDBCIMO 173
dalle damme, non le morisse dinanzi agli occhi pel terrore di che il

corso periglio dovea esserle stato cagione; ma svani ogui timore in

vedendola tornare in se per le amorose cure d’un ciascun che le era

intorno. Ravvisò il vecchio padree disscgli con figliale e tenera espres-

sione : — Signore, sarei più desolata che lieta d’ aver salva la vita, se

non lo fosse anche la vostra. — Ah figlia mia, risposele abbracciandola,


giacché non li perdei, nulla mi cale del resto. Ringraziamo, prosegui,

presentandole il supposto don Cleofa, ringraziamo ainbidue questo


giovine cavaliere. Egli è il tuo liberatore-, egli è a lui che tu devi la

vita; noi non possiamo tutta testimoniargli la nostra riconoscenza, e la

(sromessa ricompensa non è suQiciente ad isdebitarci di tutto quanto


gli dobbiamo.
Parlò allora il Diavolo, e con mollo garbo disse a don Pedro: — Signore,

la ricompensa da voi proposta non fu il movente al servizio ch’io vi

resi; son nobile e pastigliano, ed il piacere di avere asciugate le vostre

lagrime, c di aver tolta alle flamine in cui saria perita quest’ amabile

signorina, sono per me un lusinghiero premio.

La magnanima generosità del liberatore fece si die il signore di


Esentano concepissi per lui una stima senza limile;
1
lo pregò di andarlo

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174 IL DIAVOLO ZOPPO

a ritrovare, richiedendolo di sua amicizia, io cambio delia più tenera


che lin da quel momento gli consccrava. Dopo vnrii altri complimenti
si dall’ una parte die dall’ altra, il padre e la liglia si ritrassero in

un padiglione in capo al giardiuo. Tornii il Demonio dallo studente, che


vedendolo gingnere sotto il suo primo aspetto, gli disse; — Signor Dia-
volo, gli occhi miei mi avrebbero ingannato? Non eravate voi or ora

sotto le mie sembianze ? — Perdonatemi, rispose lo zop()o, e uditemi


se saper volete il motivo di questa metamorfosi. Ho concepito un gran
disegno; vo’ farvi sposare Seralìna, a cui già inspirai sotto la vostra
figura una violenta passione per vossignoria. Don Pedro è anch'esso
soddisfattissimo di voi, che gli dissi con il miglior garbo possibile,

che in liberando la sua figliuola io aveva ambito solo di reudurmi


accetto a lutti e due, e che l’onore di aver si felicemente riescilo nella

impresa, era un’ abbastanza grata ricompensa per un gentiluomo s|«-


gnuolu. Il vecchio è d’alma nobile, e non vorrà essere da meno in

generosità, e ben vi so dire che in questo |Minto ei matura in se stesso,


se diverrete genero suo, per eguagliare la sua gratitudine al servizio
1
eh ci crede gli abbiate reso.
Frattanto che vi si determina, soggiunse poscia lo zoppo, portia-
moci in un luogo più favorevole di questo per continuare le uostre os-

servazioni. Detto fatto, portò lo scolaro sur una chiesa tutta piena di

|
mausolei.

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!

CAPITOLO MI

Urlìi* l'iitilii*, ile IT oitilirr e drilli nutrir

Iter |
» irò l’esame dei viventi,
disse il Demonio, e turbiamo per qualche
istante il riposo dei morti di questa chiesa;

percorriamo queste tombe, vediamone i rac-

chiusi, e investighiamo le cause del loro in-

l.n prima di quelle elio sono a mano destra


racchiude le ceneri d’un generale che, novello Agamennone, trovò al

suo ritorno dalla gnerra un Egisto in casa. —- Nella seconda riposa un


giovino cavaliere di nobile stirpe, che volendo sloggiare destrezza e

vigore innanzi alla sua dama, un giorno clic davasi un combattimento


di tori, fu crudelmente ucciso da uno di quegli animali. — Giace nella

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176 IL DIAVOLO ZOPPO

terza un vecchio prelato che usci dal mondo quando meno se 1’ aspet-

tava |>er aver fatto in |>erfctla salute il suo testamento, e per averlo
letto a’ suoi servitori, a' quali da buon padrone lasciava a tutti una
pensione. Fu impaziente il cuoco di gioire de’ suoi ledati.

Dorme nel quarto mausoleo un cortigiano che non sep|>c mai far
altro che piaggiare; por sessantanni continui fu visto strisciarsi innanzi

al suo re quattro volte al giorno immancabilmente, che lo colmò di


benefìzii |>er conqiensarno l’assiduita. — In conclusione, disse don
Cleofa, questo cortigiano era poi utile a qualcheduno? —A nissuno
allatto, rìs|Mise il Diavolo; era larghissimo di promesse, ma non si cu-
rava di mantenerle. — Sciagurato! sedami) Leandro: se si tngliessero

dall’ umana società tolti gli uomini che le sono a carico, si dovrebbe
cominciare dai cortigiani di si abbomincvolc carattere.
— La quinta tomba, prosegui Asmodeo, racchiude la mortale s|>oglia
il' un uomo zelantissimo |>cr la nazione s|Kignuula, e geloso della gloria
del suo signore, l'asso tutta la sua vita ambasciadorc a ltoma o in

Franeia, in Inghilterra o nel Portogallo, e uscì così minato dalle sue


ambasciate, che mori senza lasciar tanto da potersi far seppellire;
ma il re, per gratitudine de’ prestatigli servigi, gli fe’ dare onorala
sepoltura.

Passiamo ora ai monumenti che sono dall' altra parte. — Il primo è


quello d’un negoziante che lasciò a' figli suoi immense ricchezze; ma
per la tema che I’ oro gli facesse dimenticare la modesta loro nascita,

fe’ incidere sulla tomba il suo nome c la sua condizione, ciò che non
va a sangue in oggi a’suoi eredi.
Il mausoleo che vien dopo, c che sorpassa gli altri |>cr inagniliccnza,

è Un capolavoro che i viaggiatori si fermano a contemplare, compresi


d’ ammirazione. — Didatti, disse /ambitilo, egli è tallissimo: c ciò clic

piò m’ eccita a maraviglia, son quelle due statue, genuflesse: la Ioni


finitezza dimostrano clic sono l’iqicra d’ un illustre scalfiello. Ma ditemi
chi fossero esse in vita le persone che rappresentano.

E lo zoppo: — Voi vedete in esse un duca e la sua moglie. Ma vo’

narrarvi un singolare aneddoto di questa signora. Eccolo: — Questa


signora ,
che volea |
tassa re per letterata, avea a' fianchi un noni di

lettere chiamato don (ìerolamo d’ Agnilar, uomo dabbene e famoso

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I

CAPITOLO DIOnECIMII 177 !

scrittore: ne era soddisfattissima, allorché venne a Madrid uno stra-


niero che con i suoi scritti fe’ la delizia di tutta la po{)olazione. Questo
novello autore chiamavasi don Placido: erano letti avidamente i suoi

scrìtti, c fu ammirato anche dai cortigiani.


La nostra duchessa lottò dapprima contro la fama del competitore
del suo maestro, e non si lasciò vincere dalla curiosità di giudicare
da sè dei talenti di don Placido. Facea cosi per provare allo scrittore
che le servi di guida ad acquistarsi fama di donna di spirito, ch’ella
jiartecipava dei sentimenti di dispetto e gelosia che questo novello
scrittore gli avea cagionato : non. seppe tuttavia resistere alla teut:i-

zione di leggere i suoi {Mirti e di conoscerlo quindi. Lo vide, lo udi,

le piacque, e l' incostante divisi) di scrivere, d’ allora in |>oi, sotto la

sua direzione. Ma era d’uopo in prima di sbarazzarsi di don Gero-


lamo d’Aguilar; e non era cosa facile: un maestro non si abbandona
come si lascierebbe un amante, ed una duchessa non dove» essere
creduta un’incostante, nè perdere la stima dello scrittore che abban-
donava c che potea far rìdere alle sue spalle tutti che leggevano in

Madrid. — Che fece? Fu casa don Gerolamo e


in di «lissegli, simu-
lando afflizione: — Maestro mio, vedetemi ridotta alla disperazione.

— Che successe, madama,


vi d’Aguilar. — rispose 11 credereste.1
Mio marito che fu sempre l’uomo il più confidente nella virtù di
sua moglie, che nulla ebbe mai a dire sul nostro letterario commer-
cio, si è fatto geloso tutto ad un tratto di voi, e non vuole piò che
siate il mio amico, il mio maestro. Che ne dite, eh, d’un simile ca-
prìccio? A nulla giovarono! mici rimproveri per l’ingiurioso sospedo
se non ad inasprirlo di più contro di voi.

Don Gerolamo diè fede alle parole che la duchessa le avea de-
clamale con tutta l’arte d’una prima attrice. Credette sincere il

suo dire, e quantunque dispiacente di perdere una prosetite di tanto


eredito, non cessò dal consigliarla di uniformarsi alla volontà di suo
marito; ma dopo |>ochi giorni seppe il letterato clic la dama avea
scelto a surrogarlo il novello scrittore, c conobbe allora l’artilizio

usato dalla duchessa per levarsi d’atlorno la sua persona.


Dopo questo mausoleo del duca c della sua svegliata moglie, pro-

segui il Diavolo, awenc uno piò modesto che rinchiude da poco tempo
I

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>

178 IL DIAVOLO ZOPPO

un» coppia ancor pili rara: un ilecano del consiglio dell’ Indie c la

sua giovine s|>osa. Questo decano di sessantatré anni menò in moglie


una fanciulla di venti ;
ave» due tigli del primo letto, di cui stava

per firmare la totale loro rovina ubliandonandoli alla miseria, quandi

un colpo di apoplessia glielo impedì: sua moglie spirò vcntiqiiatlr’oi-c

dopo pel dispiacere clic non fosse morto almeno tre giorni più tardi.

Ma eccoci giunti al più rispetl abile monumento di tutta questa chiesa.

Gli Spaglinoli hanno per questa torniva la stessa venerazione che ave-
ano i Romani per ipiclla di Romolo. — l)i qual gran personaggio
slan qui dunque raccolte le ceneri? disse Leandro Perez. — D’un
primo ministro della corona di Spagna, rùqiosc Asinodeo, del quale
la monarchia non avrà forse mai chi possa reggermi il paragone. Il re

riposava tranquillo sull’ ingegno e su l'animo di questo grand’ uomo


che seppe rendere contentissimi ili sì: il monarca ed i sudditi. Lo stato,

sotto il suo ministero fu sempre Rorido e felice il popolo; in somma


questo eccellente ministro fu religioso, umano.... eppure al letto di

morte, quantunque nulla avesse a rimproverarsi, tremava in pensando


di dover render conto del suo dillicile incarico.

A qualche distanza da questo ministro, di cui si piange tuttavia la

[•entità, (issando bene scoprirete in mi angolo una tavola di marino


nero murata in nn pilastro. Volete che apra il scivolerò che sotto vi

giace, per mostrarvi ciò clic rimane d’una fanciulla morta nel fiore

dell’età, c la cui avvenenza attirava lutti gli sguardi? Poca polve. Era
sì bella, si amabile, che il padre suo temeva di continuo non le ve-

nisse rapita, ciò che polca accadere se fosse vissuta ancora per qualche
tcnqvo. Tre cavalieri che la idolatravano furono addolorali tanto per la

sua |icrditu, che si uccisero di propria mano, e mostrarono col fatto


quanta c quale fosse la loro disperazione. La tragica storia leggesi a
caratteri d’oro sulla tavola di marmo, ove sonvi pure disegnate tri:

piccole ligure che rappresentano qnc’ disperali amatori; bec l’ uno un


bicchier ili veleno, si ferisce con hi propria spada l’ altro, e si adalla

il terzo una funicella al collo.

Accorgendosi a questo punto il Demonio che lo scolaro se la ri-


f

deva di tutto cuore, c trovava bello che la lapide della fanciulla fosse
stata ornata da quelle tre ligure, gli disse: — Poiché un tal pensiero

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CAPITOLO Dl'ODKCIMO 179
vi rallegra, sarei lì li per trasportarvi su le rive «lei Tago onde ve-
diate il monumento che un drammatico autore le’ innalzare nella chiesa
d’un villaggio vicino ad Almaraz, dov’erasi ritiralo dopo aver passato a
Madrid lunghi c giocondissimi giorni. Quest’autore die al teatro molte
commedie piene zeppe di equivoci immorali e di laidezze; ma se ne
pcnlia prima di morire, e per riparare allo scambilo di che furono ca-
gione, fc’scolpire sulla sua tomba, accatastati a ino’ di rogo, libri clic

rappresentavano essere essi alcuni de’ suoi drammi, a cui la pudicizia


sta per appiccarvi il fuoco con un’accesa fiaccola.

Olirei morti chiusi ne’ mausolei elio abbiamo testé considerali, av-
v cue un’ infinità d’altri eh’ ebbero qui modesta sepoltura. Io veggo errar
qui tutte lor ombre: passeggiano, |>assnnoc ripassano incessantemente
le uue dopo le altre, senza lurliare il ri|>oso del sacro luogo. Non si

|iarlano esse, ma leggo nel loro silenzio lutti i pensieri da cui souo

agitate. — Quanto mi dispiace, sciamò don Cleofa, di non poter aneli’ io

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180 IL DIAVOLO ZOPPO

come voi provare il piacere di vederle. — Ben posso procurarvi nu-


che questo contento, disse A&modeo; nulla v’ha di più facile per me, e
si dicendo il Demone gli toccò gli occhi, c per un prestigio gli fc'

scorgere tosto un gran numero di bianchi fantasimi che senz’ ordine


e silenziosi ivano e redivano a lor talento.
AU’apparire di que’ spettri, trasali Zarabullo. — E che? gli disse il

Diavolo, voi fremete? Queste ombre destano in voi la tema? Non vi spa-
venti il loro abbigliamento. Ella è l’assisa dei mani, quell'assisa che

vestirete anche voi alla vostra volta. Rassicuratevi dunque e non te-

mete di niente. Verrebbe meno la vostra fermezza in questo punto, voi

che senza sbigottire avete potuto sostenere la mia vista? — Quei che
vedete non sono sì pessimi qual io mi sono.
Lo scolaro, a queste parole, richiamando il suo coraggio, fissò gli

sjiettri con un sufficiente ardire. — Esaminale attentamente tutte queste

ombre, gli disse In zoppo; quelle a cui s’ innalzarono mausolei sono


confuse con quelle che non hanno che una miserabile bara per loro
monumento; gli onori che distinguevano le une dalle altre, mentre vi-
vevano, sono spariti: il duca ed il ministro sono adesso eguali al piii

abbietto cittadino seppellito in questa chiesa. La grandezza dei nobili


mani finì rolla loro vita, come quella di un eroe da teatro Unisce al

calar della tela.


— Veggo però, disse Leandro, un’ombra che passeggia sola c sem-
bra volere sfuggire la compagnia dell’ altre. — Dite piuttosto, rispose il

Diavolo, che le altre sfuggono la sua, cd allora avrete detto il veni.

Sapete voi chi sia quell’ombra? È quella d’ un vecchio notaio ch’ebbe


la vanità di farsi seppellire in una bara di piombo: ciò che dispiacque
all’oinbre degli altri cittadini che sono qui seppelliti con un minore
sfoggio. Per punirlo d’ un tanto orgoglio, non vogliono che la sua si

frammetta con le loro.

Osservai, disse don Cleofa, due ombre clic passando l'ima innanzi
all'altra, si fermarono un momento a guardarsi, c continuarono poscia
il lor cammino. — Sono, soggiunse il Diavolo, quelle di due intimi

umici: l’uno era pittore, maestro di musica l’altro. Amavano un po'

troppo il vino, senza però cessare nel resto d’essere dabbenuomini :

morirono tutti e due nello stesso anno : e allorquando i loro mani


,

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CAPITOLO DUODECIMO 181
s'incontrano, ricordevoli de' loro anticlii piaceri, dicono nel triste loro

silenzio: — Ahi amico mio, noi non berremo più !

— Misericordia 1 gridò lo studente, che è ciò ch’io vedo? Scopro

in fondo della chiesa due ombre che passeggiano insieme: oh come sou
malissimo accoppiate ! Quale antitesi di persone e di portamenti. I.’una
è di gigantesca statura e incede con gravità, è piccola l’altra cd ha
un’aria sventata. — La grande, soggiunse lo zoppo, è quella di un te-
desco beone che perdè la vita in uno stravizzo, l’altra è quella di un
francese che, giusta lo spirito galante di sua nazione, si avvisò, en-

trando in chiesa, di porgere gentilmente dell’acqua benedetta ad uua


bella damina che ne usciva; nello stesso giorno, per compenso di sua

cortesia, fn steso morto da un colpo d’archibugio.

— Dalla mia parte, disse Asiuodco, veggio Ire ombre clic vogliono

essere distinte dalla folla, e vu’ dirvi il modo con cui verniero separate

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182 U, DIAVOLO ZOPPO

dalla loro materia. — Animarono esse tre bei corpi di tre vezzose

commedianti che segnalaronsi a Madrid, quanto Origone, Citeride ed


Arbuscula furono celebri un tempo a Roma. — Ecco la fine di queste
celebri comiche spaguuole: una crepò d’invidia, per gli applausi della

platea ad una giovine esordiente: negli stravizzi trovò l'altra la morte,

che ne è infallibile conseguenza: la terza, per un soverchio fuoco nel


rappresentare mia vestale, mori d'uno sconcio dietro alle scene.
Ma lasciamo in riposo tutte quest’ ombre, prosegui il Demonio, che
le abbiamo abbastanza esaminate : vo’ farvi vedere uno spettacolo che
vi scuoterà assai più di questo. I.a stessa possanza che ci fc' visibili

i mani ci farà ora visibile la morte. Voi vedrete questa crudele nemica

dell’uman genere che ronza di continuo intorno agli uomini, senza

eh’ essi la vedano; che percorre in un battere ili ciglio tutte le parli

del mondo, c fa nello stesso tempo provare il suo potere ai diversi

popoli che l'abitano.


Volgetevi dalla parte d’Oriente: eccola che si offre a’vostri sguardi;

una numerosa schiera d' augelli di male augurio le vola innanzi in com-
pagnia del terrore, ed annunzia il suo passaggio con funeste grida.
È armata l’infaticabile sua mano della terribile falce con cui miete
tutte le generazioni. Sopra una delle sue ali stan dipinte la guerra, la

peste, la fame, l’incendio ed una sequela di sventure clic le forniscono

ad ogni istante nuove prede: veggonsi su l’altra giovani medici che


si fanno addottorare in presenza della morte, che loro pone in capo
il berretto, dopo averli fatti giurare clic non faranno mai più di quel

che fecesi insino al giorno d’oggi.


Quantunque fosse don Cleofa persuaso che non oravi nulla di reale in

tutto quello che vedea, e che era solo per fargli piacere che il Diavolo gli

presentava la morte sotto un tale aspetto, non potè tuttavia conside-


rarla senza un brivido di spavento: ma si fe’ coraggio c disse al Demone:
— Questa terribile devastatrice non si contenterà di solo passare su
la città di Madrid, vorrà lasciar orma del suo passaggio. — Senza dub-
bio, rispose Asmodeo: ella non venne qui per nulla: sta a voi di essere

testimonio del suo operare. — Vi prendo in parola, soggiunse lo sco-


laro; voliam su le sue traccie, e vediamo sopra quali sciagurate famiglie
cadrà il suo furore. Quante lagrime farà spargere ! — Non ne dubito,

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CAPITOLO DUODECIMO 185
rispose Asmodeo; ma non saran lutto di dolore. La morto, in onta all'er-
rore olio l'accompagna, è cagione tanto di gioia, <|uanlo d’aflhnnu.

I nostri due spettatori presero il volo e seguitarmi la morie per os-


servarla. — Entrò (lessa prima di tutto nella casa d’nn cittadino, padre
di famiglia, clic giacca gravemente ammalalo: il toccò con la sua falce

e lo sciagurato spirò ili mezzo alla sua famiglia, clic die sfogo al suo
dolore eon pianti c lamenti. — Qui non c'è impostura, disse il Demonio,
citò il defunto era teneramente amato dalla moglie e da’ figli suoi ;
e

siccome egli era l'unico loro sostegno, non v’Iia dubbio che il dolore
di que' sgraziati è sentito nel più profondo del loro cuore.
Non rosi in (piell'altra rasa ove la morte colpisce quel vecchio am-
malato. K desso un antico consigliere clic visse celibe, c che trascinìi
la vita fra i disagi onde ammassar considerevoli tesori. Tre nipoti sono
i suoi eredi clic gli stanno intorno al letto dacché seppero eli’ egli era

vicinila trar l’ultimo respiro. Affettano essi un estremo cordoglio, c


recitano assai bene la parte loro. ...Ma lo zio non è più, quindi si le-

vano la maschera e si preparano a recitar da eredi, dopo averlo fatto

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181 IL DIAVOLO ZOPPO

da detolalistimi parenti ....già frugano dovunque. — Quant’oro, quanto


argento troveranno. — Che fortuna! dice uno di costoro, per noi che

lo zio spilorcio rinunciasse a tutti i comodi della vita per riserbarli


a’ suoi nipoti. — Che bella orazion funebre! disse Leandro Perez.
Affé, soggiunse il Diavolo, che la maggior parte dei padri ricchi, e che

vivono lungo tempo, non debbono aspettarsene altra dai proprii figli.

Intanto che questi eredi pazzi per la gioia cercano i tesori dell’e-

stinto, spicca la morte il suo volo sur un magnifico palazzo, ove ha


stanza un giovine signore che ha il vaiuolo. Questo giovine, il più ama-
bile fra i cortigiani, è vicino a spirare nella primavera de’ suoi giorni,
ad onta del famoso medico che lo assiste, o fors’ anche perchè assi-

stito da sì celebre dottore.


Ammirate la rapidità di costei nelle sue faccende: il giovine signore
capitolo nroDEcmo 185
tin convento, discende in nna cella, c scagliasi repente su di un buon
religioso troncando il filo d'ima vita trascorsa per quartini’ anni fra le

penitenze e le mortificazioni. La morte, tuttoché terribile, non lo inti-

morì ;
ma ella entra floscia in un altro palazzo recando seco lo spa-
vento cdil terrore. S’ avvicina dessa ad un licenziato di nobili natali,
chiamato a coprir le prime cariche. Egli è intento a dare gli ordini \

opportuni per la pompa con cni vorrebbe fare l' entrata nella sua
provincia. L’ ultimo suo pensiero gli è quello che si possa morire :

eppure a vece di partire per Albarazin, dove lo attende già un ricco


appartamento ed un’intiera popolazione esultante e gaia, ei parte solo
c senza corteggio alla volta dell’ altro mondo, siccome il buon religioso,

senza trovar però lo stesso favorevole accoglimento.


— Oh cielo ! sciamò Zambullo, vedo la morìe passare sul palazzo

•lei re ! ah forse la barbara medita d’immergere tutta la Spagna nella


desolazione. —

Non è irragionevole il vostro timore, che la morte
guarda i re cornei suoi servi; ma rincoratevi, soggiuns’egli un mo-
mento dopo, che non [X'nsa jht ora a tórre di vita il monarca ; si sca-
glia su di un cortigiano, sopra un di coloro, la cui sollecitudine é di

seguirlo e fargli la corte : e uomini di tal fatta si rimpiazzano anche


trop|>o presto.
— Ma parali, continuò lo scolaro, che la morte non si contenti della

sua proda, poiché fermasi tuttavia sul reai palazzo, ver l'n|iparlamenlo
della regina. —È vero, rispose il Diavolo, ed è per fan* una hunn’azionet

vuol troncare la vita ad una maledetta femmina clic si diverte di se-

minar la zizzania nella corte della regina, e che si ammalò pel dispiacer

di veder due dame, ch’ella avea poste in discordia, vicine a rappattu-

marsi. — A momenti udrete acutissime grida, prosegui il Demonio; la

morte è entrata in (pici bel palazzo a mano sinistra, c vi succede già


una delle piò tristi scene che veder si possano sul teatrone! mondo.
— Di fatto, disse don Cleofa, veggo una donna che strappasi i cu|ielli

e che «libattesi fra le braccia delle sue ancelle. Che rosa l’ affligge tanto?

— (ìuardalc nell’ appartamento che sta di contro al suo, soggiunse il

Diavolo, e ne saprete il motivo, Quell’ uomo steso sur un inagniQeo letto

é suo marito spirante, ed essa ne é inconsolabile. La commovente loro


storia meriterebbe d’essere fatta pubblica, ed anzi vo’ raccontarvela.

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186 IL DIAVOLO ZOPPO

— Ve ue sarò grato, soggiunse Leandro: il patetico ni’ intenerisce

tanto, quanto mi rallegra il ridicolo. —È lunghetta, disse Asiuodco, ma


interessante troppo perchè pi issa annoiarvi. D'altronde, il confesso,
ipiantuuquc Diavolo ch’io mi sia, non mi piace troppo ili tener dietro

alla morte; lasciamola dunque in traccia di novelle vittime. — Sì, sì,

I
disse Zambnllo: amo meglio udirla storia clic mi vantate, clic non di
veder uomini a perire l’iin dopo l'altro. Lo zoppo allora comincili

!
il suo racconto, dopo aver però trasportalo lo scolaro sur una delle
più alle case della via d’ All'ala.

' .
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- .

I 1

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li giovine cavaliere di Tullio «1 un suo eame-
"' ^ ontanavans ' ra P'^' per
TkÌ^W&SI ! Ì< :l

isfnggire alle conseguenze d*uoa tragica av-


dalla città

ventura. Non erano cLc a due leghe da Va-


lenza, <|tiando al principiar di un bosco videro
-Ktfi »*
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1 L_
~ì<f ~ì> sre,M erR precipitosa da una carrozza una
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ànimummmmngimmafl dama cui non copriva un alcun velo il bellis-
simo volto: quell’amabile signora sembrava si turbata, che il cavaliere,

supponendo bisognar potesse di soccorso ,


quello gli offerse del suo

valore.

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188 li. DIAVOLO ZOPPO
— Generoso incognito, dissogli In dama, non ricuserò io certo la gril-

lile offerta che voi mi fate: pare elle il cielo vi abbia qui mandato per
impedire una disgrazia orribile. Due cavalieri scelsero questo bosco a
lor convegno, e son i»oolii istanti elicvi si inoltrarono coi triste pen-
siero di Italtersi: seguitemi, ve ne prego, venite ad aiutarmi a separarli.

— Si dicendo si slanciò nel bosco, ed il Toledano, aflidato il suo ca-


vallo al cameriere, si affrettò a raggiungerla.

Nini av cauo fatto ancora cento passi, che udirono un rumor di spade
e scoprirono fra gli alberi due uomini che furiosamente combattevano.
Si precipitò il Toledano per separarli, ed ottenne a stento colle più
vive preghiere di farli desistere dal loro proposto. Invitato poscia da

una supplichevole occhiata della bella e gentil dama, pregi) i due


combattenti a i inguauiare i ferri e ad esporre il soggetto della loro
contesa.
l'rodc incognito, gli disse uno dei cavalieri, il mio nome è Federico
di Mcndoza, e chiamasi il mio nemico don Alvaro I’onzio. È da noi

amata donna Teodora, la dama che vi accompagna: fu sempre indif-

fercnleallc nostre sollecitudini, alle nostre preve di alletto, c per quanto

noi facessimo |>er piacerle, nulla valse a renderla meno crudele, lo

disegnava esserle affettuoso amante a dispetto della sua indifferenza,


ma il mio rivale, a vece di fare lo stesso, div isò di sfidarmi.
—È vero, disse don Alvaro, clic slimai bene di ciò fare, perchè soli

ferino nel credere clic ove non avessi un rivale, donna Teodora mi
amerebbe. YV dunque dar morte a don F ederico |>er levarmi d’attorno
un uomo clic si oppone alla mia felicità.

— Signor cavaliere, soggiunse allora il Toledano, io non approvo mi


duello che offènde donna Teodora; si spargerà voce nel regno «li Va-
lenza che duellaste per lei, e l’onore della dama che dite amare vi

debb’ esser caro,- «ni assai piò care della vostra stessa vita. !>’ altronde,

«piai frutto può egli sperare il vincitore dalla sua vittoria? Dopo aver
|Misto a repentaglio l’onore dell’oggetto dell’ainor suo, liavvi ehi possa

sperarne una più favorevole accoglienza? Quale accecamento! Siale


entrambi più generosi, e con una piii lodevole condotta rendetevi mag-
giormente degni dei nomi che vi onorano: reprimete i vostri furiosi
trasporti, e con mi inviolabile giuramento impegnatevi a soserivere ad

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. CAPITOLO DBCmOTCRZO 189
im:i mia proposta ili pare senza s|iargimcnto di sangue ahliia termine
:

la vostra slitta.

— Kd in <|iial mollo.' sciamo don Alvaro. — Clic questa dama pa-


lesi l’animo suo, soggiunse il Toledano, ch’ella scelga fra don Federico
e voi, c clic l'amante posposto, anziché armarsi contro il suo rivale,

gli lasci libero il campo. — Acconsento, dissi? don Alvaro, c lo giuro

per quanto avvi ili più sacro: si risolva donna Teodora e scelga, se
cosi le piace, il mio rivale; questa preferenza mi sarà meno insop|Hir-

tabile della penosissima incertezza in cui io vivoini. — Ed io, disse

alla sua volta don Federico, ne chiamo in testimonio il cielo: se questo

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190 IL DIAVOLO ZOPHO

angiolo di bellezza da me adorato non si dichiara in mio favore, mi


allontanerò dall’amabile sua persona, e se non potrò obbliarla, ehè que-

sto lìa impossibile, prometto di non la rivedere mai più.


Il Toledano allora , voltosi a donna Teodora: — Signora, disseto,
ora spetta a voi di parlare: voi potete con una sola parola disarmare
questi due rivali: dite il nome di quello cui piacevi premiare la costanza.
— Signor cavaliere, rispose la dama, nè potreste proporre un’altra
via d’accordo? Stimo assaissimo, a dir vero, don Federico c don Ai-
varo, ma non gli amo, c non è giusto che per isfuggire al danno elio I

recar potrebbe il loro duello all’ouorjnio, dia ad essi delle speranze

che il mio cuore non acconsentirebbe.


— Il fingere è qui inopportuno, o signora, soggiunse il Toledano,

j
è duopo che vi dichiariate. Quantunque questi due cavalieri sieno egual-
mente degni di voi, è certo che proi>cnderetc più per l’uno che per
l’altro; e non ne ho dubbio dacché vidi il vostro turbamento per il loro
duello.

H — Voi interpretaste male il mio timore: la morte dell’uno o dell’altro


di questi cavalieri mi affliggerebbe assai, e sarebbe per me un eterno
rimprovero, benché ne fossi causa innocente; ma se vi sembrai turbata, i

non si debbe ascrivere che al pericolo in cui vidi la mia riputazione.


Don Alvaro Ponzio, che era un alcun po’ brutale, perdè finalmente
la pazienza : — Questo è troppo, rabbiosamente disse, c giacché rifiu-

tasi la signora di terminar colle buone la faccenda, decida dunque la

fortuna dell’ armi, — c sì dicendo investiva don Federico, che dal canto
suo preparavasi a convenevolmente respingerlo.
Allora la dama, spaventata più dall’ atto che determinala dalla pro-
pensìouo, gridò nel massimo smarrimento: — Fermatevi, cavalieri; sa-
rete soddisfatti. — Giacché non havvi altro mezzo per impedire un
duello che nuocerebbe all’onor mio, dichiaro ch’egli è a Federico di
Mcndoza ch’io dono la preferenza.
Non erano dette ancora queste parole che lo sciagurato Ponzio, senza
dir motto, si precipitò a slegare il suo cavallo che stava attaccato ad
un altiero c s’involò scagliando furiosi sguardi al suo rivale ed all’ a-

inantc sua. — Il felice Mendoza invece era al colmo della gioia : ora
gettavasi a’ piedi di donna Teodora, ed ora abbracciava il Toledano,

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CAPITOLO IIKCIMOTKHZn 191

senza che rinvenir [allesse espressioni abbastanza \ ivo per dir loro tutta
l'immensa gratitudine ria cui sentivasi compreso

Intanto, tranquillatasi la dama dacché don Alvaro orasi allontanalo,

|vensava, o non senza mi qualehc dolore, all'Impegno proso di dover

soffrirc le tenerezze di un amante che, per dir vero, apprezzava pei


meriti suoi, ma pel quale il suo cuore non aveva propensione alcuna.
Signor don Federico, dissegli ,
spero che non abuserete della pre-
ferenza che vi diedi: la dovete alla necessità in cui eremi di scegliere

fra voi e don Alvaro. Ebbi peri» sempre più stima di voi che di Ini, elio

so bene non possedere tutte le liellc qualità che vi distinguono voi siete
:

il piii gentil cavaliere di Valenza, e vi rendo giustizia; dirò anzi ojie

l'amore d’tm vostro pari non può a meno di lusingare la vanità d’ima

donna; ma quantunque sia per me glorioso, l’animo mio non ris|>oiidc

al tenero amore elio sembra nutriate per me. Non vo' però togliervi
192 II DIAVOLO ZOPPO

ogni speranza di trovarmi piii graia: la mia indifferenza è cagionala

forse dal dolore che tuttavia sento |ier la morte avvenuta un anno fa

ili don Andrea di Cifuentes ,


mio marito. Benché la nostra unione

sia durala pochissimo tempo ,


ed egli fosse in età avanzata allorché

i miei parenti, abbagliali dalle sue ricchezze, ini costrinsero a spo-

sarlo, fui nfllilUi oltre ogni credere alla sua morte ed , il piango ancora
ed in ogni di.

