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Il tempo tecnologico della fotografia

Roberta Valtorta

Pubblicato in: Achille Bonito Oliva (a cura di), Enciclopedia delle Arti contemporanee. I portatori del tempo.
Il tempo pieno, Electa, Milano 2018, pagg. 232-265.

Nella nostra civiltà la fotografia occupa una posizione centrale, dal punto di vista non solo artistico, ma
anche socio-antropologico e filosofico. Lo sguardo e il comportamento dell’uomo contemporaneo si
collegano strettamente ai dispositivi ottici e occorre prendere coscienza del fatto che la macchina
fotografica (nelle sue successive trasformazioni) non è solo uno strumento, uno dei tanti che si sono andati
aggiungendo al nostro sempre più ampio armamentario tecnico, per rendere possibili visioni più precise o
non raggiungibili dall’occhio umano. Essa è anche una sorta di organo ottico generale, avvolgente, di cui si è
dotata la nostra civiltà, un organo che riassume in sè pratiche e saperi diversi da quelli che caratterizzavano
le civiltà precedenti. Le fotografie non sono dunque semplicemente nuove immagini che hanno fatto
seguito ai dipinti, agli affreschi, ai disegni, alle stampe già prodotte in precedenza (anche se vengono
inevitabilmente a far parte di questo immenso universo iconografico), ma soprattutto complessi contenitori
di relazioni e modalità di oggettivazione che governano il nostro modo di stare nel mondo. Se è vero infatti
che l’esigenza di conoscenza e di comprensione della realtà dentro e intorno a sé che l’uomo esprime in
una data civiltà produce le tecnologie adatte a soddisfarla, è anche vero che da esse deriva lo sguardo che
in questa civiltà si diffonde e viene praticato.
Uno dei primi teorici della fotografia, lo statunitense Oliver W. Holmes, formula la nota definizione
“specchio dotato di memoria” (Holmes, 1959)i, nella quale sta racchiusa la realizzazione di un desiderio
antico quanto la civiltà occidentale: poter fissare un’immagine effimera in forma stabile. Holmes fa
convergere nell’invenzione ottocentesca la teoria democriteo-epicureo-lucreziana dei “simulacri” e le
antiche fantasie sugli specchi (peraltro anche evocate in epoca appena pre-industriale dallo scrittore
visionario Tiphaigne de la Roche, che preannuncia fantascientificamente l’invenzione della fotografia -
Tiphaigne de la Roche, 1760) ii e al tempo stesso indica le radici che l’idea della fotografia ha nella filosofia
platonica, questione richiamata anche da Susan Sontag (Sontag, 1973, p. 3-23)iii, e nella teologia cristiana.
La fotografia nasce dunque al termine del lungo processo che vede costantemente dialogare, nella
millenaria tradizione artistica greco-cristiana, immagine e realtà, ombre, specchi e luce (Stoichita, 1997)iv.
Ma l’invenzione si colloca anche in un punto cruciale del percorso di secolarizzazione che porta alla
modernità, come anche conferma John Berger quando scrive: “La macchina fotografica ha forse sostituito
l’occhio di Dio? Il declino della religione coincise con lo sviluppo della fotografia. La cultura del capitalismo
ha forse costretto Dio nella fotografia?” (Berger, 1980, P. 61)v. Infatti, nel passaggio dal sacro al tecnologico,
è una macchina inventata nel clima della rivoluzione borghese-industriale e in corrispondenza del pensiero
positivista (Valtorta, 2003)vi, a incaricarsi di registrare in modo stabile le immagini che fanno parte della
nostra esperienza (Signorini, 2007, p. 57)vii. Si tratta di immagini non fatte con le mani, ma fatte in modo
altro. E a questo proposito Roland Barthes, riflettendo sul suo stupore davanti alla fotografia scrive che
esso, forse ”affonda le sue radici nella sostanza religiosa di cui sono imbevuto”, e prosegue: “forse che non
si può dire di lei quello che dicevano i Bizantini dell’immagine di Cristo (…), e cioè che non era fatta da
mano d’uomo, che era acheiropóietos?” (Barthes, 1980, p. 83)viii.
A partire da questa idea di un’immagine non fatta dalla mano umana, si può pensare che il percorso dalla
raffigurazione del sacro alla narrazione del mondano coincida con uno spostamento dell’arte verso una
registrazione delle immagini che può essere definita antiumanistica, cioè generata direttamente dalla
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tecnica. In questa luce, i persistenti dubbi sulla artisticità della fotografia potrebbero allora collegarsi, in
profondità, anche al tema della secolarizzazione dell’arte. E’ interessante qui richiamare la posizione di
Hegel, che nelle Lezioni di Estetica, tenute tra il 1818 e il 1829, dunque prima dell’invenzione della
fotografia, prevede che “liberato dall’obbligo di essere ideale, il bello assume anche le forme della
quotidianità, del naturalismo, del brutto, dell’espressivo, della lacerazione, della frammentarietà, della
‘dissonanza’” (Gambazzi, 1997, p. 57)ix. L’arte infatti inizia a dare risposta al desiderio di presente che segna
la modernità: staccandosi dal divino e dal cavalleresco, e di fronte all’ “inestetico” mondo moderno-
borghese che prende forma, deve ritrovare se stessa e capire i propri limiti, fino ad affrontare, forse, la sua
fine (tema poi studiato per l’epoca postmoderna da Hans Belting – Belting, 1983)x. Al discorso hegeliano fa
seguito quello, pur diverso, di Benjamin sul passaggio dell’arte dal valore cultuale alla riproducibilità
meccanica e alla esponibilità, di cui la fotografia è altamente responsabile, per cui “l’opera d’arte diventa
una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, quella
artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale” (Benjamin, 1936, p. 28)xi.
Ma, sappiamo, la fotografia non solo dà il via alla riproducibilità e all’esponibilità dell’arte manuale, ma si
impone come arte essa stessa, con caratteristiche nuove e dirompenti. E se, alle origini, trae
inevitabilmente linfa dai canoni della pittura, dal secondo Ottocento alle avanguardie la presenza del
dispositivo fotografico provoca una grande trasformazione dell’arte tutta (Scharf, 1968)xii. Dal canto suo la
fotografia si libera gradualmente dalle millenarie categorie della pittura, arrivando a esprimere la sua vera
identità legata in modo stretto alla tecnica, fino ai giorni nostri.
