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ÁTOPOn

Rivista di Psicoantropologia Simbolica


e tradizioni religiose

Maria Pia Rosati

Figure mitiche
alle soglie del tempo

mythos edizioni
ÁTOPOn
R
! ivista di Psicoantropologia Simbolica
e tradizioni religiose
ISSN 1126–8530

Direzione:
Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele
Redazione:
Giuseppe Lampis, Maria Pia Rosati,
Claudio Rugafiori, Marina Plasmati,
Lorenzo Scaramella
Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries

I edizione Quaderno 3/2015


Edizione elettronica riveduta e corretta 2016

© « átopon »
(Rivista di Psicoantropologia Simbolica)
‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale
Via Guareschi 153 – Roma 00143
www.atopon.it – atoponrivista@atopon.it
Demetra, Roma Palazzo Altemps
Immagine fotografica di Lorenzo Scaramella
INDICE

Abstract 5

Premessa 9

Il rapimento di Kore 16

Il lutto della madre 21

I riti iniziatici 28

Immortali mortali, mortali immortali 35

Iniziazione e sacrificio della donna 38

I misteri eleusini e l’orfismo 46

Calcato Proserpinae limine 56

Hermes, il messaggero 61

La parola del passato e il presente 68

Testimonianze 73

Bibliografia 76
Abstract

Alla sottomissione dell’uomo alla


legge delle leggi, al logos che tutto
comanda quale che sia il suo nome
sempre numinosum e tremendum, si è
sostituita ai nostri giorni la
sottomissione indiscussa alla cosiddetta
verità scientifica, unica dea.
Ma la Scienza ha anch’essa un
volto tremendum.
È necessario che il mondo
odierno, tecnologico e unidimensionale,
ritrovi lo spessore simbolico della vita,
che custodisce nel profondo l’arreton,
l’indicibile, eternamente presente, cui
alludono gli antichi miti.
Gilbert Durand ha ipotizzato che
la comprensione del mito un giorno
sarà annoverata tra le più significative
esperienze del XX secolo.
Il racconto esemplare, il mito, infatti
affronta temi cosmologici, escatologici,
teologici, problemi dell’esistenza
umana: « Le strutture e le figure
mitiche sono lo specchio nel quale
possiamo guardare il volto delle opere
dell’uomo e decifrare la legenda (che
sempre ancora deve essere letta) della
condizione umana e del suo destino ».
A Enrica Ciafardini
con la quale sin dagli anni giovanili
abbiamo condiviso gli studi classici
e la dimensione átopon

La bellezza brillava allora intera ai nostri


occhi, quando insieme al coro dei beati,
seguendo noi Zeus, altri un altro iddio,
godevamo di una vista e di uno spettacolo
beatificante, e c’iniziavamo alla più beata
delle iniziazioni che celebravamo,
allorché perfetti e immuni dei mali che ci
attendevano nell’avvenire, iniziati ai più
profondi misteri, godevamo di quelle
visioni perfette, semplici, calme, felici, in
una luce pura, puri noi stessi e non sepolti
in questa tomba che chiamiamo corpo …

Platone, Fedro 250 b–c

Felice chi entra sottoterra


dopo aver visto quelle cose:
conosce la fine della vita, conosce
anche il principio dato da Zeus

Pindaro, fr. 137


Persefone, V sec. a. C. Berlin Altes Museum
ph. Jean–Pierre D’Albéra
Premessa

Il mistero della vita e della morte è il


tema universale su cui l’uomo ha
costantemente meditato cercando di
dare un volto e un senso a ciò che gli
appare la minaccia incombente:
l’improvviso fermarsi della vita e lo
spalancarsi dell’ignoto che tutto divora.
L’angoscia, espressa o negata,
provocata dalla minaccia sottesa allo
scorrere del tempo, può farsi via via più
forte con il dipanarsi della matassa
della vita, fino a divenire terrore
paralizzante nell’ultima fase, la
vecchiaia, continuamente assillata e
quasi inseguita dalla morte.
« La vita fugge, et non s'arresta una
hora et la morte vien dietro a gran
giornate, et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora »
confessava Petrarca.