K non merita forse ch’io lo lamenti P soggiunse donna Teodora :

ei non rassomigliava a que' vecchi burberi c gelosi, che uon vogliono


persuadersi che una giovili moglie essere |>ossn abbastanza saggia ]>er

perdonare le loro debolezze, e sono quindi gli assidui esploratori d'ogni

loro passo, o spiarle fanno da una vecchia arpia che si consecrava alla

loro tirannide. Ma egli invece confidava nella mia virtù pili che non lo

avrebbe fatto lui giovine ed adorato consorte. Non'nvea limiti inoltre

la sua compiacenza, ed oso dire che l'unico suo pensiero era quello

di prevenire ogni mio desiderio: ali si, tale era don Andrea di Cifueu-

tes. f'iiudieate or voi ,


Mcndoza, se sia possibile dimenticar cosi di
leggieri mi uomo di si amabile Carattere : io il veggo ognora, io Pilo

fisso in cuore ,
e ciò, non v’ ha dubbio, cnn|iern a distrai' la mia attcn
zinne da ludo elicsi tentò, da tulio elicsi Caper ricseirc a piacermi.
lton Federico non potè trattenersi dal uon interrompere in questo
punto donna Teodora: — Ah signora, sdamò, quanto è nidi il mio gin
Itilo in mlir dalle vostre labbra stesse elio non fu per avversione di me
se non aggradiste finora l’amor mio ; ali si ,
io sitero che un di voi pre-
mierete la mia costanza. — Non stira colpa mia se non giugnerà questo
giorno, risiHtsc la dama, poiché vi do il permesso ili lenire qualche

volta in casti mia e di parlarmi del vostro amore: procurate di pia-


cenni. fate si ch’io vi ami, e non isdcgiicró di farvi nolii progressi
che nvrcle falli sul mio cuore c come diverranno più favorevoli per.voi

i sentimenti miei; ma se, in onta ad ogni vostro tentativo, fallisse il

vostro intento, rammentatevi, Mcndoza, che voi non avrete diritto

alcuno a farmi dei rimproveri,


Don Federico videa soggiungere qualche altra cosa, ma non n’ebhe
il tempo, rhò la signora die di braccio al Toiedano e si avviò tosto
al luogo ove uvea lascialo la sua ctuxozzn. Questi iimUt a staccare il
CAPITOLO DECIMOTEKZO 193
suo cavallo che aveo legato ad un albero, o Unendolo seco per la bri-
glia segui donna Teodora, e salì nella sua carrozza con altrettanta agi-

tazione quanta ne avea nello scendere -, la causa però n’ era ben diversa.
Si don Federico che il Toledano l’accompagnarono a cavallo sino alle

porte di Valenza, ove si separarono. Ella s’ avviò verso casa e don Fe-
derico condusse alla propria il Toledano.
Lo fece rqiosarc ; c dopo avergli date prove di tutta la sua gratitu-
dine, gli domandò in segreto |>er qual motivo ei fosse in Valenza e se
divisava di fcrmarvisi per lungo tempo. — Meno che |>otrò, ris|Misegli il

Toledano; vi passo solo per toccar piò presto le rive del mare, ed im-
barcarmi poscia sul primo vascello che salperà dalle coste della Spagna;
che nulla mi cale che gli sfortunati giorni miei si Uniscano in un luogo
piuttosto che in un altro, purché lontano da questa funestissima terra.
— Che mai diceste? Sciamò don Federico con grande sorpresa:
che cosa mai può farvi cosi increscevole la patria vostra, e spingervi

ail odiare ciò che tulli gli uomini naturalmente adorano? — Uopo quanto
m'è accaduto, soggiunse il Toledano, abbono il mio paese, c non
desidero che il momento di abbandonarlo |«r sempre. — Ah, signor

cavaliere, disse Mendoza intenerito, ò grande l’ansietà che provo di

sa|H‘re le vostre disgrazie. Se non mi sarà dato di alleviarle, |H>lrò al-

meno dividerne le pene con voi. La vostra lisoimuiia mi Iva subito

parlati in favor vostro, le vostre maniere tu’ incantano, e non posso a

meno d' interessarmi in ciò che vi risguarda.


— Sì ,
don Federico, questa è |ier ine la maggiore delle consoluzioni,
ris|Hisc il Toledano; e |ier non essere sconoscente alle testimoniatemi

gentilezze, unii occulterò clic in vendendovi testò eoli don Alvaro Pon-
zio, il mio animo si senti subito a propendere per voi. In moti d'in-

clinazione, che non sentii mai al primo avvenirmi in una persona, mi


fé’ temere che donna Teodora vi posponesse al vostro rivale, e fu grande

la mia gioia allorché si dichiarò in favor vostro. Sapeste poscia con-

validar si bene la mia prima impressione, che a vece di nascondervi


le mie pene, io bramo di confidando, persuaso di trovare ima soave
dolcezza nel depositarle in seno dell’amicizia: imparale dunque a co-
noscere tutte le mie sciagure.
Nacqui a Toledo e Giovanni di /arale c’I nome mio. Era fanciullo

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,

I I

194 It DIAVOLO ZOPPO


!
|

ancora quando P inesorabile morte mi rapiva i genitori , dimodoché


cominciai di buon’ ora a Uberamente godere di quattromila ducali
di rendita die mi lasciaron essi. Padrone assoluto di disporre della !

mano e del cuore a mio talento, e credendomi a sufficienza ricco per


non dover consultare clic quest’ultimo nella scelta clic farci d’una

compagna, divenni lo sposo d’ una rara beltà, senza badar punto ch’ella

fosse povera anziché no, c che fessevi dell’ineguaglianza nelle nostre

condizioni : io era beato ,


e per meglio goder del piacere di posse-

dere una persona ch’io adorava, la condussi, pochi giorni dopo il nostro

maritaggio, in una mia villa, lontana solo alcune leghe da Toledo.

Vivevamo ambiduein una dolce, perfetta unione, quando il duca di


Naxera, il cui castello è in vicinanza alla mia villa, venne un di che
cacciava a riposarsi in casa mia. Vide mia moglie e ne divenne amante;
cosi supposi almeno , e ciò che fini di jiersuadermene, egU è che amili

tosto, c con premura, di divenirmi amico, quando dapprima non àrea

inai dato a divedere che aspirasse ad essermi tale; m’invitò seco a


caccia ,
mi fe’ regali e cercò ogni via per offrirmi la sua servitù.

Mi diede un alcun pensiero in sulle prime la sua passione, c di-

visava già tornarmene a Toledo con la mia sposa; ed era questa senza

dubbio una ispirazione del cielo. DilTatto, se tolta avessi al duca ogni
occasione di veder mia moglie, avrei scansate tutte le disgrazie che
dopo mi avvennero, ma la fiducia ch’io avea in essa mi tranquillò. Mi
parve impossibile che una donna da me scelta a moglie ,
senza dote

e senza natali, esser potesse ingrata tanto da porre in non cale tulli

i ricevili i benefizi. Ahi, ch’io mal la conosceva ! l’ambizione e la va-


nità, queste fatalissime passioni che han regno si facile nel cuor delle
donne, signoreggiavano assolute in quello di miamglie.
Appena il duca trovi) tempo e luogo |>er palesarle i suoi sentimenti

si rallegrò la perfida con se stessa d’ aver fatta una si importante con-


quista. Le sollecitudini d’un uomo eli’ era salatalo col titolo d’eccel-
lenza solleticarono il suo orgoglio, cn’ebbc pieno il capo di fastose

chimere : insuperbiva di sé c ogni dì mi amava meno. Quanto avea


fatto per essa, anziché stimolare la sua gratitudine, mi attirava il suo
disprezzo ;
consideravano come un indegno possessore di sua bellezza,
e le |
larve che quel gran signore, fatto schiavo da 'suoi vezzi, se veduta !

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I

CAPITOLO DECIUOTEBZO 193


l’ avesse prima del suo matrimonio, non avrebbe sdegnato di sceglierla
in isposa. Piena la mente di queste false idee e sedotta da alcuni re-
gali che la lusingavano , cedette alla segreta passion del duca.
Correvano in fra di loro i teneri biglietti, ed io non avea il menomo
sospetto disifiatla intelligenza; ma finalmente fui abbastanza infelice
per essere tratto d’inganno. Un giorno che ritornai dalla caccia più ,

presto del solilo, entrai nell'appartamento di mia moglie, clic non mi


aspettava ancora. Avea ricevuto una lettera del duca e preparavasi a
rispondergli. Vedutomi, non potè nascondere il suo turbamento; fre-
metti e scorgendo su lo scrittoio carta e calamaio, sos)>cltai d’un tra-
dimento. Le imposi mostrarmi quanto stava scrivendo c ricusò; im-

piegai allora la violenza per soddisfare alla gelosa mia autorità ,


le

strappò dal seno, in cui Cavea nascosta, ad onta d’ogni sua resistenza,
mia lettera che conteneva queste parole:

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196 IL DIAVOLO ZOPPO


« Dovrò io dunque languire ancora a lungo nell' aspettativa d’nn
« secondo colloquio? Ella è crudeltà il lasciarmi concepire soavissima

« s[>cnic, e deluderla sempre. Don Giovanni va ogni giorno o alla cac-


« eia o a Toledo: non potremmo noi approfittare di sua lontananza?
Abitiate pietà ilei vivo ardore che mi consuma: pensate che se egli

« è un piacere l’ottenere ciò che si desidera »

Non potei terminare di leggere questo biglietto senza che tó rabbia

mi divorasse; impugnai furente la min daga, e nel mio primo trasporto


ineditai ili torre la vita a lei clic mi togliea l’ onore , ma riflettendo

clic non sarebbe piena la mia vendetta c che lo sdegno mio abbiso-
gnava d' mi' altra vittima, signoreggiai il mio furore, dissimulai e dissi

a mia moglie colla maggior fermezza che mi fu possibile di adope-

rare : — Signora, voi faceste assai male ad ascoltare il duca e lasciar-


gli concepire delle speranze : nò ilovca lo splendore del suo grado ab-
bagliarvi mai ; ma In gioventù è amica del fasto, quindi vo’ sperare
che il vostro fallo ubbia avuto un confine e eh’ io non dovrò lagnarmi
d’un estremo oltraggio; perdono in voi un’imprudenza, semprechè
ritorniate al dover vostro e che d'ora in poi, sensibile alla mia sola

tenerezza, non vi curiate che a meritarla.

Ciò detto, uscii dalle sue stanze, si per dar tempo a lei di riaversi

dallo smarrimento in cui era immersa, che per cercar io nella solitudine

un po’ di calma alla rabbia da cui era divorato. Ma se non potei ri-
acquistarla, tinsi almeno per due intieri giorni d'essere tranquillo, ed
il terzo dissi di avere un aliare di sotnrna importanza a Toledo ed es-
sere quindi obbligato a lasciarla sola per qualche teni|m, soggiungen-

dole eh’ io la pregava ardentemente ad aver cura dell' onore d’ en-


trambi nella mia assenza.
Partii ;
ma inv ece di proseguire il mio cammino alla volta di Toledo,
ritornai segretamente in casa sull’ imbrunire del di, e mi nascosi nella

camera d’un mio fedele famigliare, di dove polca vedere tutti che
entrassero in casa mia. Non avea ombra di dubbio che il duca saprebbe
tosto la mia partenza e che non tralascierebbe di approfittare della
favorevole circostanza: m’immaginava già di sorprenderli insieme, e
mi riprometteva un’aspra e piena vendetta.
M’ingannai; a vece delle disposizioni solite a darsi quando si dee

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CAPITOLO DKCIMOTKRZO 197

ricevere un amante, vidi clic si chiudevano le porte con ogni precau-


zione, c scorsero tre giorni senza che si vedesse nè il duca nè alcnuo
de’ suoi servi, c mi convinsi essere fedele lamia consorte o che, pen-

tita del suo fallo, aven troncata ogni amorosa corrispondenza.


Persuaso d’ essermi ingannato, scacciai da me ogni pensiero di ven-
detta, ed abbandonandomi agli impeti d’im amore che la collera avea
assopito, volai alle camere di mia moglie, l’abbracciai con amoroso
trasporto e le dissi: — Mia cara, ti restituisco lamia stima e l’amor
mio. Confesso clic non fui a Toledo, c che tìnsi questo viaggio solo
|ier provar la fede tua. Perdona , deh perdona questa menzogna ad
uno sposo, la cui gelosia però non era priva di fondamento: temei, il

confesso , clic sedotta da vane illusioni, l’anima tua non fosse capace
di disinganno: ma, grazie al cielo, tu conoscesti il tuo errore, e vo’
sperare che nulla più turberà la pace della nostra unione.
Parve couunossa mia moglie a queste parole, c lasciando cadere una
qualche lagrima : — Me infelice , sciamò , e sospettar ]M>testi di mia
fedeltà? Ah, che invano ioabborroil mio fallo: gli occhi miei avranno

dunque inutilmente versato lagrime di pentimento ? Ah il veggo, i miei

rimorsi, il mio dolore, tutto è inutile, io non avrò più l' amor tuo, la

tua confidenza. — Siche tu hai l’ amor mio, la mia stima, sdamai


intenerito dall’ alTanno ch’ella mostrava: io dimentico ogni trascorso,

giacchi: sei pentita.

Ilillàtli da queir istante ini fu cara al paro dei primi giorni ilei no-

stro matrimonio, e tomai a- gustare quella pace die mi era stata sì

crudelmente tolta: aldirei dire ch’io l’amava anima di piò, clic la

mia consorte, quasi clic cancellar volesse dall’animo mio ogni trac-

cia della fattami offesa, ogni sollecitudine mi prodigalizzava, ed erano


le sue carezze piò affettuose di prima, c trovava in esse un conqienso
ni dispiaceri che mi aveva cagionati.
In questo mezzo tempo caddi ammalato, e benché la mia malattia
non fossi' pericolosa, non è possibile dire quanto min moglie se ne

affliggesse : ella era sempre al mio capezzale , e la notte, essendo le

nostre stanze separate, veniva le due e le tre fiate per saper ili mie
notizie; nulla risparmiava in fine onde prevenire ogni mio desiderio;
parea che la sua vita dipendesse dalla mia. Io le era gratissimo per le

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,

198 IL DIAVOLO ZOPPO

tante dimostrazioni di tenerezza, e non trasandava di testimoniarle

la mia affeziono. Ab, signor Mondoza, non erano esse sincere quali

10 me le immaginava.
l'na notte ,
cominciava già a rimettermi in salute, uha notte 11 mio
cameriere mi venne a svegliare in tutta fretta. — Signore , signore
mi disse con voce tremante per l'affanno, ini duole assai di turbare

11 vostro riposo, ma vi son troppo fedele per lasciarvi ignorare ciò


die succede in casa vostra: il duca di Naxcra ò nelle stanze della
padrona.

Stordii tanto alla fatai notizia, che stetti cogli occhi fissi in quelli

del cameriere senza poter dir motto: e più pensava a ciò clic aveami

detto c più stentava a crederlo veritiero. — No, Fabio, sciamai irato,

non è possibile che mia moglie sia capace di tanta perfidia I tu non
I

sai quel clic ti dica — Piacesse al cielo, o mio signore, rispose Fabio,
che non fosse il mio che solo un dubbio 1 ma ,
pur troppo, non mi

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capitolo DEcmomio <99
sono ingannato. Dacché siete malato, sospettava che si introducesse
ogni notte il duca nell’appartamento della padrona: mi nascosi per
avverare il dubbio da me concepito, e me ne accertai ben anche più
di quello che avrei voluto.

A tali parole balzai furiosamente dal letto, presi la vesta da camera


c la sfKtda, c volai nelle camere di mia moglie , accompagnato da Fabio.
Al rumore die fecimo entrando, il duca che era seduto si alzò, inarcò

una pistola, mi venne incontro c la scaricò contro di me; ma la sor-

presa e l’agitazione gli fecero fallire il colpo. Allora me gli scagliai

contro e gli cacciai la spada in cuore: volgendomi poscia alla sciagu-

rata mia consorte che cra.omai più morta clic viva: — Abbiti infame,
le dissi, il premio di tua porlidia, —c si dicendo, strappata la spada
dal cadavere del duca, gliela immersi in seno.

Condanno il min trasporto ,


signor don Federico, e confesso clic
avrei |mtiilo punire un'infedele senza toglierle la vita; ma qual uomo

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200 IL DIAVOLO ZOPPO

avrà potuto seguire i dettami della ragione in si terribile frangente?


Figuratevi codesta infame donna al capezzale del mio letto a prodi-
garmi le più nHettuose cure ; immaginatevi tutte le sue dimostrazioni
di sincera amicizia, tutte le circostanze, tolta l’enormità del suo tradi-
mento, e ditemi se non si debbe jierdonare la sua morte ad un marito
oltraggiato nel più vivo del cuore, agitato da un si giusto furore.

Per terminare in due panile questo tragica storia, vi dirò die dopo
di avere assaporato per iutiero la mia vendetta, mi vestii di tutta fretta,

e vedendo non esservi un istante a perdere, cbè i parenti del duca

mi farebbero cercare per tutta la Spagna, e che il rredito della mia

famiglia non essendo pari al loro, nou sarei sicuro che in [Kiese stra-

niero, scelsi due de’ miei migliori corsieri, feci una paccotigtia di

quanto avea di più prezioso ed uscii prima die spuntasse l'alba dal

mio palazzo, con meco il servo che mi diede uon incerta prova di sua
fedeltà. Presi il cammino di Valenza, divisando d'imbarcarmi sul primo
vascello che spiegherebbe le vele alla volta d’Italia. Ma passando oggi
vicino al bosco ove eravate, incontrai donna Teodora che mi pregò
a seguirla |>cr aiutarla ad impedire il ducilo tra voi e. don Alvaro.
Terminato eh’ehhe il Toledano il suo racconto ,
don Federico gli

disse: — Itoti (iiovauni, voi vi siete a buon


i
diritto vendicato del duca
di \ a vera, nè temer dovete In persero zumi de' suoi |iarenli: voi starete,
se cosi vi piace, in casti mia, aspettando l’occasione favorevole |icr

trasferirvi in Italia. Mio zio è governatore di Valenza: voi sarete piò

sicuro qui che altrove, tal avrete in me mi uomo che d’ora in poi vi

sarà imito coi vincoli della più stretta amicizia.


/arate rese a Mcndoza le più vive grazie, ed aeecllù l’ospitalità che
vend agli offerta. — Ammirate la forza della simpatia, signor don t .leofa

prosegui Asmodeo: que’duc giovani cavalieri sentirono l’uno per l’allni

colante propensione clic in poco tempo cont rassero im’amirizia eguale


a quella d’< Ireste c Pilarie. Iti pari merito, avevano essi fra di loro una
tele consonanza d’idee, che ciò dica <|on Federico piaceva, piaceva
ili certo a don (iiovauni; erano mia stessa volontà, uno stesso carattere,
erano insomma nati proprio per amarsi. Don Federico massime era
incantato delle maniere del suo antico, c non fiotea fare a meno dal

vantarlo ad ogni istante al cos|>ello di donna Teodora.

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,

CAPITOLO IIKCIMOTKRZO ‘
2 !)

Ambivano sovente ludi e due n far visita a «piesta duina, elio non
cessava d'essere iinlitVercntc alle sollecitudini eil all'assiduita ilell’a-

inalilc Mcniln/.a. Vera eoli annuissimo e lamenlavasi un’ alcuna Hata


con l'amico suo, il «piale |ier consolarlo gli dice» die sperasse , iié

si perdesse di coraggio, c«l avrebbe cosi o tostilo lardi nn premio


dalla sua India alla costante servitù. Un tale discorso, benché fondalo
siill’esperien/.a, Consolava pin'liissiino il Umilio Mendoza, che «lis|>o-

cava «miai «li jniter giugnure a piacere alla vedova «li Cilueutus; e
lineala tema lo immerse in un affanno che sconsolava moltissimo don
(iiovanni; ma don Giovanni non tardò guari ad essere piii degno «li

roiH|>assioiie di lui. •
.

Uuanl ampie il Tolcdano avesse «Ielle ottime ragioni, do|H> il tradi-


mento orribile di sua moglie, d’odiar tutte le donne, non potè fare a
meno di concepire nn ardente amore per donna Teodora; nini ostante
lungi dall’abbandonarai in preda ad una passione che offendeva 1’amh o
suo, ei non si studiò che «li combatterla, e persuaso di non poterla
viueere clic allontanandosi dall’ oggetto amalo, risolvette di non veder
più la vedova «li Uifnenles: sicché ogni qual volta l’amico il videa oon-
dums alla «li lei casa, immaginava tosto qualche pretesto onde (sfug-
gire di vederla.

D'altra parte «loti Federico mai non andava a trovare dolina Teodora,
ch’ella non l’ interrogasse del perche «li m Giovanni più non l’acoom-
I Migliava nelle sue vìsite. I li giorno elle gli facon «li nuovo una tal
domanda, 'sorridendo le rispose che l'amico suo aveva le' sue buone
ragioni. —E quali esser possono «punte ragioni clic l’ inducono a
sfuggirmi.’ disse dolina Teodora. — Signora, soggiunse Mendoza, oggi
ancora io volea condurlo meco, ed avendogli dato a divedere la mia
sorpresa per il suo riliuto, mi conlhlò un segreto che debbo svelarvi
per gìiistilicarlo. Mi disse d'avere un’amante, celie nel breve tempo
clic ri mallevagli di soggiuntane in «piesta città, i momenti gli erano
preziosi.

Questa scusa non è soddisfacente, disse arrossendo la vedova di Ci-


luentcs; minsi delibo per iin’aiiiaiitc trascurare gli amici. Non isfuggi
agli sguardi di don Federila) il russoredi donna Teodora , ma credette
clic la sola vanità uc fosse cagione, c prodotto solo dal «lis|>cUo «li

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202 IL DIAVOLO ZOPPO

vedersi trascurala. Ingannavasi |>erò a gran partilo; un sentimento


assai più vivo le uvea desiata quell’emozione clic suo malgrado lasciò

scorgere, ma per tema clic don Federico indovinasse quel che privava,
cambiò discorso, ed ostentò durante il colloquio un’allegria che ba-

stato avrebbe ad ingannare la ]>enetrazione di Mendoza, quand’anche


avesse concepito un qualche sospetto.

Appena la vedova di Cifuentes rimase sola, cadde in profondi pen-


sieri. Senti allora tòlta la forza dell’ affetto suo per don Giovanni, e
credendolo assai pili mal corrisposto clic infatti non l'era: — Oliale in-

giusto e barbato potere, sciamò sospirando, si compiace d' infiammare

i nostri cuori per oggetti che non ci |<onno corrispondere! lo non


amo don Federico che mi adora ,
ed ardo per don Giovanni il cui

pensiero occupa un’altra donna. Ali Mendoza, cessa dal rimproverarmi


lamia indifferenza; il tuo amico le ne vendica abbastanza.
A queste parole le sgorgarono lagrime di dolore e di gelosia; ma
la speranza che tutto abbellisce e sa addolcire, le (iene degli amanti, -le
presentò alla riscaldata fantasia lusinghevoli immagini. Supposi' non
essere la sua rivale gran fatto |iericolosa, e die don Giovanni era forse
stato vinto più dalla facile corrispondenza che non dalle sue attrat-

tive, e che avrebbe sciolto di leggieri sì deboli legami. E per saper da


se stessa ciò clic dovea credere del Tolcdano, div isò di avere seco lui

un segreto abboccamento. Per il che chiamatolo a colloquio in casa

sua, dunna Teodora glj indirizzò queste parole :

— Io min mi sarei immaginato mai che 1 ’


011101% potesse far obbliare

ad un gentiluomo riguardi i clic si deblmuo alle donne; don Giovanni,


voi daeelte siete innamorato non veniste più in mia casa, ed ho mo-
tivo quindi di lagnarmi del vostro procedere. Vo’credere per altro che
che se vi allontanaste da me, sarà per accondiscendere ai comandi
della vostra amante, anziché per esservi avversa la mia persona. Con-
fessatelo, don Giovanni, c vi |ierdono; so bene che gli amanti non son
liberi di sé, e non sogliono disobbedire alle loro Indie.

— Signora, rispose il Tolcdano, convengo die la mia condotta vi

debbe recare stupore ,,


ma deh non mi astringete a gitisi ideazione
alcuna, contentatevi di sapere che Ito forti ragioni per rifuggire di

conversar con voi. fjualmiqiir esse siano le ragioni che dite di avere,

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CAPITOLO DKC1MOTKRZO 205
soggiunse liitla commossa donna Teodora, voglio saperle. — Ebbene,
signora, giacché il volete, m’è forza 1’obbedirvi, ma non vi lagnate poi
se udir dovrete più ili «pipilo che desiderato avreste di sapere.

Don Federico, prosegui egli, vi barrò la funesta avventura per eoi

abbandonai la (bastiglia. Allontanatomi da Toledo, con pieno il cuore


di' amarezza contro le donne, io tutte le slidava a vincermi un’altra

fiata. Ferino nel mio divisamenlo, io vedea già Valenza «piando v’incon-
trai, e, còsa che non accadde forse ad altr’uoino ancora, si scontrarono
i mici cogli occhi vostri senza essente soggiogato; vi rividi pochi giorni
dopo, e impunemente sempre; ma ohimè che pochi giorni di lierczza
mi furono fatali poscia. -
Vinceste aitine; la vostra bellezza, il vostro
spirito, tutte le grazie iiisomma che vi adornano, m’incatenarono; in

una parola, io sentii per voi tutto l’amore che la bellezza vostra può
inspirare.

Ecco, signora, cièche mi allontana da voi. I.a dama che vi dissero


da me amata, è un ente immaginario: è una falsa confidenza fatta a

Menduza. omle allontanargli dal cuore i sospetti che sorgere gli po-

tevano ai continui mici riliuti di accom|mgnarlo, ogni volta che divi-


sava «li 'venirvi a ritrovare.

Questo discorso, che donna Teodora era lungi dall’ aspettarsi, pro-
dusse in lei sì viva gioia, che suo malgrado le appari sol volto. È veni
|>erèrhe non si diè gran cura di frenarla, celie invece d’imo sguardo

di rigore, volse tenere le |uipille al Toleduno, dicendogli: —«Voi mi


svelaste il vostro segreto, ebb«*ne vi sia nolo aneli 'esso il mio; uditemi :
Insensibile ni sospiri di don Alvaro Ponzio, indilTerentc all'amore di

M«‘n«loza, io menava una vita dolce e tranquilla, «piando il raso mi fc'

lassare vicino al bosco, ove noi e’ incontrammo. Adonta dell’ agita-

zione incinerami in «piell’ istante, non tralasciai d’ accorgermi clic la

gentilezza con la «piale mi offrivate i vostri serv igi era oltre ogni dir

garbala; il modo con eui giungeste a se|>arare «pie' due forsennati ri-

vali mi («'concepire favorevole opinione «lei valor vostro c della vo-


stra non comune svegliatezza «l'ingegno. Spiacqucmi però il proposto
partilo per troncare la contesti, c non potei risol verini, senza ramma-
rico, a scegliere fra i «Ine rivali; ma per non celan \ cosa alcuna credo ,

clic di tal mio rammarico io ne dovessi accagionar voi ,


poiché nello
,

204 IL DIAVOLO ZOPPO

stesso istillile ehe, pressala dalia necessità, il mio labbro pronunziava


il jioHiedi limi Federico, dichiarai asi il-inio cuore per lo sconoseinlo.

Da quel giorno, di’ io delibo chiamar felice, dacché, mi confessaste l’u-

mor vostro, i vostri pregi aimienlamno la stima che per voi avea già
conci>pila.

Non vi farò, soggiunse, un mistero de' miei sentimenti: ve lo dichiaro


con la stessa franchezza con la quale ho dello a Meudoza di non
amarlo. I na donna clic ha la disgrazia di sentir deH' affetto per un

amante che non saprebbe' corrisponderle degnamente, dee procurar di


vincersi, o seppellire in un eterno silenz.io la propria deltolezza;
ma panni si possa, senza un benché menomo scrupolo, svelare un
amore innocente ad mi uomo che ha soltanto rette intenzioni e legit -

lime. Sì, in sono contentissima che voi mi amiate, e ne ringrazio il

cielo, che senza dubbio ci destinava l' uno per Fallivi.

K qui tacque la vedovella per lasciar parlare don Giovanni e dargli


leni|M> di abbandonarsi a lutti i trasporli di gioia e di gratitudine

clic credea aver fa|li- nascere ili lui ;


ma anziché mostrar gioia per
quanto avea udito, stette mulo e pensoso.
— (die veggo, don Giovanni? gli disse. Quando [ter procurarvi una
sorte che altri forse crederebbe degna d'invidia, io dimentico la lie-

tezza del mio sesso e vi accerto -dell’ amor mio, voi non provale quella
gioia, che una simile dichiarazione dovrebbe suscitarvi in. cuore? Voi
tacete, e scorgo anzi dolore negli ocelli vostri? Ah, don Giovanni, quale
strano effetto non produsse su di voi la mia imprudente dichiarazione.
E i|iiale altro elmetto, o signora, mestamente ris|w>se. il Tolta lane

(toteva essa fare sur un cuore come il mio? l’iù voi mi amate e più si

accresce la mia sciagura. Voi non ignorate quel che Mendoza ha fallo

|ier me ; voi sa|»elc la tenera amicizia clic a lui mi lega e potrei fondare
;

la mia felicità a costo delle sue più care s|icrnnzc? — È troppa la vostra
delicatezza, disse (lumia Teodora: io nulla promisi a don Federico, e
posso offrirvi la min fede, senza eli’ egli abbia, diritto alcuno a rimpro-
verarmi , e voi accettarla potete senza taccia di averlo soverchialo.
Confesso che l’idea dell’ infelicità d’un amico vi debbo affliggeremmo,
don Giovanni, questa pena ehe v oi provate può ella stare al confronto
della felicità che vi aspetta?

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,

CAPITOLO DECIMOTKRZO Ì05


— Sì, donna Teodora , soggiuns'egli risolutamente; un amico qual
è Mondo/» lia maggior micie
| ali me ( lui non pensale. Se dato \ i fosse

di comprendere lulln la tenerezza, tutta la forza deU’ainicizia nostra

mi compiangereste. Don Federico non ha segreti per me, i miei interessi

sono am ile i suoi; la menoma cosa elle mi riguarda non isfugge alla sua
attenzione, e, per dini tutto, io divido con voi l' iiupen i ilei sito cuore.

\li, perdio i sentimenti ddl' animo vostro formassero la mia feli-

i, avrei dovuto eonoseerli prima ili stringere lina sì intima amicizia.

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206 II. ni AVOLO ZOPPO

Ebbro allora della felicità di piacervi, Mendoza sarebbe sialo per ine

un rivale, ed il mio cuore insensibile ad ogni sua dimostrazione d’af-


fetto non gli avria corrisposto, né gli dovrei adesso lutto che gli debbo...

ma non è più tempo, o signora; ho lutti accettati i servigi che volle


prestarmi , ho coltivato la simpatia che ar ea per lui : la gratitudine e
1

I all'elio a lui mi legano, e mi riducono inline alla crudele necessità di

rinunciare alla felice sorte che voi mi offrite.

E qui donna Eleonora, che area gli ocelli pregni di lagrime, presi*

il fazzoletto per asciugarle. Si turisi il Tolcdano e senti vacillar la sua


costanza: gli jrarvc di non essere più padrone di se medesimo. — Addio,
signora, disse con voce interrotta da sospiri ,
addio ; debbo fuggirvi |mm

salvare la mia virtù; le vostre lagrime mi piombano sul cuore e vi

fanno vie più pericolosa.... M’allontano da voi per sempre a pian-


gere la perdita di que’ vezzi che debbo sagrilicare all’ amicizia la più

pura e la più costante. Dicendo questo ultime parole juirtì con un


resto di fermezza che non potè conservare clic a grande fatica.

I.onlano ehe fu, la vedova di Cifuenles fu agitata da mille contrari


affetti : vergognò di sua dichiarazione ad un uomo clic non uvea jmtiiln

vincere del tutto; ma non potendo aver dubbio ch’ei non fossi' inna-
morato e che la sola amicizia gli facesse riliularc la mano da lei offer-

tagli, fu ragionevole abbastanza per ammirare, anziché offendersene, il

generoso sforzo d’un’anima dilicala. Ma siccome non |mssiam fare a


meno di affliggerci quando non ri vanno le cose a seconda dei nostri
desidero, risolse la dama di fuggire la città e ire in campagna la dimane
per dissi pare i pensieri che l'affliggevano, o meglio per aumentarli; giae-

chè In solitudine è fatta )>iù per accrescere che non per affievolir

l’amore.
Don Giovanni dal canto suo non avendo trovalo Mendoza in casa, si

rinchiuse in ramerà per ivi dar pascolo al suo dolore: dopo coi ch’egli
area inveralo iu favore d’ un amico , si credette fossegli almen per-
incsso di sospirarne; ina no, che don Federico venne a disturbarlo
da' suoi pensieri e dubitando dal suo volto ch’ci fosse indisposto, mo-
strò d’ esserne tanto afflitto che don Giovanni fu obbligato a dirgli non
abbisognare che solo di riposo. Mendoza usci tosto per lasciarlo tran-
quillo, ma si melanconico, clic il Tolcdano senli con maggior forza

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CAPITOLO IIKCJMOTKIZO 207

la propria sciagura. Oh cielo ! disse fra se medesimo, c lia duiupic vero

che la più tenera ,


la più sincera amicizia di <|uesU> mondo debba
formare l' infelicità di tutta lamia vita!
L’ indomanc don Federico era tuttora in letto, allorché gli dissero

che donna Teodora era [tarlila con tulli i suoi domestici alla volta del

castello di Villareal, lasciando credere clic non sarebbe tomaia si pre-

sto. Il dolore della lontananza dall’ oggetto dell’ amor suo gli fu ineHo

sensibile di ciucilo di avergli fatto mistero di tale risoluzione. Senza


sapere che cosa pensare ne dovesse, ne concepì fonasti presagi.
Si alzò per aiutar a vedere il suo amico, |ier parlargli dell'accaduto e

per sapete qual fosse lo stalo di sua salute. Ma mentre slava vestendosi,

don Giovanni entrò nella sua camera dicendogli : — Vengo a togliervi

da ogni inquietudine, a mio riguardo oggi mi sento benissimo. Questa :

buona notizia, rispose Meiuloza, mi consola un imi’ «Iella cattiva clic

ricevetti or ora — fi quale? domandò ilToledano. Ke’ «'«sino don Fede-


rico ai servi di allontanarsi cdissegli: — Donna Teodora partì questa

mattina per la campagna e crederei con il disegno di rimanervi |>or lungo

lein|to. Questa partenza mi sorprende, fi perchè leqermerla nascosta?


Che ne «lite don Giovanni, non ho ragione forse d'esserne maravigliato?

Tacque Zarate su di ciò il suo pensiero, e procurò di [tersuaderlo


che donna Teodora erosi forse (tortala a villeggiare non indotta ita mo-
tivo che gli potesse recare affanno. Ma Meiuloza, non affatto persuaso

di ciò che gti «liceal’ mitico (ter confortarlo, l’ interruppe: — Tuttoché


mi dite non saprebbe allontanare dalla mia mente un sospetto che ho
concepito: temo il’ aver fatta cosa che dispiacesse a donna Teodora, e

«he per punirmene mi abbandoni, senza neppure degnarsi «li palesarmi

il commesso falbi.

— Sia conto vuoisi ,


non vo' rimaner piò a lungo in questa crudele

incertezza ;
andiamo, don Giovanni, aiutiamo a trovarla ; vo a far pre-
parare i «'.avalli. — Vi consiglio, gli disse il Toledano.a non condurre
alcuno con voi : simili collo«|iiii vogliono essere fatti senza testimoni

tu' si desidera di ottenere de’ schiarimenti. — Don Giovanni non può


essen i importuno, soggiiuise don Federico, non ignorando donna Teo-
dura che voi siete a parte di tutto clic si passa nel mio cuore. Ella vi

stima, ed a vece «l'india razzarmi mi sarete d’aiuto per pncitìcarla.


r

I I

408 II. DIAVOLO /ODIMI

— \o, no, don reiterici), accertatevi clic la mia presenza non vi può
esser utile. Parlile, ve ne scongiuro. — No, «oro don Giovanni, tornò a

dir Meudo/a, noi andremo insieme; spero questo favore dalla vostra

aniieiziu. — Cile tirannia, sciamò corniecialo il Toledano perché pre-


;

tendere dalla mia amicizia ciò elle essa non delibo concedervi ?
Queste parole, che don Federico non intendev a troppi, e l’ aspro
modo con cui furono prnnuciate, lo sorpresero non poco. — Fissò atten-

tamente l’amico suo, e, don Giovanni, gli disse, che significa codesto
lampo d’ira? — Quale, orribile sospetto mi nasce in cuore? Ah cessi
la vostra dissimulazione, toglietemi d’angustia, parlate! Da che nasce

la ripugnanza che avete d’ accompagnarmi al castello di Villareal ?