Benjamin lo rende esplicito, va ricordato, quando, formulando il fondamentale concetto di inconscio ottico,
afferma che “la natura che parla alla cinepresa” è “diversa da quella che parla all’occhio” (Benjamin, 1936,
p. 41)xiii, e che noi veniamo a sapere qualcosa dell’inconscio ottico grazie alla cinepresa (alla macchina)
come dell’inconscio istintivo grazie alla psicoanalisi. Ma, sempre in area tedesca, anche il filosofo e scrittore
Ernst Jünger giudica la fotografia un medium distante dalla percezione umana, il cui impatto sulla
comunicazione contribuisce anche alla crescente incapacità degli uomini di provare dolore: “La
registrazione fotografica è esterna alla zona della sensibilità. Essa possiede un carattere telescopico; ci si
accorge, nel suo caso, che l’evento è osservato da un occhio insensibile e invulnerabile” (Jünger, 1934, p.
175)xiv. E già in precedenza Làszlo Moholy-Nagy aveva scritto: “E’necessario sottolineare che la nostra
esperienza intellettuale integra formalmente e spazialmente i fenomeni ottici che l’occhio percepisce
fondendoli in un tutto omogeneo, mentre la macchina fotografica riproduce il quadro puramente ottico”
(Moholy-Nagy, 1923, p. 91)xv. Ma ancora prima, agli inizi del secolo, il fisico e filosofo Ernst Mach aveva
colto la diversità tra sguardo umano e sguardo fotografico nel fatto che la fotografia annulla il movimento e
irrigidisce la realtà (Mach, 1905, p. 149)xvi. Negli stessi anni, in ambito italiano, Benedetto Croce da un lato,
Anton Giulio Bragaglia dall’altro ribadiscono in modi diversi l’incompleta artisticità della fotografia: l’uno
attribuendola alla riproduzione meccanica e all’insubordinazione dell’elemento naturale all’azione del
fotografo (Croce, 1902, p. 18-21)xvii; l’altro cercando in ogni modo con le sue Fotodinamiche di allontanarsi
dalla specifica fissità della fotografia, non solo per interpretare lo spirito futurista ma anche perché ritenuta
gravemente limitante (Bragaglia, 1911, p. 15-16)xviii. Si tratta di una concezione dell’arte attestata su
posizioni classiche e inadeguate all’epoca industriale (pur, nel caso di Bragaglia, aspiranti a sintonizzarsi
sulla “civiltà delle macchine”), ma anche dell’espressione di un disagio di fronte a qualcosa difficile da
definire perché fuori dall’umano.
L’idea dell’alterità dello sguardo della macchina viene poi ripresa non più con stupore né con dubbio ma
con grande consapevolezza tra anni Sessanta e Settanta, quando l’economia capitalistica giunta a piena
maturazione e la pervasiva meccanizzazione della produzione e della vita pesano ormai totalmente
sull’individuo, sulla società, sugli oggetti e su ogni significato (anticipando l’attuale era
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dell’informatizzazione). Scrive Jean Baudrillard in Lo scambio simbolico e la morte: “Una nuova generazione
di segni e di oggetti sorge con la rivoluzione industriale. (…) Il problema della loro singolarità e della loro
origine non si pone più: la tecnica è la loro origine, non hanno senso che nella dimensione del simulacro
industriale. Cioè la serie. Cioè la stessa possibilità di due o di n oggetti identici. Tra di essi, la relazione non è
più quella tra un originale e la sua contraffazione, né analogia né riflesso, ma l’equivalenza, l’indifferenza”
(Baudrillard, 1976, p. 66)xix. Contestualmente la spinta delle neoavanguardie, in particolare del
Concettuale, porta gli artisti a mettere a nudo i codici profondi dell’arte, con un frequente accento posto
sulla serialità, la ripetitività, la meccanicità (è nota l’affermazione di Andy Warhol “voglio essere una
macchina” – Warhol, 1963)xx , l’impersonalità dell’opera e la voluta assenza di stile (si pensi a Ed Ruscha e a
Bernd e Hilla Becher, ma anche a Joseph Kosuth), mentre gli studi teorici sulla fotografia si moltiplicano,
preparando il terreno al fitto dibattito contemporaneo. Sono molti gli artisti che fanno dei meccanismi
tecnici della macchina l’oggetto stesso della loro indagine (Ugo Mulas, John Hilliard, Jan Dibbets tra i tanti),
producendo parallelamente importanti riflessioni sull’autonomia del mezzo, in questo spesso
dimostrandosi i più acuti pensatori della fotografia (Campany, 2003; Fogle, 2003)xxi. “La macchina – afferma
Robert Smithson – vive di vita propria. La macchina non bada a modelli né a ismi. Ha un occhio meccanico
indifferente che divora ogni cosa” (Smithson, 1971, p. 105)xxii. Anche artisti come Allan Sekula e Victor
Burgin che, pure, sostengono che la fotografia, vero e proprio messaggio, è luogo di una complessa
intertestualità che implica connessioni di tipo sociale e psicoanalitico (Burgin, 1982, p. 144, Sekula, 1975)xxiii,
nei loro scritti non mancano mai di sottolineare la componente peculiare della tecnica. Chi però pone
l’autonomia della macchina al centro del suo pensiero e della sua opera è Franco Vaccari che, sulla scia del
concetto bejaminiano di inconscio ottico, a partire dalla fine degli anni Sessanta elabora l’idea di inconscio
tecnologico, che applica alle sue Esposizioni in tempo reale e a cui dedica densi scritti. Vaccari intuisce la
grande potenzialità della macchina fotografica quando essa non venga utilizzata in modo volutamente
“artistico”, ma lasciata agire come strumento che produce registrazioni e memorie autonome rispetto alle
intenzioni e alle capacità stesse dell’operatore, dunque assai potente nel mettere in discussione abitudini
visive e comportamentali condizionate dai media e dai poteri. Anticrocianamente giudicando superata la
questione arte-tecnica e dando per certo che la fotografia è entrata dritta nel cuore dell’arte,
scardinandone, al pari del ready made duchampiano, le regole storiche (Vaccari, 1979, p. 61-67)xxiv, egli la
considera non un’immagine da contemplare, ma un’occasione tecnologica per il manifestarsi di azioni e
reazioni, tutte colte sul terreno del quotidiano e dell’ordinario, e per il sorgere di significati imprevisti.