La seconda metà del Novecento,


uscita dalle terribili tragedie di due
sanguinose guerre mondiali ha rivelato
l’estrema fragilità di una visione della
vita fondata quasi esclusivamente sulla
ragione calcolante e sull’illusione di un
progresso tecnologico e scientifico
capace di affrontare e risolvere ogni
problema. Si è diffusa la percezione
che l’uomo abbia assoluto bisogno di
confrontarsi con i problemi fondanti
dell’esistere; di confrontarsi con gli
archetipi che tuttavia – insegnano le
culture tradizionali – non possono mai
essere avvicinati in maniera troppo
diretta nella pretesa di raggiungere la
verità obiettiva.
Così, proprio il senso della vita
continua ad essere per l’uomo il segreto
dei segreti.
« La natura ama nascondersi »
affermava Eraclito e la fisica quantistica
è arrivata sorprendentemente dopo
circa due millenni e mezzo a identica
conclusione.

La psicoanalisi ha tentato invano di


riportare l’uomo a uno sguardo
meditante su se stesso e su ciò che
rimane inconscio, sia al singolo che alla
collettività.
La nuova disciplina nata agli esordi
del XX secolo sembrava capace di
aprire un’importante via per una più
penetrante attenzione a ciò che,
sfuggendo alla coscienza, è inquietante
e misterioso e (al di là di ogni
strabiliante risultato scientifico o
progresso tecnologico) insiste a
tormentare l’uomo con angosce e gravi
sofferenze psichiche.
La psicanalisi è opera di studiosi di
notevole profondità, Sigmund Freud
Carl Gustav Jung e loro importanti
epigoni, che hanno scandagliato le
modalità di interazione della psiche con
il mondo per illuminare gli oscuri
recessi della sua sofferenza. Purtroppo
temiamo che anche questa disciplina sia
stata quasi sopraffatta dall’imperante
metodologia tecnoscientifica.
Il lungo cammino dell’analisi, una
sorta di lungo itinerario iniziatico alla
ricerca del Sé, sembra essere privilegio
di poche élites culturali. La crescente
moltitudine di persone che soffrono di
sintomi nevrotici e di ancora più gravi
forme di disagio psichico cercherà una
soluzione del malessere in terapie
psicologiche brevi che ne risolvano gli
aspetti più conclamati o in terapie
farmacologiche mirate ad un rapido
abbattimento dei sintomi, senza che
possa essere affrontato il nucleo
profondo della sofferenza. Le nuove
metodologie della ricerca sembrano
indirizzate a trovare soluzioni rapide e
efficienti per ogni problematica umana
che intralci il ritmo di sviluppo della
società in una logica che potremmo
definire prevalentemente economica.

Nell’odierna situazione di incertezza


psicologica e culturale diviene dunque
sempre più importante ritrovarci in un
átopon in cui confrontarci con la parola
antica di antichi racconti, con i miti.
Gilbert Durand ha ipotizzato che la
comprensione del mito sarà annoverata
un giorno tra le più significative
esperienze del XX secolo.
Perché il mito è il racconto esemplare
che affronta tematiche cosmologiche,
escatologiche, teologiche, problemi dell’
esistenza umana. « Le strutture e le
figure mitiche sono lo specchio nel
quale possiamo guardare il volto delle
opere dell’uomo e decifrare la legenda
(che sempre ancora deve essere letta)
della condizione umana e del suo
destino ».
Il mito è un metalinguaggio che
integra e rende presenti nella vita
quotidiana e banale gli elementi
fondanti e dunque sacri, numinosi,
kerigmatici, eterni: in esso il linguaggio
dell’essere si fa carne e diventa
comprensibile ad ogni uomo.
I grandi miti subiscono derive,
fluttuazioni e perfino occultamenti nel
corso della storia della società e
diventano ispiratori, sebbene non
palesi, delle più differenti espressioni
umane: opere d’arte, ideologie, sistemi
politici, sociali, economici, invenzioni
tecniche.
I miti sono inoltre « storie che
curano », ricorda James Hillman.
Rappresentando in maniera poetica
gli eterni problemi e angosce, fanno
uscire dalla chiusura nel particolare e
nel contingente e aprono la visione di
un universo regolato da una legge
superiore che fa presentire che tutto ha
un senso, se pure inafferrabile. E
dunque che tutto si può sopportare, anche
ciò che nessuna scoperta scientifica
riesce ad allontanare: l’esperienza del
dolore, della vecchiaia, della morte,
componente essenziale e ineludibile
della vita.