Voleva- nasci indervela, rispose il Toledano; ma poiché voi ini for-

zaste a lascianela divedere, non debbo pili dissimularla: — Cessiamo,


mio caro don Federico, dal congratularci sulla conformità del uostro

carattere: ella è soverchia pur troppo! I vezzi clic si vi piacquero,


piacquero a me pure. Donna Teodora... — Sareste mio rivale? sciamò
Mendoza, impallidendo — Dal di che conobbi l’amor mio, soggiunse
don lì invaimi, l’Ilo combattuto sempre, e sempre fuggii la vedova di I

Cifuentes, ben lo sapete, che me ne rimproveraste voi stcssu: combat-


teva almeno la mia passione,- se. trionfarne io non poteva.
Ma ieri mi léce dire che desiderava parlarmi in sua casa. Mi richiese

del perche mi fossi allontanili da lei. .Furono varie ie nòe scuse, ma


tutte le parvero insudicienti Finalmente fui costretto a scoprirgliene
I la vera cagione, sperando clic dopo mia tuie dichiarazione avrebbe ap-
provatoli mio divisamciilodi fuggirla; ma per un bizzarra influsso ifella

|
min stella... ve lo dirò? Teodora non è indifferente per me.
Quantunque don Federico fosse Filoni più pacifico e più ragione-

vole ilei mollilo, divenne furibondo a’ detti suoi e lo iiilcrrup|ic di

nuov o dicendogli: — Fermali, don Giovanni, squarciami il seno, ma non


proseguire un si fatai racconto. Né ti basta il «li rii mio rivale, clic mi
aggiungi ancora d'essere amalo? Giusto cielo 1 quale eoiiliilenza ar-
disci farmi. Tu espimi la mia amicizia a troppo dura prova. Ma clic

dico, amicizia ? tu la violasti serbando i [terlidi sentimenti che già mi

dichiarasti.

Qual era mai l'error mio.' Iolicrcdea generoso, magnanimo e uou

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* -- -
CAPITOLO DBCfMOTEKZO SO»
tei che un (alto unico, giaochè fosti capace « concepire nn amore che
mi oltraggia. Bono oppresso da si imprevisto colpo, e lo senta' assai

più vivamente ch’eà.mi è recato da chi — Sii giusto, interruppe


alia sua volta il Toledano : abbi un momento di pazientai io non son
altrimenti un fallo amico, e ti dovrai pentire d.’ avermi chiamato eoo
nome si odioso. . •

Allora gli narrò quanto era accaduto fra lai c la vedova di Cifuen-

tes; la tenera dichiara 7400C che essa avetgli fatta, ei di lei discorsi per
indurlo ad abbandonarsi senza scrupolo «Ila sua passione. Gli disse
parola per panila la risposta data a que’ discorsi, ed a misura che
gli parlava della simulala stia fermezza ,
scemava in don Federico
il proprio furore. — Finalmente, soggiunse» don Giovanni, eedè l’a-
more all’amicizia, c ricusai le proposte di donna Teodora:- ne pianse
di dispetto: ma ,
giusto cielo I quale turbaménto non suscitarono
esse uel povero mio Cuore; in rammentarle solo, il cuore mi palpita
repente per il periglio corso. Cominciava ornai ad accusarmi d' insen-

sibile, e per brevi Istanti, o Mendoza, il mio cuore li fu Infedele.

Volli c seppi tuttavia resistere fermo alla mia debolezza sottra en-
dnrai all’effetto di- lagrime così fatali. Ma non basta aver fuggito
Il pericolo, è tluopo cji’io tema d’inconlrario ancora , e sollecitar

debbo la mia partenza,. -onde non espormi agli sguardi di lipomi Teo-
dora- Oro don Federico mi accuserà egli ancora d’ingratitudine e di
perfìdia? Potrà egli, amico quale mi si protestava, supporre In me
un traditore?
-
— No, risposegli Mendoza abbracciandolo, no, porcili: conosco adesso
la laa innocenza. Ilo aperto gli occhi, e chleggoti perdono per un
ingiusto, rimprovero dettato dai primi trasporti il’ nn amore deluso
nelle sue più care speranze. Ben io dove»- immaginarmi die donna
Teodora non avrebbe potuto resistere hmgo tempo ai meriti tuoi , alle

tue attrattive, a quelle sì rere/qualità che ti adornano, ed a cui cedetti


io pure. — Tu sei un vero amico, e non incolpo della mia disgrazia che
la malasorte, e lungi dall’odiarU, la mia tenerezza .per lesi fa mag-
giore. £ che I Tu fai alla nostra amicizia un tanto sagriliziii, e non ne
sarei commosso? Tu potraidomarc l’-nmor tuo, ed io non farò ilben-
ehè menomo sfono per vincere il mio? Vo’esserc generoso al par di

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210 IL DIAVOLO ÌOWO
te.i prosegui, don Giovanni, prosceni' 'ad amare te vedovo di Eifnéntes,

«posala, Mcinioza, io stesso te ne prego; gii felice e non li cara re che


* ... . • ...»
il mio cuor rie' gemo. .


— lnsaino nii solleciti, disse Zarate. Io ho per essa', il confesso, ohe
grtm passione, mai! tuo amore m'è assai più cani deila mia felicità.

—E te tranquillità di Teodora, soggiunse Federico, dchtP esserti fora*


-
indifferente? Non c’illudiiutìo. La sua propensione per te decide della
mia sorte.* Quand'anche tn ti risolvessi a star fermo ne! Ino primo
divisamente di recarti- in Italia, qiiand' anche til -andassi da lei I me-
tano a trascinare una seidgurata'-eAisleiiza; io non potrei sperare di
divenirle caro, poiché se min mi aiuti iioora,- sarebbe vana' ogni mia
ulteriore speranza ; a tè Wilo fu risorbata una cotanta gloria. Ti
-
ama
essa «lai primo istante che ti ha veduto; cita Ita per te una sincera
affezione, e non potrebb’ essere felice die nelle lue braccia; accetta
dunque la di lei mano e compi i suoi ed! tuoi voti; -abbandonami alla
mia fatalissima- Sorte e non fan* tre infelici, quando un solo può ap-
pngaruè tutto il rigore. v •

— E qui AOmndeo dovette interrompere il sno racconto per dar retta


allo studente che diesegli; — Quanto hiì narrate è sorprendente. K vistino
nomini di si pregevole' carattere? Non vedo al mondo altro otre amici

in continua guerra, -non già per delle innamorate boone e gerititi al

par di donna Teodora, ma per sfacciate sgualdrinelle. E potrà un


rimonto Amante’ rinunciare ad un oggetto ohVgli adora , per sol la tema
di fare infelice un amico? Io non crcdca ciò possibile che nel romanzo,
in cui piagatisi 'gU uomini quali essere dovrebbero, ma non come
veramente sono. —
É vero, rispose il Diavolo che amici di tal sorti ,

sono rari assai ma un tai fenomeno non è poi solo della natiira del
i

romanzo, ma ben anco dette natura doli' uomo. E ditTaltì se ne con-


tano già degli esempi. Ma torniamo alte nostra storia.

'I duo amici ideano deciso di farsi l'un l’altro il sagrifìzio della

propria passione, e non volendo cedo re -nessuno dei due «ite genero-
sità dell’altro, i loro amoftisi sentimenti rimasero assopiti per nn al-

cun tempo. Più non parlarono di Teodora ;


anzi non ardivano neanche
di pronunziarne il nomo. Ma noi mentre che in Valenza l’amicizia

trionfava dell’amore, l'amore, qutisi che ne volesse pigliar vendetta,


CAPITOLO UECIMOTEazo 211

regnava altrove tiraiuiicainciitc , c faccasi ubbidire senza che gli si

(qqwncsse resistenza alcuna. .

Donna Tei «loia (lavasi in preda a tenere immagini nel suo costello

di Vii tu reai, posto vicino al mare. Don (ì iovanui era l’oggetto de' suoi

pensieri, e lusingnvasi sempre di svisarlo, benché sembrasse che torre


se lo dovesse dalla mente, ove ritintolo avesse all’amicizia che avea

mostralo per dim Federico.


L'n giorno, dopo il tramonto del sole, passeggiando stilla spiaggia

del mare con una delle sue più lidate Cameriere, si accorse d’ ima scia-

luppa clic stava per giugnere alla riva. Le sembrò sulle prime che vi

fossero sur essa persone di sinistro aspetto, uia qnamlo si avvicinaron

più c l’ebbe meglio esaminale, vidoebe i loro- visi' erano coperti da


maschere; cd erano infatti uommì con larve sul volto ed •armali di

spade c stocchi.
Fremette al loro aspetto, e sembrandole di -sinistro augurio la loro

discesa in sulla spiaggia-, rivolse frettolosi i subi passi alla volta del

castello. Vnlgeasi di quando m (piando per osservar le lóro mosse, c


vedendo clic avean- già preso terra c che le correano dietro, si dica
studiare il passo; ma siccome non era valorosa al corso al par ili Ata-

Jantn ,
e che leggiere c vigorose erano le maschere ,
la raggiunsero

alla parta del castello e la fermarono. '


. • .
'

I.» donna é la fanciulla -ch’erale compagna mandarono altissime

grida ùlle quali accorsero alenili servitori , « questi ehfain.lrono alla

lor volta Dilla la gente del costello. Uscirono tutti i valletti di donna
Teodora, annali gli uni di raffi e gli altri di bastoni. Ma inutilmente,

che due dei più ri il «isti uomini mascherati presero fra le loro ner-

borute braccia hi padrona ala cameriera e lfc .trasportarono rapidi

versi* la seinhip|*n, nel mentre che gli altri- loro compagni laccano
argine al furore dei servi dol -castello , die combattevano da dispe-
rali. La zuffe fu ostinata ;
ma gli nomini, mascherali eseguirono, feli-

cemente F impresa loro.e raggiunsero la scialuppa combattendo in

ritirala. E n’era bea tempi, che tutti poli erano ancora nella barca,
clic dalia jiarte. di Valenza si videro- comparirò. quattro, o cinque
cavalieri clic spronavano al galoppo i loro corsieri a sembravano
accorrere in aiuto di donna Teodora. Ma i rapilori. furono si lesti

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, ,

212 IL DIAVOLO ZOPPO

a prendere il tergo, che la fretta dei generósi Cavalieri tomo inutile

affatto. • ... .
»

Que’ cavalieri erano don Federico e don Giovanni. Avea il (irìtiKi in

quello stesso giorno ricevuto una lettera nella quale gli scriveam» di
aver sapido da buona .sorgente che don Alvaro Ponzio arrivato nell’

isola di Majorca, equipaggiato «rea nnn speri* di tartana, c che con


nna ventina di nomini rotti ad ogni sorta di delitti ,
divisava rapire

la vedova diCifneutes In prima volta che andrebbe a villeggiare nel


suo castello. Appena avuto un tale avviso ,
il Toledano e lui , con i

loro camerieri ,
partirono all’ istante alla volta del castello .
per atre**-
tire donna Teodora' d’ un sì nero attentato. Scoprirono in lontananza

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CAPITOLO DECmOTEBZO 213
su la riva del maro, una folta Hi persone che parcano comlialtere le

unc «miro l'altre; e sospettando essere («ut esse ciò che era di fatto,

sciolsero il freno ai loro coralli per giungere in tempo ad opporsi al

divisamento- di don Alvaro- Ma per quanto spingessero i lor corsieri,

non fq loro permesso che di essere -testimoni, del ratto che volevano
impedire. !. .
‘ / ».. A •
*4
1
Ó 4

Alvaro Ponzio Intanto ,


pieno di gioia pel felice successo del suo
attentato, allontanavasi rapido dalla riva con la sua preda, e raggiungea

con la sua scialuppa un piccolo vascello armato che aspeltavalo in alto

mare. Non è possibile provare un maggior dolore di quello clic sen-


tirono Mendoza e don Giovanili. Scagliarono mille. imprecazioni «miro
don Alvaro , e risuonar fecero l’aria dei loro imitili lamenti.- Tntti i

servitori di donna Teodora, animali dal bell’esempio, non rispar-


miarono pianti e grida, si clic tutta la spiaggia ne rimbombava; furore,
disperazione, ràbbia, erano pinti su quegli irati vólti.' Il ratto d’Elena
cosi non costernò ta corte di Menelao. . i

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Contrai fra un pnctn Ingioi dii aulor riunirò

ó studente non polì trattenersi dalTintcr-

[
rompere in tal punto le parole del fliavolo:

| — Signor Asmodco, disselli, non ì possibile


resister possa alla curiosità elle ho di

I sapere ehc significhi una cosa che attira a


[sì
s tutta là mia attenzione, a malgrado del
I

che proventi In udirvi. Veggo in una


camera, due uomini in camicia che lengonsi afferrati per la gola c

pc’ capagli, c moll i altri in vestr da càmera clic si affaticano per sepa-
rarli; ditomi, vi prego, da che prodotta sìa la lite. Il Diavolo, che
non aspirava clic a contentarlo, lo soddisfare tosto narrandogli il fallo.

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CAPITOLO- DEC.ningi;AiTo 915
I |i«c8«>uaggiche voi vedete io camicia menando a chi-pio le itomi,

sono, dùs’egU, -due nulo ri francesi* e quei che li ’sopaiiuin son due
Tedeschi , un Fiammingo e un Ilaliano. Alloggiano tutti mila stessa
casa, clic è una locanda, in cui non sortovi unii die forestieri. Uno
dei combattenti è autore di tragedie, e l'altro di Commedie. Il primo,
|H*r una etnia disavventura avuta in Francia ò venuto in Ispagna, c
l'altro, [atro contento di Parigi, fceu lo slesso viaggio nella speranza
di trovare a Madrid 'miglior fortuna.
II tragediografo è uno spirilo vano c presuntuoso che si guadagnò,
in onta alla parlo satin ilei ]>ul>blico, una sufficiente riputazione mi
suo paese. Per mantenersi in vena , suol comporre
1
lutti i giorni, c

non potendo questa notte, chiuder oeéhiu-nl sonno, giti» sulla carta
la prima scelta d'ima tragodio, rargomento della quale è tulio ilnlln

Iliade; e siccome il più piccolo de’ suoi difetti è quello di aver*', come
tulli i suoi con fratelli, l’eterna smania di assassinare il prossimo con
la lettura delle sue opere, si alzò, preso il lume,' ed in camicia amiti
a picchiar con inai garbo all' uscio dell'anhir cedue o, che impiegando

meglio il- tempo se la tloruiiva saporito melile. V


Svegliossi il eoniiinvliografo al gran rumore e si alzò ad aprire; quale
un forsennato entrò il tragico autore e sclatniir — Cadete, aulirò mio,

cadete alle mie ginocchia*, attirate un genio da. Melpomene favorito.


Ilo fallo dei versi-,,.. ma che. diro, fatto? Fii Apolli stesso che me li

delti»: se fossi a Parigi ,


«unirci quest’oggi stillili» a leggerli di casa in

casa. Appena albeggi , nudrò dal noslnf ambasciatore e ila tutti i Fran-
cesi che souo a Madrid ; ina {triniti che altri li senta, ò tanta la mia
amicizia per voi,* clic voglio declamarvcli.

Vi ringrazio della gentile preferenza ,


rispose l’ autor comico, sba-
digliando a più riprese; ciò che vi ha di disgustoso si è che scegliete
male il tempo; mi coricai alquanto lardi, ed ili» un sonno tale che non
so se potrò udir i sublimi vostri versi senza riaddormentarmi. Uh, ve
ne sto garante, disse il poeta tragico: quand'anche foste tuta-io, la

scena da iih* composta basterebbe- per richiamarvi in vita.

l.a mia verseggiatura mai è ini miscuglio di triviali Seutimunli .c di

prosaiche frasi, la cui magia non si debbe clic alla rima, ma ima maschia
|N>C3Ìa che coinmove il cuore e colpisce h» spirilo. Non sono io già uno

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116 U {HA VOLO ZfH'PO

di que’podastrl le*» compassionevoli Dovila non compariscono sulle


scene che quali ombre e vanno poscia a divertirgli Africani in litico;

le mie tragedie ,
degne d'essere consacrate con la mia statua nella bi-

blioteca palatina, attirano ancora una numerosissima udienza dopo


trenta rappresentazioni; ma qdi te, soggiùnse questo modestissimo poeta,
udite i versi die voglio declamarvi.

Ecco la mia tragedia : -La morte di Patroch. Scena prima : Briseide

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CAPITOLO DECIMOVIARTO 417
e le altre prigioniere di Achille si strappati» i capelli , si picchiano il

licito per mostrare l’immenso dolore che provano per la morte di Pa-
troclo. Non punito reggersi, ed abbattute per la loro indicibile dispe-
razione, si lasciano cadere a terra. Mi direte che questa scena è un alcun

poco ardita ,
ed io vi risponderò ch’egli è quel che cerco. Che i pic-

coli ingegni si contentino degli angusti limiti dell’imitazione, senza


ardire di oltrepassarli , sta bene , e vi scorgo della prudenza nella
loro timidità ;
ma io voglio novità , sono persuaso che per eommovere
c rapire gli spettatori ,
fanno d’ uopo imagini robuste ed alle quali non
sieno preparati.
Son dunque le prigioniere sdraiate in terra. Fenice, 11 maestro di
Achille, è con esse: ei le aiuta a rialzarsi l’Ima dopo l'altra, e comincia
protasi poscia con questi versi

-
la :

Priam va porri re llector et sa superbe Ville;


l.cs Grccs vettletil venger lo compagnon d'Achille'

Le (Ter A game m non, le divin CamCIns,


Ncstor, pareti tua dieui, lo vaillant Eumèltu,

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,

218 IL DIAVOLO ZOPPO

Léonte, de la. piqué adroK 4 l’cxercice,.

Le nerveux Diomèdc, et l’eloquent lilyase.

Achille *’y prépare ,


et dòjà. ce héros
Pousse vera Iliura ses immortels chevaux ;

Pour arrider plus tòt oh sa furcur l'entraine,


Quoique l’oeil qui Ics voit ne les suivc qu’à peinc,
Il leur dit: Chers Xanthus, Balius, avancez ;

Et lorsquo vous serez du carnage lassés,


Quanti les Troyens fuyant rentrcront dans leur ville,

Kegagnez nolre camp, mais non pas sans Achille.


Xanthus baisse la tòte ,
et répond par ces mots :

Achille, vous serez content de ,vos chevaux,


lls vont aller au gré de votre impatience;
Mais de votre trépas l’instant fatai s'avance.

Junon aux yeux de btruf ainsi le fait parler,

Et d'Acliitlé aussitòt le citar sondile voler.

Les Grecs, en le voyant, de mille cria de joie


Soudain font retentir le rivage de Troie.
Ce prince, reiètti des armcs de Vulcain-,
Parati plus éclatant que l’asfre du matin,
Ou tei que le soleil, comiuetiranl sa carrière,
S’élève pour donner au monde la lumière ;

Ou brillant cornine un feu que les villageois font

Pendant l’obscure nuit sur le sommct du moni.

Priamo perderà Ettore e la superba sua città ;


vogliono i Greci vendicare
d’Achille il compagno, il Cero Agamennone ed il divino Camelo. Nestore, pari

agli dei, il prode Eumclo, Lconle, il gran mastro di lancia, il nerboruto Dio-
mede e l’eloquente disse. Achille si prepara, c quest’eroe già spinge ver Ilio

gli mini or Ufi suoi cavalli :


per giungere più presto ove il Suo furore lo trascina,
quantunque l'occhio che li vede, seguir non gli possa che a stento, cosi lordicc:
Amati Xanto cBalio, correte, e quando della carniQcina sarete stanchi, quando
i Troiani fuggendo rientreranno nella lor» città , ritornato al nostro campo
!
ma non senza Achille. Chinò la testa Xanto e gli rispose cosi: Achilie, tu sarai

contento de' tuoi cavalli , che saran veloci al par della tua impazienza : ma si

avvicina della tua morte il fatale momento. Giunone dagli occhi di bue cosi lo

fa parlare, e tosto volar sembra d’Achille il carro. In vedendolo i Greci, di


mille grida di gioia risuonar fecero le troiane rive. Vestito dell' armi, dono di

Vulcano , spleudea assai più dell’ astro mattutino, o qual sole che al cominciar

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,

CAPITOLO DECIHOQDAIT» 219


di sul carriera s' alza per spander benefica luce al mondo o ,
vivace come il

fuoco che fra l' ombre notturne accendono i bifolchi in cima al monte.

E qui mi fermo, prosegui l’autore tragico, onde possiate respirare un


poco; giacché se tutta di seguitovideclnmassi questa mia scena, potrebbe
la bellezza, la forza del mio verseggiare ed i sublimi pensieri con cui
è adorna , soffocarvi a dirittura. Ammirate l’ aggiustatezza -di questo
paragone : et care come il fuoco che fra l’ ombre notturne accendono i bi-

folchi... Non tutti potrebbero -comprenderne Ih bellezza, ma voi che

conoscete il bello e il voto, voi ne dovete essere incantato. — Il sono, e


senza dubbio, rispose >1 commediografo,- beffardamente sorridendo ;
non ho udito cosa più bella., e son persuaso ohe non tpreanderete
certo di parlare altresì ,
nella vostra tragedia ,
delle cure che pren-

deasi Telide per iscacciare le troiane mosche che si avvicinavano al


corpo di Patroclo. — Nè vi .è da rìderne , soggiunse il tragiao : un
poeta che ha dello slancio, dell’ immaginazione, pub tutto arrischiare:
questa situazione potrebb’ essere forse la più felice del mio poema
e fornirmi una serie d’alli-sonanti versi : oh ,
non la dimenticherò in
fede mia.
Tutte le mie opere, continuò poscia modestamente, hanno il marchio
del bello ,
e quando le leggo ,
gli è un continuo applauso: mi fermo
ad ogni verso per riceverne le lodi. Mi rammento die un d\ leggea a
Parigi una mia tragedia in una casa ove, all'ora del pranzo, sogliono
trovarsi tutti i begli spirili, e nella quale, senza che mi si possa dir
vanitoso, upn sono reputalo un Pradon. lìravi la contessa di Vieil-
Ic-Brune, dal latto Gnu e dilicalo c della quale sono il poeta favorito.
Calde lagrime le rigavano il volto alla prima scena ;
fu obbligala a cam-
biar di fazzoletto al second’atto; singhiozzò al terzo ;
la colpi uno
svenimento al (piarlo; alla catastrofe poco mancò non morisse in com-
pagnia dell’ eroe del mio dramma.
A queste parole, il poeta comico, quantunque avesse fatto propo-
nimento di stare in tutta serietà, non potè a meno di dare in uno
scroscio di grosse risa. — Ah ,
ali ,
conosco a questo tratto la buona
contessa ;
è donna che non può soffrire la commedia, e die Gitila la tra-

gedia suole uscire dal suo palco senza udir l’allegra coinmediola che
220 IL DIAVOLO ZOPPO

rappreseutasi dopo ,
per recar seco tutto il dolore da cui £ compresa.
La tragedia è la sua passione. Sia buono o pessimo il poema, pur-
ché parliate di sventurati amanti siete certi d’ intenerire la dama. —A
dirla schietta ,
s’io avessi a compor tragedie, amerei di avere enco-

miatori di miglior senno.

— Oh ne ho degli altri molti, disse il tragediografo: mille persone di


qualità sì maschi che femmine... — Ahi, ahi, che i suffragi delle persone

di qualità, interruppe il commediografo, sono aneli 'essi, il più delle


volte , i meno lusinghieri, e sapete il perchè? Egli è clic siffatti uditori

sono per lo più distratti nel mentre d’una let tura; e talvolta un bel verso,
un gentil pensiero gli abbaglia, e ciò basta perchè trovino eccellente un
letterario lavoro, quantunque pieno zeppo di corbellerie. Al contrario,
odon esse un qualche verso un po’ prosaico c duro da offenderli l’orec-

chio, ciò basta perchè proclamino pessima una buona composizione.


—-Orbene ,
giacché volete questi giudici incompetenti, avrò lìdanza
dunque negli applausi della platea. — Oh, lasciamo stare, ve ne prego,
l’ instabile platea ,
soggiunse l’ altro : son troppo capricciose le sue de-
cisioni. S’inganna alcune volte alle rappresentazioni d’un nuovo dramma
da entusiasmarsi scioccamente per due lunghi mesi ad una vera scel-

leraggine. Gli è ben vero che cessa finalmente l’ illusione, e l’autore è


poi in ultimo fischiato dopo un felicissimo esordio.
Questa non è disgrazia eh’ io possa temere ,
rispose il tragico : si

ristampano le mie tragedie ogniqualvolta sono rappresentale. Ann si

fa lo stesso delle commedie, chè la stampa scopri! la loro turili tà. rmn
essendo esse che bagattelle, clic piccioli nonnulla... — Adagio, adagio,
signor trageilii grafo: badate a non riscaldarvi troppo; pregovi a par-
tee V in presenza mia, con un alcun clic più di rispetto della com-
media. E credete voi che un comico poema sia meu diflicile a eoin|Hirre
(Tona tragedia? Ttisingaunatev i ;
non è più facile il far ridere gli as-

sennati, che non lo sia il farli piangere. Accertatevi che un ingegnoso


argomento che rappresenti gli odierni costumi, non presenta meno
difficoltà di quello che presentar possa un argomento eroico.
Davvero! sciamò il poeta 'serio con un comico sogghigno, io stupisco
in udirvi a parlar così. Ebliene, signor Gilidas, per evitare ogni con-
troversia fra di noi, vo’d’ofa in poi apprezzare le opere vostre quanto

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,

CAPITOLO DECIMOQL' ARTO 221


le Ito finora dispreizate. — E che ni 'importa del vostro biasimo, signor

Giblct, rispose tosto l’ autor comico; e scambiandovi insolenza per


insolenza, ridirò schiettamente il mio parere sui versi che mi decla-
maste or ora : nulla ndii mai di più ridicolo, od i pensieri, quantunque
tratti dal divino Omero, non potrebbero essere più triviali e sciocchi.
Achille [tarla a’ suoi cavalli; i cavalli gli rispondono: ma questa è una
immagine bassa quanto In similitudine del fuoco che i bifolchi accen-

dono su la montagna. (Questo non è un onorare gli antichi, saccheggian-


doli in tal minio ;’ sono, è vero, i loro volumi pieni di bellezze, ma egli

ò duo|Ni avere un miglior tatto per {scegliere quelle che meritano d’es-
sere imitate.
— Poiché non avete sufficiente elevatezza d’ingegno, soggiunse
C.ihlet, per i scorgere le bellezze della mia poesia, c per punirvi d’a-
ver osato di censurare la mia scena, non ve ne declamerò il seguito.

— Fate Itene, ch’ebbi già bastaste punizione avendone udito il prin-


cipio, rispose Calidns. Sta proprio a viti il disprezzarc le mie com-
medie? Sappiate che la più cattiva da me scritta sarà sempre mi-

gliore delle vostre ridicole tragedie, c ch’egli è assai più facile uno
slancio poetico, che non uno scherzo ameno e dilicato.

— Grazie a! cielo, disse il tragediografo, con uno sguardo pieno


d’ira, ed una sdegnosa contrazione di labbra, se ho l’ immensa dis-

grazia di non avere la vostra stima, io credo dovermene consolare.


I.a corte giudica di me più favorevolmente che voi non fate, a la con-
cedutami pensione... —
Oh non crediate giltarmi polvere negli oc-

chi, [tarlandomi di pensioni c di corte... lo interruppe Calidas. Insomma


non v’ immaginate valer meglio de’ commediografi; c per provarvi che
io soli convinto essere più facil cosa il comporre una tragedia anziché
una commedia, egli è che divisai di ritornare in Francia, e che se min
riuscirò nel comico, mi abbasserò a scrivere azioni tragiche.
— Per un autore di burlette, disse il poeta tragico, siete molto
vanitoso. — Per un verseggiatore la cui fama sono i fuochi fatui, disse

lo scritlor comico, siete molto presuntuoso. — Voi siete un maldicente,


replicò l’altro. 8’ io non fossi in Vostra casa ,
il mio signor Calidns
la catastrofe di quest’ avventura sarchile quella d’ insegnarvi a rispet-

tare il coturno. —Non vi tratlenga-qnesto riguardo, gentilissimo signor

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222 IL DIAVOLO ZOPPO '

Giblet ,
rispose Galidas : se avete voglia di farvi rompere le ossa , lo

posso far qui siccome altrove.


Dello e fatto, l’uno acciuffa l’altro pei capegli e questi quello per
la gola, e pugni e calci si avvicendano con incredibile celerità. Un

Italiano che se la dormin tranquillo nella camera vicina, si svegliava

all’cnergumcna declamazione del tragediografo, c do|>o udito tutto


intiero il dialogo, ai sordi tonfi ed all' affannoso respirare che suc-
cedette al diverbio, non dubitò punto che fossero alle prese, si alzò

e diè l’allarme, l'n Fiammingo e due Tedeschi clic risiete in veste da


camera accorsero coll’Italiano per separarli.

Mi sono divertilo, disse don Clcofa. Ma, n quel clic vedo, gli autori
tragici in Francia credonsi qualche cosa di più degli scrittori di
commedie. — Senza dubbio, rispose Asmodeo: i primi si reputano

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CAPITOLO DECmoÓl’ABTO 225
tanto al disopra dogli altri, quanto gli orni delle tragedie son supe-

riori ai serri delle commedie. — E su di ohe fondano il loro orgoglio?


— I.a questione ohe pro|M»nele, soggiunse il Diavolo, fu ventilata le

mille volte, e non è anoor decisa. Per me, ecco quel che direi, con
tutta pace di chi non è del mio parere: io creilo che le difficoltà deb-
bono essere eguali; didatti, se l’ima fosse più difficile jlell’ altra, ne

verrebbe di necessaria conseguenza che lo scrittore tragico potrebbe


essere scrittore comico più facilmente che il commediografo» il che
non è. Queste due sorta di poemi richiedono dunque due ingegni di
diversa natura ma di eguale valentia.

Ma egli è tcuqio, soggiunse lo zoppo, di ripigliare il filo della in-

terrotta storia.

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e i famigli di donna Teodora non valsero
ad ini|ie<lirnc il ratto, non aveann Intlavia
tralasciato di illustrare lotto il loro coraggio,
è la loro resistenza era stata fatale ad una

j
parte degli scherani di don Alonzo. Ve u’era
imo fra gli altri così malconcio dalle ferite,

clic non gli fu possibile di seguire i suoi com-


pagni, e cadde esanime in sul terreno.
fa
tra questo sciagurato stato riconosciuto |>or un servitore di don
Alvaro, ed avvedendosi ch’egli respirava ancora, fu IrasjMirlato al

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CAPITOLO DECmOQllMO
castello, ove nulla ai risparmiò per richiamarlo in vita, quantunque il

sangue sparso lo avesse ridotto ad un 'estrema debolezza. Per invitarlo

a pai lare, gli si promise elle si avrebbe cura de' suoi di, e die non
lo si sarebbe abbandonato al rigore della giustizia, sciupicela; dicesse
ove il suo padrone avrebbe tradotta dolina Teodora.
Lusingato da una tal promessa, quantumpie uou dovesse avere
graude s|ietanza di proliltarne, richiamò a poco a poco gli smarriti

suoi spirili, e con semispciita voce confermò quanto era già stato scritto

a don Federico. Soggiunse poscia che don Alvaro divisava condurre


la vedova di Cifuenlesa Sassari, nell'isola di Sardegna, dove avea un
parente, la cui protezione e autorità gli prometleano un sicuro asilo.

I na tale deposizione alleviò in parte il doloree la disperazione di


Mendoza e del Toledaiiu: lasciarono essi il ferito nel castello, dove
mori |>oclie ore dopo, c ritornarono a Yaleuza pensando al jiailito

a cui dovevano appigliarsi. Risolvettero d'andare in traccia ilei co-


mune loro nemico, c tosto s'imbarcarono, senza servi 0 seguito, a
Ilenia per Porto Maone, non dubitando clic quivi avrebbero trovalo
un imbarco |>er l'isola di Sardegna. IlilTatti, arrivati appena a Porto

Maone, seppero clic un vascello noleggialo [>er Cagliari dovea met-


tere subito alla vela ,
e. ne approfittarono.
II vascello partì con un vento il piò prospero clic mài sperare si

potesse. Un cinque o sei ore dopo la loro partenza, vi sopravvenne

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,

246 IL DIAVOLO ZOPPO

una bonaccia, si (e' contrario nella notte il vento e furono obbligali


di bordtygjare, nella speranza rbe cambierebbe. Navigarono cosi per
tre giorni di seguito, ed il quarto, alle due dopo il mezzodi, scopri-
rono un vasccHocbc vernagli incontro a vele spiegate. Credettero dap-
prima fosse un vascello mercantile; ma vedendolo avanzarsi quasi
sotto il cannone senza inalberare alcuna bandiera, non ebbero più
dubbio ch’ei non fosse un corsaro.
Nè «'ingannarono; comandava quel vascello un pirata di Tunisi, il

(piale credea clic i cristiani si sarebbero resi senza combattere, ma


quando li vide ammainar le vele e preparare i loro cannoni, pensò

che l'alTare sarebbe un po’ più serio che da principio non gli parca;
laonde s'arresti), raccolse.egli pur le vele e si dispose a combattere.
Cominciarono dall’ima parte e dall'altra a cannoneggiare c sem-
brava che i cristiani avessero nn qualche vantaggio, ma un corsaro di
Algeri, con un vascello più grande e meglio armato degli altri due
prese parte della zuffa a prò del pirata di Tunisi. Si avvicinò a gon-
fie vele al bastimento spagnuolo e lo serrò tra due fuochi.

Si scoraggiarono allora i cristiani, e non volendo proseguire un


combattimento ormai troppo ineguale, cessarono dal più combattere.

l’imo dopo comparve sulla |


loppa del naviglio algerino uno schiavo che

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CAPITOLO DtCWOQCMTO W7
si dii a gridare in lingua spaglinola a quelli del vascello cristiano, clic
ai arrendessero per Algeri se desideravano fosse loro dato quartiere.
Dopo questo grido, un Turco fe’ sventolare all’aria una banderuola di

taffetà verde ricontata di inezie lune d’argento, le uuc intrecciate col-


l'altre. Accortisi i cristiani clic ogni loro resistenza riescir non potea
se non se inutile, deposero ogni |<ensiero di difesa, per abbandonarsi

al dolore, cui l'idea della schiavitù può suscitare a uomini nati liberi ;

ed il capitano temendo che un più lungo indugiare min irritasse il

barbaro vincitore, levò di poppa la banderuola, si slanciò nello schifo

con alcuni marinai e andò ad arrendersi al corsaro d’Algeri.


Spedi il pirata parte de’ suoi soldati a visitare il bastimento spa-
gnuolo, o, a meglio dire, a far man bassa su tutto ciò che contenea. Il

corsaro di Tunisi dal canto suo diè un ordine consimile a qualcuno


de' suoi compagni , dimodocliè tutti i passeggeri dello sfortunato

vascello furono in men che dicesi disarmati, spogliali e fatti passare

nel vascello algerino, ove la sorte decise della divisione del bollino.