Afferma in modo deciso: “Rispetto all’inconscio plastico, attivo dell’uomo, è possibile vedere in azione, là
dove l’uomo è passato e ha delegato agli strumenti la propria attività, un inconscio bloccato, un inconscio
duro” che “non deve essere interpretato come pura estensione e potenziamento delle facoltà umane” ma
ha “una capacità di azione autonoma”. Dunque “l’immagine fotografica ha (…) sempre un senso anche e
forse soprattutto in assenza di un soggetto cosciente. Il che equivale a dire che non è importante che il
fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui” (Vaccari, 1979, p. 3 e p. 11).
Il concetto vaccariano di inconscio tecnologico è vicino a quello di apparato formulato nel 1983 da Vilém
Flusser. Secondo il filosofo la fotocamera, programmata a più livelli dall’industria fotografica, dal complesso
industriale che ha programmato l’industria fotografica, dal complesso socioeconomico che ha creato il
complesso industriale, è in realtà inconoscibile: “La macchina fotografica fa ciò che il fotografo vuole che
faccia, sebbene il fotografo non sappia cosa succede all’interno della scatola nera”. Il fotografo dunque
domina solo dall’esterno l’apparato ma è a sua volta dominato dall’opacità del suo interno di cui non è, in
fondo, competente, al punto che anche quando egli sceglie la strada della creatività “i suoi criteri
apparentemente extra-apparato, comunque, sono di fatto previsti nel programma della macchina
fotografica” (Flusser, 1984, p. 31 e p.38)xxv, e solo un comportamento di tipo eversivo nei confronti della
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macchina (vista come simbolo di tutti gli apparati presenti nella società di massa) e una capacità di
decodificare le fotografie potranno liberare l’uomo dalla sua condizione di assoggettamento e di illusione.
Possiamo definire quella di inconscio tecnologico e quella di apparato nozioni postindustriali che caricano di
complessità lo statuto della fotografia all’interno della nostra civiltà, sottolineando non più la “naturalezza”
del rapporto uomo-macchina di derivazione umanistica ma, al contrario, la problematicità di questo
rapporto. Si tratta, in fondo, di una lotta.

Memoria

In questo rapporto tra uomo e macchina dall’aspetto solo apparente di un’armoniosa collaborazione, la
questione del tempo è cruciale. L’esistenza della fotocamera ha infatti aggiunto alla nostra vita un tempo
inedito rispetto ai molti tempi vissuti e teorizzati nella lunga storia precedente a quella che definiamo
“epoca fotografica”. Un tempo altro che elude, rigido, il controllo umano (il metallico e definitivo clic dello
scatto fotografico, per certi aspetti caricaturale e quasi fastidioso, non deve essere sottovalutato ma,
invece, ascoltato nel suo significato profondo) e circoscrive l’esperienza in modo autonomo rispetto al
tempo percepito dall’uomo, nonostante proprio a questi si debba l’invenzione della fotografia.
La fotografia ha introdotto nella civiltà occidentale (e poi nelle altre civiltà) l’illusione di poter afferrare il
tempo nelle sue intime unità di misura, nelle frazioni minime in cui è immaginabile dividerlo, grazie
all’utilizzo agevole di una macchina sempre disponibile. Il suo fascino come oggetto teorico, da un lato, la
sua immensa popolarità, dall’altro, risiedono esattamente in questo: nell’evidenza spavalda con cui essa
mostra che ciò di cui soprattutto si preoccupa l’uomo è la morte, pensiero ineliminabile per affrontare il
quale si è arrivati a elaborare un immaginario meccanico che spinge a raccontare con cura tecnica
infinitamente ripetibile il tempo delle vite individuali e della storia, per tentarne il controllo. Luoghi,
avvenimenti, personaggi, persone care attraverso la fotografia (ma si pensi anche al cinema) potrebbero
dunque continuare a vivere in forma di immagine per un tempo potenzialmente infinito. “Non si può
immaginare la vertigine, nella vita e nella memoria, che il vuoto senza immagine di un affetto scomparso
rappresenterebbe”, scrive il sociologo Robert Castel (Castel, 1965, p. 308)xxvi. La società razionale-
industriale, allontanando l’uomo dalla natura, ha privato la morte del misterioso legame con la vita che
essa aveva nelle società magico-arcaiche, emarginandola e rendendola in un certo senso inaccettabile. La
fotografia e tutte le immagini tecniche sembrerebbero concorrere, in chiave nuovamente magica, a
contrastare l’incapacità moderna di pensare la morte. “Aspirazioni nettamente profane alla sopravvivenza
sono espresse nella ‘iconomania’ oggi dominante – scrive Werner Fuchs fin dal 1969 –, nel desiderio di
essere fissati in ritratti, fotografie e altri mezzi tecnici di riproduzione, e di poter così sopravvivere con
maggior sicurezza nella memoria dei congiunti”. (Fuchs, 1969, p. 97)xxvii. Un processo intensificatosi nel
passaggio dalla fotografia analogica all’immagine digitale, che oggi, come è evidente, si esprime da un lato
in quell’ansia di esistere, di presentificare continuamente se stessi percepibile nelle mille pieghe dei social
network; dall’altro nella pratica di sempre più profondi interventi di postproduzione digitale volti a
modificare le immagini di partenza collocandole in un tempo senza tempo. Nasce così un tipo di memoria
sempre più colonizzata dal’immaginazione, che costruisce fiction: quella che Fulvio Carmagnola definisce
iperreale, in quanto “fraintende il suo potere di ricostruzione, violando la posizione naturale del passato” e
creando oggetti non più collocabili “in un punto preciso del fiume del tempo” (Carmagnola, 2003, p. 46).xxviii
La fotografia, ricordiamo, fin dalle origini interviene nel modificare la percezione della storia, sia individuale
sia collettiva. Il ritratto fotografico, in ultima analisi l’immagine che di ciascuno resterà dopo la sua morte
(che peraltro subentra sì al ritratto pittorico e scultoreo, ma in modo più stringente alla maschera
mortuaria e al calco – Manodori Sagredo, 2013; Papet, Didi-Huberman, De Font-Réaulx et al., 2001)xxix,
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consente, per la prima volta nella storia degli uomini, a tutti gli individui, di qualunque appartenenza
sociale, di lasciare una traccia di sé attraverso la rappresentazione del proprio volto, anche se essa finirà,
mai più vista, solo in un vecchio album, in un archivio abbandonato, in un nascosto data base. Il ritratto
fotografico, concedendo a ogni uomo un vago senso di immortalità prima sconosciuto, muta il sentimento
della sua esistenza nella storia, agisce sulla memoria.