Ne deriva che anche l’ultima


stagione della vita, quella che si
avvicina alla morte, può essere quella
con una prospettiva più profonda, un
orizzonte più ampio. Alla luce radiante
del crepuscolo i colori non sono più
contrastanti e una nuova visione può
accendersi. Può essere il momento di
sintesi in cui tutto è ricomposto, tenuto
insieme, e i contrasti smettono di essere
dilanianti e paiono avviarsi a una
soluzione: si sta delineando un nuovo
equilibrio, forse possiamo intravedere
una coniunctio oppositorum. Diviene
allora possibile avvicinarci alla soglia,
pronti a muovere oltre il tempo, ad
entrare in seno all’eterno.

Leggiamo Kathleen Raine:


« Ci sono soglie del dolore che si
oltrepassano nella vita, quando la
propria vita personale è finita, e allora
si crea una disponibilità, un'apertura,
nella quale ci possiamo incontrare nello
spirito universale, dove poter fare
esperienza dell'unità del molteplice ».
Il rapimento di Kore

Alcuni miti e leggende, che letture


evemeristiche riduttive considerano
legate ai cicli naturali stagionali e
all’agricoltura, sono divenuti materia
della philosophia perennis, fonti cioè di
uno spirituale insegnamento iniziatico
alla comprensione intuitiva dell’unità
dell’essere pur nella molteplicità delle
sue manifestazioni.
Nel mondo tradizionale la natura è
una teofania e mostra come ogni ente
sia strettamente legato nel Tutto che è
Uno (hen to pan). E se l’uomo è
innanzitutto homo symbolicus, prima che
homo faber (come illustra l’antropologia
di Gilbert Durand e di Julien Ries), la
vita spirituale dell’uomo è legata alla
maniera in cui egli riesce a cogliere nei
molteplici eventi naturali quotidiani il
messaggio di un’eterna unica completa
verità.
Eraclito invitò con la sua folgorante
sinteticità i visitatori che esitavano
meravigliati di trovare il famoso
sapiente seduto presso un forno:
« anche gli dei stanno accanto al
focolare ».
Ricordiamo altresì il detto vedico: tat
tuam asi, questo sei tu.
Allora, ogni semplice gesto della
vita, dall’alzarsi al mattino al riposare
la notte, il prendere il cibo e lavorare
per procurarselo, diviene un rito sacro
in cui l’uomo si sforza di essere in
armonia con il tutto, senza cadere nella
colpa, che percepisce gravissima, di
rompere un insondabile equilibrio,
facendo precipitare il tutto nel caos.
E il rito sacro è per essenza un
sacrificio in cui l’uomo paga con la sua
vita, ancorché simbolicamente, il debito
che ogni umano vivendo contrae con la
Vita.