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I

:
|

228 IL DIAVOLO torvo

Stalo saria conforto al Tohvlano ni a Mendoza il cader tutt'a due


nelle mani d’uno stesso padrone; sarebbero state cosi meno pesanti

le lor «'alene sopportandole uniti, ma no, cbè la fortuna imper-


versava avversa su di loro con tutto il suo rigore : fu schiavo don
Federico del corsaro di Tunisi, lo fu di quello d’Algeri don Giovanni.
Ninno si attenti a descrivere la disperazione di quosli amici al

mumento della loro separazione; i Turchi, che si erano già fatti im-

passibili a più dolorose scene, non si commossero punto, anzi sup-


|>oneudo i cattivi d’un illustre legnaggio, e «piindi in istato di poter
pagar loro un grosso riscatto, furono vieppiù fermi in tenersene un
> ciascuno.
Mendoza e parate, ornai fuori d’ogni speranza, bene scorgendo
che aveano essi a che fare con cuori induriti alla pietà, guardandosi
l’un l’altro, esprimevano cogli sguardi la muta ma sublime loro af-

flizione. Ma allorquando, compiuta la divisione del bottino, il pirata

|
di Tunisi pensò di tornare al suo vascello cogli schiavi toccatigli in

sorte, questi due amici credettero morire dal dolore. Awieinossi Men-
doza al Toledano e stringendolo fra le sue braccia, dissegli: —È forza

dunque che noi ci abbandoniamo! terribile necessità! e quasi non


bastasse che l'audacia d’un rapitore rimanga impunita, ne vien tolto

perfino di lagnarci e piangere insieme. Ah, don Giovanni, qual fu la

nostra colpa perchè l’avversa sorte ci [tersegua tanto? — Di tutte

le nostre sciagure sono io la causa, rispose «lon Giovanni. Non si deb-


'
b'essa imputare che a me solo. La morte di due persone da me sve-
nate, benché perdonabile’agli occhi degli uomini, avrà, non v’ha dub-
bio, irritato il cielo, e punisce voi pure per aver sentito affetto per
un misei-abile (lerseguitato dalla tremenda sua giustizia.

SI parlando spargeano ambidue copiose lagrime «li dolore e si pro-


fondi sospiri che gli altri schiavi n’erano commossi tanto da obbliarc
per un istante la propria sventura. Ma i soldati di Tunisi, ancor più bar-
bari del loro signore, iùqiazienti che Mendoza lardasse tanto ad uscire

dal vascello, senza veruna compassione lo strapparono dalle braccia


del Toledano, c lo trascinarono con seco in sul lor naviglio, stra-

pazzandolo c (K'rcuoiendolo. — Addio, amico del mio cuore, sciamò,


noi non ci rivedrem inai più, e donna Teodora non è vendicata ... Ah

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capitolo DBciMOQcrrro 249

i mali che codesti barbari m’apprestano, saranno la minor pena della


mia schiavitù.

Don tiiovanni non potè rispondere a queste parole : i maltratta-

menti a cui era esposto l’amico suo gli cagionarono tale un'ambascia
% ». 6 /In ntriìh

che gli tolse l’uso della voce. — Or, siccome l’ordine della storia vuol

che seguitiamo il Toledano, lascierei» {ter adesso l’infdiee don Fe-


derico nel naviglio di Tuuisi.
Il corsaro algerino tornossene al suo porto, condusso gli schiavi

dal pascià, ed al mercato quindi ove soglion porsi tu vendita. L'n

ufficiale del dey Mezzomorto comprò don Giovanni pel suo signore,
e lo pose a lavorare il giardino dell’ harem. Una tale incombenza,
quantunque penosa per un gentiluomo, gli fu tuttavia gradila, per la

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«

IL DIAVOLO ZOPPO

solitudine ohe richiedeva- Nella triste condizione in eoi

erari che più caro gli fosse quanto la libertà di poter a zoo talento
meditar sulle proprie sventure; e’ vi pensava sovente, e l’anima «ua,
antiahò tentare di distrarsi da queste dolorose immagini, parsa go-
desse una dolce e melanconica voluttà in rammemorarle.
Un giorno che, senza scorgere il dey che passeggiava nel giardino,

cantava in lavorando una melanconica canzone, ristette Mezzomorto


per ascoltarlo; gli piacque la sua voce e gli dimandò qual fosse il suo
nome. Gli rispose il Toledano chiamarsi Alvaro. — Entrando in casa

del dey, credette opportuno di cambiar nome giusta il costume degli

schiavi, e quello avea preso perchè il pensiero gli correa conlinuoàl


rapitore di donna Teodora. — Mezzomorto che sapea qualche po' di

spagnuolo, lo richiese delle usanze di Spagna, e più particolarmente

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CAPITOLO DKCIUOQUIPirO 231
del modo tenuto dagli uomini di quel paese per giugnere a piacere
alle Ioni belle: al che don Giovanni diè tale una riipoaia che ne fu
contentissimo il dey.
— Alvaro, gli disse, tu mostri avere dei talenti, ed io non ti credo
un noni del volgo; ma chiunque tu sia, hai la fortuna di piacermi,
e to' onorarli di mia confidenza. — Don Giovanni a queste parole
si gittò a’ piedi del dey, e non si alzò che dopo aver portato alla

bocca, agli occhi, indi al capo il lembo della zimarra del suo pMirooe


Per cominciar dunque u dartene prove, soggiunse Mezzo morto,
ti dirò die nel mio serraglio vi sono le più belle donne d'Europa, ed

una fra l'altre d’incomparabile avvenenza: mui credo che lo stesso


gran signore ne possieda di più perfette, Itencliè ogni giorno i suoi

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,

IL DIAVOLO ZOPPO

vascelli gliene portino di bellissime da tulle le parti del mondo. È


il viso ano quale lo splendor del sole, la sveltezza del suo corpo è
pari allo stelo d'un rosaio del giardino di Erarn, ed io ue vivo in-
namorato.
Ma questo prodigio della natura, questa sì rara beltà, è dominata

da una mortale tristezza che nè il tempo, uè l'auioro valsero a dis-


sipare. (Quantunque propizia la sorte l'abbia posta in poter mio, (re-

nai però sempre i miei desii, e ben diverso io ciò da’ miei pari, de-
siderai solo di acquistarmi il suo cuore con tale una compiacenza e
oon tanta umiliazione, che l’ultimo dei Musulmani vergognerebbe di

usare con una schiava cristiana.


Ma (ulte le prove dcll’amor mio a vece di ammansarla, l’inaspri-
scono vieppiù, e la sua malinconia è tale che ornai mi stanca. L’Idea
della schiavitù non produce sulle altre una così profonda impressio-
ne, cd ove siavi, un mio favorevole sguardo la scancella; ma il do-
lore di costei è inconsolabile. Tuttavia, prima di cedere alla foga

de’iniei trasporli, vo’ fare ancora un tentativo, c giovarmi dell'opera

tua. É questa una schiava cristiana e della tua nazione, e potrebbe


darsi che si confidasse teco a preferenza d'ogni altro, e giugnere po-

tessi a persuaderla. Vantale il mio grado, il mio potere, le mie ric-

chezze; dille clic sarà la prediletta fra lutle le tuie cattive; dille che
|H>trebbe fors'anchc un dì aspirare all'alto onore d’essere la moglie
di Mezzomorto, e dille che avrò per essa più stima che non ne avrei
|>er una sultana di cui sua altezza mi offrisse la mano.
Si prostrò per la seconda fiata don Giovanni a’ piedi del dey c,
quantunque non gran fatto contento della confertagli commissione
accertollo che farebbe tutto il suo jinssibile jier ben servirlo. — Ba-
sta, soggiunse Mezzomorto, tralascia il tuo lavoro e sieguimi ; è con-
tro le nostre usanze il farti, parlare da solo a sola con la mia bella
schiava; ma trema di abusare della mia confidenza; supplizi scono-
sciuti agli stessi Turchi punirebbero la tua audacia. Cerca ogni via
(>er vincere la sua tristezza, e pensa che la tua libertà dqiende dal

buon esito di questo affare. — Don Giovanni lasciò il suo lavaro c


seguì' il dey, che lo precedette per disporre l’animo deii’afflitta schiava
a ricevere il suo messo.

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CAPITOLO DKCIMOQtl.VTO 233
Slava essa fra due vecchie donne ,
che la lasciarono allor die vi-
dero a comparire Mezzomorto ! La bella schiava il salutò con grande
rispetto, ma non senza un fremito che le ricercò ogni fibra, ciò che
• • i

le succedea ogni volta che le compariva dinanzi. S’ accorse il Mu-


sulmano e per rassicurarla: — Bella cattiva, di -seie, Io sol qui venni

per avvertirvi che avvi fra’ miei schiavi uno Spagnuolo, col quale sono
certo v'intratterrete volonljeri: se desiderale vederlo, io gli accorderò
il permesso di parlarvi, ed anche senza testimonii.
La bella Schiava rispose che si. — Ebbene, ve lo mando tosto,
soggiunse il dey: possa egli, parlando con voi della vostra patria,
recarvi un qualche sollievo. — Si dicendo uscì, e incontrandosi col
Tolcdano che recavasi ad ubbidirlo, con voce sommessa gli disse: — ;

Tu [Hioi entrare, e quando sarà terminalo il tuo colloquio con la Cat-


tiva, corri nel mio appartamento a farmi consapevole dell’esito di
tua incombenza.

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234 IL 1» ÀVOLO ZOPPO

Zarute coirò tosto nella camera, salutò la schiava senza che gli

occhi suoi s'incontrassero in quelli di donna Teodora, elle dal canto


suo gli contraccambiò il saluto senza guardarlo; ma, riconosciutisi

tutto ad un tratto, gitlò un grido di sorpresa il Toledano; compresa


da stupore la valeva di Cifuenles, si abbandonò mollemente in sul

divano svenuta quasi. — Oh cielo! disse il Toledano, avvicinandosi a

lei, non è già una fantastica creazione della mia fantasia quella che mi
seduce! — Ah, don Giovanni, sciamò la bella schiava, e siete voi

che mi parlale? — Teodora,Si, iis[(osé il cavaliere baciandole tene-

ramente la mano. Riconoscetemi a queste lagrime di gioia ch’io verso.

a questi trasporli eccitati in me dal contento di rivedervi: ali non lia

più clic io mi lagni della sorte se dessa vi restituisco a’ mici voti....

ma ove mi trascina la smoderata mia gioia? dimentico io dunque


die siete schiava? Qual nuovo capriccio della sorte villa qui trasci-

nala? collie vi salvaste voi dal temerario ardore di don Alvaro! Oh


di quanti ailiinni ei mi fu cagione! e quanto io temo d'udire Che pro-
tetto non abbia abbastanza il cielo la virtù vostra!

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CAPITOLO Der.lMOQCIKTO 435
— Il cielo, disse donna Teodora, mi Tendici» d’ Alvaro Ponzio, e

se avessi il tempo di raccontarvi.... — Voi lo avete, rispose don din-


vanni: il dey mi diè il permesso di star con voi, e, ciò die stupir
ri debbo, senza testimonio alcuno. Approfittiamo di questi felici mo-
menti : ditemi tatto che vi successe dal di del vostro ratto inaino a
questo beato istante in cui mi è concesso di vedervi ,
di parla ni. —
Ma da chi sapeste voi che don Alvaro fosse il mio rapitore? — Il so
pur troppo, rispose don Giovanni, e tosto le raccontò il più breve-

mente die poti- in qual modo l’avesse saputo, e come Mendnza e Ini

eransi imbarcali per correre sulle tracrie del rapitore e fossero stati

presi dai corsari. Terminato ch'ebbe il suo racconto, Teodora comin-


ciò il suo con queste parole :

—È inutile eh’ib dicavi quanta e quale fosse la min sorpresa nel


vedermi assalita da una moltitudine di gente mascherata .-'svenni fra

le braccia di colui che mi portava, e quando ricuperai gli smarriti

sensi, dopo un non breve lasso di tempo, mi trovai sola con Ines, nna
delle mie donne, in alto mare, nella camera di pop|»a d’un vascello
che avea le vele spiegate al vento.

I. a sciagurata Ines mi consigliava alla pazienza, e |iotei avvedermi


da’snoi discorsi eli’ >lla era d’accordo col mio rapitore. Costui osò
comparirmi innanzi, e gettandosi a’ mici piedi — Signora, mi disse,
perdonate a don Alvaro l’adoprata violenza-por possedervi. Rammen-
tatevi tutto l’amnr mio, le mie sollecitudini e con quanta tenerezza
lui disputato il vostro cuore a don Federico sino a quel fatalissimo
giorno in cui -gli deste la preferenza. Se avessi nutrito per voi un de-

bole alletto, l’avrei vinto, e mi sarei consolato della mia disgrazia:

ma è mio destino l’essere adoratore de’ vostri vezzi, e benché sprez-


zalo, sento che sari» sempre soggetto al loro |»otere. Nulla però temer

dovete dalla violenza deU' amor mio: io non vi ho tolta la lilx-rtii per
mover guerra alla vostra virtù con mezzi indegni, e vo’ solo che nell’a-

silo in rui vi condurrò, un eterno e sacro nodo unisca i nostri cuori.

Seguitò ancora a tenere altri discorsi, di cui non posso più ricor-
darmi : ma ben vi so dire che in udirlo sembrava che cnstringemlomi

a sposarlo, non ini usasse violenza aleuna, c che considerar non lo

dovessi come un ardito rapitore, ma quale un appassionato amante.

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f

236 IL DIAVOLO ZOPPO


I

Ma vedendo ch’io non ristava dal versar lagrime e dal disperarmi, e

che inutile erano le sue parole a consolarmi, mi lasciò senza perder


tempo a persuadermi, e partendo fece un segno ad Ines, c ben compresi

ch’egli era onde mi parlasse e cercasse ogni via di persuadermi.

Non trasandò Ines dall’ obbedirlo, e dissemi che dopo il mio rapi' I
I

mento, non m’era più concesso di rifiutare la mano di don Alvaro I


!

Ponzio, qualunque si fosse la mia avversione per lui, e che l'onor mio
richiedeva dal cuore un tale sagrifizio. All’idea di si abborrilo mari-
taggio cresceano le mie lagrime ed era inconsolabile. Ines non sapea
più che dirmi, quando ad un tratto udimmo in sulla tolda un gran
rumore clic a sq rivolse tutta la nostra attenzione.
Questo rumore che faceasi fra le genti di don Alvaro, era nato alla

vista di ùn grosso vascello che a gonfie vele veniva incontro a noi, e

'che essendo più fornito di tele che limi, il nostro, sarebbe per noi

impossibile di evitarlo. S’avvicinò a noi e ben presto udimmo le grilla .

Arrivai arrivai ma Alvaro Ponzio c le sue genti, amando meglio mo-


rire che cedere, furono ardili tanto da voler combattere. Fu vivissima

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CAPITOLO DKCIMOQCINTO 237
la lotta, e lasciando di farne la descrizione, vi dirò solo che don Alvaro
e tutti i suoi |>crirono ,
dopo un accanito, disidrato combattimento,
(guanto a noi, fummo trasportate in un grosso vascello che apparteneva
a Mezzomorto, comandato da Ahy Aly, uno de' suoi ullìziah.

Aby Aly mi considerò luugo tempo con qualche sorpresa, e cono-


scendo dagli abiti mici che io era spagnuola , dissemi in lingua casti-
gliana : — Moderate il vostro dolore , nè vogliate abbandonarvi alla

distrazione per essere caduta in ischiavitù ,


era per voi inevitabile
questa disgrazia: ma che dico io, disgrazia? Voi siete troppo beltà per
appagarvi degli omaggi dei Cristiani. Il ciel non vi fe’ nascere per quei
miserabili mortali : voi meritate 1’ amore dei più grand’ uomini del

mondo, e i soli Musulmani sono degni di possedervi, liipiglio all’istante

la via d’Algeri ,
benché non abbia fatta altra preda ,
e son ben certo
che il dev mio signore sarà soddisfatto di mia spedizione , nè temo
eh’ ei condanni ('impazienza eli’ ebbi di deporre nelle sue braccia una
beltà che Ha la delizia e lo splendore dèi suo serraglio.

A questo discorso ,
che mi svelava a chiare note qual fosse la mia
deplorabile situazione, si raddoppiarono le mie lacrime. Aby Aly, che
non vedea sotto lo stesso aspetto il mio spavento, si diede a ridere e
veleggiti felice alla volta d’Algeri, inentr’ io non polca tranquillare lo

abbattuto mio spirito. Yolgcn tantosto i miei sospiri al cielo e I’ im-


plorava in mio soccorso, ed ora desiava che un qualche vascello di Cri-
stiani venisse in nostro aiuto , o che c’ inghiottissero almeno i flutti :

più tarili facca voti perchè le mie lagrime e là mia disperazione mi ren-
dessero deforme tanto da fare orrore al dev vane speranze, concepite
:

nel pericolo del mio onore. Noi giugnemmo al porto: qui fui condotta,

qui vidi Mezzomorto.


Non saprei dire che dicesse Aby Aly nel presentarmi al suo padrone,
e che cosa gli abbia risposto il suo signore, perche parlarono essi nella
loro lingua; ma ben mi parve di scorgere dagli atti e dagli sguàrdi del
dcy eh’,
io mi avea la disgrazia di piacergli ; e quel che mi disse floscia

in ispagnunlo mi confermò nel mio concepito timore, e. pose il colmo


alla mia disperazione.
Fu invano ch’io mi giltai a’ suoi piedi e gli promisi lutto che avrebbe

richiesto per il mio riscatto: inutilmente cercai di vincere la sua

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25* IL DIAVOLO ZOPPO

avarizia offerendogli lutti i miei tieni ,


eh’ei mi' rispose noh esservi
rierliezze al mondo elle mi riscattassero. Mi fe’pre|iarare questo appar-
tamento ,
siccome il più magnifico del suo palazzo, e d’ allora in poi

nulla risparmiò per ishandire dal cuor mio la tristezza in cui mi vede
immersa. Non avvi schiavo dell’uno o dell'nllrd sesso che suonar non
sappia un qualche strumento, o gorgheggiare una qualche nota' , che

(pii non vengano per órdine suo a cercar di allev iare itmio dolore. Mi
fu tolta Ines net pensiero ch’ella cercasse di alimentare le mie pene,
ed ho quali serve alcune vecchie schiave, die di continno mi parlano
dcM’ amore del Ioni signore, c de’ mille piaceri che mi son scriniti.

Ma rutto clic si fa [ter divertirmi toma inolile ,


e sorte anzi un
contrario effetto; nulla vi è che possa consolarmi. Schiava in questo
esecraliHc palazzo ,
in eoi s’odono Lutti i di le grida dell' innocenza

oppressa, io soffro ancora meno perla perduta libertà, che per il

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,

CAPITOLO DSCI.VIOQll.NTO 239


terrore die inspirami l’ odiosa tenerezza del dey. Benché linora io non
abbia scorto in lui die un amante compiacente e rispettoso, non cessa
in me la tema die, stanco un di del ris|»elt.i* clic ornai si pente ili avermi
usato, min abusi lilialmente del suo potere; c un si fatai timore non mi
abbandona un solo istante, ed é la mia vita un continuo supplizio.
K qui donna Teodora die in un dindio pianto, dal quale don lìio-

vamii ne fu commosso. — Ah non senza ragione vi piagete l'avvenire


con si orribili colori, e ne pivcnto aneli' io. Il ris|ielto del dey cesserà
quanto prima; quest’amante sommesso si sjmgUerà ben prestoddla-linta
sua dolcezza, pur troppo 1 e già veggo i itericeli a cui sarete esposta.

Ma, prosegui egli in turni più risoluto, non ne sarò testimonio tran-
quillo. (Juanluuque schiavo, et dovrà temere ili mia disperazione, e
anziché vj oltraggi Mezzomortu, un ferro gli troncherà la vita ! ; — All,

don Giovanni, sdamò Li vedova di Cifucules, die usate voi di meditare?


\ i guardi il cielo dall' eseguire colai progetto, ili quali illudile crudeltà

non sarebbe seguita, codesta morte. Non la veniiicharebbcro i Torchi


finse? i più spaventevoli tormenti io ne fremo ai sol pensiero.

Inolile, non satebb’ egli un esporvi ad inutile pericolo ? togliendo la

vita al dey, cesserei io forse d'essere mia schiava? Ohimè, che venduta
forse sarei a qualche scellerato meli rispettoso di Mezzomorto.' Cielo,

cielo, io dipendo dalla tua giustizia! Salvami tu dal desio brutale di


quest’ empio , e giacché non in’ è concesso d'adoprar ferro o veleno
impedisci tu un sì orribile delitto.

— Sì, Teodora, soggiunse Zarate, il cielo lo preverrà: beu io sento Che


egli m’inspira, e ciò die presentasi in questo punto al mio pensiero, è
senza dubbio un avviso ch’egli mi dà. Non m’ impose il dey di vedervi

che solo per piegarvi alle sue turpi voglie, e (leggio adesso andargli
a render conto di mia ambasciata: è d’ uiqxi ingannarlo. Gli dirò che

la vostra melanconia si dirada, e die le gentili sue maniere cominciano


ad alleviare un po’ le vostre pene; e che tutto |Milrà sjierure ove conti-
imi ad essere qual si mostrò linora. Secondatemi voi, e (planilo il ri-

vedrete, mostratevi a lui mèn trista del solito, ùngete che Vi allettino
i suoi discorsi. . u . .

— (filale penoso sforzo esigete voi da me! interruppe. donna Teo-


dora. Come mai un 'anima franca e sincera potrà smentirsi tanto? e qual
,

240 IL DIAVOLO ZOPPO

flutto trarrò da sì |tenosa dissimulazione? — Il <iey, rispose egli,

gioirà del cambiamento ,


e vorrà ,
coll’ essere galante ed amoroso
terminar di guadagnarsi l'animo vostro; frattanto io mi adoprerò per
la vostra libertà. Non è cosa facile, il veggo ,
ma conosco un astuto

schiavo, la cui destrezza ci servirà a dovere.


Vi lascio, soggiunse; abbiamo d’ uopo «fumi grande cautela e Sol-
lecitudine, ci rivedremo a miglior tciufxi. Corro dal dey per cercar di
addormentare l’ impetuoso suo ardore. — Voi preparatevi ad acco-

glierlo ;
dissimulate, frenate la vostra indegnazionc, fate che i vostri

sguardi non mostrili l’odio che voi nutrite, che la vostra bocca, la quale

s'uprc solo per lamentare le vostre sciagure, il lusinghi alquanto, nè

abbiate timore 'di sembrar troppo condiscendente, è d’uopo promettere |

per non accordar poi nulla.


Basta cosi, disse donna Teodora; farò «juanto mr dite, poiché la

disgrazia che mi minaccia ini costringe a sì terribile necessità. Andate,

don Giovanni, fate tutto quel più che |


mi tele per rompere le mie catene,
paralumi vieppiù cara la libertà se la otterrò da voi.

Il Tolcdano, a seconda dell’ordine avuto da Mezzomorto, si portò


da luh — Ebbene, Alvaro, gli disse il dcy con grande ansietà, che nuove
mi rechi della bella schiava? 1’ hai tu disposta in mio favore? Se tu poi

m’accerti che inutile riesee ogni speranza di calmare 11 suo dolore e


vincer l' animò suo, giuro perla testa del gran signore, mio padrone,
che denti oggi otterrò con forza quanto si nlcga alle mie preghiere.
1

la

Signore, risposegli dòn Giovanni, non è il caso qui d’un inviolabile


giuramento; voi non sarete costretto di ricorrere alla forza |>er appa-
gare le-vostre brame. I.a schiava è giovin donna che non ha per andò
amato; è tale che sdegnò gli affetti dei più gentili cavalieri di Spagna ;

vivea essa quale una sovrana nel proprio paese, ed ora è qui ridotta alla

dura condizione di schiava, ed un’aniinaorgogliosa non sì facilmente

si dimentica d' essere stata libera. Però questa superba Spagmiola- si

avvezzerà come le altre alla schiavitù, e direi «piasi che non le sembrano
più si pesanti le sue catene : quelle ris|icltose sollecitudini che per essa
avete, e che non si aspettava mai da voi, «juel vostro desiderio di pia-
cerle, -addolciscon le soe pene, e trionfano jioco a poco di sua fierezza
Coltivate, mio signore, questa favorevol disposizione ;
continuate ad

y
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CAPITOLO DECIM0QUOTTO 241
insignorirvi del di lui cuore con il rispetto, e vedrete presto la bella

schiava obbliar nelle vostre braccia la sua Screzia e ’l desio di libertà.


— Quanta gioia mi recano le tue parole 1 sclamb il dey binai per me
:

sì soave speranza è tutto, ed io mi vi abbandono. Sì, io (renerò l’im-


paziente mio ardore, per soddisfarlo poscia e meglio; ma non m’inganni
tu? non fosti forse ingannato tu stesso? Corro tosto da lei; vedrò se
posso scoprir ne’ suoi begli occhi le speranze che tu mi facesti conce-
pire. E sì dicendo fu da donna Teodora, e Zarate scese nel giardino,
ove incontrò il giardiniere ch’era appunto quell'astuto di cui volea
don Giovanni valersi per trarre di schiavitù la vedova di Cifuentes.
Il giardiniere, chiamato Francisco, era di Navarra: avea gran pratica

di Algeri, chè fu schiavo d’altri molti prima d’esserlo del dey. —Fran-
cisco, amico mio, gli disse don Giovanni, tu mi vedi afflittissimo. Trovasi
in questo palazzo una giovine damma delle prime famiglie di Valenza;
pregò Mezzomorto di tassare egli stesso il suo riscatto, ma si oppose
il dey perchè n’ è innamorato pazzo. —E a te che importa ? gli disse
Francisco. —È una mia concittadina, rispose il Toledano; i suoi ed i

miei parenti sono intimi amici ,


e tutto farei per ridonarle la libertà.

— Benché la cosa non sia tanto facile, soggiunse Francisco, son quasi
certo che non fallirei il prefissomi scopo, ove i parenti della signora
non si rifiutassero di pagar bene questo servigio. — Nòn v’ha dubbio, ri-

spose don Giovanni, sto io garante della gratitudine loro, e soprattutto


della sua. Donna Teodora è il nome suo, è vedova di un uomo che la

lasciò erede di grandi fortune, ed è ricca al pari che generosa; infine-,

sono nobile e spaglinolo, e la mia parola ti dee bastare.


Ebbene, soggiunse il giardiniere, mi fido di voi e vo' di questo passo
a cercare un rinnegato catalano che conosco da vicino, ed a proporgli...
— Che dici mai maravigliando sciamò
1 il Toledano : e li potresti fidare

d’ nno sciagurato che non arrossì di abiurare per — Quantunque


rinnegato, lo interruppe alla sua volta Francisco, egli è però più degno
di pietà che d’odio, e lo trovereste scusabile, se il suo delitto potesse
trovare una qualche scasa. Eccovi la sua storia ;
— Ei nacque in Barcellona, ed è chirurgo di professione. Vedendo
che i suoi affari non prosperavano in patria, divisò di andare a Carioge-
na , sperando di migliorar sua sorte. S’ imbarcò dunque per Cariogena

jt

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,

242 IL HI AVOLO ZOPPO

con la madre sua, ma si avvennero in un pirata d’Algeri che li fe’

schiavi, e seco li condusse in questa città. Furono venduti, la madre sua


ad un moro, ed egli ad un Musulmano che il malmenò cotanto, che fu

costretto ad abbracciare il maomettismo per porre un termine alla

sua crudele schiavitù, e restituire la libertà alla madre sua, malmenata


anch'essa dal moro suo padrone. Didatti messosi al servizio del pascià,

fc' di molte corse in sul mare, ed ammassò quattrocento palagoni.


Con una parte di questi riscattò la madre sua, e si diè coll’altra a cor-

seggiare por proprio conto.


Si fe’ dunque capitano, comprò un piccolo vascello senza jxinte ,
e
con alcuni soldati turchi che non sdegnarono di unirsi a
i lui, andò a
incrociare fra Alicante c Carlagcna, e non ne ritornò che con nn buon
bottino. Vi fu un’ altra fiata, e le sue corse furono sì felici, che fu ben
tosto in istato di poter armare un grosso vascello, col quale fece con-
siderevoli prede : ma la sua felicità fu solo un lampo. Assalì uu giunto
una fregata francese, e ne tosi malconcio il suo vascello, che a gronde
Stento ricovrò nel porto d’Algeri, e siccome qui si giudica del merito
dei pirati dal successo delle loro imprese, cosi il rinnegato cadde jier

la sofferta disgrazia nel disprezzo dei Turchi. N’ebbe dispetto ed onta:


vendè il suo vascello, e si ritirò in ima casa fuori della città, ove d’al-
lora in poi vive in compagnia della madre sua e di molti schiavi che
lo servono, coi frutti delle sue fatiche.

— Vo bene spesso a trovarlo ,


giacché fummo per lungo tempo
schiavi del medesimo padrone, e si fe’ intimissima quindi la nostra ami-
cizia: son noti a me i suoi più reconditi pensieri, e son tre giorni soli
che con le lacrime agli occhi ei mi dicea di non avere più un momento
di tregua co’ suoi rimorsi, e le mille fiate egli ebbe la tentazione, |>er

assopirli, di mettersi sotto i piedi il turbante, cagione di tanti mali


col rischio d’essere bruciato vivo, e riparare così con una pubblica
ammenda al grave scandalo che diè ai cristiani.

Tale è il rinnegato a cui mi vo’ dirigere, prosegui Francisco, e nomo di


simil sorta non debb’ essere sospetto. Uscirò a momenti- sotto pretesto
di andare al bagno, ed andrò invece a casa sua. Lo jiersuaderò a non
lasciarsi consumare da inerte dolore per aver abbandonato la santa
Chiesa, ma di pensar piuttosto al mezzo di rientrarvi, e che per ottenere

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CAPITOLO DBCIMOQITKTO 443
un cotanto scopo ei dee armare un vascello, e dando a divedere di es-
sere annoiato di sua vita («iosa, di\ isar egli di corseggiar di nuovo, e noi

con quel vascello arriveremo sulle coste di Valenza, e là donna Teodora


gli fornirà di che vivere agiatamente il resto de’ suoi dì in Barcellona.

Si, mio caro Francisco, sciamò don Giovanni, ebbro di gioia per la
speranza che laccagli concepire lo schiavo navarrcse; tutto, tutto pro-
metti a questo rinnegato, e statti certo che sarete ambulile ricompen-
sati meglio che non credete. Ma s|ieri tu che il tuo divisamente possa
effettuarsi senza verun incaglio e proprio come l'immaginasti? — Na-
sceranvi forse degli inciampi, Che adesso non saprei ideare, e allora....
ma lasciate fare a me eri al rinnegato. Intanto, Alvaro, io vi lascio, e
con la speme in cuore che la nostra impresa riuscirà a bene i consola-
tevi ,
giacché ardisco predirvi buone le nuove al mio ritorno.

Furon lunghe, eterne le tre o quattr’ore che Francisco dovè impiegare


nella sua gita |>er il |ioveroToledano, ma lilialmente giunse ad alleviare

la sua mortale ambascia, e dissegli — Parlai al rinnegalo, gli' dissi

qual fosse il nostre progetto, e dopo una lunga e prudente discussione,


fummo d’ accordo eli’ egli comprerà un vascello armato, e die siccome
è permesso di avere degli schiavi per marinai, si varrà di tutti i suoi;
che assolderà ben anche una dozzina di Turdii |>er non destar sospetti,
e lasciar travedere eli’ei voglia corseggiar di nuovo, ma che due giurili

prima di quello destinato perla partenza, s’imbarcherà di notte tempo


con i suoi schiavi soli, e levando cautamente l’àncora, verrà di soppiatto

con il suo schifo a prenderci alla porta del giardino non molto distante
dal lido. Eccovi il piano della nostra impresa; potete ora informare la

bella schiava, ed accertarla che fra quindici giorni non lo sarà più.

Qual gioia per Zarale il poter dare una sì consolante notizia a


donna Teodora Per ottenere la permissione di
I parlarle, cercò, iLgiorno

dopo, Mezzomorto, od incontratolo : — Perdonatemi, signore, gli disse


egli ;
se ardisco domandarvi come v’ abbia accolto la bella schiava ; ne
siete voi più contento?... — Contentissimo, gli rispose ildev: ieri i suoi

occhi non isdegnarono d’incontrarsi ne’ miei: i suoi discorsi, che


dapprima non erano ciré stucchevoli riflessioni su l’attuale suo stato,
non furono misti ad alcun lamento, e parventi anzi clic ascoltasse i- miei
con qualche cnmpinaeuza.

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,

2i4 IL DIAVOLO ZOPPO

Egli è a te, Alvaro, ch’io debbo uu tale cambiamento: vedo che


conosci assai bene le donne del tuo paese. Vo’ che tu le parli ancora

per terminare ciò che si felicemente hai cominciato. Adopra tutta la


tua accortezza ed il tuo spirito per sollecitare l’ istante di mia felicità,

e non larderò a sciogliere i tuoi lacci, e giuroti qui per l’anima del

gran profeta, che rivedrai la patria tua, ricco tanto de' miei doni, da la-

sciar dubbio nel cuore de' tuoi concittadini , se tu ritorni di scliiavitù.

Il f'oledano lusingò ogni volta piò le speranze di Mozzomorto, e

mostrò d’ essere soddisfatto di sue promesse ,


e col pretesto di vo-
lerne sollecitare l’adempimento, fu tosto a riveder la bella cattiva.

La trovò sola nelle sue stanze , essendo occupate altrove le vecchie


schiave. Le narrò tutto ciò che il Navarrese ed il rinnegato avevano
combinato per la comune loro libertà. —E fia vero, sciamò nel tras-

porto di sua gioia, ch'io debba sperar di riveder Valenza, la patria

mia ! Felice me, se dopo tanti perigli e guai, io vi passerò con voi giorni

tranquilli! Ah, don Giovanni, questo è pensier di paradiso! ne dividete


voi con me il piacere? Nello strapparmi all’ infamia che minacciami
il dey, non vi dice il cuor eh’ eli’ è vostra moglie che gl’ involate?

— Ah, sciamò Zarate, traendo dal seno profondissimo un sospiro, que-


ste dolci e care parole avrebbero una possente magia per me , se la me-
moria d’uno sventurato amante non ne amareggiasse tutta la dolcezza!
Perdonatemi, signora ;
questo mio lamento, e consentite meco che
Mcndnza è degno della vosLra pietà. Egli è per voi che abbandonò
Valenza e perdè la sua libertà io lo veggo a Tunisi assai : meno oppresso
dalle sue catene, che non dal disperato pensiero di non avervi potuto
vendicare.
— Ei meritava, è vero, una miglior sorte, disse donna Teodora :

m’ è testimonio il cielo delb graliludin mia per quanto egli oprò in


mio favore , e qual sia lo strazio dell’ anima mia per le pene cb' ei

solile per me; ma terribile necessità non consente che il mio cuor gli

sia compenso ai rendntimi servigi.


Furono interrotte le loro parole dall’arrivo delle due veochie che
servivano la vedova di Cifuentes. Don Giovanni vollò il discorso, ed
assumendo il carattere di confidente del dey ; — Si, bellissima schiava,

disse egli a Teodora ,


voi incatenaste il cuore di lui che yi tieu tra

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CAPITOLO DKC1MOQUIK TO 1 i

ferri. Mezzomorto, il vostro signore ed il mio, il più amoroso ed amabile

di tutti i Turclii , è contentissimo di voi ;


proseguite ad essergli favo- j

revole, ed avranno un termine i vostri affanni. Ed osci pronunciando I

quest’ ultime parole, il coi vero senso non fu inteso che. dalla dama.
Per otto giorni non mutò d’aspetto la bisogna nel palazzo del dcy.
Il rinnegato catalano intanto avea comprato un piccolo vascello quasi
tutto armato, c disponevasi alla partenza: ma sei giorni prima ch’ei
fesse in islato di porsi in mare, don Giovanni ebbe nuovi dispiaceri.