“Cosa c’era al posto della fotografia, prima dell’invenzione della macchina fotografica? – si chiede John
Berger -. La risposta più ovvia è: l’incisione, il disegno, la pittura. Ma la risposta più illuminante sarebbe: la
memoria (…). La macchina fotografica salva una serie di apparizioni da un susseguirsi, altrimenti inevitabile,
di ulteriori apparizioni e le mantiene immutate nel tempo. Prima dell’invenzione della macchina fotografica
non c’era niente che potesse svolgere una funzione del genere, se non la facoltà della memoria nell’occhio
della mente” (Berger, 1980, p. 59)xxx.
La tecnologia, però, non si limita a fissare le cose del passato, ma, in un certo senso, forza il tempo. La
memoria non è una semplice facoltà di raccolta e archiviazione ma, al contrario, un’attività che non ritrova
le cose del passato “come erano”, ma le combina in modo produttivo dando loro significato (un processo
nel quale noi utilizziamo non solo i nostri ricordi personali, ma anche i racconti ricavati da altri – Ricoeur,
2000)xxxi. La fotografia propone grandi quantità di circoscritti frammenti provenienti dal passato, anzi da
diversi passati: la memoria, che dovrebbe costruirsi sull’assenza e segnalare la distanza temporale dalle
cose ricordate preservando lo spessore del tempo, viene così guidata e “costretta” ad accogliere una
varietà di ricordi diversi, compresi quelli che non ci appartengono in modo diretto ma provengono da
registrazioni di frammenti di realtà di cui non abbiamo avuto esperienza. La tecnologia, insomma, tende a
generare una memoria che non è del tutto nostra e che, non derivando dalla vita vissuta, potrebbe
diventare aleatoria. Questo si collega al classico tema della differenza tra memoria involontaria e memoria
volontaria, richiamato da Benjamin, il quale, come è noto, mette in luce quanto fragile sia il ricordo presso
gli uomini moderni, anche per responsabilità della fotografia: “Se si definiscono le rappresentazioni radicate
nella mémoire involontarie, e che tendono a radicarsi attorno ad un oggetto sensibile, come l’aura di
quell’oggetto, l’aura attorno ad un oggetto sensibile corrisponde esattamente all’esperienza che si deposita
come esercizio in un oggetto d’uso. I procedimenti fondati sulla camera fotografica e sugli apparecchi
analoghi successivi estendono l’ambito della mémoire volontaire, in quanto permettono di fissare un
evento, sonoramente e visivamente, con l’apparecchio in qualunque momento. E diventano così conquista
fondamentale di una società in cui deperisce l’esercizio” (Benjamin, 1939, p. 136)xxxii.
Anche per Marcel Proust il vero recupero del passato non avviene attraverso la memoria volontaria (anche
agevolata dalla fotografia), ma attraverso gli imprevisti percorsi della memoria involontaria, che favorisce
affioramenti di ricordi a partire da sensazioni e improvvisi e fecondi rimandi. Jean-François Chevrier scrive
che “Proust condanna il simulacro” e cita la nota frase “certe fotografie d’una persona, guardando le quali
ci par di ricordarla meno bene di quando ci accontentiamo di pensarla“ (Chevrier, 1982, p. 61;)xxxiii. La stessa
frase proustiana è ripresa da Roland Barthes quando riflette sulla difficoltà di ritrovare la madre morta nelle
fotografie: “Le scorrevo, ma nessuna di loro mi pareva veramente ‘buona’: nessuna performance
fotografica, nessuna resurrezione viva del volto umano. (…) Ciò che mi separava da molte di quelle
fotografie era la Storia” (Barthes, 1980, p. 65-66). Si tratta di situazioni delle quali l’autore non era stato
partecipe. L’importanza della viva esperienza è sottolineata da molti altri studiosi, anche dal filosofo
Günther Anders: “Da un lato le fotografie ci fanno ricordare; ma dall’altro (…) hanno atrofizzato il ricordo
quale stato d’animo e quale prestazione e lo hanno sostituito. (…) Le immagini di quel che è stato non
hanno più bisogno di essere evocate (…) e non hanno più bisogno di risalire dal profondo – tutt’al più dalla
profondità dell’album (Anders, 1956, p. 198)”xxxiv. Inoltre, in assenza di esperienza diretta, le fotografie non
generano ricordi ma si presentano come documenti da decifrare, come anche annota Siegfried Kracauer:
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“La loro importanza come registrazioni fotografiche finisce col sopraffare completamente la funzione
originaria di aiuti della memoria. Sfogliando l’album di famiglia, la nonna rivivrà la propria luna di miele,
mentre i bambini osserveranno con curiosità le buffe carrozze, fogge cadute ormai in disuso, e gli antichi
giovani volti che non hanno visto mai” (Kracauer, 1960, p. 76)xxxv. A questo punto, perché le immagini non
sprofondino in un generico passato, si rende obbligatoria la didascalia (Benjamin, 1931, p. 77; Mulas, 1973,
p. 98-100)xxxvi, alla quale si perviene solo dalla ricerca, dallo studio e dal confronto con le informazioni
provenienti da altre discipline. In assenza di questi, le fotografie finiscono con il diventare un insieme
surreale di immagini perse in un tempo non comprensibile e creano “una storia istantanea, una sociologia
istantanea, una partecipazione istantanea” (Sontag, 1973, p. 66 e 71). Con il nuovo millennio inoltre è stato
anche messo in evidenza che, da quando la fotografia ha conquistato lo statuto di arte ed è entrata nei
musei, la sua capacità di trasmettere storia è seriamente messa a rischio (Von Amelunxen, 2002, p.
220)xxxvii. In ogni caso, la difficoltà di collocare le fotografie nel tempo e capirne il contributo alla costruzione
della storia si collega al più ampio problema della assoluta relatività del lavoro storico, che si basa sul
raccogliere, trasformare in documenti e collegare tra loro le cose per creare un insieme particolare che le fa
diventare oggetti astratti del sapere, dando vita non alla storia, ma a una delle tante storie possibili, nel
tempo (De Certeau, 1986)xxxviii. A questo si aggiunga che i puntuali mezzi tecnici di registrazione, dei quali la
fotografia è la capostipite, generando un’infinita proliferazione di immagini e penetrando in tutti i fatti fin
quasi a frantumarli, rischiano, nella contemporaneità, di fronte alla crescente complessità delle cose che
accadono, di far esplodere il concetto stesso di storia, insieme a quello di tempo.