Vogliamo dunque guardare al


patrimonio della nostra tradizione
culturale, soprattutto ai miti che
vedono la vita umana svolgersi intorno
a un asse verticale i cui punti estremi
sono la vita e la morte e che si trasforma
in cerchio fino a prendere l’aspetto
dell’uroboro, il serpente che addenta la
coda, simbolo dell’energia universale
(hen to pan) in cui principio e fine si
congiungono.
Un antichissimo mito greco, le cui
radici affondano nella cultura pregreca
e che è rimasto vivo nella tradizione
occidentale, ci può aiutare a « guardare
negli occhi » il tema della morte, dai
primordi il massimamente inquietante,
inaccettabile, tremendum e numinosum.
Il mito di Persefone – o di Kore, la
fanciulla – tra i più antichi e complessi e
su cui erano fondati i Misteri Eleusini,
fulcro della religiosità greca, ripreso
instancabilmente da poeti ed artisti,
studiato dagli psicoanalisti, ci guida
nella complessità del mistero della vita:
in cui il principio è collegato con la fine,
la vita con la violenza lo strazio e la
morte, l’amore con il lutto e la
separazione.
Il mito ebbe grande fortuna letteraria
nell’antichità classica e in particolare fu
caro agli studiosi del Rinascimento
italiano, primo fra tutti Marsilio Ficino,
traduttore degli inni omerici, interprete
di Platone, di Plotino e degli scritti
ermetici.
Il famoso saggio di Karl Kerényi,
Kore (1942), offre preziose indicazioni
su questo mito che riprende
un’antichissima tradizione iniziatica,
preellenica, e si declina in molteplici
varianti in differenti religioni e culture,
perfino distanti in assoluto dalla greca.
Dobbiamo considerare che le divinità
greche, in maniera probabilmente più
evidente di quelle di altre religioni,
sono « eterne figure », « grandi realtà
del mondo », immagini archetipali,
quasi « formule » che, cogliendo ogni
aspetto del mondo, « esprimono con
chiarezza e precisione l’equilibrio di
immani forze cosmiche ». Si tratta di un
equilibrio delicato, come in una
situazione–limite.
Persefone è precipuamente divinità
del limite, simbolo complesso della
materia e dell’energia che la investe e
che la trasforma. La madre e l’uomo
sono i limiti estremi tra i quali si svolge
la sua vicenda « in un equilibrio in cui
una di queste forme di esistenza (la
fanciulla presso la madre) appare come
vita, l’altra (la fanciulla presso l’uomo)
come morte.
Madre e figlia formano qui un’unità
di vita in una situazione–limite:
un’unità di natura che porta in sé,
ugualmente per natura, la possibilità di
spezzarsi » (Kore, 160).
Ricordiamo i versi di Dante che
vedendo Matelda esclama: « tu mi fai
rimembrar dove e qual era/ Proserpina
nel tempo che perdette/ la madre lei ed
ella primavera » (Purgatorio XXVIII, 49–
51).
Questa unità naturale, se pur in
nuovi modi, sa eternamente riproporsi.
Il lutto della madre