Mezzomorto mandò a cercarlo, e fattolo entrare nel suo gabinetto:


— Alvaro, gli diss’egli, tn sei libero e. puoi partire quando più. ti
j

aggrada per ritornare in Ispagna, cbè suo pronte già le ricchezze (die

ti bo promesse. Oggi ho vednta la bella .schiava, e la sua melanconia,


che tanto di’ infastidiva, mi pare finalmente dissipata; ogni di più il

dispiacere della sua cattività s’ indebolisce , «d io lo trovo amabile


tantoché risolai di sposarla. — Si, fra due giorni ella -sarti mia moglie.
Don Giovanni impallidì a queste parole , e tutto che facesse ogni

i.

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4i6 IL DIAVOLO ZOPPO
i

sforzo per contenersi ,


si accorse il dey della sua sorpresa, del tur-
bamento suo, e gliene domandò la cagione.

— Signore, risposegli il Toledano nella massima confusione, sono,


non v’ha dubbio, un po’ sorpreso che uno dei più cospicui perso-
naggi dell’ impero ottomano voglia abbassarsi al punto di dar la sua

mano ad una schiava : non ignoro che esempi di simili nozze non sono
rari fra’ Musulmani, ma che l’ illustre Mezzomorto che può aspirare
alla mano ed agli affetti delle figlie de’ primi ufficiali della sublime
Porta.... —È véro, si, ne convengo, interruppe il dey, potrei ben an-

che aspirare alla figlia del gran visir, e lusingarmi di succedere alla

carica del suocero; ma ho ricchezze immense e pochissima ambizione.


Preferisco il riposo eri i piaceri al visirato ,
a quel pericoloso onore,

a cui saliti appena si precipita le spesse volte o per i sospetti del sul-

tano, o per le cabale degli invidiosi; sono poi d’altronde innamorato

della mia schiava, e basta la sua bellezza perchè sia degna del grado
a cui la vo’ innalzare.
Ma è d’uopo, soggiunse, che dentr’oggi stesso cangi di religione
per meritarsi l’onore ohe compartir le voglio. Credi tu che per ridicoli
[«•(giudizi non vi acconsenta?.... — No, signore, interrompendolo disse

don Giovanni, son persuaso anzi che tutto sacrificherà per ottenere un
sì alto onore. Permettetemi peri» di dirvi che non dovete nè costrin-
gerla, nè intempestivamente sollecitarla. Non v’ha dubbio che da prin-

cipio l’idea di dover abbandonare una religione da lei succhiata col

latte, potrà sembrarle odiosa..; Lasciatele campo a pensarvi sopra, e

quando rifletterà che voi invece di disonorarla c lasciarla tristamente


incanutire fra l’altre schiave, l’innalzate Ano a voi con un matrimonio

che la colma di gloria, la gratitudine e la vanità faranno dei progressi

sul di lei cuore, c supereranno esse qualunque ostacolo, qualunque


scrupolo. Solo otto giorni che differiate, io son d’avviso che bastar
possano ad ottenere il vostr’intento senza che si frapponga dal canto
suo il quantunque mitiimo incaglio.

Il dey stette per alcuni minuti sopra pensiero, chè la dilazione pro-
posta dal suo confidente non gli andava troppo a sangue, quantunque
il consiglio gli sembrasse assai ragionevole. —Cedo alleine parole, ai

consigli tuoi, Alvaro, gli disse, e benché impaziente io siami di posseder

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C A E1T0I.0 DECIMOQl'lMTO il 7 |

la schiava, starò contento di aspettare ancora per otto giorni; ma tu


va subito a vederla e dirle che, trascorso questo tempo, ella dee accon-
sentire a’miei voleri. Voglio che quello stesso Alvaro, che fu si officioso

per me con essa, abbia l’onor di offrirle la mia mano.


Corse tosto don Giovanni alle stanze di donna Teodora, e la informò
del dialogo avuto con Mezzomorto onde sapesse regolarsi. Le sog-
giunse poi clic fra sci giorni sarebbe pronto a veleggiare il vascello
del rinnegato, e siccome ella mostravasi curiosa di sapere con quale

stratagemma sarebbe nscita dalle sue stanze, essendo tutte chiuse a

chiavistello le porte che conducevano alle scale: — Ciò debbe darvi


poca pena, risposele il Toledano; una finestra del vostro gabinetto
guarda sul giardino , c di là voi scenderete, col mezzo di una scala che
sarà mio pensiero il procurarv i.
biffaltì, trascorsi i sei giorni, Francisco avvisò il Toledano die il

rinnegato preparavasi a partire la prossima notte: equi non è d'uopo


il dirvi che essa fu aspettata con moltissima impazienza. Giunse final-

mente, e, per colmo di fortuna, oscurissima. Giunto il momento di

dar mano ali’ ojiera ,


don Giovanni andò a poggiare la scala sotto la

finestra del gabinetto della bella schiava, che ansiosamente lo aspettava,

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%ig IL DIAVOLO ZOPPO

e che discese tosto in tutta fretta ed agitata molto: appoggiossi poscia •

al braccio del Toledano, e mossero ver la porticina del giardino che

serviva di accorciatoia per andare al mare.


Camminavano tutti e due con solleciti e studiati passi e gustavano i

già anticipatamente il piacere d’esser fuori di 'schiavitù; ma la fortuna,


non anco pacificata con questi sciagurati amanti, suscitò foro una
disgrazia maggiore di quante ne aveano fino allora provate, e che non

si sarebbero mai aspettata.


Erano già fuori del giardino, ed erano li lì per avvicinarsi alio schifo |

che gli aspettava , allorquando un uomo che, credettero dapprima


fosse un compagno della loro fuga, e di cui non sospettava» punto, si

fe’ incontro a don Giovanni con la spada sguainata, e vibrandogliela


in seno: — Perfido Alvaro Ponzio, sciamò, così don Federico di Men-
doza punisce un vii rapitore ; tu non meritavi eh’ io ti sfidassi siccome
uom leale e valoroso.
All’ inaspettato e gagliardo colpo stramazzò il Toledano supino a
terra, e nello stesso tempo donna Teodora eh’ ci sorreggeva, colpita

dalla sorpresa, dal dolore e dallo spavento, cadde svenuta dall’ altra

parte. — Ah Mendoza! dissegli don Giovanni, che mai facesti? tu

I
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CAPITOLO DKClklOQLTMO 449
trafiggesti l'amico tuo. — Giusto cielo! sciamò don Federico, possibile
eli’ io abbia assassinato?.... Abbiti il perdono della mia morte, lo inter-

ruppe Zarate, la colpa è solo del destino, che volle forse cosi porre
un limile alle tante nostre sventure. Si ,
mio caro Meodoza, io muoio
contento, poiché mi è dato di poterti affidare donna Teodora, che potrà
accertarli non essersi la mia ainicizia per le smentita mai.
— Troppo generoso amico, disse don Federico, foor di sè dalla
disperazione, tu non morrai solo, e lo Stesso ferro che ti trafisse, pu-
nirà il tuo uccisore: se l’errore può fare scusabile il mio delitto, cl

non potrà mai consolarmene. Si dicendo, rivolse 1« punta di sua spada

al petto, e cadde bocconi sul corpo di don Giovanni, che svenne, inde-
bolito meno dal sangue che perdea, come il fu della sorpresa c del

furore di Mendoza.

Francisco ed il rinnegato, lontani solo dieci passi dal Inogo ove sno-

cedea sì Orribile scena, e che aveano avute le loro buone ragioni per
non accorrere in soccorso dello schiavo Alvaro, furono maravigliati

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«»0 IL DIAVOLO ZOPPO

poi nell’ udire le ultime parole di don Federico, e più del suo ultimo
alte. Conobbero eh’ egli ertisi ingannato, e che i feriti erano due amici,
e non due rivali, come dapprima aveano creduto : si affaccendarono
allora per soccorrerli, ma vedutili fuor de’ sensi, einnn pure dotata
Teodora tuttavia svenata, stettero in forse di quel che avrebbero fatto.

Francisco propose di condur via la donna e lasciar sulla riva i due cava-
lieri, ove, secando tutte le apparenze, sarebbero morti presto, se non
l’ erano (Uggia. Ma il rinnegato non consenti, e disse che non avrebbe
abbandonato quegli sventurati, le cui ferite potevano, non essere mor-
tali, p clic le avrebbe medicate nel suo vascello, ove teneva tutti gli
stromenti dell’arte sua che non avea ancora dimenticata, e Francisco
si arrese al giustissimo e compassionevole suo dire.

Ma siccome non ignoravano essi di quanta importanza fosse il non


perdec tempo, coll 'aiuto di alcuni schiavi trasportarono nello schifo la

disgraziata vedova di Cifuentes ed i suoi due amanti, di lei assai più

sventurati. Raggiunsero bentosto il vascello, e quando furono tutti a


bordo , spiegarono gli uni le vele ,
gli altri inginocchiati sitila tolda

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CAPITOLO DECIMOQL'INTO 45 i
imploravano il favor del cielo colle più fervide preghiera elio suggerir
poteagli la tema d’essere inseguiti da’ navigli di Mezzomorto.
Il rinnegato, dopo aver incaricato della manovra -uno schiavo fran-

cese che la conosceva perfettamente, rivolse le prime sue cure a donna


Teodora : le restituì l’uso dei sensi, e tanto si adoprò e si felicemente
intorno a don Federico ed al Toledano, che riacquistarono essi pure
gli smarriti sensi. La Vedova di Cifneutes, che svenne nel momento
ili cui don Giovanni cadde ferito, meravigliò forte in trovandosi Al
fianco Mendoza, e quantunque s’accòrgesse benissimo essersi egli

ferito di propria mano per la disperazione di aver trafitto U suo amico,


v etica però sempre in lui l’assassino dell'uomo ch’ella adorava.
Non v’ha più dolorosa situazione di quella di queste tre persone

allorché riacquistarono i sensi loro, e direi quasi che lo stato da cui


furono tratti per le cure del rinnegato, quantunque siiitile alia morte,
era assai men degno di compassione. Donna Teodora fissava in don
Giovanni le sue pupille da cui trasparivano tutti i moti d’ mi’ anima
compresa dal più intimo dolore, dalla più terribile disperazione, e i

due amici non si saziavano dal mirarla con occhi semispenti, traendo
profondissimi sospiri.
Dopo aver passato cosi un alcun tempo in mi tenero ma funesto
silenzio, don Federico il primo rivolse fa parola alla vedova di Ci-

fuenles: — Signora, dissele, son felice di vedervi, almeno prima ch’io


muoia, fuori di schiavitù, Piacesse al cielo Che foste a me debitrice della
vostra libertà t ma ei volte 'riserbare nn tanto bène all’amante da voi

riamato. L'amicizia che nutro per il mio rivale non vnò! ch’io me ne la-

menti, e fo voti, sincèri voti, perche la ferita da me fattagli non gl’im-


pedisca di gioire di tutta la vostra gratitudine. — Nulla rispondea la

sciagurata a quelle' parole. Lungi dall’essere in quel momento sensi-

bile alili sorte di don Federico, sentì suscitarsi incoro tm’ avversione
|icr esso lui, inspiratale dal misero stato in cui giaceva il Toledano.
— Intanto si disponeva il chirurgo a visitare e scandagliare le piaghe
loro. Cominciò da quella di /arate che non trovò gran fatto pericolosa,
non «vendo il ferro che semplicemente strisciato sotto la sinistra

mammella. La relazione del chirurgo diminuì l’afflizione di Teodora,'

e fu motivo' di gioia a don Federico, il qnale volgendosi aU’affliita


4^2 IL DIÀVOLO ZOPPO

signora: — Or son felice, e nolla più. calmi di morire, se l'amico mio

è fuor d'ogni pericolo*- non odierete cosi la mia memoria.

Fu si tenero t'acconto con cui pronunziò queste parole, elio la ve-

dova di C(fuentes .ne fu tocca. Siccome cessava in lei la tema disper-


dere don Giovanni, .cessò ben anche l’odio jiw per don Federico, e
non vide più in lui che un uom degno di tutta la sua compassione. —
Ah Mendoza, gii rispose, spinta da un geoemso sentimento, permettete
che si mediehi la vostra ferita: non sarà forse piò pericolosa di qnolla
dell’amico, vostno. Non vi rifiutate alle sollecitudini 'òhe si hanno pei
vostri giorni: vivete, e se non posso farvi felice, non avrete il dispia-

cere di vedermi in braccio ad un rivale. Ricuserò la mia mano a don


G invaniti, e farò a voi, per compassione e per amicizia, lo stesso sa-
grifizio ch’ei già vi fece.

Don Federico volea rispondere, ma ne lo distolse il chirurgo, che


a giusta ragion temea parlando non s’irritasse il male, e diedesi a
visitar la piaga: la giudicò mortale, poiché la spada avea offeso la parte
superiore del polmone, conseguenza che deducea da un’emorragia

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CAPITOLO DECIMOQMKTO 253
n perdita di sangue die gli potea essere fatalissima. Prestatigli però
i primi soccorsi dell’arte, lasciò i due amici nella camera di poppa so
due letlicciuoli vicini l’uno all’altro, econdusse con sé donna Teo-
dora, la cui presenza potea esserli nociva.

Ma ad onta d’ogni precauzione, fu colpito Mendoza dalla febbre, e


sul cader del giorno l’emorragia aumentò. Non tacque allora il chi-

rurgo che inutile s'era fatto ogni rimedio, e Io avverti che se volea
dire qualche cosa all’amico suo e a donna Teodora, non uvea gran tempo
a perdere. Non è a dire, la costernazione del Toledano a si fatai no-
tizia, e T indifferenza con cui fa accolta da don Federico. Chiamò a
sé la vedova di Cifucotes, che venne a lui in uno stato più facile ad
immaginarsi che non a descriversi.
Le rigavano il volto le lagrime e singhiozzava con tanta fòrza, per coi

ne provò indicibile affanno lo sciagurato Mendoza: — Signora, diasele,


asciugate )e vostre lagrime, frenate il vostro dolore, e a te pure, ba-
rate, io fo la stessa preghiera, soggiunse, dacché si accorse dell'auibascia
che opprimeva l’amico suo: so bene che la uostra separazione debb’
esserti dolorosa, conoscendo troppo la Ina amicizia per dubitarne;
ma deh! abbia esso uno sfogo il tuo dolore, cessato che avrò di esi-

stere, chè troppo mi, addolora in questo istante. Cessi la vostra affli-

zione, essa mi pesa più della perdita di mia vita. Vo’ dirvi per quali
vie il fato che mi persegue mi condusse sta notte sulla riva che tinsi

del tuo e del mio sangue. Voi dovete desiderar di sapere come fu

eh' io prendessi don Giovanni per don Alvaro, « tatto vi dirò Se il

po’ di tempo che mi resta a vivere mi permetterà di narrarvi una sì

funesta istoria. •

Poche ore dopo che il vascello in cui trovavano erasi staccato dall’

altro in cui avea lasciato don Giovanni, ci avvenimmo in nn corsaro


francese che ci assali: s’impadronì del vascello di Tunisi e ci mise a
terra vicino ad Alicante. Non era Ubero ancora che già pensava a ri-

scattare il mioamieo,' ed a tal fine fui a Valenza a radunar dell’oro,


ma udendo che a Barcellona alcuni frali della Redenzione, si prepa-
ravano a spiegar le vele verso Algeri, colà mi portai. Prima perii di
lasciar Valenza, pregai il governatore, don Francesco di Mendoza,
mio zio, ad adoperar tatto il suo credito presso la corte di Spagna per

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254 IL DIAVOLO ZOPPO

ottener la grazia di Zarale cui divisava rieondur meco, c di farlo ri-


mettere in possesso de’ suoi beni , che dopo la morte del duca di
bavera gli erano stati confiscati.

TosUichè fummo arrivati in Algeri, fui nei luoghi frequentati dagli

achiavi, ma io avea un bel che fare a guardarli tutti, non mi fu mai


fattibile di trovar quel eh’ io mi cercava. Incontrai il rinnegalo cata-
lano, a cui questo naviglio appartiene, c lo riconobbi per un tate che
avea altra volta servito mio zio. Gli dissi il motivo del inio viaggio, e lo
pregai di voler fare un’esatta ricerca del mio amico. — Mi rincresce,

mi rispos’ egli, di non potervi esser utile: debbo partire d'Algeri que-

sta notte con una dama di Valenza, schiava del dey. — Ed il nome
di questa dama? gli diss’io. — Ei mi disse che nomavasi. l'eodora.
La sorpresa, che non potei simulare all'annunzio di late notizia, diè

a conoscere al rinnegato qual fosse l’interesse mio per quella dama.

Mi narrò quale fosse il divisato disegno per trarla di schiavitù, e sic-

come nel suo racconto mi parlò dello schiavo Alvaro, io non dubitai
punto eh' egli fosse Alvaro Ponzio stesso. Servite alla jnia giustissima

ira, dissi ,0011 trasporto al rinuegalo: datemi il mezzo di vendicarmi del

mio nemico. — Sarete soddisfatto , mi rispos’ egli) ma ditemi dap-


prima qualsìa il motivo per cui odiate tanto questo don Aivara. —
Gli narrai allora la nostra istoria, e quando l'ebbe udita: — Basta, ri-

sjmhsc, voi non dovete che venir meco questa sera e vedrete il vostro
rivale, e dopo che l’avrete punito, verrete con noi a Valenza in sua

vece per ivi condurre donna Teodora.


Benché impaziente, non obblioi don Giovanni, e lasciai del danaro
pel suo riscatto ad un mercatante italiano, chiamato Francesco Capali
die sta in Algeri e che promisemi riscattarlo se gli venia fatto di
rinvenirlo. Finalmente giunse la notte e fui dal rinnegato che seco
mi condusse su la spiaggia del mare. Ci fermammo dinnanzi ad una
porticina da cui ne uscì un tate che venne ditilato a noi e che ci disse,

segnandoci col dito un uomo ed mia donna che gli teuevau dietro :

— Ecco Alvaro e donna Teodora che mi seguono.


A quella vista divenni furioso, sguainai la spada, mi stagliai contro

a don Alvaro c, persuaso di ferire un odioso rivale, Indissi invece il

fedele amico di cui moveva in traccio. Ma, grazie al ciclo, prosegui

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CAPITOLO DEC1MOQUIXTO 255
con una qualche gioia, il mio furore non gli costerà la vita, nè lun-
ghe, eterne lagrime a donna Teodora.
— - Ah Mendoza, sciamò la dama, voi non rendete giustiziasi mio
cuore: sarò inconsolabile di vostra perdita : quand’anche io sposassi

l'amico vostro, ciò sarebbe solo per piangervi insieme. Il vostro amore,
l’amicizia vostra, le sgraziate vostre avventure sarebbero il continuo
soggetto de’nostri discorsi. — Basta, madama, questo è troppo, io non
merito che vi affliggiate tanto per me. Permettete, ve ne scongiuro,
permettete che Zarate vi sposi, dopo che vi avrà vendicata di Al-
varo Ponzio. — Don Alvaro non è più, disse la vedova di Cifucntes :

lo stesso di che mi rapia, fu ucciso dal corsaro che mi fece schiava.


- — Signora, soggiunse Mendoza, questa notizia mi è cara, il mio
amico sarà così più presto fortunato ;
seguite liberamente i moti del
vostra cuore. Veggo appressarsi con gioia ristante che torrà l’ostacolo
posto dalla vostra compassione e dalla sua generosità alla comune
vostra felicità. Possano tutti i vostri giorni scorrere tranquilli in seno

del riposo e della concordia, senza che mai funestati siero dalla fredda

gelosia. Addio, signora, addio, don Giovanni; ricontatevi amcndue


d’un uomo che vi amò sopra ogni altra cosa su quella terra.
Ma accortosi che la damale il Tolcdano, anziché rispondergli, pian-
gevano ogni volta più, e sentendosv-omai vicinissimo all’altimo so-
spiro, don Federico proseguì : — Si, io mi lascio troppo intenerire, e

sta già la morte per colpirmi senza eh’ io abbia pensato ancora a pre-

gare I» divina bontà di perdonarmi d’aver troncato io medesimo il Qlo

d’ nna vita dì cui ella sola potea arbitrare. — Ciò detto, alzò gli oc-

chi al, cielo con tutte le apparenze d’ un verace pentimento, e soffo-

cato dalla emorragia spirò.


Dira Giovanni si abbandonò allora alla disperazione, portò la mano
alla sua piaga, ne strappò la fascia perchè volca morire ,
ma Fran-
cisco ed il rinnegato si opposero con ogni sforzo alla sua rabbia.
Teodorà ,
spaventata da questo trasporto, unì le sue alle preghiere
di tutti che Lo circondavano per istornarto dal suo divisamente ,
e
furono si tenere, così possenti le di lei parole, che rientrò in se stesso

e permise che si bendasse di nuovo la sua ferita, e l'amore calmò cosi


a poco a poco il furore dell' amicizia. Ma s’ei riacquistò la sua ragione,

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256 IL DIAVOLO ZOPPO

non se ne servì che a reprimere gl’ insensali effetti del dolore, e non

per farne tacere i sentimenti.

Il rinnegato che, fra l’allre cose da lui portate in Ispagna, avea un

eccellente balsamo d’Arabia e preziosi profumi, imbalsamò il corpo


di Mcndoza, cedendo alle preghiere di don Giovanni c di donna Teo-
dora che aveano divisato rendergli a Valenza gli onori della sepoltura.
Intanto non si ristarono mai, durante il viaggio, di piangere e sospi-

rare. Non fu così degli altri dell’equipaggio, e come il vento non cessò
dall’essere propizio, poco tardarono a scoprir le coste della Spagna.

A tal vista, tutti gli schiavi mandarono gridi di gioia, é appena il

vascello toccò felicemente il pòrto di benia ,


ciascuno pensò a’ fatti

suoi. La vedova di Cifuentes e il Toledano spedirono un corriere a


Valenza con lettere per il governatore e per la famiglia di donna Teo-
dora. La nuova del ritorno di questa dama fu accolta eon molto giu-
bilo da’ suoi parenti ,
ma don Francesco Mendoza provò- una viva af-
flizione per la morte di suo ni|>ote.

E ch’ei lo fosse si vide quando, accompagnato dai parenti della


vedova di Cifuentes, si portò a Ilenia e volle vedere il cadavere

dell'Infelice don Federico: questo buon vecchio lo bagnò di sue


lagrime, cosi profondamente si lamentò, che tutti gli spelta tori ne

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CAPITOLO DtCIXOgil.lTO 2.">7

furono inteneriti. Domandò poscia la cagione della morie di suo


nipote.
— Ve la narrerò, o signore, gli disse il Toledano; anziché cercare
di sbandirla dalla mia memoria, provo una funesta si, ma soave gioia
in rammentarla sempre ed in nutrire il mio dolore. — Narri) allora il

tristo caso e un tal racconto gli costò nuove lagrime. Quanto a Teo-
doni, i di lei parenti le diedero, in rivedendola , mille dimostrazioni
di sincera gioia, e si cnngratularon seco del prodigioso minio con cui
erasi liberata dalla tirannide di Mezzomorto.
Dopo nna chiara e precisa contezza di tutto che era successo , fu

collocato il oor|x> di don Federico in una carrozza e condotto a Va-


lenza, dove non venne seppellito, che vicina essendo a spirare la durata

del governo ili don Francesco, preparavasi questi a tornare in Madrid,


ove volle fosse portato il cadavere del nipote.
Nel mentre faeevansi i preparativi jier il convoglio, la vedova di
Cifuentes colmò di ricchezze Francisco e il rinnegato. Il Navarrese si

ritirò nella sua provincia ed il rinnegato tornossene con la madre sua


a Barcellona, ove fattosi di bel nuovo cristiano, mena ora una vita ab-
bastanza agiata e tranquilla. Ricevè frattanto don Francesco un dispac-
cio della corte, nel quale eravi compiegata la grazia di don Giovanni,
conceduta dal re malgrado ogni suo riguardo alla famiglia de’N'axera,

jier aderire alle brame di tutti i Mendoza che uniti gliel’ avevano ri-

chiesta. Fu tanto più gradita al Toledano questa notizia in quanto che


gli procurava la libertà d’accompagnare il corpo del suo amico, il che
non avrebbe ardito mai senza la sovrana grazia.
Finalmente il funebre convoglio parti seguito da un numero di per-
sonaggi distinti, e giunto apjiena a Madrid, fu seppellito il cadavere
di don Federico in una chiesa dove Zarate e donna Teodora, con il

[rermesso dei Mendoza ,


gl’ innalzarono una magnifica tomba. Nè
si contentarono di ciò; vestirono per un anno intero il lutto, ad ester-
nare il lor dolore e l'amicizia loro.

Dopo dati tanti e non dubbi contrassegni della loro tenerezza per

Mendoza, divennero finalmente marito e moglie; ma don Giovanni, per

un inconcepibile effetto del potere dell’amicizia, ebbe per si lungo


tempo malinconia tale da cui nulla potea distrarlo. Don Federico ,
il

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258 IL DIAVOLO ZOPPO

suo caro don Federico eragli ognor presente al pensiero : quasi tutta
la notte il vedca in sogno, e le più soventi volte pallido e spirante. Il

suo spirito però cominciava a distrarsi da sì melanconiche immagini:


le attrattive dalla sua diletta Teodora, di cui era sempre innamorato,
trionfavano a poco a poco d’una memoria funesta, e cominciava fi-

nalmente don Giovanni ad essere felice; ma pochi giorni sono cadde


da cavallo cacciando, si ferì gravemente alla testa e si formò un ascesso.
Furono innlili i soccorsi dell’arte, ed egli spirò son pochi istanti ,
e
donna Teodora, che vedete dibattersi fra le braccia di quelle due
donne, le quali vegliano sugli effetti della sua disperazione, lo seguirà

forse quanto prima.

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— ,

260 IL DIAVOLO ZOPPO

che non siano proclive a biasimarsi allorché sono lontane l'una dall’

altra, tanto le voglio amiche: voi le frequentate tutte e due, ma siete

più propenso per l’una, ed eccovi dispettosa l’ultra, non già ch’ella

vi ami ,
che di voi non gliene importa un cavolo, la indispettisce solo

la vostra preferenza. Ecco il carattere delle donne gelose troppo


;
le

une dell’ altre per essere suscettive di amicizia.


La storia di questi due amici senza eguali, soggiunse Leandro
Perez ,
è un alcun poco romanzesca ,
ed abbiam già trascorso una
buona parte della notte e poco possono tardare a comparire i primi
raggi de) sole, e spero prima del suo apparire un altro piacere da

voi. Veggo un gran numero di persone addormentale, e vorrei, per


curiosità ,
mi diceste i loro sogni. — Volentieri ,
rispose il Diavolo
voi amale la varietà, ed io vo’contentarvi.
— Suppongo, disse Zambullo, che udrò sogni stravagantissimi.

Perchè ? rispose lo zopppo : voi che avete letto e studiato Ovidio, do-

vreste sapere che questo poeta dice che egli è ai primi albori che son

più veraci i sogni, perchè l’anima è libera già dai vapori degli ali-
menti. — Per me, sciamò don Clcofa, che che ne dica Ovidio, non
credo ai sogni uè punto nè poco. — Avete torto , soggiunse Asmo-
deo: sono bugiardi che alcuna volta dicono la verità. L’imperatore
Augusto, la cui testa valeva un alcun che più di quella d’uno sco-
laro, tcnea conto di quei sogni che lo riguardavano, e buon per lui

che alla battaglia di Filippi per un racconto fattogli d’un sogno ab-
bandonò la sua tenda. Potrei numerarvi mill* altri esempi che vi

accuserebbero di temerità ,
ma li taccio per soddisfare al desiderio

che mi mostraste avere.


Cominciamo da quel l>el palazzo a mano destra. Il padrone di esso
che vedete coricato in quel ricco appartamento è un conte vagheggino
e di larga mano. Ei sogna d’ essere al teatro, rapito in estasi dalla
dolcezza del canto d’una giovine e bella attrice, c stà li li per ce-
dere alla malia della virtuosa sirena.
Nell’ appartamento vicino al suo dorme la contessa sua moglie ,

amante pazza del giuoco. Sogna di non aver più dimaro e che mette
in pegno da un orafo per trecento doppie alcune delle sue gioie, me-
diante una onestissima usura.

!

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,

CAPITOLO DECIMOSKSTO 261


— Nella casa più vicina ,
dalla stessa parte , abita un marchese

che per carattere non differisce gran fatto dal conte, o eh’ è innamo-
rato d’uua celebre civettuola. Ei sogna d’incassare una vistosa somma
di danaro ,
presa ad imprestilo, per poter fare alla sgualdrinella un
regalo degno di sè e del suo titolo, ed il suo maggiordomo, che dorme
all’ ultimo piano della stessa casa, sogna che si arricchisce di mano
in inano che va in rovina il suo [ladrone. E bene ! che vi pare di
questi sogni? Vi sembrano forse stravaganti? — AITè, rispose lo stu-

dente, clic Ovidio avea ragione; ma mi nasce la curiosità di supere


chi sia t|uell’uomo là, che con i balli in papigliotli ,
serba dormendo
un’aria di gravità, che fa supporre esser [lussa una persona d'alto
alfare. E un gentiluomo di provincia, rispose il Diavolo, un visconte

arragonese, uno spirito su[>erbo e lìcro. Vedetelo, l’anima sua nuota


in questo punto in un mar di gioia. Ei sogna che un grande gli cede
il passo in una pubblica solennità.
— Ma vedo nella stessa casa due medici fratelli che fanno sogni
molto melanconici. Sogna 1’ uno che si pubblica un editto, il quale
proibisce di pagar que' medici che non guarirono i loro ammalali, ed

il secondo sogna d’un altro editto che impone ad essi di vestire il

lutto per tutti quelli che avranno spedili all’altro mondo.


— La sarebbe pur ottima cosa, sciamò Zainbullo, che quest’ultimo
editto non fosse un sogno, e che il medico si trovasse ai funerali de'
suoi ammalati, come il luogotenente criminale dee trovarsi, in Fran-
cia, presente al supplizio del colpevole ch’egli ha condannato. — Mi
piace il paragone, disse il Diavolo, e non veggo altra diversità fra loro,

se non che l'uno fa eseguir la sua sentenza ,


e l’altro l’ha già ese-
guita da se stesso.

Oh I oh ! gridò lo scolaro ,
chi è quel tale che fregasi gli occhi

e balza precipitoso dal letto? —È un nomo di qualità che sollecita un


governo nella Nuova Spagna. Lo fe' trasalire uno spaventevole sogno.
S’ immaginò, stupite , che il ministro il guardò con occhio bieco. —
Veggo pure una giovin dama che svegliasi non troppo contenta di
sè. — È una fanciulla di non oscuri natali, altrettanto saggia che bella,

|H‘rseguitata da due bellimbusti che l’ adorano; ne ama uno tenera-


mente, ed ha per l’altro un’antipatia tale che si avvicina quasi all’odio.

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462 IL DIAVOLO ZOPPO

Sognava or ora che questi ,


eh’ ella detesta ,
erasi prostrato a’ suoi

piedi, e eh’ erano sì tenere le sue parole che se non si risvegliava,

, ‘ •'(

non sarebbe stata certa di sè e divenir polca infedele ,


tanto può

talvolta l’importunità.

— Dirigete i vostri sguardi su la casa d’angolo di questa contrada;

ell’è quella d’un procuratore. Vedetelo ;


ei dorme con sua moglie, in
una camera addobbata d’una vecchia tappezzerìa storiata e di due
letti gemelli. Sogna d’andar allo spedale a visitar uno de’ suoi clienti

per assisterlo con il danaro già proprio di quell’infelice; ed a sua


moglie pare che il marito stia cacciando di casa sua un sostituito
eh’ esserlo vorrebbe di camera e di procura.
— Sento d’intorno a noi qualcuno che russa, e credo sia quegli

ehe abita nella casetta vicino al procuratore. — Si, è vero, disse


Asmodeo, è un religioso che sogna di salmeggiare.

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CAPITOLO DECIMOSESTO 263
— Egli ha per vicino un mercatante di stoffe in seta che suol ven-

derle assai care ma a credito ed ai soli gentiluomini. Questo mer-


cante trova sulla partita del suo avere più di centomila ducati. Ei
sogna che tutti i suoi creditori gli portano danaro, ed i suoi corri- i

spendenti invece sognano eli’ egli è fallito. — Questi due sogni, disse
lo studente, non saranno usciti dal tempio del Sonno per la medesima
porta. — No, certo, rispose il Demone, il primo, senza fallo, usci dalla

porta d’avorio, l’altro da quella di corno.

— La casa subito dopo quella del mercatante è occupata da un fa-

moso libraio. Pubblicava già poco un libro che fu assai bene accolto
dal pubblico. Facendolo di pubblica ragione promise all’autore cin-
quanta doppie, se fatta se ne fosse una seconda edizione; sogna ora
di stamparla senza parteciparglielo.

— Oh, non è d uopo domandare da qual porta sia uscito cotesto

sogno, disse Zambullo, e giurerei quasi ch’egli avrà il suo pieno ef-
fetto. Conosco i signori librai, e so che non hanno scrupolo alcuno ad
ingannar gli autori. — Non v’ha nulla di più vero, rispose lo zoppo;

ma non vi sarà male che conosciate ben anche i signori autori ,


i

quali non sono gran fatto più scrupolosi dei librai. Un’avventura,

successa non sono ancora cent’ anni in Madrid ,


ve lo proverà.
— Tre librai cenavano insieme in un’osteria: il loro discorso vol-

geva sulla scarsezza di buoni libri nuovi. — Amici, disse uno dei con-
vitati, vo’ dirvi confidenzialmente come alcuni giorni sono ho fatto un

buon negozio : comprai un originale che a dir vero mi costa un po’


caretto, ma è scritto da un autore !.... è una goccia d’oro. — Un altro

allora prese la parola, e si vantò pur egli di aver fatto un eccellente


affare il giorno precedente. — Ed io, signori, sciamò alla sua volta il

terzo ,
non voglio avere minor confidenza in voi ,
e vo’ farvi vedere
la perla dei manoscritti; oggi solo ne feci il fortunato acquisto. E
tutti e tre levarono di tasca il prezioso capo d’ opera che dicevano
di aver comprato, e, ohi II giudeo errante è il titolo di tutti tre i ma-
noscritti, è un dramma si l’un che l’altro, è lo stesso in somma che
un solo autore vendeva separatamente a que’ meschini librai che cre-
devano di aver in pugno la propria sorte.
— Scorgo in un’altra casa, prosegui il Demonio, un amante Umido

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'
r •

li DIAVOLO ZOPPO
264 IL
I !
I

e rispettoso che svegliassi or ora. Egli ama una vedova vivace mollo,

e sognava, son pochi istanti, d'essere con la sua bella in una folta
I

boscaglia ove con tenere parole le diceva qual fosse l'amor suo, a cui

rispondea la vedova : — Ah !
quanto siete seducente ! e mi persua-
dereste quasi, se non diffidassi di tutti gli uomini ; ma io li conosco... ,

sono ingannatori e non credo alle lor parole : voglio dei fatti. —E
quali fatti, o signora, esigete da me? Amate ch’io vi provi la violenza

deU’amor mio, intraprendendo le dodici fatiche d'Èrcole? Oh, no, don


Nicasio, no, rispose la dama, non vi chiedo tanto, ma.. .E qui si risvegliò.