Nella storia del pensiero, il tempo è stato immaginato come origine del mondo, forza che trascina
l’evoluzione delle cose, durata, senza inizio e senza fine, con cicli e ritorni, con progressione lineare; oppure
come elemento interiore all’uomo, forma del pensiero, fondamento dell’esperienza, flusso; o, ancora,
come simbolo stesso della vita umana e della sua finitezza, come durata di ogni essere in trasformazione o,
in senso religioso, come anticipazione dell’eternità. Il tema della inconoscibilità del tempo resta però
sempre inesorabilmente centrale. “Il tempo, come la mente, non è conoscibile in quanto tale. Possiamo
conoscere il tempo soltanto indirettamente, attraverso quanto in esso avviene: osservando cioè
mutamento e permanenza (Kubler, 1962, p. 21)”xxxix, e riflettendo non solo su ciò che avviene nel tempo,
ma su come e dove questo avviene. A questo proposito, va considerato che anche all’affermarsi dell’idea di
simultaneità (ma anche la sua relatività), tanto discussa da Albert Einstein, che si aggiunge alla ciclicità e
alla linearità, ancora una volta concorre la tecnica (si pensi al telegrafo, al telefono, alla radio, e poi alla
televisione). Subito abbracciata dalle avanguardie (in fotografia il fotomontaggio con i suoi assemblaggi non
gerarchici, per esempio), la simultaneità pone un nuovo e diverso interrogativo: “se il presente sia una
successione di singoli eventi locali o una simultaneità di molteplici eventi lontani, e se il presente sia una
porzione infinitesimale del tempo, fra passato e futuro, o di una più estesa durata” (Kern, 1983, p. 89) xl.
Su di essa, così come sul mistero del presente, interviene la voce interrogante di Ludwig Wittgenstein, che
come sempre va alla radice del problema: “Non possiamo dire che ‘questo’ è simultaneo a ‘quello’ quando
‘questo’ contiene già il tempo” (King, Lee, 1980, p. 134)xli; “Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel
tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente”; “Per la vita nel presente non v’è morte”
(Wittgenstein, 1961, p. 107 e p. 219)xlii.
La fotografia si genera in un presente che subito svanisce. Lo scatto non può rappresentare un evento
avvenuto nel passato né prefigurare una situazione futura (a meno di non fare ricorso a messe in scena):
esso si attua in un presente che immediatamente diventa un passato prossimo (si pensi ancora una volta al
classico è stato barthesiano – Barthes, 1980, p. 78), e l’operatore agisce per fermare un’attualità che nel
diventare immagine è contestualmente superata dal tempo. Tutto questo ha le caratteristiche di una lotta
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(ripetiamo qui questa parola). Il tempo della fotografia è il tempo della tecnologia, e con questo soltanto si
misura il fotografo, qualunque sia il suo intento.

Istanti e non istanti

Parlare di fotografia significa parlare di istante, momento, attimo. L’etimologia di queste tre parole ci dice
di qualcosa che sta sopra, incalza; che ha a che vedere con il movimento; che è indivisibile. Qualcosa di
minimo che esiste nel presente ma, se ascoltiamo Wittgenstein, è anche eterno. La cattura del tempo
operata dalla fotografia crea una sorta di deriva: “L’immobilità dell’immagine è completa, assoluta, ma ciò
che capta e che racconta è la mobilità stessa, è il carattere fuggitivo di ogni evento” (Bailly, 2008, p. 44)xliii. Il
momento presente è come l’occhio del ciclone, un vuoto quasi impercepibile.
Scrive Diego Mormorio: “L’artista greco e quello che usa la fotografia (…) vengono dall’idea che tutte le
cose, comparendo, inevitabilmente scompaiono nel nulla. (…) Dall’idea che l’attimo è la misura di tutte le
cose. E che, nella loro comparsa, tutte le cose sono lì per essere afferrate. (…) Prima degli antichi greci (…)
le figure non avevano alcun rapporto con il momentaneo, ma con l’eternità”, e prosegue immaginando:
“Che incanto avrebbero provato gli antichi greci di fronte ad alcune fotografie di Henri Cartier Bresson!
(Mormorio, 2011, p. 14 e p. 108)”xliv.
Il “momento decisivo” bressoniano è un mito della modernità. Si fonda sull’idea che l’istante generi la
forma, che a sua volta incarna quel particolare istante capace di trarre significati dal caos del mondo. Sotto
l’influenza del Surrealismo (la realtà è un insieme di combinazioni automatiche inaspettate) e del Cubismo
(la realtà offre angolazioni diverse, sfaccettature, tracce mnemoniche), Cartier Bresson ritiene che ogni
evento, nel suo svolgersi, passi attraverso un istante privilegiato in cui la scena (il mondo) si riordina e ogni
elemento concorre a costruire un significato che si rivela improvvisamente al fotografo. Questo presuppone
una tensione visiva-esistenziale e una capacità di intuizione ipersensibile verso le metamorfosi di una realtà
che, ottimisticamente, è carica di significati in attesa di essere colti. Come è noto, The Decisive Moment non
è la traduzione del titolo del famoso libro pubblicato in Francia nel 1952 come Images à la sauvette, ma la
versione americana pensata dall’editore Richard Leo Simon (Henri Cartier Bresson, 1952)xlv, a partire dalla
frase del Cardinal de Retz “non c’è nulla al mondo che non abbia il suo momento decisivo”. Cartier Bresson
ama Lo zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel e si autodefinisce un “buddista agitato” (Paul Edwards,
2013, p. 66 e p. 70)xlvi nel suo cercare l’armonia disciplinando (quasi in modo orientale) lo sguardo sulla
scena in movimento davanti ai suoi occhi, al tempo stesso avendo però come alleato il caso, elemento
centrale nel Surrealismo (atteggiamento profondamente occidentale) perché rivelatore di aspetti
dell’inconscio annidati nella realtà (Valtorta, 1999)xlvii.