Narra l’inno omerico A Demetra, che


Persefone, chiamata anche Kore o Pais,
è la fanciulla, l’amata unica figlia di
Demetra (antica dea della terra e di ciò
che da essa nasce) e di Zeus, signore del
cielo.
Hades (l’Invisibile), sovrano degli
inferi e dio dei morti, con il consenso
del fratello Zeus rapì all’insaputa della
madre la fanciulla mentre giocava
spensierata con le altre fanciulle divine
e coglieva i fiori sbocciati sui verdi prati
che circondavano la segreta dimora in
cui la madre la custodiva gelosamente.
Tra tutti, il fiore del narciso che Gea
aveva fatto miracolosamente sorgere,
per volere di Zeus compiacente con il
dio che regna sui molti, emanava una
fragranza inebriante che si spargeva
sulla terra, in cielo e sulle acque del
mare in un tripudio per gli uomini
mortali e gli dei immortali. Quando la
fanciulla si protese a cogliere quel fiore,
la terra si spalancò e ne balzò fuori il
signore degli inferi, il dio dai molti
nomi, figlio di Crono, che la rapì sul
suo carro dorato. Invano ella riluttante
in lacrime chiamava con alte grida il
padre Zeus. Nessuno dei circostanti
sentì la sua voce se non i due luminari
del cielo, Hecate, la dea dal fulgido
diadema, e Helios, il figlio di Iperione.
Alla madre giunse la voce della figlia
immortale che risuonava sulle vette dei
monti e gli abissi del mare. Trafitta da
acuto dolore, coperta da un velo nero si
slanciò come un uccello sulla terra e sui
mari errando per nove giorni tenendo
in mano due fiaccole accese, senza
toccare né ambrosia, né nettare e senza
bagnarsi.
Infine incontrò Hecate che illumina
di luce lunare le notti e insieme si
recarono da Helios che con i suoi raggi
guarda terra e mare.
Helios rivela alla madre angosciata
che Hades ha rapito la fanciulla
trascinandola piangente nelle tenebre,
tuttavia la esorta ad asciugare il suo
pianto e a placare il suo rancore: Zeus
stesso ha destinata la figlia al fratello
Hades perché ne sia la sposa fiorente e
Aidoneus (altro nome di Hades),
signore di molti uomini, è fra gli
immortali un genero non indegno e
possiede il terzo regno dei tre in cui è
diviso il mondo.
Irata con Zeus e tormentata da un
dolore viepiù struggente, Demetra
abbandonò l’Olimpo e avvolta nel suo
lutto, irriconoscibile per gli uomini,
cominciò a vagare sulla terra, fino a che
giunse nei pressi della casa di Celeo,
signore di Eleusi.
Le figlie di Celeo, quattro giovani
fanciulle belle come dee, scorgendola
seduta lungo la strada vicino al pozzo
con le fattezze di una vecchia carica di
anni, lontana dalle gioie dell’amore e
della maternità, non riconoscendo la
dea sotto il misero aspetto, ebbero pietà
della sua solitudine e la invitarono nella
casa paterna. Ad esse la dea rispose
chiamandole « care figlie » e promise
che avrebbe insegnato i lavori manuali
alle donne della casa e ad accudire un
bambino. Ricevuta la piena fiducia di
Metanira, loro madre, Demetra assunse
dunque la cura dell’ultimo suo nato, il
prediletto Demofoonte.
Il bambino cresceva meravigliosa-
mente, simile a un dio, per le sole cure
amerevoli della dea che lo teneva in
grembo e lo ungeva d’ambrosia e tutte
le notti di nascosto lo esponeva alla
forza del fuoco, quasi un tizzone da
ardere.
Ma la madre Metanira, stupita della
sorprendente crescita del bambino e
gelosa delle straordinarie capacità della
nutrice straniera, la spiò per carpirne il
segreto e scoprì il rito terribile.
Angosciata, percuotendosi, gridò che le
si voleva togliere il figlio e lasciarla
disperata nel lutto.
Demetra, sentendo quelle grida,
adirata toglie il bambino dal fuoco, lo
posa a terra e, rivelando il suo nome e il
suo potere divino di dare le più grandi
gioie a mortali e ad immortali, lamenta
la stoltezza degli esseri umani che non
sanno prevedere il destino della gioia o
del dolore che incombe. Giura sulle
acque infere dello Stige, secondo
l’usanza degli dei, e rivela che la madre,
intromettendosi con pavide grida, ha
impedito che il figlio diventasse
immortale. Dichiara tuttavia che colui
che aveva avuto il privilegio di essere
stato in grembo a una dea sarebbe stato
sempre onorato ad Eleusi, dove il
popolo doveva erigere un tempio per
celebrare i sacri riti che lei stessa
avrebbe insegnato.
Si allontanò quindi dal palazzo
lasciando Metanira muta e sconcertata e
il bambino piangente per la perdita
della divina nutrice.
Il re Celeo radunò immediatamente
il popolo e ordinò di erigere un tempio,
secondo la volontà della dea che vi
prese dimora continuando a restare
lontana dai beati e a piangere la figlia.
Nel frattempo la terra rimaneva
sterile e vane erano le opere degli
uomini. La carestia avrebbe distrutto il
genere umano se Zeus non avesse
deciso di intervenire: visto vano ogni
tentativo di sciogliere il lutto di
Demetra, inviò Hermes negli inferi per
persuadere Hades a ricondurre
Persefone dall’oscurità alla luce,
affinché la madre rivedendola cessasse
la sua ira.
Hades acconsentì a che la moglie,
anch’essa triste per la separazione dalla
madre, tornasse da lei, ma le porse, non
visto, alcuni rossi semi di melograno,
cibo dei trapassati, che ella gustò.
Proserpina salì felice sul cocchio
dorato di Hades, guidato da Hermes,
che attraversando l’aria rapido
raggiunse il tempio davanti al quale la
dea sedeva. Demetra abbracciò felice la
figlia e subito, preoccupata, le chiese se
avesse preso qualche alimento negli
inferi, perché in tal caso, per legge
ineludibile, avrebbe dovuto ritornare
laggiù. Proserpina ammise!
Furono necessari l’intervento e
l’esortazione di Rea, madre di tutti gli
dei, a far sì che Demetra concedesse
infine che il frumento datore di vita
ritornasse a crescere sulla terra e
accettasse in cambio di riavere la figlia
ogni anno per due stagioni. In questo
modo, madri e figlie poterono tornare a
festeggiare insieme.
La terra riprese a fiorire e Demetra si
recò dal sovrano di Eleusi per insegnare
i sacri riti iniziatici: « Felice tra gli
uomini sulla terra colui che è stato
ammesso al rito! Ma chi non è iniziato
ai misteri, chi ne è escluso, non avrà
giammai simile destino, nemmeno
dopo la morte, laggiù nella squallida
tenebra » (A Demetra, 478–482).
I riti iniziatici