— Ditemi in grazia, disse lo scolaro, perche quell’ uomo sdraiato


sur un letto bruno si dibatte come un indemoniato? — Egli è, rispose

lo zoppo , un valente licenziato che disputa in sogno e sostiene l’im-


mortalità dell’anima contro un dottorino in medicina che ò buon catto-

lico quanto buon medico. — Al secondo piano, nella stessa casa del li-

cenziato, abita un gentiluomo d’Estremadura chiamato don Baldassarre

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CAPITOLO DECIMOSESTO «65

K anfanimeli che venne per le poste alla corte a domandare un premio

per aver ucciso un Portoghese con un colpo d'archibugio. Sapete voi


che cosa sogni adesso? I)' aver ottenuto il governo d'Antiquera , e
non è contento ancora, che ambirebbe d’essere viceré.

— Scorgo in una delle primarie locande due personaggi d'alto af-

fare che sognano assai spiacevolmente. L’uno, governatore di una for-

tezza, s’immagina d'essere assediato nel suo castello e che dopo un


breve conflitto deve rendersi prigione con tutto il suo presidio. L’altro
è il vescovo di Murcia : la corte ha scelto questo eloquente prelato a
far l’elogio funebre d’una principessa, e deve recitarlo fra due giorni.
Ei sogna d’essere sul pergamo, e che la memoria lo tradisce detto

appena l’esordio del suo discorso. — Nè sarebbe diffìcile, disse don


('.leofa ,
che un tal contrattemjio gli succedesse. — Oh no, rispose il

Diavolo ,
poiché non è mollo che a lui medesimo accadde una tal

disgrazia.
— Volete ch’io vi mostri un sonnambulo? non avete che a volgere
lo sguardo alle scuderie dello stesso palazzo: chi vedete? — Scorgo, disse
Leandro Perez, un uomo in camicia che cammina elicne fra le mani,
a quel che pare, una stregghia. — Ebbene, soggiunse il Diavolo, egli è

un palafreniere che dorme. Non vi ha notte che non si alzi dal letto

dormendo per stregghiare i suoi cavalli, e ciò fatto, torna a coricarsi.

Si crede da tutti quei di casa che sia questa l’ opera dello spirito fol-

letto, e lo stesso palafreniere lo crede come tutti gli altri.

In un gran palazzo, dicontro alla locanda, abita un vecchio cava-


liere del Toson d’oro, il (piale fu già viceré del Messico. Egli è malato
e siccome teme di morire, la sua dignità comincia ad impiotarlo, c
non sono senza fondamento le sue inquietudini, chi: le cronache della
Nuova Spagna non fanno di lui troppo onorevole menzione. Fece un
sogno il cui orrore non è ancora dissetato dalla sua niente e che forse
lo trascinerà alla tomba. — Del ili' essere, disse Zambullo, un sogno

straordinario molto. — Ve lo dico tosto, soggiunse Asmodeo, giacché


didatti è singolare. — Sognava ,
son pochi istanti ,
d’essere nella valle
dei morti, ore tutti i Messicani, che furon vittime di sua ingiustizia

e della sua crudeltà, gli si scagliavano contro, caricandolo di rimpro-

veri e contumelie; ed anzi voleauo furio a brani; ma ei si diede


>t

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266 IL DIAVOLO ZOPPO

alla fuga e scampò cosi dal lor furore. Dopo gli parve d’essere in una
gran sala tutta addobbata di neri panni, ove incontrò suo padre e
l’avolo suo seduti ad una mensa su cuieranvi tre coperti. Questi due
melanconici convitati gli fccer cenno d’avvicinarsi, e suo padre gli disse

con la solennità propria di tutti i morti: — Egli è da lungo tempo che


ti aspettiamo: vieni a sederti al nostro fianco.
— Che brutto sogno? sciamò lo studente: n’ ba ben donde l’amma-

lato d’esserne ancora spaventato. — Ma sua nipote invece, disse lo

zoppo, che dorme in un appartamento superiore, passa una notte fe-


licissima ,
e vede in sogno le piò lusinghiere e soavi immagini. È
una signorina fra i venticinque ed i trent’anui, brutta e sciancata.

Sogna che suo zio, di cui è l’unica erede, non vive piò, c sembrale
d’essere circondata da una folla di vezzosi bellimbusti che si contra-

stino il di lei cuore.


— • Se non mi sbaglio, disse don Cleofa, si ride dietro di noi.

Nè v’ingannate, rispose il Diavolo; è una donna che poco lontan di

qui se la ride dormendo: ella è una vedova che fa la schizzinosa,

che nulla ama più della maldicenza. Sogna d’essere a stretto collo-
quio con una vecchia bacchettona, le cui ammonizioni la fanno ridere
di tutto cuore.
—E rido anch’io in vedendo in una camera, sotto a quella della
vedova, un tale che vive stentatamente del poco che possiede, e sogna
tuttavia di accumular monete d’oro c d’argento, e che più ne accu-
mula più ne trova da ammassare, si che già n’empiè una grandissima
cassa di ferro. — Meschino! disse Leandro; sarà breve la gioia d’esser

jiossessore d’un tesoro. — Al suo svegliarsi, soggiunse Asmodeo, sic-


come ricco che muore vedrà sparire le sognate ricchezze.
— Volgetevi ora alla sinistra e vedrete un letterato che non ha
mobile nella sua camera che ingombro non sia da libri aperti: qui uno
storico da cui attinse l’argomento d’una tragedia, là un romanziere
dal quale spera di ricavare una commedia, più in là un tragediografo
ed un commediografo , dal primo dei quali ruberà la sceneggiatura

ed i pensieri, e dal secondo il dialogo e lo stile. Ei se la dorme ora

dopo un lungo saccheggio al tragediografo e sogna già un trionfo,


una corona egli è felice, ma non lo sarà se farà di pubblica

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•>

CAPITOLO DECIHOSESTO 267


ragione l’opera sua, chè allora si vedranno alla scoperta tutti i suoi
plagi*.

— Se volete sapere i sogni di due vezzozissime e giovani com-


medianti che stan vicine ,
ve li dirò. Sogna l’una di cacciar con
incomparabile agilità ogni sorta di selvaggina, e che tosto presa, la

spennacchia il meglio che putì c la dà poscia a divorare ed a sciu-

pare ad un bel gatto suo prediletto. Sogna l’altra che scaccia di

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268 IL DIAVOLO ZOPPO

casa alcuni cani levrieri e danesi che furon già per lungo tempo la
sua delizia, non volendo più aver con sè che un botolino dei più
gentili ,
a cui consacrò tutta la sua amicizia.

— Ecco due stranissimi sogni, sciamò lo studente; e credo che

se vi fossero a Madrid, come già altre volte a Roma, degli interpreti

di sogni, sarebbero imbrogliati a darne una adeguata spiegazione.


V’ ingannate rispose il Diavolo. E appena appena sa|>essero ciò che
succede in oggi fra questa comica genìa, vi troverebbero il bandolo
senza aver d’ uopo d’ acutir l'ingegno.
— Pur confesso di non capirne un’acca, soggiunse don Cleofa,
e desidererei di averne una spiegazione.
— Ho promesso di contentarvi in tutto, rispose lo spiritello, quindi

da buon diavolo quale mi vanto di essere ,


eccomi a mantenere la

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CAPITOLO DECIMOSE5TO 269
data parola. La prima che sogna di spennacchiar la selvaggina per
darla al gatto, è tale donna che trae di tasca a’ suoi adoratori fin

l’ attimo maravedis pergittargli poscia malamente in bagordi con un


cialtrone che le è compagno; è la seconda una di quelle donne che
dojK> essersi date ad una vita licenziosa si ravvedono finalmente o
credono di ravvedersi consacrando i loro affetti ad un qualche gio-

vinetto uscito allora allora di collegio, ed il platonicismo quindi serve


loro di riposo alla vita dissipata dei loro primi anni. — Bravo, signor
Asmodeo, sciamò lo studente, vedo che valete quanto gli auguri e
gli aruspici degli antichi a spiegare i sogni. — Dunque, a parer vo-
stro, le visioni di queste commedianti sono guaste idee del dì? —
Precisamente. — Ditemi ora chi sia quella signora che saporitamente
dorme in un superbo letto di velluto giallo ,
guarnito di frange d’ar-

gento e che sul tavolin da notte ha un libro ed un candelliere. —È


mia gentildonna, rispose il Diavolo ;
mia dama che ha carrozza ele-

gantissima, e che si compiace di vederla sua livrea indossata da ben


tarchiati e snelli giovinoti, l'na delle sue abitudini è quella di leggere

da letto, senza di che non potrebbe chiuder occhio tutta la notte. Ieri
a sera leggeva le metamorfosi d’ Ovidio, e questa lettura le fa fare

adesso un sogno bene stravagante : che Giove cioè si è innamorato


delle sue attrattive e che si è posto al suo servigio sotto le forme di
un («aggio dalle membra erculee.
— A proposito di metamorfosi ,
eccone un’altra che sembrami
delle più piacevoli. Veggo nn istrione che assapora, preso da profondo
sonno, tutta la dolcezza deli' adulazione. Egli è sì vecchio che niuno
si rammenta in Madrid di averlo veduto ad esordire. È tanto tempo
eh’ ei calca le scene, che si potrebbe quasi dire teatrificato. Egli è uomo
d' ingegno, ma è sì vanaglorioso , eh’ ei suppone d’essere superiore
a tutta l’umana razza. Sapete voi die cosa sogni codesto vanitoso eroe

da scena ? Ei sogna d’ essere vicino a dar l’ultimo sospiro , e di veder


tutte le divinità dell’ Olimpo in assemblea per decidere che debban
fare d’ un mortale di sì alto affare. Mercurio espone al consiglio degli

dei che quel celebre commediante, dopo aver avuto l’onore di rappre-
sentare sì di sovente Giove e gli altri principali numi, non dcbb’essere
soggetto al comun fato dei mortali, essendo degno d’essere ammesso

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1

270 IL DIAVOLO ZOPPO

a seder fra loro. Plaude Momo all’avviso di Mercurio, ma alcuni fra

gli dei e qualche dea sdegnano di soscrivere a cotanto strana apoteosi;


ma Giove, amico della concordia , trasforma il vecchio commediante

in una statua da peristilio di teatro.

Volea proseguire il Diavolo, ma Zambullo lo interruppe dicendo-


gli: — Allo là, signor Asmodeo, pensate che si fa giorno, echc corriam
rischio d’essere veduti sui tetti di questa casa: se mai il popolaccio
vi scoprisse, noi saremmo esposti agli urli e ai fischi, e non finireb-

bero sì presto.
— Non ci vedranno, risposegli il Demone, poiché sono potente
al par di quelle famose divinità di cui parlammo or ora ;
e come
l’amoroso figlio di Saturno si coprì sul monte Ida d’una nube per

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,

CAPITOLO DKC1MOSKSTO 271


nascondere all’universo il tenero suo colloquio con Giunone, adunerò

così a noi d’ intorno un deuso vapore cui umana vista non potrà pe-
netrare e che non v’ impedirà di scorgere le cose che vi farò osser-
vare. Furouo didatti, e a un tratto, circondali da un fumo il quale,

quantunque opaco, non impediva però in nulla allo studente di veder


tutto come se non vi fosse quel va[iore.
— Ritorniamo ai sogni, continuò lo zoppo... Ma penso, soggiunse,
che il modo con cui vi feci passar la notte debbe avervi un alcun che
stancato. Vo’ dunque trasportarvi a casa vostra a riposare un po’
mentre io percorrerò le quattro parti del mondo, a farne qualcuna
delle mie. Vi raggiungerò poscia ,
e ci divertirem di nuovo. — Non
sono stanco e non ho quindi d’ uopo di riposo ;
a vece di lasciarmi,
compiacetevi di dirmi che frulli nella mente di coloro che veggo già
alzati, e che si preparano, mi sembra, ad uscire. E che faranno essi
di sì buon mattino? — Ciò che bramate di sapere è degno infatti

d’ eccitare la vostra curiosità. Vedrete un quadro di cure ,


di solle-

citudini , di affaccendamenti che i |>overi mortali si danno nel corso

della loro vita, per valicare il meno tristamente che loro sia possi-

bile la breve distanza che corre dal dì della loro nascita a quello
della loro morte.

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I
I

CAPITOLO XVII

Jii cui vi'ggmiM molli originali rito non difettano di copie

io dapprima qne’ mondici die vedete


ere le vie. Sono libertini ,
e la raag-
te di buona nascita, die vivono in

à e consumano la notte facendo bai-


ila propria casa ,
non Sprovvisti mai
, vivande e generoso vino. Eccoli, si

essi e vanno a rappresentar la loro


parte sor i gradini delle chiese; e fatta appena la notte si radune-
ranno di nnovo per fare un brindisi alle caritatevoli persone che
pagano le spese a questi scioperati. Ammirate, ve ne prego , con qual
arte codesti cialtroni sanno mascherarsi per ispirare pietà: una civetta

delle più raffinate non saprebbe meglio acconciarsi per suscitare una
passione nel cuore d’un inesperto giovinetto.
— Considerate attentamente quei tre che vanno insieme. Colui che
si appoggia su due stampelle, che fa tremar tutte le sue membra e che
sembra dover cadere bocconi ad ogni passo, è un lesto e svegliato gio-

vine che vincerebbe un daino al corso, a dispetto della lunga barba

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,

CAPITOMI DKCIMOSETTIMO *73


e dei bianchi suoi capagli che gli danno un’aria decrepita. L'altro che

recita da tignoso, è un bel fanciullo che sotto una lucida [ielle nasconde
una. capigliatura degna d'un paggio di corte; e l’altro che par tutto
attratto , è un furbo che trae dal suo gorguzzolo cosi lamentevoli
suoni da couunovere tutte le donnicciuoie del quartiere, che discendono
dal quarto, dal quinto piano per portargli un maravedis.

Intanto che questi oziosi vanno, sotto la maschera della più squal-
lida miseria, a truffare il pubblico, veggo parecchi laboriosi cortigiani
benché SpagBUoli, che recansi a guadagnarsi il pane col sudore della
loro fronte. Veggo per tutto ovunque degli uomini che si alzano e si

vestono in tutta fretta per andare ad accudire alle loro rispettive in-
combenze. Quanti progetti ideati in questa notte verranno eseguiti
o svaniranno in questo giorno I Quante mene in un sol di per inte-

resse, amore od ambizione!


— Che cosa veggio nella contrada? interruppe don Cleofa. Chi è
quella donna preceduta da un lacchè. Si direbbe , alla premura del
suo passo, che un qualche importante affare la chiama. — Oh si, rispose
il Diavolo: corre essa in una casa in cui si ha duopo del suo ministero.
La mandè a cercare una commediante per essere soccorsa nel suo
male, ed al suo letto intanto vi sono due uomini non poco imbrogliati
nella facceuda. 1,’uno è il marito, è l’altro un ricco -gentiluomo che si

interessa molto a ciò che dee succedere : poi ohe i parti delle comme-
dianti s’assomigliano d’assai a quelli d’ Alcmene : sono esse assistite

sempre in tali circostanze da un Giove e da un Anfitrione.


— Non si direbbe che quell’uomo a cavallo armato di carabina
dovesse essere uu cacciatore che va a mover guerra alle lepri ed alle
pernici dei dintorni di Madrid ? Eppure ei pensa nè punto nè poco che
Tuoni possa divertirsi cacciando: un altro disegno ei volge inanimo:
gli preme di giungere in un villaggio ove si travestirli da villano

per introdursi, sotto quest’ abito, in una fattoria ove abita la sua in-
namorata, gelosamente custodita da una severa e vigilante madre.
— Quel giovine baccelliere che cammina lento lento, è solito
trasferirsi tutte le mattine a far la corte ad un vecchio canonico
suo zio ,
alta cui eredità aspira già da qualche tempo. — Guardate
in questa casa dicontro a noi, un uomo che prende il mantello c
»
274 IL DIAVOLO ZOPPO

preparasi ad uscire. È hii onesto e ricco cittadino, padre di un’unica


figlia da marito ; non sa se conceder la debba ad uri giovin procu-

ratore che gliela ricerca, o ad un fiero idatgo die gliela domanda.


Ei va a consigliarsi con alcuni suoi amici, che non sa proprio a (piai

partito appigliarsi. Teine, scegliendo il gentiluomo, d’aver un genero


die lo disprezzi, concedendola in is[sisa al procuratore, di tirarsi in
casa un tarlo che lo roda.
— Guardate un vicino di questo padre imbrogliato, e vedetelo là

in un appartamento ricco di preziose suppellettili, in veste da camera


di broccato rosso a fiori d’oro: gli è un bello spirito che la fa da
signore a dispetto della vile sua nascita. Dieci anni sono, non era pa-
drone di venti maravedis, ed ora ha diecimila ducati di rendita, ed
una bellissima carrozza, ma ne risparmia la spesa su la tavola, la cui

frugalità è eccessiva, quantunque un’ alcuna fiata, (ter ostentazione ,

inviti a pranzo persone d’alto affare. Oggi ha per convitati due con-
siglieri di stato, e manda quindi in traccia d’ un pasticciere e d’un
cuoco , per andar poscia con essi a mercanteggiare in sulla piazza i

pesci, ì cavoli e va dicendo, e scriver 'poi su d’una carta quali esser

debbano gli stabiliti piatti. — Voi mi dipingete un grande spilorcio!


— Che volete ! rispose Asmodeo ,
tutti gii spiantati ebe arricchirono
ad un tratto, diventano avari o prodighi questa ;
fe 4a regola
— Ditemi chi sia quella bella dama che vedo alla toilttle, e che parla
oon un leggiadrissimo cavaliere? — Si, rispose lo zoppo, poiché ciò
che osservate merita la vostra attenzione. La dama è una vedova
tedesca che vive in Madrid coi fruiti della sua dote, e tiene bellis-

sima conversazione : il giovine ciie è con lei in quest' istante chia-


masi don Antonio di Monsalvo.
Benché questo cavaliere appartenga ad una delle prime case delia
Spagna, egli ha promesso alla vedova di sposarla, con una disdetta di
tremila doppie s'ei mancasse alla data parola: ma si oppongono idi
lui parenti a questo matrimonio, minacciandolo perfino di farlo chiu-
dere in un castello se non tronca ogni relazione con ia tedesca, che
riguardati essi quale un' avventuriera. Dolente il giovine di vederli tolti
contro all’ amor suo, fu ieri dalla sua diletta, la quale accortasi che

non era del solito umore, gliene domandò la ragione. Le svelò egli

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CAPITOLO OHCIMOSETT1MO 275
ogni cosa, accertandola però clic tutte le opposizioni della sua famiglia
non avrebbero mai potuto far vacillare la sua costanza, Soddisfatta
la vedova della fermezza , l’ accommiatò a mezzanotte , lasciandosi
contentissimi l’uno deU’altro.
Mnnsalvn tornò da lei questa mattina, trovò la dama alla loilelle

e ricominciò a parlarle dell’ amor suo. Durante la conversazione, la

vedova tolse dalle ciocche de’ suoi capelli le carte in cui stavano av-

volte ; ed il cavaliere, presane una a caso, la spiegò, e scorgendovi la

propria scrittura; — Come, madama, diss’egli ridendo, fate un tal uso


dei biglietti che vi scrivono? — Si, Monsalvo ,
rispose, ecco il conto

ch’io faccio delle promesse di quegli amanti clic vogliono sposarmi

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,

276 IL DIAVOLO ZOPPO

a dispetto delle loro famiglie. — Quando il cavaliere s’ avvide che la

dama avea realmente lacerato l’obbligo suo di tremila doppie, non


potò a meno di ammirarne il disinteresse c le giurò di nuovo un’ e-
tema fede.

— Volgete gli occhi, prosegui il Diavolo, su quell’uomo alto e min-

gherlino che passa sotto di noi : ha un grande acartafaccio sotto il

braccio, un calamaio appeso alla cintola, ed ima chitarra al collo.


! — Questo personaggio, disse lo studente ,
ha un non so che di ridi-
colo.... scommetterei eh’ egli è un originale. —E vi apponete bene
rispose il Diavolo, giacché non v' ha persona più singolare di lui. La
filosofìa cinica ha radice in Ispagna ed eccovi in esso lui uno de’suoi
seguaci. Si porta verso il Buen-Retiro per andare in un prato, ove
un limpido ruscello serpeggia fra i fiori. Là poi starà tutta la gior-

nata a contemplare ed ammirar le ricchezze della natura, a suonare


la chitarra, a meditare e scrivere poscia le sue meditazioni su del

suo ricordino. Ila in saccoccia il suo solito pasto, un tozzo di pane


cioè, e due o tre cipolle ; ed è questa la sobria vita che mena da
dieci anni a questa parte; e se un qualche Aristippo gli dicesse come
a Diogene: — Se tu sapessi fare la corte ai grandi, non mungeresti
cipolle, questo moderno filosofo gli risponderebbe : — Anch’io saprei

fare la mia corte ai grandi, se volessi abbassare un uomo sino a farlo

strisciare a’ piedi d’ un altr’ uomo.


Questo filosofo, di fatto , ebbe altre volte a che fare con grandi
signori che gli avrebbero fors’ anche procurala una fortuna, ma ac-
cortosi che la loro amicizia non era per lui che una disdicevole ser-
vitù, ruppe ogni legame con essi. Cominciò dallo smettere di tener
carrozza per non infangar persone che valevano assai meglio di lui,

e diede quasi tutti i suoi beni agii amici indigenti, tenendosi solo quel
tanto che potea bastare per menar la vita che vi dissi, chè gli sem-
brava men disdicevole per un filosofo l’andar a chiedere la elemosina
al popolo che ai grandi.

— Compiangete quel povnro cavaliere che tien dietro a questo filo-

sofo, e che vedete accompagnato da un cane ;


ei può vantarsi di ap-

partenere ad una delle più cospicue case della Castiglia. Fu ricco,


ma andò in rovina come il Timone di Luciano , convitando tutti i

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CAPITOLO DKCWOSETTIMO 277
giorni i suoi amici e festeggiando soprattutto le nascite e j matri-

moni de’ principi, in una parola ad ogni -occasione di gaudio per la

Spagna. Ma dacché i parassiti lo ridussero al verde, lo abbandona-


rono, ed un solo fra tanti gli resta fedele: il cane.

— Ditemi, signor Diavolo, sciamò Leandro Perez interrompendolo,


di ehi è quella magnifica carrozza che vedo ferma dinanzi ad una
casa ? — Appartiene , rispose il Diavolo, ad un ricco contador che
tutte le mattine si porta in questa casa ove abita una bella fìallizrana,

protetta da questo vecchio peccatore che l’ama teneramente. Seppe


ieri a sera che la sua diva gli fu infedele e le scrìsse nna lettera piena

di rimproveri e di minacce. Indovinate un po’ come' s’è tratta d’im-

broglio la brìccoucella? a vece di negare imprudentemente il fatto,

scrisse anzi questa mattina al tesoriere che a ragione, era irritato centra

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278 IL DIAVOLO ZOPPO

di lei, cbe non dovea più guardarla che con disprezzo, giacché fa
capace di tradire un uom ai buono ; eh’ ella riconosceva- il suo fallo,

lo detestava, e che per punirsene si era già tagliati i suoi bei cape-

gli, che sapea ben egli se tenevali cari, e che uvea risoluto infine di
andarsi a chiudere in un ritiro per ivi passare nella penitenza il

resto de’ suoi giorni.

Il vecchio amante non seppe resistere all’ idea dei rimorsi della

sua bella ,
e si alzò tosto per andar da lei ;
la trovò immersa nel

pianto : e quest’ abile attrice seppe rappresentar sì bene la sua parte,


che tutto fu perdonato; anzi, per consolarla del sagrifìzio della sua
capigliatura, le promise di comprarle una bella casa di campagna,
posta attualmente in vendita all'Escuriale.
— Tutte le botteghe sono aperte; e vedo già un idalgo entrare
da un locandiere. — Questo cavaliere, soggiunse A smodeo, è un Aglio
di famiglia che ha la mania di scrivere e di volere assolutamente

passare per autore; non manca di spirito, e ne ha tanto che basta


per censurare tutti i drammi che compariscono su le scene, ma non
per comporne uno che resister possa alla critica. Entra egli in
questo istante da on locandiere per ordinare un grande pranzo che
debbono divorar oggi quattri) commedianti da lui invitati per acca-
parrarli a proteggere un suo parto, che debb’ essere rappresentato
dalla loro compagnia.

—A proposito di' autori, continuò egli, eccone là due che s’incon-


trano per via. Vedete, si salutano essi con un sogghigno ironico : si

disprezzano reciprocamente e ne han ragione. L’uno scrive più fa-


cilmente che il poeta Crispino, da Orazio paragonato ai mantici; e
l’altro impiega un tempo infinito a scrivere opere insipide e fredde.
— Chi è quell’ omiccino che scende di carrozza alla porla di quella
chiesa? domandò Zambullo. — Egli è, rispose lo zoppo, un personaggio
degno di considerazione. Non son dieci anni che lasciò lo studio d’uu
notaio dov’ era primo scrivano ,
per andarsi a seppellire nella cer-
tosa di Saragozza. Dopo sei mesi di noviziato, usci dal convento e
riapparve a Madrid ; ma quei che lo conoscevano furono maravigliati
in vedendolo tutto ad un tratto trasformato in uno dei principali

membri del consiglio delle Indie. Si parla ancora adesso di fortuna

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,

CAPITOLO DKCIMOSETIIMO 479


si repentina. Gli uni diceanocbe crasi venduto al Diavolo) volevano

!
gli altri che una ricca -signora.... Tutti ingomma voleano dir la sua
sema che mai.... — Ma voi però sapete la verità, interruppe don
Cleofa. —Oh si, soggiunse il Demonio, ed ecco che vi svelo il mistero.
Un giorno che il nostro novizio scavava nel giardino una pro-
fonda fossa per piantarvi un albero, scopri' una cassetta di rame che
tosto aperse: cravi dentro una scatola d’oro che eonteneva trenta
diamanti di gran bellezza. Benché non fosse gran fatto intelligente
in pietre preziose, si accorse però di aver fatto una bella scoperta,
j

ed appigliandosi tosto al partito che prende un certo Gripo in una


commedia di l'Inuto, il quale rinunzia alla- pesca per aver trovato un
tesoro, ei lascia il cappuccio e torna a Madrid, ove con l’aiuto d’un
gioielliere suo amico cambiò i diamanti in oro, e l’oro iu una carica

;
! che gli dà un grado nella società.

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CAPITOLO XVIII

Ciò che il Diavolo fa osservare ancora a D. Cleofa

tate attento
,
prosegui Asmódeo, che vo’ farvi
ridere narrandovi un fatto di quell’ uomo là

clic entrò adesso nella bottega d’un liquo-


rista. Egli è un medico biscaglino, e va a
prendere una tazza di cioccolato, per Spas-
sarsela poi lutto il giorno giuocando agli
scacchi.

In questo frattempo non abbiate timore per i suoi malati ,


giac-

ché non ne ha alcuno; e quand’anche ei ne avesse, i momenti ch’egli

impiega a giuncare non sarebbero i più fatali per essi. Non trascura

mai di recarsi ogni sera da una vezzosa e ricca vedova che ambi-
rebbe di sposare, e per cui finge un’ amorosa violentissima passione.

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CAPITOLO DECIM0TTAVO 281

Quando è in casa della vedova, un briccone di famiglio, unica |>er-

sona ch'egli abbia al suo servigio, e con il i)uale va perfettamente


d’accordo, viene di tutta fretta a portargli una lista che contiene
i nomi di vari personaggi ragguardevoli che mandarono in traccia del

dottore. La vedova crede ciecamente a tutto, e'I nostro giuocatore


di scacchi sta li li per vincere lu partila.

— Fermiamoci ora dinanzi a quella casa clic ci sta di lianco: non

vo' andar oltre senza clic impariate a conoscere le persone clic la

abitano. Scorrete d’uno sguardo gli ap|>artaincnli ;


che vi scorgete
voi ? — Veggo, ris|Mise lo scolaro, giovani c vezzose signorine che mi
piacciono assai. Alcune si alzano dal lellu in quest’ istante, .altre. lo

sono già, ed una è tuttora coricata. — Come sono seducenti I mi par


di vedere le ninfe di Diana, create e vezzeggiate dalla fervida fan-

tasia dei pdeti.

— Se quelle donne che destano la vostra ammirazione , rispose lo

zoppo, hanno le attrattive delle seguaci di Diana, non giurerei però che

avessero la virtù sua prima. Sono esse quattro o cinque corifee clic

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I

482 IL DIAVOLO ZOPPO

vivono insieme. Altrettanto pericolose quanto le antiche castellane clic


ammaliavano i cavalieri che passavano innanzi alle lor castella, acca-
lappiano esse i giovinetti ,
per beffarli poscia. Sciagurati quelli che

s'iutricano nelle loro reti. Perchè i passeggeri sapessero il pericolo


che corrono qui passando, sarebbe d’uopo piantare dinanzi a questa
casa dei |>ali ad ogni passo con sopravi dei cartelli che dicessero :

« Allontanatevi, o giovinetti, da questa casa, n temete di perdere il

cuore, i danari e la salute ».

Non vi chiederò a qual volta siano diretti que’signori che veggo


già nelle loro carrozze, che ben m’immagino andranno essi dal re.

— L'indovinaste, rispose lo zoppo ; ed anzi se volete andarvi anche


voi, vi condurrò, e vedrete cose che vi divertiranno. — Non potevate
propormi più piacevol cosa, soggiunse Zambullo; e ne sento già
un’ anticipata gioia.
Allora il Diavolo, pronto sempre a soddisfar don Cleofa, lo|>ortù
seco verso il palazzo del re; ma prima di giungervi scorgendo vari
operai che lavoravano intorno ad una magnifica ed alta porta ,
di-

mandò se fabbricavasi essa per una qualclte chiesa. — No, gli rispose il

Demonio, è la porta d’un nuovo mercato, ella è, come vedete uri


|

capolavoro nel suo genere; ma se la innalzassero a toccar fin anche

{
! le nuvole, non sarebbe mai degna dei versi latini che le si debbono
sovrapporre.
— Che mi dite, sciamò Leandro; debbo» essere i gran bei versi!
muoio di volontà d'udirli. — Eccoli, soggiunse il Demonio, cd amnii-

j
rateli :

Quinti bruì Mrreuritu nuuc mrrert r endit opimaj.


Mot tini ititi fatuo* KftuUdìl anlr gale*!

* Quanto a proposito Mercurio vende qui grasce, dove una volta


!

Momo vendeva insipidi sali! •

— Vi ha in questi due versi un giuoco di parole il più bello del


mondo. — Sarà, ma non ne concepisco ancora tutta la bellezza, disse

lo scolaro; nè so che voglian dire le parole fatuo! taler. — Ignorate


dunque, rispose il Diavolo ,
che la piazza in cui si fabbrica il mer-
cato per vendervi derrate, fu altre volte un collegio ove insegnavasi
I

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CAPITOLO DKCIMOTTAVO 285
alla gioventù le umane lettere ? I reggenti di questo collegio vi fa-

ceano rappresentare dai loro scolari drammi ed altre insipide opere

teatrali, tramezzate da stravaganti danze, in cui ballavano perfino i

preteriti ed i supini. — Db, non mi dite altro, sciamò Zani bullo , so


bene che razza di roba sono le commedie di collegio. L’iscrizione

mi sembra ora ammirabile.


— Non appena Vsmodeo e lo scolaro toccarono tascata del palazzo
reale, videro molli cortigiani salirne i gradini. Di mano in mano che
quei signori passavano vicino ad essi, il Diavolo dicea a don Cleofa
i loro nomi. -Ecco, dicea a Leandro Perez, segnandoglieli coll’indice
l' uno dopo l’ altro ,
ecco il conte di Villalonso della casa Puebla
d’Ellerena; ecco il marchese di Castro Fuerte; quello là è don Lopez
de Los Itios, presidente del consiglio di finanze-, questo qui il conte j

di Villa Ombrosa; nè contentavasi di nominarli, che vi facea l’elogio j

di ciascuno; ma questo maligno spiritello vi aggiungea ognora un


qualche epigramma , e dava ad ognuno, insomma, il fatto suo.

— Questo signore, dicea dell’uno, è affabile, gentile; ei vi ascolta

con amorevolezza. Lo richiedete voi di sua protezione ,


ve la con-
cede tosto e si offre tutto a voi. Peccato Che un uomo sì desideroso
di far il bene abbia sì labile memoria, e che un quarto d'ora dopo
che gli avete {variato non si rammenta più di quanto gli diceste.

— Questo duca, diceva, e ne accennava un altro, è un cortigiano


del miglior carattere ch'io mi conosca: ei non è, come la maggior
parte de’ suoi pari ,
volubile e leggiero ; non ha capricci , è sempre
eguale a se stesso, e non peccò mai d’ingratitudine, non obbliò mai
le persone che gli resero un qualche servigio ;
ma sgraziatamente non
è troppo lesto nel dar prove della sua gratitudine. Ei lascia desiar
tanto ciò che aspettasi da lui , che un suo favore potrebbesi dire com-

prato, anziché ottenuto.

Indicate eh’ ebbe il Demonio le buone e le cattive qualità di pa-

recchi signori, lo condusse in una sala ove trovavansi uomini di tutte

le condizioni, e segnatamente tanti cavalieri, che don Cteofa fu co-


stretto sciamare: — Cielo, quanti cavalieri t perdinci, ve ne debbon
essere moki in Ispogna! — Oh si, rispose lo zoppo: nè ciò debbe
maravigliarvi ,
giacché ,
per essere cavaliere di San Giacomo o di

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28 i IL DIAVOLO ZOPPO

Calalrava, non fa d'uofio, coni’ altre volte per diventar cavaliere ro-
mano, d’aver ventieinqueinila scudi di patrimonio : e didatti ve n’ba
di ricchi e di poveri.
— Guardale questa faccia scipita che sta dietro di voi. — Pariate

piano, disse Zambullo interrompendolo ; egli |>otrebbe udirvi. — No,


no, rispose il Diavolo; la stessa malia che ci rende invisibili, fa sì

che non possiamo essere uditi. — Guardate dunque costui: egli è un


Catalano reduce viali’ isole Filippine, ov’era filibustiere. Direste voi,

a guardarlo in viso, cli’ei sia un fulmine di guerra? Eppure ei conta

varie e non dubbie prove di valore. Questa mattina- presenterà una

supplica al re, [>cr ottenere un certo posto in premio de’ suoi ser-
vigi: ma temo che min ne faremo niente, per non essersi indirizzato
prima al ministro di guerra.
— Veggo alla diritta di questo tilibustiere, disse Leandro Perez ,

un uomo alto e grosso clic sembra dur si voglia dell’ importanza: a

dir qual sia la sua condizione dall' orgoglio die gli traspare in volto,

si direbbe ch’ei debba essere lui qualche ricchissimo signore. —


È il rovescio della medaglia, rispose Asmodeo : è un idalgo de' più
poveri, che per poter vivere ricorre di continuo alla protezion d'un

grande.
— Ma veggo un licenzialo, degno d’essere osservato. Egli è quello
che vedete a colloquio vicino alla prima finestra con un cavaliere ve-
stito di velluto cincrino. Le loro parole hanno per argomento un afTare

stato giudicato solo ieri dal re, ed ecco di che si tratta.