Alcune riflessioni si rendono necessarie per storicizzare il “momento decisivo”, troppo sovente identificato
con l’idea stessa di fotografia. In realtà, infatti, la vera forza della fotografia sta nel fatto che essa ha
distrutto ogni possibilità che esistano situazioni privilegiate. “Non c’è particolare che essa abbia trascurato;
sappiamo che per suo mezzo ogni più insignificante frammento di questo mondo può da un momento
all’altro essere portato in superficie e gridare la propria esistenza e unicità”. La fotografia è un ready made
immediato, e dal momento che essa incoraggia ogni tipo di prelievo “si può affermare che l’epoca
dell’attenzione indiscriminata (…) è cominciata con la fotografia piuttosto che con Duchamp” (Vaccari,
1979, p. 34 e p. 64). E’ anche importante considerare un altro aspetto storico: “mentre la fotografia può
aver generato il cinema, il cinema ha generato il ‘momento decisivo’. Questo è vero anche al di là della
questione tecnica. L’immobilità è diventata definitiva per la fotografia solo all’ombra del cinema”
(Campany, 2008, p. 27)xlviii, e nonostante l’istantanea sia tecnicamente possibile fin dagli anni Sessanta
dell’Ottocento, è solo nel Novecento, con l’affermarsi dell’immagine in movimento, che essa viene vista
8

come l’essenza della fotografia. Il “momento decisivo” si consolida poi in un dopoguerra nel quale è vivo il
bisogno di riplasmare una realtà distrutta e mortificata da regimi e guerre, e rappresenta la realizzazione
del sogno umanistico che vede l’uomo padroneggiare le macchine, anche nei processi di rappresentazione
della realtà. Il superamento storico della posizione bressoniana si deve, in seguito, all’eccesso di
informazione visiva, al proliferare incondizionato delle immagini, alla coscienza dell’accadere simultaneo
degli eventi, tutte circostanze che anziché evidenziare i momenti speciali, rivelano il carattere problematico
e caotico della comunicazione fotografica.
Philippe Dubois tende ad attribuire durata e dinamismo all’istante fotografico: “La nozione d’istante (unico,
puntiforme, ecc.) (…) è in realtà una nozione meno evidente e meno semplice di quanto sembri, poiché in
particolare essa non esclude né un certo rapporto con la durata né l’esistenza di una grande mobilità
interiore. L’istante fotografico è un istante eminentemente paradossale”. Al momento dell’atto fotografico,
che è come un taglio, la porzione minima di tempo catturata dalla macchina entra in una dimensione
diversa da quella del tempo nel quale è inscritta la vita umana, in una temporalità infinita e immobile,
“penetra in un qualcosa come ‘il fuori tempo della morte’ “ (Dubois, 1983, p. 154 e 156) xlix.
Tra l’attimo dello sguardo umano (e ciò che vive il fotografo) e l’attimo dello scatto (e ciò che la macchina
registra) non può però mai esservi coincidenza, né nella fotografia analogica né in quella digitale. Vi è,
invece, uno iato, un inevitabile ritardo della macchina, anche quando il fotografo è in grado di pre-vedere
ciò che sta per accadere nella scena. Vi è poi una differenza significativa tra il momento che fa nascere
l’immagine e il successivo momento, anzi i molti successivi momenti della fruizione da parte di altri. Come
scrive John Berger “Le fotografie in sé non conservano il significato di un evento. Offrono apparenze (…)
estrapolate dal loro significato”. Solo con il tempo infatti si sviluppano i significati, e solo in presenza di una
narrazione possiamo pensare di capire e apprendere. “Le fotografie di per sé non narrano, le fotografie
trattengono apparizioni istantanee” (Berger, 1980, p. 60) e spesso sono solo immagini della memoria di un
estraneo, laconiche, raramente condivisibili, passibili di mille letture.
A tutto questo è sensibile Robert Frank, che anticipa, sempre negli anni Cinquanta, la crisi della nostra
contemporaneità che si esprime anche nel rapporto tra affollamento di immagini e solitudine. In occasione
dell’uscita del suo libro The Americans scrive: “Le mie fotografie non sono decise o composte a priori, e non
mi aspetto che lo spettatore debba condividere il mio punto di vista” (Frank, 1958, p. 80-81)l. Si può
assumere la destabilizzazione linguistica operata da Robert Frank come inizio di un processo di segno
liberatorio che conduce alla contemporaneità. La sua fotografia provvisoria, ”sporca” fa cadere la
coincidenza tra sguardo umano e sguardo della macchina, l’imperfezione dell'immagine desacralizza il gesto
del fotografo, restituendolo a una quotidianità anche macchiata di vuoti e fallimenti, ripetitiva,
insignificante, dalla quale non emergono momenti speciali ma momenti qualunque. Il tempo dell’uomo e
quello del dispositivo non lavorano più all'unisono, ma, anzi, mostrano i loro limiti: il fotografo non vuole-
può operare il suo controllo, come accade in pittura con l’Action Painting, in letteratura con gli scrittori
della beat generation (si deve a Jack Kerouac l’introduzione di The Americans – Frank, 1959)li, la macchina
gestisce una parte dell'atto fotografico, il caso irrompe nell’immagine. Siamo alla fine degli anni Cinquanta.
Frank, europeo, indaga gli sparsi simboli americani, la bandiera, l'automobile, il televisore, il motel, la
strada che va lontano; vede la storia impigliarsi nelle merci e nella velocità dei consumi e della
comunicazione. Lo storico della fotografia Jean-Claude Lemagny ha definito le immagini sfilacciate di Robert
Frank “momenti ‘in between’ ” (Lemagny, 1986, p. 193)lii, a indicare l’enorme quantità di momenti ordinari,
imperfetti, malriusciti che stanno tra un momento speciale della vita e l’altro e che parlano della solitudine
dell’individuo di fronte a una realtà incoerente e discontinua.
L’istante non deve dunque essere visto in modo univoco come misura della registrazione fotografica, ma
come un punto di partenza sempre interpretabile, come appare evidente nell’epoca contemporanea che
9

vede moltiplicarsi i punti di vista sul modo della fotografia di interpretare il tempo. Tra questi, il frequente
rifiuto di un’idea di fotografia legata alla contingenza dell’istante. L’artista ceca Jitka Hanzlovà, per
esempio, prende come riferimento ideale una serie di ritratti di importanti pittori del Rinascimento per
lavorare sui suoi soggetti in modo non istantaneo ma lento, basato su un lungo studio che porta infine a
uno scatto fotografico nel quale si addensa un tempo profondo quasi di natura meditativa. In un recente
lavoro dal titolo Horse (Hanzlovà, 2015)liii, poi, fa ricorso all’istante fotografico con estrema esattezza allo
scopo di ottenere un congelamento delle forme di tipo scultoreo: i corpi dei cavalli che sono oggetto della
ricerca presentano caratteristiche di straordinaria plasticità che la fotocamera può fissare con efficacia
impressionante rivelando l’intima personalità e l’antica storia di queste creature. Viene spontaneo un
richiamo all’utilizzo costante che Medardo Rosso fa della fotografia, in prima persona o attraverso la
collaborazione di vari fotografi, come strumento della sua poetica verista dell’arte come “impressione” che
gli permette di prolungare l’esplorazione delle forme scultoree (Lista, 1994)liv.