Lo hieros logos (la sacra storia) di


Demetra, in particolare la sparizione di
Persefone e il suo ricongiungimento
con la madre, costituisce l’asse portante
intorno al quale si svolgevano le
cerimonie iniziatiche dei misteri
Eleusini.
Il santuario di Demetra fu uno dei
massimi centri culturali e sapienziali
dell’umanità e da esso irradiarono forze
spirituali che contribuirono al sorgere e
allo svilupparsi della straordinaria
civiltà greca.
Trasmetteva un’antica tradizione
sapienziale che collegava astronomia,
astrologia e tecniche agricole alle leggi
cosmiche della vita e della morte, della
terra e del cielo. Alla sua misteriosofia
fanno riferimento figure guida della più
alta tradizione culturale dell’occidente:
Pitagora, Socrate, Platone.

Eleusi era collegata mediante una via


sacra ad Atene distante circa 20 km. Da
questo primo centro religioso si
propagarono numerosi altri, dedicati
alla madre e alla figlia, nell’intero
continente greco e dalle isole dell’Egeo
fino alla Sicilia dove le due dee erano
venerate, se pur con nomi diversi, da
protettrici dell’isola. A Selinunte nel
santuario della Malophoros sono state
rinvenute migliaia di tavolette votive
(pinakes) con immagini sacre di
entrambe le dee.
Nel centro sacrale di Eleusi veniva
celebrato il rito in due periodi
dell’anno. In primavera, nel mese di
Antesterione, ad Agra, un sobborgo di
Atene, il mistagogo officiava i piccoli
misteri, con digiuni, purificazioni,
sacrifici. In autunno, nel mese di
Boedromione (settembre–ottobre) lo
ierofante celebrava i grandi misteri a
cui potevano partecipare tutti coloro
che avevano partecipato ai riti di
primavera, anche le donne e gli schiavi,
tranne « chi ha mani impure o parla
una lingua incomprensibile ».
Gli iniziati erano tenuti alla
segretezza sul contenuto dei misteri e in
caso di trasgressione venivano colpiti
da pene severissime, fino alla morte.
Nove i giorni dedicati alla grande
festività (dal 13 al 22 Boedromione,
periodo dell’equinozio autunnale)
quanti i giorni che Demetra aveva
trascorso alla ricerca della figlia Kore.
Dopo un triduo preparatorio, il
quarto giorno gli iniziandi dovevano
compiere una purificazione in mare
insieme con un maialino, vittima
sacrificale sostitutiva. L’uccisione di
questo animale sacro a Demetra
rappresentava la temporanea morte
dell’iniziando precipitato nella maniera
di Persefone simbolicamente nell'Ade.
Dopo la celebrazione degli Epidauria
in onore di Asclepio, il quinto giorno, si
svolgeva la lunga processione che dal
Ceramico, il cimitero di Atene,
raggiungeva Eleusi.
Durante la processione, gli iniziati
danzavano agitando rami (bacchoi) e
cantavano lo iacchon, in onore di Iacco,
finché giunti al fiume Gefirio avevano
un rituale scambio di insulti con la
gente radunata sul ponte.
Il corteo arrivava ad Eleusi il sesto
giorno.
Nei pressi del telesterion gli iniziandi
si staccano dalla folla e cominciano le
cerimonie misteriche vere e proprie:
danzano intorno ad un pozzo, chiamato
kallichoros, e rompono il digiuno
bevendo il ciceone (acqua, farina d'orzo
e menta) per entrare poi nel telesterion
per la « cerimonia introduttiva per gli
iniziandi ».
Clemente Alessandrino (Protrettico II
21, 2) ci dà un criptico accenno delle
parole pronunciate dal mystes: « Ho
digiunato, ho bevuto il ciceone, ho
preso dalla cista, ho compiuto l’atto
rituale, ho deposto nel canestro e poi da
qui di nuovo nella cista ». Immagini
vascolari ci mostrano il candidato
seduto, nella fase preliminare di
purificazione, su uno sgabello coperto
con pelle di montone con il capo velato
e i piedi nudi e una sacerdotessa gli si
avvicina con una fiaccola.

Nell’ultima parte della cerimonia


(ricostruita soltanto mediante pochi
elementi) il candidato doveva assistere
ad una sacra rappresentazione della
passione di Kore e del lutto di Demetra
e aveva visioni della fine dell’esistenza
e della morte mentre l’oscurità era
squarciata da improvvisi lampi di luce,
da suoni e voci misteriose.