Sun due mesi che questo licenziato, di Toledo, pubblicò un libro

di morale, contro il quale si scagliarono tutti i vecchi autori casli-


gliani: lo trovarono pieno d’espressioni troppo ardite e di parole
troppo nuove. Eccoli, tutti d’accordo contro questo libro singolare,
si riuniscono e mandano al re un memoriale, supplicando sia con-
dannato quello scritto , siccome contrario alla purità della lingua
spagnuola.
La supplica parve degna al re di essere presa in disamina, ed elesse
quindi tre commissari per esaminar l’opera. Decisero essere didatti
condannabile lo stile, e tanto più |iericoloso, ch’egli era semplice
e nello stesso tempo sublime. Sul lor ragguaglio, ecco qual fu la

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CAPITOLO DKCIMOTTAVO 285
decisione del re: comandò che que’ medesimi accademici di Toledo,
che d’ora in |xti avessero scritto a seconda dello stile del licenziato,

non potessero più compor libri in avvenire; ed anzi che per meglio
conservare la purezza della lingua casligliana, non fissano succedere
agli accademici, do|N> la lor morte, personaggi d’alta sfera.

— l'n tale decreto è maravigliosn ,


sciamò Zamhullo, ridendo: i

fautori dello siile tronlio nulla hanno più a temere. — Scusatemi,


rispose il Demonio: gli autori, nemici di questa nobile semplicità

che forma la delizia degli uomini di senno ,


non appartengon tutti

all’accademia di Toledo.
— Uu desideroso don Cleofa di saper chi fosse il cavaliere vestito di

velluto ciilerino che vedea in dialogo col licenziato. — - E, rispose lo

zop|>o, un cadetto catalano, ufliciale della guardia spagnuola ; vi ac-

certo eh’ è un giovine spiritosissimo. Vo’, perchè giudichiate del suo

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286 IL DIAVOLO ZOPPO

spirito, citarvi una risposta che diede ieri ad una dama, iu una nu-
merosa e gentile società; ma perchè nulla dobbiate perdere della bel-
lezza e dello spirito di questa risposta è d'uopo sapere ch'egli Ita

un fratello chiamato don Andrea l'rada, eh’ era, non son molli anni,
ufficiale come lui nello stesso reggimento.

l'n giorno un grosso fittamelo delle possessioni reali fermò questo


don Andrea, dicendogli: — Signor di Pruda, io porto il vostro stesso
nome, ma son diverse le nostre famiglie. So che voi discendete da
una delle più nobili prosapie della Catalogna, e nello stesso tempo so
clic non siete ricco. Io lo sono, sebbene d’ima nascila non troppoillustre.
Non ci sarebbe mezzo di diridere fra noi quanto ubbiam di buono
e l’uno c l’altro? Avete voi titoli di nobiltà? — Don Andrea rispose
che sì. — Ciò essendo, soggiunse il fìttamelo, se voi volete comuni-
carmeli, io li metterò fra le mani d’un abile genealogista che vi la-

vorerà sopra tanto, finché abbia trovato mezzo di farci parenti a

dispetto degli avi nostri. Dal canto mio, i>er gratitudine, vi regalerò

trentamila doppie. Che ve ne |*re della proposizione? Essa non è


poi tanto da dispregiarsi? Trenta mila doppiesono un buon boccone
per chi non ha da buttar via, per chi sprecando un solo maravedis
|<otreblH> in capo all’anno trovare uno sbilancio nella sua domestica
economia. — Don Andrea fu commosso da una tal somma, ed accettò
l’oflcrla, diede le sue antiche pergamene al fittaiuolo, e coll'oro che

ne ricevette, comprò un castello in Catalogna, dove passa d’ altura


in poi tranquillissimi i suoi giorni.
— Il suo cadetto adunque, che non ha guadagnato nulla ili tutto

ciò, stava ieri ad una tavola dove [tarlavasi del signor di Pruda, lit-

taiuolo delle possessioni del re, ed una dama della brigata volgendo
la parola a questo giovine ufliziale, gli domandò se il fittaiuolo era

suo parente. — No, signora, risposele: iononho quest’onore, ma si

bene mio fratello.

Lo scolaro die in uno scroscio di risa a tale ris|>osla, che gli sembrò
molto a proposito e spiritosa. Scorgendo |>oscia tutto a un tratto un
omiccino che stava dietro ad un cortigiano, sciamò: — Oh cielo, quante
riverenze fu quell' uomo die vien dietro a quel signore; senza dubbio

vuol domandargli una qualche grazia. — Davvero che vale ben la pena

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• f..
CAPITOLO DECIMOTTAVO 287

ch’io vi racconti la cagione di tutte quelle prostrazioni. Quell’omic-

cino è un buono ed onesto borghese il quale possiede un bella casa


di campagna nei dintorni di Madrid, in un silo in cui scaturiscono

acque minerali che godono di molto credito. Egli cedè per tre mesi,
senza interesse alcuno ,
la sua casa a questo signore che vi andò a
prendere le acque: prega ora, quel povero infelice, ferventemente
questo cortigiano gonfio di sò, che cammina pettoruto, siccome fosse
l’imperatore della Citta, a volergli essere favorevole in un affare

che gli sta mollo a cuore, ed egli, con tutta cortesia, ricusa di
compiacerlo.
— Non bisogna lasciar [lassare inosservato quel cavaliere di razza

plebea ,
che rompe la folla affettando l’ uomo d’ alto affare. Egli è
diventato immensamente ricco in pochissimo tempo con la scienza sola
dei numeri: egli ba al suo servigio tanti famigli quanti ne può avere
un grande, e la sua mensa è meglio bandita di quella d’un ministro
si per isquisitezza di manicaretti che per abbondanza. Ha un treno
per lui, uno per la sua consorte, un altro jior i suoi figli e nelle

sue scuderie le più belle mule ed i più bei cavalli di questo mondo.

Comprò ben anche, in uno dei passati giorni, e pagò in danari con-
tanti, una superba coppia di cavalli che lo stesso prìncipe di Spagna
avea mercanteggiata c trovata troppo cara. - Affé, sciami) Leandro,

se nn Torco vedesse costui in si florido stato , lo crederebbe alla

vigilia d’un qualche rovescio di fortuna. — Ignoro l’ avvenire, disse

Asmodeo ma non posso


,
fare a meno di pensare come la penserebbe
un Turco.
— Oh, che è mai ch’io vedo, prosegui il Demonio con grande
sorpresa. Poco fallirebbe ch’io non dubitassi degli stessi occhi miei.

Non i scorgo in questa sala un poeta, che non ci dovrebb’ essere


certo? Come diacine azzarda egli, codesto satirico [meta, di mostrarsi
in questo luogo dopo avere scritti versi contra quasi tutti i grandi
spagmioli ? È d'uopo ch’ei fondi la propria sicurezza sul disprezzo

che si ha de’fatti suoi.


— Considerate attentamente questo rispettabile personaggio clie
entra adesso appoggiato al braccio d’uno scudiero. Osservate come
tutti, |>er l'alta fama clic gode, lutti si distolgono a dargli luogo. È

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288 IL DIAVOLO ZOPPO

il signor don Giuseppe di Reynarte e Ayala, gran giudice di polizia.


Vien egli dal re per dirgli tutto che accadde questa notte in Madrid.
Considerate questo buon veccliio con 'ammirazione.

— Veramente, Zambnllo,
disse conosce dal suo si volto esser egli

un galantuomo. — Sarebbe a desiderarsi soggiunse ,


lo zoppo ,
clic

tutti i corregidori lo imitassero. Non è uno di quegli uomini violenti


che operan solo come lor detta il cervello, e guidali sempre da un
impelo primo; ei non suole far mettere prigione un uomo sul semplice
racconto d’ un alguazil, d'un segretario od'un commesso. Sa che co-
storo ,
per la maggior parte, sono venali, e non sempre disinteressali

e scrupolosi intorno all’esercizio della propria autorità; quindi, prima


di far imprigionare un accusato, egli appura la faccenda e cerca

9 * ogni via per iscoprire la verità. In questo modo giammai un innocente

^ posto in carcere per colpa sua , c non veggonsi rinchiusi che i

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CAPITOLO DECIMOTTAVO 28 !»
colpevoli, senza abbandonarli |>crò alla squali ula miseria che reggo per

In più nelle (irigioni. Visita egli stesso que’ sciagurati, e nulla tralascia

perchè non si aggiunga la crudeltà al giusto rigore della legge.


— Che liel carattere! sciamò Leandro, che amabile mortale! Sarei
curioso di udirlo a parlare con il re. — Mi dispiace, rispose il Dia-
volo, di non potervi soddisfare in questo nuovo desiderio, senza espormi
ad essere insultato. M’è vietato l’avvicinarmi ai sovrani: sarebbe un
usurpare i diritti di Leviaten, di llelfegorre e di Astarotie. Vel dissi

10 già, questi tre spiriti son quelli che di diritto attorniano i principi.

È proibito agli altri di metter piede nelle corti, e non sapea che mi fa-
cessi, quando mi azzardai di «pii condurvi il confessi), fui un teme- :

rario. Se mi vedessero i diavoli testò nominati , mi si getlrrelihna


furenti addosso; e debbo confessare che non sarei certo il piò forte.
— Ciò essendo, disse lo scolaro, allontaniamoci subito da questo

luogo: sarei addoloralo di vedervi fare alle pugna con i vostri con-
fratelli, senza |H>ler correre in vostro aiuto; poiché m’ immagino che
quand'anche pigliassi parte nel combattimento, non vi sarei utile gran
fatto. — No, senza dubbio, risposi: Asmodeo, poiché non sentirebbero
essi i vostri colpi, c voi perireste sotto il ferreo peso delle loro mani.
Ma, soggiuns’egli, non potendo farvi entrare nel gabinetto del vostro

gran monarca, voglio ollrirvi un altro passatempo, che vi compenserà


di «picllo che avete perduto. Sì dicendo diè di mano a don Cleofa e
11 tras|K>rlò «li volo versi) il monastero de' frali «Iella Itcdenzione.

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,

CAPITOLO XIX

inffermaronsi ambidue su di una casa posta


iu vicinanza del monastero, alla cui porta
|jj
eransi affollate (tersone dell’uno e dell’altro
sesso.— Quanta gente! sciamò Leandro Pe-
rez. Qual è il motivo che qui raccoglie cotanto
popolo? — Si è, rispose il Demonio, una
cerimonia che voi non vedeste mai, quan-
tunque si fuccia di sovente in Madrid. Trecento schiavi, tutti soggetti

al re di Spagna, giunger debbono a momenti: son reduci d’ Algeri


ove i Padri della Redenzione furono a riscattarli. Tutte le vie per cui
debbono passare si affolleranno di spettatori.
—È vero, replicò Zambullo, che non fui curioso ancora di ve-
dere un simile spettacolo; e s’egli è questo quello che vossignoria
mi riserba, vi dirò schiettamente che avreste potuto risparmiarvi di
farmene gola. — Io vi conosco abbastanza, rispose il Diavolo, per
ignorare che non c per voi un troppo gradevole passatempo il vedere

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1

CAPITOLO DKCIMOVOltO 29
degli sventurati ; ma quando saprete che moslrandoveli ho divisato di
scoprirvi diverse particolarità della schiavitù di alcuni, ed il belt’im-
broglio in cui si troveranno alcuni altri tornando alle proprie case,

son persuaso non sarete voi mal contento che vi abbia procurato
questo divertimento. — Oh, no! rispose lo scolaro: sì dicendo, cam-
biaste faccia alla cosa, ed anzi vi sarò grato se manterrete la vostra
promessa.

Nel mentre se la discorrevano essi, udirono lutto ad un tratto le

grida del popolaccio che annunziavano i cattivi che camminavano nell’

ordine che segue. Andavano essi a piedi , due a dne, con tuttavia in
dosso i loro abiti da schiavi, portando ciascuno la catena sulle spalle.
Un gran numero di religiosi delia Redenzione li precedevano a ca-
vallo di mule bardate di stamigna nera, come se fossero in lutto, ed
uno di que’buon padri portava lo stendardo della Redenzione. I più 1

giovani dei cattivi marciavano alla testa, i più vecchi gli seguitavano:
veniva poscia dietro a tutti, sur uu picciolo cavallo, un religioso dello |

stesso ordine , che avea tutta l’aria d’un profeta. Era infatti il capo
!
della missione. Tutti gli occhi degli spettatori erano a lui rivolti per
I

la sua gravità, siccome per una lunga e bianca barba che gli dava
un aspetto venerabile. Leggevasi in faccia a questo Musò spaglinolo
la non dicibil gioia che sentiva in ricondurre tanti cristiani ai putrii
|

focolari.
|
j

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!

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*.m IL DIAVOLO ZOPPO

— Questi schiavi, disse lo zoppo, non sembrano tutti egualmente


contenti d’aver acquistata la loro libertà. — Se ve n’ha qualcuno che

sia |>ago d’ essere vicino a rivedere i suoi parenti , ve ne son taluni


che temono che nella loro assenza non siano accaduti nelle loro fami-
glie avvenimenti più crudeli per essi della stessa schiavitù.
— l'er esempio, i due clic camminano innanzi a tulli sono in questo
caso. L’uno, nativo della piccola città di Velilla nell’ Aragona, dopo
essere stato dieci anni schiavo dei Turchi, senza aver mai avuto no-

tizia alcuna di sua moglie, la troverà passata a seconde nozze, c ma-


itre di cinque figli. L’altro, figlio d’un mercatante di lana di Segovia,

fu rapito daun corsaro, sarnn quattro lustri. Teme egli.chc dopo tanti

anni la sua famiglia non siasi inqiovcrita ,


e non dubita a caso: il

padre c la madre sua morirono, ed i suoi fratelli, che già spartirono

l’eredità, la scialacquarono colla loro mala condotta.


— Fissandolo bene, riconosco in un cattivo, disse lo studente,
una faccia allegra, per cui direi ch’egli è felice per non essere egli
più uno schiavo soggetto ai capricci d’un padrone brutale. — Oh si,

quel giovine, rispose il Diavolo, ha ben d’onde essere contento di


aver riacquistatala libertà; ei sa clic una zia, di cui è l’unico crede,

cessò di vivere, c che quindi egli diventa padrone d’immense ricchezze:


piena la mente di si bella prospettiva , lascia trasparir sul volto la

gioia che in lui notaste.


— Ma non la è cosi |«i quel povero cavaliere che cammina al suo
fianco: l’agita una crudele inquietudine, ei non ha requie, ed ecco- j

vene il motivo. Allorché fu fatto schiavo da un pirata algerino, mentre


disegnava lasciare la Spagna per andare in Italia, egli era riamato
amante d’ una gentile damimi ;
teme adesso che mentre ei vivea tra i

ferri, la fedeltà della sua bella non sia stala delle più costanti. — Fu
lunga la sua schiavitù? domandò Zambullo. — Diciotto mesi, rispose
Zambullo. — Oh, per bacco ! sciamò Leandro Perez; io credo clic si

abbandoni ad un vano timore ; la costanza della sua donna non è jxiì

stata sottoposta ad una troppo lunga prova, perch’egli abbia a spa-


ventarsi tanto. — Siete pur buono, soggiunse lo zoppo; non appena
seppe la diva de’suoi pensieri ch'egli era schiavo in Barberia, che si

diè le mani attorno a procurarsi un altro adoratore.

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capitolo dkcimonoko 293
— Credereste voi, continuò il Demonio ,
clic qnell’unmo clic tien

dietro ai due che testé considerammo, e clic lina prolissa c folta


barlm rossa lo rende spaventevole, sia stato un bellissimo uomo?

Eppure nulla v’ ha di più vero ; e voi vedete in quell’orribile figura


l’eroe d’una storia degna d’essere narrata : eccola.

Ei nomasi Fabrizio. Àvca soli quindici anni quando suo padre, ricco
agricoltore di Cinquello, cospicuo borgo del regno di Leone, morì e
poco tem|io dopo cessò di vivere pur anche la madre sua: essendo
figlio unico, si trovò padrone d'un ricco patrimonio, la cui ammini-
strazione fu affidata ad uno de’suoi zìi, che godeva fama di probità.
Terminò Fabriziu gli studi suoi a Salamanca, dove gli avea comin-
ciati ;
imparò |>oscia la cavallerizza e la scherma, non trascurò insomma
cosa alcuna che renderlo potesse accetto a donna lp]M>lilu ,
sorella

d’un meschino gentiluomo che abitava in una casuccia a due tiri d’ar-

chibugio da Cinquello.

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,

29 i IL DIAVOLO ZOPPO

Era questa dama una bellezza, press'a poco dell’età di Fabrizio ,

il quale, vedutala Gn dall’ infanzia, avea, direi, succhiato col latte

l'amore del quale ardeva per essa. Ippolita, dal canto suo, erasi ben
accorta non mancar egli di personali pregi, ma sapendolo figlio d’un
contadino, non si degnava d’essergli favorevole. Era superba oltre

ogni dire, e quasi quanto suo fratello don Tomaso di Xaral, di cui non

trovavasi in Ispagna un uom più pitocco e più altero della sua nobiltà.

Questo orgoglioso gentiluomo di campagna abitava una casaccia,


ch’egli chiamava il suo castello, e che non era, a parlar vero, che una
rovina, tanto minacciava cader da tutte parti. Non ostante, sebbene

le sue sostanze non gli permettessero di farla ristaurare, avendo


appena appena di che sfamarsi, tenea un domestico al suo servizio
e per soprappiù una negra schiava al fianco di sua sorella.
EH’ era una gran bella cosa il veder comparire a Cinquello, ogni di
festivo, l’orgoglioso don Tomaso, con un abito di velluto cremisino tutto

sgualcito e spelazzato, ed un piccolo cappello guernito d’una vecchia

piuma gialla, tutta tarlala, ch’ei conservava presso di sé, come se fos-

sero reliquie, negli altri giorni della settimana. Adorno di questi cenci

che gli sembravano altrettante prove della sua nobile origine, incedeva

con gravità, e credca di compensare abbastanza le profonde riverenze


che gli faceano nel villaggio, ogni volta che si degnava di corrispondervi

con uno sguardo. Sua sorella non era meno pazza di lui per l’antichità

della sua schiatta , ed aggiungea alla sua pazzia quella d’ essere sì

vanitosa di sua bellezza, da vivere nella felice speme che un di ver-

rebbe richiesta a sposa da un qualche grande di prima classe.


Erano questi i caratteri di don Tomaso e donna Ippolita. Non igno-
rava Fabrizio che per avvicinare persone sì altere, gli era duopo di

appigliarsi al partito di lusingare la loro vanità con finti ossequii, e


ciò fece tanto accortamente, che il fratello e la sorella si degnarono
finalmente concedergli d’ammelterlo sovente a far loro la sua corte.
Siccome ei conosceva che all’orgoglio era compagna in essi la miseria,
non passava dì che non gli venisse voglia d’ offrirgli la sua borsa;
ma per tema d’irritarnc la vanità e la fierezza ei sì trattenne sempre
dal ciò fare: nnllameno la sua ingegnosa generosità trovò modo di

soccorrerli senza che avessero ad arrossirne. — Signore ,


disse un

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CAPITOLO DBCmONOM) 295
giorno al gentiluomo, io lio duemila ducali da mettere io serbo: ab-
biate voi la bontà di tenerli in deposito, ve se sarò obbligato.

É inutile domandare se Xaral vi acconsentiva. Oltre ch'egli era non


troppo bene in fatto di danari, avea poi la coscienza d’un depositario.
8’ incaricò volontieri di quella somma ,
e non l’ ebbe ancora fra le

mani, che ne impiegò una gran parte in riparazioni alla sua casaccia
ed a procurarsi i meglio comodi che potò : un abito nuovo d’un bel-
lissimo velluto turchino fu comprato e fatto a Salamanca, ed una
verde piuma venne rapire alla gialla la gloria che avea da immemo-
rabile tempo di adornare il nobile capo di don Tomaso. La bella Ip-

polita ebbe aneti' essa il suo paraguanto e fu molto bene rimpannuc-


ciata. Egli è così che Xaral spese i ducati che gli erano stati confidati,

senza por mente che non gli appartenevano e che giammai sarebbe
in istato di restituirli : ma non ne provava scrupolo alcuno, e forse,
secondo lui, era giustissima cosa che un uomo d'oscura origine [va-

gasse l'onore di conversare con nn gentiluomo suo pari.


Tutto questo era stato previsto da Fabrizio; ma nello stesso tempo
si era lusingalo che a riguardo, se non altro, de’ suoi denari, dou

Tomaso sarebbe stato seco lui più familiare, e che Ippolita si sarebbe

avvezzata alle sue tenere sollecitudini, e gli avrebbe finalmente per-


donato l’audacia d’innalzare i suoi pensieri inaino atei. E [ver dir

vero, fu ammesso alla loro conversazione con un alquanto più di


garbo , e gli diedero contrassegni d’ un’ amicizia più leale che non
aveano fatto ancora fino a quel giorno. Un uomo ricco è sempre il

ben venuto, quando non niega mai di aprir la borsa agli amici che
ne possono aver d’uopo. Xaral e sua sorella, che non aveano cono-
sciuto ancora che fosse ricchezza ,
se non di nome, appena n'ebbero
gustati i vantaggi, videro che Fabrizio non era uomo da trascurarsi,

e finsero per lui riguardi e cure delle quali fu lietissimo. Sperò che la

sua persona non dispiacesse, e gli parea che doveano essi aver riflet-

tuto che non v’ ha giorno in cui un qualche gentiluomo, per sostener


la nobiltà del suo casato ,
non avesse d’ uopo di ricorrere a paren-

tado plebeo. Con questa speranza, che lusingava l’amor suo, si risolvè

di chiedere donna Ippolita in isposa.

Nella prima favorevole occasione ch’egli ebbe di parlare a don


,

296 IL DIAVOLO ZOPPO

l'omaso, gli disse bramar ansiosamente di diventare suo cognato

e che per giugnereaun tanto onore, non solo il lascerebbc padrone


assoluto dell’ adulatagli somma, ma che gli farebbe per soprappi n
un regalo di mille doppie. Arrossi l’orgoglioso Xaral di una tal pro-

posta, e pieno, gonfio di sè, poco mancò che <piel vanitoso non met-
tesse in piena luce tutto il disprezzo clic nutriva per il miserabile
tìglio d’ un agricoltore. Ciò nonostante, quantunque sdegnato per la

temerità di Fabrizio, si rat tenne; e disscgli di voler consultare su

tal proposito la sorella, ed ove d’uopo radunar ben anche un consiglio


di famiglia.

Licenziato con questa risposta l’amante, Tomaso, adunò diflatti


una dieta composta di alcuni idalghi del vicinato ,
suoi parenti , e
che aveano tutti come lui l’idalgica mania. Li radunò a consiglio,
non già per saper da loro se fossero d’avviso eli’ ci concedere do-
vesse Ippolita a don Fabrizio, ina per deliberare in qual modo dovea
punire quel giovane insolente che, a dispetto degli umili suoi natali,
osava pretendere alla mano d’una nobile fanciulla.
Fatta la narrativa d'una cotanta audacia a quella nobile adunanza,
al solo nome di Fabrizio, figlio dell’agricoltore, gli occhi d’un ciascuno
di quegli idalghi s’ infiammarono di furore: fuoco e fiamme vomitaron
lutti contro quell’ audace: gli uni e gli altri vogliono ch’ei spirar
debba sotto di un bastone , ad espiazione dell’ oltraggio fatto alla

loro famiglia in proponendo un si vituperevole imeneo. Non ostante,

fatte più mature riflessioni sulla proposta, la conehiusione della dieta


fu che si lascierebbe vivere il colpevole; ma che per dargli una
lezione, onde non avesse piò a dimenticarsi la distanza che passa fra
un nobile ed un plebeo, gli si farebbe una gherminella di cui avrebbe
a ricordarsene per lunga data.

Furono proposte le varie mariolerie, e questa fu la prescelta: si

decise che I piallila fingerebbe -di non essere insensibile all’ amore di

Fabrizio, e che sotto pretesto di voler consolare quello sciagurato

amante del rifiuto di don Tomaso di volerlo a cognato, gli darebbe


di notte tempo un appuntamento al castello, e che nel frattempo che
vi sarebbe introdotto dalla cameriera, uomini appostati lo sorpren-
derebbero con la fantesca, che gli si farebbe sposar per forza.

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CAPITOLO DKCIMOVOS'O 497

La sorella <li \aral acconsenti dapprima, senza ripugnanza alcuna,

a siiratta soperebieriat lo parve di dover riguardare siccome una vera


ingiuria clic il tìglio d'un contadino arrischiato si fosse di ricercarla a

moglie. Ma l’orgoglio le ins|>irò bentosto più umani sentimenti; o a


meglio dir l’ainor la vinse sulla fierezza della nobile fanciulla.

I)a quel punto Ippolita vide le cose sotto un altro aspetto: trovò
l’oscura origine di Fabrizio compensata dalle Mie doli ch’egli avea, e

non iseorgò piii in lui che un cavaliere degno di tutto l’amor suo. Am-
mirale, signor Zambullo, ammirate la prodigiosa metamorfosi di cui

fu capace amore: quella medesima fanciulla chu appena un princqie


credea degno di possederla, s’innamora iu un istante del tìglio d’un
agricoltore, ed acconsente a divenirgli sposa, dopo aver rigettato una
tal proposta siccome ignomiuiosa.
Si abbandonò tdl’incliuazione che la trascinava, e lungi dal servire

allo sdegno di suo fratello, coltivò con Fabrizio una segreta intelli-

genza, con l'intramessa della donna mora, che lo farea entrare di notte
jn
298 IL DIAVOLO ZOPPO

Della capauua. S’ insospettì don l'omaso di quel che infatti succedea ;

diè d'occhio a sua sorella e si convinse che a vece di secondare le in-

tenzioni di sua famiglia, segretamente le tradiva. Fece avvisati pronta-

mente due de’snoi cugini, che avvampanti subito di sdegno comincia-

rono a gridare : — Vendetta ,


don Tomaso , vendetta !... Xaral , che
non abbisognava d’altro eccitamento per chiedere ragione d’un’ofTcsa
di simile natura ,
loro disse, con una modestia tutta spagnuola , che
avrebbero veduto quale uso far saprebbe della sua s)>ada ,
allorché
trattavasi d’impiegarla a vendicar l’onore di sua famiglia: li pregò
poscia di trovarsi da lui suH’imbrunir d'una notte assegnata.
Non mancarono all’ appuntamento ed ei gli introdusse e li nascose
in un camerino, all’insaputa d’ogmm che fosse in casa, e li lasciò di-

cendo che quanto prima li avrebbe raggiunti, tostochè l’amante di sua


sorella sarebbe entrato nel castello, ove ardilo avesse di presentanosi

in quella notte ;
ciò che fu, avendo gli amanti scelto quella fatalissima
notte per uno dei loro amorosi convegni.

Stava don Fabrizio con la diletta sua Ippolita. Ripetevano essi i

discorsi che fatti aveano già le cento fiate, ma che son tuttavia sì cari

e sempre nuovi per due esseri che si amino; quando ad un tratto furono

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CAPITOLO DKCIMOMIMO 299
interrotti dai cavalieri che vegliavano a sorprenderli. Don Tomaso ed
i suoi cugini scaglia ronsi tatti e tre coraggiosamente sopra Fabrizio»

il quale non ebbe tempo a mettersi in su le difese; e pensando dagli


atti loro volessero assassinarlo, si battè da disperato. Li ferì tutti e

tre, e presentando sempre a loro la punta della sua spada, fu fortunato


tanto di guadagnar la porta, e porsi in salvo.

Allora Xaral, vedendo fuggirgli di nuovo il nemico, dopo che Cavea


impunemente disonorato, si scagliò furente sulla sciagurata Ippolita, e

le immerse la spada nel cuore : i suoi due parenti, oltremodo avviliti

dalla mala riuscita della loro congiura, si ritirarono feriti alle loro case.

— Tralasciamo per ora questo racconto, proseguì Asmodeo; quando


avrem veduti a passare tutti gli schiavi, terminerò allora la storia di

Fabrizio, e vi dirò poi il come la giustizia dopo essersi impossessala

di tutti i suoi beni, in seguito a sì funesti avvenimenti, egli ebbe la

disgrazia d’essere fatto schiavo viaggiando sul mare.

^Nel mentre voi mi facevate il vostro racconto, disse don Cleofa,


ho notato fra questi disgraziati un giovine sì ‘triste, così languente,

che poco mancò non interrompessi le vostre parole per chiedervi di


Ini. —Fosso soddisfarvi anche adesso, soggiunse il Demonio, e dirvi ciò

che mostrate desiderio di sapere. Quello schiavo, la cui malinconia vi

commosse, è un figlio di famiglia di Valladolid. Già da due anni era in


ischiavilii in casa d’un padrone che avea una bellissima moglie: si

amavano teneramente fra padrona e schiavo; se ne avvide il marito, c


vendè lo schiavo. Il tenero, appassionato Casigliano, piange d'allora

in poi la perdila della sua donna e la riacquistata libertà.

— Un vecchio di dolce ed ilare fisonomia attrae i miei sguardi, disse

Leandro Perez: chi è quell’uomo là? — Il Diavolo rispose: egli è un


barbiere, nativo di Guipuscoa, che tornerà in Boscaglia dopo quaran-
t’anni di schiavitù. Quando cadde in poter d’un corsaro, tragittando
da Valenza all’isola dì Sardegna, avea una moglie, due figliuoli ed una
figliuola ; non gli rimase di tutti questi che solo un figlio che, di lui
più fortunato, fu al Perù d'onde tornò con immense ricchezze al suo
paese, ed ivi fe’ l’acquisto di due belle terre. — Che soddisfazione!
disse lo scolaro, che ebbrezza di gioia per questo figlio di rivedere il

padre suo, e farlo felice negli ultimi dì della sua vita !


!

300 IL DIAVOLO zoppo

— Voi parlate, rispose lo zoppo, «la «pici tenero e«l ottimo giovine
che siete:, ina il tiglio del barbiere biscagline ha il cuore duro<]uanto
il cuoio, e l'arrivo improvviso del padre suo lo tormenta più che non

10 rallegri. A vece di tenerlo con sè a Guipuscoa, e testimoniargli tutta

la sua figliale affezione, poti ebb 'anche durai che lo mandasse a fat-

tore d'una delle sue terre.


— Dietro di questo schiavo che ci pare cotanto ilare, ve n'ha un altro
che si assomiglia come due goccio d’acqua ad una vecchia gamia. — i

G un medico arragonese che non rimase quindici giorni ad Algeri.


Saputa ch'ebbero i Turchi la sua professione, non vollero tenerlo fra
di loro, ed il rilasciarono ai padri della Itedenzionc, senza che aves-

sero a pagare la più picciola moneta per il riscatto, ed anch essi lo

;
ricondussero a malincuore in ispagna.
|

—Voi clic siete si compassionevole |>cr l’altrui |>ene, oh «pianto


compiangereste colesto schiavo che ha sulla calva testa un berretto
di panno bruno, se sapeste tutti i Diali che soffrir dovette in Algeri,

[ier il periodo di dodici anni, in casa d'un rinnegato inglese che la

sorte gli diè a padrone. —E chi è cpiesto sciagurato «attivo? disse

Zambullo. — Un. frate francescano di Navarca, rispose il Diavolo: vi

confesso che son contento ch'egli abbia patito oltre ogni credere,
poiché impedì con la sua facondia a più di cento schiavi di prendere
11 turbante.

— Vi dirò colla stessa franchezza, disse don Cleofa, die mi rin-


cresce che questo buon padre aia stato per si lungo tempo in balìa
d’un barbaro. — Voi vi affliggete a torto etl io unn ho ragione di go-

derne, soggiunse AsiQodeo. Questo buon religioso proGltò cotanto dei


dodici suoi almi di tormenti, che fu più utile per lui passar tutto
questo tempo nelle ambasce, che starsene in una cella a combattere
tentazioni, che forse non avrebbe vinto sempre.
— Il primo, che vien subito dopo il francescano, disse l.eandro
Perez ,
mostra d’essere tranquillo assai : desidererei saper chi egli

sia.— Mi preveniste, soggiunse lo zoppo, io contava di addilarvelo.


Voi vedete in lui un cittadino di Salamanca, un disgraziato padre,
fatto insensibile alle sciagure, tante furono quelle che lo afflissero.

Vo’ narrarvi la pietosa storia di questo schiavo, e lasciar da parte gli I

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CAPITOLO DLCIMOSOSO 301

altri, massime che que’chc vengon dopo non ebbero avventure che
meritino d’essere raccontale.
Lo scolaro, che annniavasi già di tutti que' malinconici aspetti,

non domandava niente di meglio; ed il Diavolo tosto gli fe’il rac-

conto clic diremo nel capitolo seguente.

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CAPITOLO XX

Ultimo racconto di Asmodeo; come fosse interrotto, ed in qual modo


successe la separazione fra lo Studente e il Diavolo

aldo* di Bahabon, figlio di un alcade di

villaggio deila Vecchia Castiglia, dopo aver


«iiv iso con un fratello ed una sorella la poca
eredità che il padre suo, beuchè avarissimo,
gli avea lasciata, parti per Salamanca, fermo
nel pensiero di andar ad ingrossare il nu-
mero degli studenti dell’ università. Era
beilo, spiritoso e toccava appena il vigesimoterzo anno dell’età sua.
Con un migliaio di ducati eh’ei possedeva, ed una non equivoca vo-
cazione di scialacquarli, non tardò molto a far parlare di sé per tutta
la città. Non eravi giovanotto che non ambisse d’cssergli amico; ognuno
faceva a gara per essere delle piacevoli brigate che convitava don
l’ablos quasi tutti i giorni: dissi don Pablos, perch'egli avea assunto
il doti, per essere in diritto di vivere con una maggior confidenza
fra gli scolari, la cui nobiltà poteva tenerlo in qualche soggezione.

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CAPITOLO VIGKS1MO 503
Egli amava tanto l’ allegrìa ed una bene imbandita mensa, e fu sì

poco economico, che in capo a quindici mesi non avea più danaro.
Non cessò tuttavia dallo stravizzo, trovando chi gli facea credenza e

chi gli imprestava una qualche doppia ; ma non andò a lungo che si

trovò crivellato dai debiti, e senza la speranza di trovare ancora chi


gli imprestasse nn soldo.
Gli amici allora, vedendo che più non si banchettava, girarono di
bordo, ed i creditori cominciarono a tormentarlo. Quantunque dicesse
loro che aspettava da un giorno all’altro lettere di cambio dal suo
paese, vi furono di quelli che perdettero la pazienza e lo citarono di-
nanzi ai tribunali, ed erano vicini a farlo imprigionare, allorché pas-
seggiando sulle sponde del torrente Torma, incontrò un suo conoscente
die gli disse: — Signor don Pablos, state all’erta, giacché avete alle

spalle un algnazil con due arcieri , che sembrano volervi mettere le

mani addosso quando rientrerete in città.

Bahabon, spaventato d’un avviso che si accordava troppo bene con


i propri affari, risolvè sull’istante, di fuggirsela e s’avviò ver Corita;
ma lasciò poscia la strada di quel borgo per internarsi in un bosco
-
a’ Ranchi della via, e net quale divisò nascondersi finché giugnesse la

notte a proteggerlo coll'ombre sue, e camminar così con maggiore


sicurezza. Era la stagione in cui gli alberi son più carichi di foglie :

ne scelse uno foltissimo e vi sali sopra, adagiandosi alla meglio sui


di Ini rami che lo nascondevano, a lutti che fossero passati, culle loro

frondi.

Credendosi quivi sicuro, diminuì in lui a poco a poco la tema clic

avea deU'alguazil ; e siccome gli uomini sogliono fare le più belle


riflessioni dopo commessi i falli,’ così gli corse alla mente la sua mala
condotta, e dieea a se stesso che ove fosse di nuovo possessore d’una
somma, non l’avrebbe più sprecata così scioperatamente. Giurò, prima

di tutto, che non sarebbe più lo zimbello di quc’falsi amici che tra-
scinano l'inesperto giovine alla crapula, e la cui amicizia si dissipa

allo svaporar del vino.