Diverso ancora è il metodo di Beat Streuli, che da anni riprende persone in movimento nelle strade delle
città del mondo componendo un vastissimo insieme di figure nello spazio urbano che incarnano la
condizione esistenziale dell’uomo metropolitano, nella sua duplice veste di individuo e di essere anonimo
sprofondato nella massa. Senza enfasi, senza ricercare variazioni estetiche, ma anzi operando un
azzeramento dello “stile”, costruisce negli anni una sorta di monumento alla routine urbana che
inarrestabilmente si consuma nel mondo globalizzato. Siamo di fronte a una procedura quasi meccanica,
potenzialmente senza fine: le figure sono dominate dalla serialità, sottolineata dall’andamento uguale delle
sequenze dei momenti ripresi, dal ritmo della proiezione se si tratta di video, dall’impaginazione regolare se
si tratta di fotografie installate in edifici e spazi pubblici. Non vi sono momenti speciali in queste vite,
riprese peraltro da lontano e in modo “impersonale” con il teleobiettivo, né eventi particolari, poiché
Streuli è solo interessato alla registrazione di una molteplicità di momenti ordinari che restituiscono figure
e spezzoni di ambiente urbano (Streuli, 2012)lv.
La sequenza, la sintassi, direbbe Roland Barthes (Barthes, 1982, p. 15)lvi, che collegando tra loro più
immagini toglie l’istante dalla sua muta solitudine e aiuta la nascita di forme di connotazione e con esse di
una dimensione temporale più narrativa (quasi un tentativo di misurazione), è assai frequente in fotografia,
già a partire dagli esperimenti ottocenteschi di Eadweard Muybridge, Etienne-Jules Marey o Thomas Eakins.
E’ molto nota la Verifica n. 3 che Ugo Mulas nel 1969-70 dedica al tempo e a Jannis Kounellis. Consapevole
dell’impossibilità di rappresentare il movimento attraverso la fotografia, egli crea una procedura “per
rendere fotograficamente il senso dello scorrere del tempo”. Riprende dunque da lontano un soggetto
impercettibilmente in movimento: un pianoforte installato da Kounellis nell’angolo di un salone, al quale
due volte al giorno un pianista si siede per suonare un brano del Nabucco. Il movimento della mani del
pianista è minimo, invisibile da lontano, ed ecco che Mulas fotografa la scena 36 volte, tante quanti sono i
fotogrammi del rullino: nella stampa a contatto le 36 immagini appaiono uguali, dunque senza tempo, ma
la progressione numerica indica che si tratta di 36 fotografie “diverse perché scattate in tempi diversi”
(Mulas, 1973, p. 85)lvii. Ancora una volta è il dispositivo a segnalare il tempo, nell’impossibilità che lo faccia
il fotografo.
Invece Paola De Pietri nella serie Dittici del 1997-98 sceglie la struttura minima della sequenza spazio-
temporale: il dittico, breve schema narrativo che l’artista utilizza per mostrare figure che transitano da
un’immagine all’altra come inseguendo se stesse, in un tempo destabilizzato e diviso in due parti (piegato
in due, come vuole l’etimologia del termine), in una sorta di sdoppiamento dell’istante impossibile per la
percezione umana, possibile invece per la fotocamera, in modo simile ma per nulla coincidente
tecnicamente con il susseguirsi di due fotogrammi di un film (De Pietri, 1998)lviii.
10

Un pilastro per l’analisi del difficile rapporto fotografia-tempo è certamente The Brown Sisters, work in
progress che l’americano Nicholas Nixon ha avviato nel 1974 e che prosegue tuttora (il Museum of Modern
Art di New York, assecondando l’idea di sequenza, gli ha finora dedicato tre volumi – Nixon, 1999, 2007,
2014)lix, consistente in ritratti che raffigurano quattro sorelle, una delle quali è la moglie dell’artista,
fotografate insieme una sola volta all’anno, ogni anno. La sconcertante semplicità della lunga, ma breve
sequenza (composta, al momento, di sole 42 fotografie in 42 anni di vita delle sorelle) ci pone di fronte al
tempo che passa sui volti e sui corpi delle quattro donne come se ciò che vediamo fosse un flusso continuo.
Al contrario, si tratta di poche fotografie totalmente segnate dalla discontinuità. Mentre il cinema, pur
spezzando la continuità spazio-temporale in funzione di una narrazione stabilita (Arnheim, 1957, p. 30)lx è
tuttavia una proiezione virtuale che tende ad appagare il desiderio dello spettatore di vedere le cose
svolgersi “nel presente”, la fotografia estrae dei frammenti che, in casi come questo, vengono ricomposti,
pur rimanendo irrimediabilmente tra loro scollegati e sempre riferiti al passato (Metz, 1985)lxi, e costruisce
narrazioni solo eventuali e discontinue.
Un artista italiano, Paolo Gioli, cerca di porre un fantasioso rimedio a questo limite della fotografia,
mettendo in movimento sequenze fotografiche, ma anche singole fotografie o immagini grafiche, di autori
come Muybridge, Marey, Bragaglia, Duane Michals in Piccolo film decomposto, del 1986, film nel quale
tutte le immagini “sono l’alibi di una cinetizzazione che si accompagna immediatamente al livello
semantico” (Bouhours, 1995, p. 204)lxii, e infatti Gioli non si limita ad animare le figure, ma pone in stretto
dialogo i meccanismi della fotografia con quelli del cinema (“due regni distinti e separati”, l’uno fatto di
fissità, l’altro di movimento, e non sovrapponibili se non, forse, nell’attuale interregno digitale del
morphing – Di Marino, 2009, p. 13)lxiii e, se possibile, con quelli del pensiero stesso, in uno scavo di tono
wittgensteiniano nella natura profonda dell’immagine. Anche nelle ricerche realizzate con la tecnica del
fotofinish da lui reinterpretata dalla metà degli anni Settanta a oggi, dà volto alla coincidenza tra fotografia
e cinema, inventando un tempo dilatato, fluido, nel quale le figure, riprese in movimento dalla fotocamera
in movimento, si allungano o si comprimono deformandosi elasticamente sulla continuità della pellicola,
priva di fotogrammi (Valtorta, 2007)lxiv.
La “morbidezza” del tempo, il suo stratificarsi nell’immagine, è anche al centro di una delle forme più
altamente espressive della fotografia: la posa lunga, che in presenza di un soggetto fermo dà spessore
all’immagine, in presenza di un soggetto in movimento genera il mosso, che potremmo definire come la
resa malriuscita dell’istante (così era per la fotografia delle origini), non correttamente afferrato dalla
macchina, essendo frutto della mancata coincidenza tra il tempo di posa e il movimento del soggetto.
Qualcosa di “anomalo” che potrebbe anche pregiudicare la mimesis alla quale, come scrive Clément
Cheroux “ ‘cultualmente’ la fotografia resta legata” (Cheroux, 2003, p. 136)lxv. E’ noto come Henri Bergson
fosse in polemica con la rappresentazione scientifica del tempo e del movimento (si pensi nuovamente a
Muybridge e a Marey), “un sistema per lui approssimato e meccanicistico, che cerca di riprodurre le
semplificazioni ideali applicate alla coscienza umana per poter analizzare i fenomeni, misconoscendo la
‘qualità’ della durata”. E’ ciò che fa la fotografia quando parcellizza il tempo in istanti, dandone una visione
“misurabile”, analitica, basata su “una descrizione ‘cinematografica’ del moto come susseguirsi di elementi
statici”, che inibisce quello che invece potremmo definire “un approccio sintetico che veda il movimento
nel suo compiersi qualitativo, come un’esperienza del divenire” (si pensi allora ai Bragaglia) (Giusti, 2014,
p. 22 e p. 25)lxvi. Come afferma Bergson, infatti “nella transizione c’è di più che una serie di stati e cioè delle
sezioni possibili, così come nel movimento c’è di più che una serie di posizioni, e cioè delle stasi possibili”
(Bergson, 1907, p. 256)lxvii.
Questo di più è per esempio presente nel lavoro che dagli anni Ottanta sviluppa Giovanni Ziliani, artista e
studioso del tempo in fotografia. Egli utilizza la posa lunga (anche unendola alla sequenza) in una serie di
11

riprese di figure in movimento e di ritratti nella metropolitana di Milano, luogo della contemporaneità dove
l’individuo transita, anonimo, dunque privo di identità, una condizione alla quale il mosso dà evidenza
visiva. “Tutti gli attimi temporali (e i loro intervalli) vengono registrati dall’obbiettivo fotografico se noi lo
teniamo costantemente aperto. L’occhio meccanico dilatato sul tempo potrà cogliere il carattere della
durata”, ma “questo tipo di registrazione fotografica ha la caratteristica di distruggere la materialità dei
corpi”. Vi è dunque una contraddizione, osserva Ziliani: “Il massimo della scrupolosità analitica (tutto il
tempo, tutti gli istanti sono registrati) porta a un risultato che è l’opposto della chiarezza. (…) L’immagine è
una specie di fantasma (…) è una forma effimera, come un flusso, come un’onda” (Ziliani, 1987, p. 98-
99)lxviii.
Anche Mimmo Jodice, nella sua lunga ricerca degli anni Ottanta-Novanta intitolata Mediterraneo, ricorre al
mosso, questa volta ottenuto non attraverso la lunga posa ma con movimenti della carta sensibile in fase di
stampa, per introdurre un elemento di turbamento e di sprofondamento nel passato, in immagini di
paesaggi, archeologie e sculture che rappresentano la lontananza del tempo mitico della classicità e, come
scrive Predrag Matvejevic, “invitano alla meditazione” (Matvejevic, 1995, p. 110)lxix. Una analoga
sensazione di tremore e di immersione in un tempo sospeso scaturisce dalle fotografie di Mario Cresci
appartenenti alla serie del 2008 Fuori tempo (Cresci, 2009)lxx. L’artista riprende da vicino alcuni ritratti
dipinti da importanti maestri ed entra dinamicamente in essi abbattendo la barriera tra il tempo presente
della nostra visione e il tempo passato interno ai dipinti stessi. In una sorta di inversione, il movimento, che
non è del soggetto ma della macchina, destabilizza la nitidezza dell’istante e lo dilata, conferisce una strana
trasparenza e leggerezza ai volti, riuscendo a “dar voce all’eternità” (Berger, 1984, p. 35)lxxi.
Il tempo viene infine fotograficamente dilatato in modo estremo nella nota serie di Hiroshi Sugimoto
Theaters, realizzata tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta. L’artista riprende la proiezione
cinematografica di interi film nel loro avvenire sugli schermi di sale diverse, dai teatri-cinema più antichi
fino ai drive-in: il tempo di posa utilizzato coincide con la durata del film stesso, che si trova così raccontato
nella sua interezza composta di migliaia e migliaia di immagini. Il continuo fluire di queste l’una sull’altra dà
come risultato un rettangolo bianco sul quale si sono accumulati tutti i fotogrammi che compongono il film,
cioè di immagini fatte di luce, in un processo misterioso e, secondo l’artista, quasi religioso. Nella sala, così
come sulla schermo, non vi è presenza alcuna.
Nelle culture d’Oriente, nei loro legami con il taoismo o il buddhismo, “il vuoto temporale, come quello
spaziale, ha una funzione dialettica: come lo spazio vuoto si dà solo in rapporto allo spazio pieno e
viceversa, così il tempo vuoto, ossia quello che si potrebbe chiamare “tempo assente” – il quale si
determina come “già stato” (passato) e come “non ancora” (futuro) – si dà solo in rapporto al tempo
presente, e viceversa” e grande peso ha l’idea di “mondo come vacuità”, cioè impermanenza sia spaziale sia
temporale, caratterizzata da incessante mutamento (Pasqualotto, 1992, p. 12 e p. 39)lxxii. L’Occidente non
vive l’esperienza del vuoto, né negli stili di vita, né nel paesaggio, né nelle arti. Vive profondamente quella
della inafferrabilità del tempo, e della sua non misurabilità. “Noi, in realtà, non misuriamo mai il tempo in
sé, misuriamo sempre delle variabili fisiche (…) e confrontiamo sempre una variabile con l’altra – ci dice uno
studioso di gravità quantistica come Carlo Rovelli -. (…) L’idea di un tempo t che scorre da sé, e rispetto a
cui tutto il resto evolve, non è più un’idea efficace. (…) Dobbiamo imparare a pensare il mondo non come
qualcosa che cambia nel tempo, ma in qualche altro modo. Le cose cambiano solo in relazione l’una
all’altra. A livello fondamentale, il tempo non c’è”. (Rovelli, 2014, p. 157-159)lxxiii.
12

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