Mentre avea la mente piena di sì bei pensieri, clic suecedeansi

con indicibile rapidità gli uni agli altri, sopravvenne la notte. Allora,

stricandosi dai rami e dalle foglie che lo nascondevano, egli era vicino

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30 i IL DIAVOLO ZOPPO

a scendere, quando al debole chiaror della luna, gli pane di vedere

una figura d’uomo. Ristette e fu compreso di nuovo dal timore che


essere potesse l’alguazil, che battendo Torme sue il cercasse per entro

il bosco: e raddoppiò il suo spavento quando a’ piè dell’albero sul

quale egli era, s’assisc quell’uomo, dopo avergli girato intorno due
o tre volle. — Egli stesso, il Diavolo zoppo, interruppe qui il suo rac-

conto : — signor Zambullo, disse a don Clcofa, lasciatemi godere un

po’ dell’imbarazzo in cui siete in questo istante. Voi siete curioso di


saper chi fosse queU’uomo capitato Ih cosi intenqiestivamente, c che

cosa il conducesse: egli è ciò che vi dirò tantosto, non volendo abusar

di troppo della vostra pazienza. — QncITuomo dopo essersi seduto ai

piè dell'albero, le cui foglie non gli permettevano di scorgere don


l’ablos, si riposò |>cr un momento, quindi con un pugnale si adoprò

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,

CAPITOLO VIGESIMO 305


a scavar la terra c fe’ una profonda buca ove sep|>elll un sacco di bu-

falo: riempiè la fossa, la coprì coll’erba e andosseue pe’ fatti suoi.

Bahabon che avea tutto osservalo con grande attenzione, e la cui paura
s’era mutata ìq uno smodata gioia, aspettò che quell’uomo si fosse al-
lontanato per discendere dall’albero e disotlerrarc il sacco, che non
dubitava punto fosse pieno di monete d’oro e d’argento. Si giovò
all’uopo del suo coltello; ma se anche non lo avesse avuto con sè,
era tanta l'impazienza sua ed il suo ardore che colle sole mani sa-
rebbe penetrato sin nelle viscere della terra.

Non appena ebbe il sacco fra le inani, si persuase che non erasi
sbagliato in supporlo pieno di danaro e si allontanò dal bosco con la

sua preda, temendo allora meno di incontrarsi coll'alguazil che col


padrone del sacco. Allegro, ebbro di gioia per un si bel colpo, cam-
minò veloce tutta la notte, sviando ad ogni tratto, senza sentir fatica
o provar incomodo per il dolce peso che seco portava. Sostò allo spun-
tar dell’alba, sotto di alcuni alberi, vicino al borgo di Molorido, non
tanto, a dir vero, per riposarsi, quanto per soddisfare aitine alla cu-

riosità che lo divorava di sajier che cosa vi fosse rinchiuso nel sacco.
Lo slegò ,
con quel dolce fremito che provasi al momento di gustar
un desiato piacere c vi trovò doppie di Spagna, e per colmo di con-
tentezza, ne numerò dugentocinquanta.
— Do|>o averle contemplate con tutta la voluttà passibile, sii diè a
pensare seriamente a’ casi suoi, c, fermato in mente a qual par&to
dovea appigliarsi, si pose in tasca le doppie, gittò 11 sacco che le

racchiudeva c s’awiò felice per Molorido. Fu in un albergo, e mentre


gli imbandivano la dilezione, mandò a cercare di una mula sulla quale
tornò nello stesso giorno a Salamanca.
Si accorse tosto, agli ulti di sorpresa che faceano iu rivedendolo,
che i suoi compagni sapevano qual fosse il motivo per cui crasi allon-
tanato; ma egli avea già tessuto la tavoletta che dovea spacciare : disse
che avendo ormai stretto bisogno di danaro, e non ricevendone dal
suo paese, quantunque avesse scritto per venti fiate di mandargliene
crasi determinato a farv i una gita, e che nel suo giugnere a Molorido,
trovò il fattore che gli portava del danaro, e che ritornò subito a disin-

gannare tutti loro che lo credevano imo spiantato. Soggiungea poi,


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306 IL DIAVOLO ZOPPO

ch’era sua mente di far conoscere a’suoi creditori ch’ebbero torto di


spingere tant’oltre la loro diffidenza, giacché gli avrebbe da lungo
tempo soddisfatti ,
se i linaiuoli fossero stati più puntuali nel por-

targli le proprie rendite.


All’indomani, infatti, radunò tutti i suoi creditori e li pagò tutti.

Gli amici che lo aveano abbandonato nella miseria, appena seppero


che avca di nuovo del danaro, tornarono, più adulatori di prima,
speranzosi di goder nuovamente alle sue spalle; ma alla sua volta
si burlò di loro. Fedele al giuramento che fatto avea nel bosco, ruppe
loro in visiera. A vece della vita dissipata che avea menato sino a quel
dì, non pensò più che a progredire nella scienza delle leggi, c lo studio

divenne la sola sua unica occupazione.


— Per altro, mi direte voi, le doppie ch’ei spendeva non crono
sue. —È vero; ci faceva quello che i tre quarti degli uomini fareb-

bero in oggi in simil caso. Divisava però di restituirle un giorno, se


il caso gli faceva scoprire a chi appartenessero: e contento di questa
buona intenzione, le spendeva allegramente, aspettando pazientemente
di far questa scoperta, ch’egli fece infatti un anno dopo.
— Corse voce per Salamanca come un uomo di quella città, chia-

mato Ambrogio Piquilln, recatosi in un bosco a far ricerca d’uu sacco


pieno d’oro che aveavi seppellito, non rinvenne più che la fossa in

cui lo avea nascosto, e che quindi questo povero disgraziato sarebbe

ridotto alla miseria.

— Debbo dire, a lode di Bahabon, che i segreti rimorsi della sua

coscienza non lo trovarono sordo alle loro voci. S’informò tosto della
dimora d’Ambrogio ed andò a casa sua per vederlo, dove lo trovò dif-

fatti in jin’ angusta stanzuccia, niobigliata solo da una sedia e da un


canile. — Mio amico, gli disse, con una ccrt’aria da ipocrita, seppi
dalla pubblica voce la vostra disgrazia, e la carità volendo che l’un

l’altro ci aiutiamo a norma delle nostre forze, vengo a portarvi un


picciolo soccorso: ma vorrei sapere da voi medesimo le circostanze
della vostra sventura.
— Signor cavaliere, rispose Piquillo, eccovela in due parole. Io
aveva un figlio Qbc rubava in casa; me ne accorsi, e temendo non
mettesse le mani sur un sacco di bufalo nel quale cranvi dngento

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CAPITOLO VIGES1M0 307


cinquanta doppie, immaginai non esservi di meglio che nasconderle
nelle viscere della terra, e le seppellii in un bosco. Dopo quel fatalissimo
giorno, mio tìglio fe'man bassa e disparve poscia con una douna che
rapì. Vedendomi ridotto quasi alla miseria per la pessima condotta di

mio figlio, o a meglio dire per la colpevole mia dabbenaggine, volli


ricorrere al mio sacco di bufalo: ohimè! quest’unica risorsa che re-

stavano ancora mi era stata crudelmente involata.


— Il [«ver uomo non potè terminare queste parole senza che si

rinnovasse la sua ambascia, e diè in un dirotto pianto. Don Pablos ne


fu intenerito, e dissegli :
— Mio caro Ambrogio, non bisogna poi abban-
donarsi alla disperazione per le disavventure di questa vita; le la-
grime sono inutili ,
nè possono far sì che rinvenir possiate pur una
delle vostre perdute doppie, giacché possono dirsi proprio smarrite,

se furono ritrovate da un qualche mariuolo. Ma chi sa? potrebbero

essere cadute nelle mani d’un galantuomo , e venircele a restituire


appena saprà che son vostre. Sperate dunque, poiché non è impos-
sibile che vi sieno restituite, ed intanto eccovi, soggiuns’cgli rega-

landogli dieci doppie di quelle stesse trovate nel sacco di bufalo,

eccovi di che vivere per qualche tempo : venitemi a trovare fra otto
giorni. — Terminate queste parole, uscì dicendogli il suo nome ed
insegnandogli dove abitasse, per evitare i mille ringraziamenti e
benedizioni di Ambrogio, che gli erano di {teso anziché di sollievo.

Ecco quali sono per la maggior parte le azioni generose dei nostri
tempi : non le ammireremmo tutte, se di tutte scoprir ne potessimo
i segreti motivi.

— In capo agli otto giorni, Piquillo, che non eresi dimenticate le


parole dì don Pablos, fu a trovarlo. Bahabon lo accolse con tutta

gentilezza e gli disse: — Amico mio, è tanto il bene che mi dissero di

voi che risolsi cooperare, per quanto mi sarà possibile, al vostro ben
essere sociale : contate dunque sul mio credito e sulla mia borsa.
— E per cominciare iutanto a farvi gioire dell’effetto delle mie pro-
messe, sapete voi che feci io già? Conosco varie distinte persone che
sono caritatevolissime; fui a trovarle, e seppi inspirar loro tanta com-
passione per voi ,
che n’ebbi duecento scudi che vi rimetterò all'istante,
ed entrò diffatti nel suo gabinetto, da cui uscì un momento dopo con

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I

308 IL DIAVOLO ZOPPO

un sacco in cui eravi la somma promessa in tanti scudi, e non più in

oro, per la tema che Piquillo ricevendo altre doppie non sospettasse il

vero; ed in fatti così facendo era un allontanare ogni dubbio che gli

potesse sorgere in cuore, ed ottenere più facilmente lo scopo prefissosi,


ch’egli era quello di fare nel miglior modo possibile la restituzione,

conciliando l’onoratezza con la coscienza.


Ed era Ambrogio in fatti assai lontano dal supporre che quegli

scudi fossero denari restituiti: li ricevette egli siccome il prodotto


d’una colletta fatta in suo favore ,
e dopo nuovi e replicati ringra-
ziamenti, salutò don Pahlos e rii omessene al suo covile, benedicendo
il Cielo che gli fe’ conoscere un cavaliere che si adoperava con tanto
amore al suo ben essere.
— Il giorno dopo incontrò per via uno de’suoi amici, meschino al

par di lui, che dissegli: — Fra due giorni m'imbarcherò per Cadice,

ove un vascello salperà ben presto per la Nuova Spagna : in questo

paese sono disgraziato, ed il cuor mi dice che troverò miglior fortuna


al Messico. Ti consiglierei a venir meco, scmprechè tu potessi avere
un centinaio di scudi.

—Potrei averne anche duecento, rispose Piquillo : e farei volonticri


un tal viaggio, quando fossevi la probabilità di menar vita meno povera
all’ Indie. — Gli vantò allora l’amico cotanto la fertilità della Nuova
Spagna, i mille mezzi ch’eranvi di arricchirsi, che Ambrogio, lasciatosi

persuadere, non pensò più che a prepararsi a partire con lui per Cadice.
Prima però di spatriare scrisse una lettera a liahabon in cui dissegli

aver egli un'assai propizia occasione per trasferirsi all’Indie, e di vo-


lerla cogliere per veder se la fortuna gli arriderebbe meglio fuor del
proprio paese: che coinè di dovere lo facea avvertito, accertandolo
che serberebbe eterna in cuore la memoria de’ suoi benefizi.

— La partenza d’Ambrogio addolorò un poco don Pablos, che scon-


certava il suo divisamente di purgare poco a poco il suo debito; ma
in pensando che dopo alcuni anni sarebbe ritornato Piquillo a Sala-
manca ,
si racconsolò e si diè con maggior solerzia allo studio del

diritto civile e del canonico. Furono rapidi i suoi progressi, sì per


l’applicazione che vi metteva, come (ter l’alacrità del suo ingegno;

dimodoché divenne uno dei più rinomati di quell’università, la quale

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capitolo vigesimo 509
j

il scelse poi a suo rettore. Nè solo sostenne una tal carica con decoro,

per la profonda sua scienza ,


ma tanto coltivò l’animo suo, ch’egli

acquistò, a buon diritto, la fama d’uomo virtuosissimo.


— Nel mentre del suo rettorato seppe ch’eravi nelle prigioni di Sa

lamanca un giovine accusato d’un rapimento e vicino ad essere con-


dannato a morte. Hicordossi allora clic il figlio di Piquillo avea rapita
una donna e volle saper tosto chi fosse il prigioniero, ed avendo sco-

perto ch’egli era il figlio d’ Ambrogio, ne assunse la difesa: e sic-

come nella scienza delle leggi vi ha il vantaggio ch’ella fornisce


armi prò e contro, e siccome il nostro rettore sapea ben maneggiarle
cosi fu di non lieve aiuto all’accusato; 6 tanto si adoprò colla scienza,
e tanto si raccomandò agli amici, chu alla fine I’iquillo usci sano e
salvo, ed ebbe il piacere di vedersi innanzi il suo cliente a ringraziarlo
dell’ ottenuta libertà. — Tutto che feci per voi, gli disse allora don
l’ablos, lo dovete al rispetto che nutro per vostro padre; l’amo, c
per darvene una novella e non dubbia prova ,
vi offro la mia prote-
zione, se divisate di rimanere in questa città, semprechò però vi
meniate una vita onesta ; ed ove poi voleste voi pure trasferirvi all’

Indie, potete disporre da un momento all’altro di cinquanta doppie


ch’io sono pronto a sborsarvi. — Piquillo gli rispose: —Poiché la for-

tuna mi procurò la vostra protezione, sarei uno sconsigliato ad ab-

bandonare questa città: mi fermerò a Salamanca, e vi accerto che

non avrete a lamentarvi della mia condotta. — Gli diè il rettore allora

venti doppie, soggiungendogli: — Prendete, amico mio, fate buon uso


del tem[H> ,
e siale certo clic avrete in me un amico.
-— bue mesi dopo cotcst’ avventura, il giovane Piquillo, che tratto
tratto veniva a trovar don Pablos ,
comparve mi giorno a lui dinanzi

colle lagrime agli occhi. — Che avete, gli disse Bahabon? — Ah, signor
rettore, vengo a dirvi cosa che mi lacera l’anima. Mio padre fu fatto

schiavo da un corsaro algerino ,


ed è tra’ ferri. Un vecchio di Sa-
lamanca, giunto non ha guari da Algeri, ove era stato per dieci
anni schiavo, e che i padri della Redenzione riscattarono non è molto,

mi disse di averlo lasciato colà nella schiavitù. Oh Cielo 1 continuò,

battendosi il petto e strappandosi i capelli: me sciagurato! i miei

stravizzi costrinsero il padre mio a nascondere il suo danaro, ed a

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I

510 IL DIAVOLO ZOPPO

lasciar la patria sua ;


io, io sono il venditore del padre mio al bar-

baro clic lo carica di catene. Ah, don Pablos, perchè mi avete voi

sottratto al rigore della giustizia? Ah! giacché amate mio padre,


perchè non mi lasciaste espiare col sangue il delitto d'cssergli stato

cagione delle tante sue sciagure?


—A tali parole, che davano ampia prova che quel discolo figlio

crasi convertito, il rettore si seuli commosso dall'angoscia di che


Piquillo mnstravasi compreso. — Figlio mio, dissegli, vedo con pia-
cere che siate finalmente pentito de’vostri trascorsi ; asciugate le vostre
lagrime ;
se mi sarà dato di sapere che cosa sin accaduto d'Ambrogio,
accertatevi che il rivedrete. La sua liberazione dipende solo da un

riscatto ed a questo io penserò. Siano esse pure quali essere vogliano le


[tene ch’egli ha sofferte, sono persuaso che al suo ritorno trovando in voi
i

r
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CAPITOLO VIGKSIMO 51 1

un ravvedalo, saggio e tenero ligliuolo, non si lagnerà della sua


inala sorte.

Con questa promessa don Pablos apportò mi' immensa consolazione


al travagliato cuore di Piquillo, e tre o quattro giorni dopo parti
per Madrid, ove, giunto appena, consegnò ai padri della Redenzione
una borsa di conto doppie ed una piccola carta in questi precisi
i

termini concepita : « Abbiano i padri della Redenzione cotosta somma


« per il riscatto d'un povero cittadino di Salamanca, chiamato Ain-
« brogio Piquillo, schiavo in Algeri ». Questi buoni monaci nel loro
viaggio ad Algeri secondarono le intenzioni del rettore ,
e riscat-
tarono Ambrogio, ch’egli è appunto lo schiavo dall’ilare c soave
fisionomia da voi notato.
— Ora mi sembra, disse don Cleofa, che Bahal>on non deve piò
nulla ad Ambrogio. — Don Pablos non la pensa come voi. Restituir

vuol egli il capitale c gl’ interessi. La delicatezza di sua coscienza è

tale chi si fa scrupolo di possedere ben anche i beni ch’egli si è


guadagnato da che è rettore, c quando rivedrà Piquillo divisò dirgli:

— Ambrogio, mio amico, cessate dal riguardarmi siccome vostro


benefattore : voi non dovete vedere in me che quello sciagurato che
impadronivasi del denaro che voi nascondevate nel bosco: non basta
eli’ io vi restituisca le dugento cinquanta doppie, chè avendomene io

servito per giugnere al posto che di presente occupo, egli è obbligo

mio di farvi [ladrone di tutto che mi appartiene, c ritener solo quanto


crederete di lasciarmi.
— Davvero, sdamò Zambullo, ch’egli è questo signor rettore un
uomo degno dell’ammirazione di tutti i mortali. Un essere tale me-

riterebbe una statua ,


massime in questi nostri sciagurati tempi in

cui l’ipocrisia lien luogo di virtù, in cui la maggior parte degli


uomini, simulando uno spirito di carità in faccia
r
al pubblico, sono
poi egoisti in segreto, che tutti gli umani alletti sagrilìcano ad uno
snaturato egoismo.
-Veggo ognora più, soggiunse Asmodeo, che quantunque paz-
zarello avete dei sani principii, ed un animo Ma il Diavolo zoppo
si fermò repentinamente, sorpreso da un fremito che lo fe’ cambiar
di colore.

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—,

314 IL DIAVOLO ZOPPO

— Che avete, che vi successe, sciamò lo scolaro, agitatissimo. Qual


cosa Unito straordinaria vi scuote e troncavi la parola in sulle labbra?
Ah don Leandro, sciamò il Diavolo, con voce fatta tremola dallo spa
vento. Quale disgrazia ! Il mago che leticami prigione nella fiala, s’ac-

corse ch’io non son più nella sua officina, e sta per richiamarmi con

terribili scongiuri a’ quali invano tenterei di resistere. — Misero di

me, sciamò don Cleofa, intenerito quasi al lagrimare: dunque io debbo


perdervi? Dunque ci separerem noi per sempre I — Vo’ sperare di

no; forse l’astrologo avrà d’uopo dell’opera mia, e se sarò fortu-


nato tanto da potergli essere utile in qualche cosa, chi sa che non
mi ridoni la libertà. Si avveri la mia speranza, e Disto sarò da voi

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CAPITOLO VIGESIMO 313
con il patto peri) che non si sappia mai da alcuno ciò che vi accadde

celesta notte; chè se vi avvisaste di parlarne, noi non ci rivedremmo


mai più.

— Quindi soggiunse ; il dolore però di dovervi abbandonare è un

alcun po’rattcmprato per la soddisfazione che provo di aver fattoalmeno


la vostra fortuna. Voi sarete lo sposo della vezzosa Serafino, che per

opra mia è ornai pazza d’ amore per voi. Don Pcdro d’ Escolano di
lei padre ha fermo di volervela concedere in isposa, e farete senno
se non vi lasccretc sfuggire tanta fortuna. — Ma.... ohimè!... ohimè!...

Ecco lo scongiuro del negromante ,


l’ inferno tutto è scosso, com-
preso di terrore dalle terribili, orrende imprecazioni pronunciate da
quel maladetto. Non m’è più concesso di rimaner con voi.... —e
terminando in fretta queste parole, abbracciò don Clcofa, lo trasportò
nelle sue stanze, c tosto disparve, siccome agli occhi sparisce il fulgor

d’un lampo.

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CAPITOLO XXI

Che c©*a fere don Clcofa dopo separalo»» dal Diavolo toppo
e come l'autore avviai» di finire il auo racconto

n momento dopo la sparizione di Asmodeo,


lo scolaro, stanco dello stare in piè tutta
la notte e correr qua e colà, si coricò per
prendere un qualche po’ di riposo. Ma agi-
tato come egli era, non si addormentò che
dopo nn lungo dimenarsi , ed un succedersi
di pensiero in pensiero; ma pagò finalmente,

e con usura, il tributo a Morfeo, quel tributo che gli debbono tutti i

mortali, e cadde in un profondo letargo, nel quale passò tutto quel

giorno e la notte seguente.

Erano trascorse già ventiquattr’ore, quando don Luigi di Lusan,

giovine cavaliere suo amico, entrò nella sua stanza gridando a tutto

fiato: — Olà, oh! signor don Cleofa, su, su, alzatevi. Si svegliò a un
tanto rumore Zambnllo, cd allora don Luigi soggiunse: — Affé che

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,

*
CAPITOLO VIGKS1MOPBIMO 315
voi non v’immaginate ch'egli è da ieri mattina che dormite? — Co-
leste son baie, rispose Leandro. — Baie, baie! nulla di più vero,

continuò l’amico. Sono ventiqualtr’ ore che voi dormite, c tutti di

casa me lo accertarono.
Maravigliava lo studente d’un sì lungo sonno, e sulle prime temeva
che la sua avventura con il Diavolo zoppo non fosse che un’illusione :

ma non potea persuadersene, e rammemorando certe particolarità

non avea più dubbio della realtà di ciò eh’ ei vide ;


tuttavia per ac-

certarsene vieppiù, si vesti di fretta ed uscì con don Luigi, ch’ei con-
dusse dililato alla porta del Sole, senza dirgli il perchè. Giunti che
foronvi, e che scorgè il palazzo di don Pedro tutto in rovina, mostrò
d’ esserne sorpreso. — Che vedo io mai I diss’egli. Qual guasto ha qui
fatto il fuoco. A chi apparteneva questo palazzo? È molto tempo che
abbruciò ?
Don Luigi di Lusan soddisfece alle sue domande, e soggiunse poscia:
— Si è men parlato nella città di questo incendio, per il danno che
ha cagionato, che per una particolarità che vo’raccontarvi. Don Pedro
d’Escolano è padre d’una fanciulla bella quanto umana cosa essere
lo può : dicesi che stando ella in una camera circondata già dalle
fiamme ed invasa dal fumo, ella dovea perire, se un giovine cava-
liere, di cui s'ignora il nome, non giltavasi fra mezzo alle fiamme e
non la salvava da una imminente e disperata morte. Eccovi l’ avven-
tura che corre di bocca in bocca per tutta Madrid. Si magnifica il

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,

316 IL DIAVOLO ZOPPO

valore del cavaliere e credesi che a premio di cosi generosa azione,


benché forse Don sia che solo un semplice gentiluomo, sarà egli lo

sposo dell’amabile figlia del signor don Pedro.


Leandro I’crez ascoltò don Luigi, trattenendosi però dal dar a
divedere di prestar grande attenzione alle sue parole ,
c, trovato un
pretesto per lasciarlo, fn a Prndo ove sedutosi sotto di un albero
s’ immerse in profondi pensieri, e nel tornargli alla mente il Diavolo

zopjH) , cosi fra se stesso parlò: — Se fosse meco il mio caro Asmo-
dco, in poco temilo ini farebbe girare il mondo, senza ch’io avessi

a provare gl’incomodi del viaggio. — Ah 1 la mia fu una gran |ierdila...

ma non sarà forse impossibile eh’ io riveda ancora il mio diletto

zoppo : ei mi disse che il negromante potrebbe ben anche restituir-

gli per sempre la libertà. — Ma dall’un pensiero passando ad un altro

gli corse alla mente don Pedro, la figlia sua, e risolvette di condursi

a ritrovarli, ansioso di vedere la bella Seralina.

Comparso innanzi a don Pedro, quel buon signore gli corse incontro

colle braccia aperte, dicendogli: — Siate il benvenuto, generoso cava-


liere! io cominciava a lamentarmi di voi. E che! diceva io, dopo
aver pregato tanto don Cleofa di venirmi a trovare, egli non è per
anche venuto 1 Come mal corrisponde alla impazienza ch’io provo di
mostrargli la stima e l’amicizia che nutro per esso lui.

— Chinò rispettoso la testa Zainhullo al dolce rimprovero, e disse

al vecchio, come |icr iscusarsi, che temendo d’iinportunarlo il giorno

dopo la disgrazia, avea differita la sua visita. — (libò, questa non è


soddisfacente scusa ,' soggiunse don Pedro: la vostra presenza non

può essere importuna Ih dove sarebbevi la desolazione senza il vostro

generoso soccorso. Ma seguite i miei passi, poiché evvi un’altra per-


sona qui impaziente di testimoniarvi la sua gratitudine —c si di-

cendo, lo prese per mano e lo condusse all’appartamento di Seralina.


Svegliavasi 'la dama ap|ienn allora dal breve sonno del dopo pranzo.
— Figliuola mia, diasele don Pedro, ti presento il gentiluomo che si

coraggiosamente ti salvò la vita : parlagli ora della tua gratitudine

giacché lo stato in cui li trovavi ieri l'altro non ti permise di farlo.

Schiudendo allora la bella Serafino una bocca di rose, volse la


parola a Leandro Perez, e gli fece un si bello e grazioso complimento

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,

CAPITOLO VIGBS1MOPRIMO SI 7

cbe inutilmente mi attenterei di qui ri|>ortare con i suoi colori ,


e
die per me si tralascia anziché alterarlo nella sua minima parte.
Dirò solo che don Cleofa credè di vedere ed udire una divinità ,

e che sconfitto nello stesso tempo dagli sguardi e dalla voce di lei

concepì tosto |>er Seralìna un violentissimo amore ;


ma non isperava
però di poter giugnere a sposarla, nè osava, ad onta delle belle pro-
messe dello spiritello ,
sperare un tanto guiderdone alla prodezza

che ognuno credeva aver egli fatto. l’iù la trovava adorabile, c meno
lusingavasi di |Htterla ottenere.

Ciò poi che lo rendea dubbioso più clic mai si era il non accor-
gersi che don l’edro desse il menomo sentore di volerlo fare suo

genero, ad onta d'ogni cortesia e d’ogni gentile offerta fattegli nel


loro lungo colloquio. Dal suo canto, Serafino, cortese ne' suoi modi

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I

318 IL DIAVOLO ZOPPO

quanto il padre, gli parlò dalla sua immensa gratitudine, senza però

clie le sfuggisse molto da lusingarlo ch’ella nutrisse per lui un tenero


sentimento ;
sicché il povero studente si congedò dal signor d’Esco-
lano, pieno d’amore c vuoto di speranza.

— Asmodeo, amico mio, dicca tornando a casa, come se fosse

tuttavia a’ fianchi del Diavolo, quando mi accertavate che don Pedro


mi avrebbe scelto a suo genero, e che Serafina ardea d’nn vivissimo
amore da voi inspiratole per me, allora voi volevate divertirvi alle

mie spalle, o dovete confessare che non conoscete il presente meglio


di quello che conosciate l’avvenire.

Lo studente non si trovò gran che contento d’ essere stato dalla


signorina, e considerando già la propria passione quale un amore
Infelice che dovea lutto tentare per ispegnere nel nascer suo , fe’

rimprovero a se stesso di aver concepito desiderio di coglier la palla

al balzo, se il padre fosse stato disposto a concedergli la figlia, e pensò


che sarebbe stata una vergogna per lui dovere la propria felicità ad
un artifizio.

Fu quella per l’innamorato studente una notte agitatissima ed


inutilmente cercò una qualche ora di riposo, volgendosi ora sull’uno,
ora sull’altro fianco. La mente sua non era d’accordo con il povero
suo cuore e trascorse cosi vegliando, ruminando c nulla decidendo,
quella lunghissima notte fra il timore c la speme, fra il tutto sve-

lare ed il tutto tacere, benché il primo pensiero prevalesse pur


sempre in quell’animo formato alla virtù.
Egli era tuttora immerso in queste riflessioni, quando don Pedro,
mandandolo a cercare il giorno dopo ,
gli disse : — Signor Leandro
Perez ,
è ormai tempo che vi mostri coi fatti che se mi avete reso
un servigio, non lo rendeste a uno di quei cortigiani che con un
grazie se la sarebbero cavata.

Voglio cho Seraflna stessa sia la ricompensa del pericolo che avete
corso per le): le parlai su tal proposito, ed ella è pronta ad obbedirmi
senza veruna ripugnanza , ed ebbi anzi a lodarmi di lei allorché le
proposi a marito il suo liberatore. 11 trasporto della sua gioia mi diè
a conoscere che la sua generosità non era da meno della mia. La cosa
è dunque conchiusa : voi sarete lo sposo della mia diletta Scrafina.

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CAPITOLO VIGES1V0PIIM0
; 319
Ciò detto, l'ottimo signor d’Escolano, che a giusta ragione si aspet-
tava d’essere ringraziato da don Cleofa per un sì segnalato favore,
fu oltremodo sorpreso di trovarlo confuso, imbarazzato. — Parlate,
Zambullo, disse: che debb’io pensare della freddezza con cui acco-
glieste la mia proposizione? Avvi qualcosa in lei che vi dispiaccia?
Un semplice gentiluomo potrebbe ricusare una parentela di cui si

onorerebbe un grande? Ua forse la mia casa una qualche macchia


da me ignorata ?
— Signore, rispose Leandro, conosco troppo la distanza che tra

noi frappose il Cielo. — E perchè dunque, sciamò don Pedro, perchè


mostrate d’essere sì poco contento d’un matrimonio che vi può ono-
rare? Confessatemi il vero, don Cleofa, voi amate una qualche donna
alla quale giuraste fede, ed ora per serbargliela vi dichiarate ne-
mico alla vostra fortuna. — Se ad un’amante mi legasse un giura-

mento, nulla sarebbevi al mondo che potrebbe indurmi a spergiu-

rare. Non è questo che m’impedisce di approfittare del vostro cortese

invito : un principio di delicatezza vuole eh’ io rinunzi alla propo-


stami fortuna, ed anziché abusare del vostro errore, vo’ trarvi d’in-
ganno: non sono il liberalor di Scrafina.

— Che ascolto, sciamò maravigliando il vecchio: non siete voi

che liberaste dalle fiamme la figlia mia ? Non voi quello che ha fatto

una si generosa azione? — No, signore, rispose Zambullo; nessun


mortale ardilo avrebbe di farlo , c fu un diavolo colui che vi salvò

la figlia.

Queste parole aumentarono la sorpresa di don Pedro, il quale non


credendo di doverle prendere, come suol dirsi, alla lettera, pregò
lo scolaro a spiegarsi con maggior chiarezza. Allora Leandro, senza
prendersi gran fatto pensiero di perdere l’amicizia d’ Asmodco, narrò
al vecchio quanto era accaduto fra lui e lo spiritello, e don Pedro,
presa la parola, disse a don Cleofa : — La fattami confidenza mi
conferma ogni volta piò nei divisamento di darvi a sposa la figlia

mia : voi siete il suo primo liberatore. Se voi non aveste pregato il

Diavolo zoppo onde la strappasse alla morte die la minacciava, l’a-


vrebbe lasciata perire. A voi dunque io debbo i giorni di Serafina,

voi la meritate, e con essa vi offro la metà dei beni ch’io possiedo.

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320 IL DIAVOLO ZOPPO

La mia diletta Serafina che visse sino al di fatale che si appiccò


il fuoco al palazzo, amando solo il padre suo c non curandosi punto
delle gentili, delle appassionate premure di tutti i giovani cavalieri

che la corteggiavano c faceano a chi più per piacerle, concepì una


violenta passione per voi quella notte fatale, e se non la perdetti

allora, mediante il generoso soccorso del Diavolo zoppo, a ciò spinto


dal vostro bel cuore, la perderci adesso consunta da una passione
infelice ove ella non divenisse la vostra s{>osa. Si, don Cleofa, a voi,

cui debbo la vita dell’unico essere per cui mi sia cara la vita, a voi
spetta il conservarmi l’oggetto della mia affezione.
Leandro Perez, a cui queste parole toglieano ogni scrupolo, si

lasciò trasportare dalla gioia di possedere in matrimonio la figlia

d’ un sì ricco signore c in un l’oggetto de’ suoi voti ;


stette un alcun
po’ senza ]>oter dir parola, ma ritornato in sè gittossi ai piè di don
Pcdro pcr ringraziarlo di tanta sua bontà. Poco tempo dopo si fe’ il

matrimonio con la pompa convenevole all’erede del signor d’Escolano,

^\\\\\\\vv;

a cui convennero i di lui parenti ed una gran parte dei pretendenti

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tr

CAPITOLO Viti ESIMO PRIMO 321

alla mano di Seralina, che, gelosi di don Cleofa, mordeansi rabbiosi

le labbra ed applaudivano alla scelta, macerandosi d’invidia; ma se

dall’ una parte eravi la pallida infornai dea che rode il cuore a chi
le dà ricetto, eravi dall’altra la rubiconda diva che inspira la gaiezza
ed il contento , i parenti cioè dello scolaro, di lui ch’ebbe cosi un
non lieve compenso nell’ aver procurato poche ore di libertà al

Diavolo zoppo.

4i

961880
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-M-

Cbnm su Ia* Sagc pag* vn

Capitolo Primo. — Chi sia il Diavolo zoppo. — Uovo e per qual cast»

D. Cieofa Leandro Perez Zainhullo conosceva con easo lui


fé’ .
^ ^1
Capitolo h. — Seguilo della liberazione di Asmodeo ...
Cartolo ih. — Dove lo Scuolaro fosse trasportalo dal Diavolo zoppo:
* * 46
prime cose che gli fece \ ederfoo .

Capitolò iv. — Amori conte di Helflor e di Eleonora di Cespedes


tjpl • 38

Capitolo v. — Seguito e conchiusione degli amori del conte di Belflor * 65

Capitolo vi. — Di nuove cose che vide don Cieofa c del modo con

cui fu vendicato di Tomasa • 84

Capitolo vii. — Dei prigionieri 95

Capitolo voi. — Asmodeo fa vedere a don Cieofa molte altre persone

c narragli tutto che loro successe nella giornata . . » 415

Capitolo ix. — Dei pazzi rinchiusi * 450

Capitolo x. — Il cui soggetto è inesauribile » 436

Capitolo xi. — Dell’incendio, e di ciò che fece Asmodeo in questo

frangente a prò di don Cieofa 470


Capitolo xii. — Delle tombe, dell’ombre e della morte ...» 475

Capitolo ziti. «— La forza dell’amicizia 487

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Capitolo xiv. — Contesa tra un poeta tragico ed un autor comico pag. 214

Capitolo xv. — Seguito e conclusione del racconto: La forza dell’a-

micizia * 224
Capitolo xvi. — Dei sogni » 259
Capitolo xvii. — In cui veggonsi molli originali che non difettano di

copie * t 272
Capitolo xviii. — Ciò che il Diavolo fa osservare ancora a don Cleofa » 280
Capitolo xix. — Dei cattivi • 290
Capitolo xx. — Ultimo racconto di Asmodeo ; come fosse interrotto,

ed in (piai modo successe la separazione fra lo Studente e il Diavolo» 502

Capitolo xxi. — Che cosa fece don Cicuta dopo separatosi dal Diavolo

zoppo, c come l’autore avvisò di finire il suo racconto . • » 514

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