Infine si rappresentava il ritorno di


Kore.

Apollodoro di Atene racconta che lo


ierofante chiuso nel sacrario (anaktoron)
percuote una lastra di bronzo, come se
il regno dei morti esplodesse, invoca la
dea, accende un grande fuoco e la luce
si diffonde nella sala. Quindi proclama
la maternità di Persefone, che ha
concepito Brimos, e mostra una spiga di
grano recisa. Si levano grida al cielo e
alla terra: « ue, kue! », « piovi/semina,
concepisci! » Superata la prova del
silenzio, nel buio e nella confusione
angosciosa, l'iniziato entra in una fase
luminosa di liberazione e di beatitudine
e ha la rivelazione (epopteia) in cui
giunge a comprendere che « la morte
non è un male ».
In un papiro del II secolo si riferisce
di Heracles che, rivolto allo ierofante,
dice « sono stato iniziato… (ho visto) il
fuoco… e ho visto Kore ».
Il mattino successivo si sacrificano
tori e gli efebi, eseguite alcune prove di
forza, sono ammessi a partecipare al
banchetto sacrificale degli iniziati.
Ultimo rito era una libagione verso
oriente e verso occidente.

Molte feste e i riti popolari,


imperniati sul mito del rapimento di
Kore e del lutto della madre,
sopravvissuti sotto varie forme, hanno
continuato a scandire il tempo
calendariale e lo spazio delle comunità
civili. Tali in Grecia erano le Tesmofòrie
di cui abbiamo notizie grazie a Le
Tesmoforiazuse di Aristofane. Venivano
celebrate nel mese autunnale di
Pianepsione, in tre giorni (11–13)
chiamati an!th!" nesteia kalligeneia
(Salita, Digiuno, Felice Generazione).
La parte cruciale sembra consistesse
nel riesumare dalle profondità di una
grotta gli skira (resti di porcellini
sacrificati e di rami di pino e altri
simboli della forza generatrice) deposti
quattro mesi prima in occasione della
festa delle Sciroforie. Tali resti, thesmoi
(da cui probabilmente il nome delle
celebrazioni), offerti sull'altare di
Demetra, mescolati alla nuova sementa,
venivano poi messi nei solchi della
terra che riceveva nuove energie e
l’avrebbe trasfusa simpateticamente
anche al grembo delle donne.
Immortali mortali, mortali immortali

I misteri di Eleusi, sono rimasti


segreti in realtà perché il loro
insegnamento era centrato sull’arreton,
l’indicibile, ciò che non può essere
espresso a parole e a cui si può solo
accennare attraverso simboli.
Nei misteri non si deve imparare una
dottrina ma subire un’emozione ed
essere in un certo stato (ou mathein ti
dein, allà pathein kai diatethenai),
sintetizza Aristotele.

Da quanto possiamo ricostruire da


Clemente Alessandrino (Protrettico 20),
probabilmente iniziato ai misteri prima
di convertirsi al cristianesimo, si
riproponeva nel rito iniziatico il mistero
della vita e della morte, della tenue
soglia di trasformazione e si faceva
intravedere una nuova visione in cui
l’eterno e il caduco, il divino e l’umano
si trasformano l’uno nell’altro
partecipando a un’armonia invisibile.
Dopo il periodo di rituale
purificazione, l’iniziando entrava, come
Persefone, nel buio e nella solitudine,
prima di poter partecipare alla liturgia
segreta e percorrere il cammino di
intima essenziale trasformazione che
accenderà in lui una nuova luce.
La cerimonia culminante nell’epopteia
gli offre la visione e nello stesso tempo
l’emozionante intuizione che la vita
precedente era buio rispetto alla luce
che si scorge alla sua conclusione.
E, similmente al prigioniero nella
mitica caverna della Repubblica di
Platone, l’iniziato si sente smarrito e
accecato dalla vera luce.

Da alcuni passi di Eraclito lampeggia


il senso dei misteri:
(nella consueta numerazione Diels–
Kranz)
fr. 26 « l’uomo nella notte accende
una luce a se stesso »
fr. 62 « immortali mortali, mortali
immortali: viventi la morte di quelli,
morenti la morte di questi »
fr. 88 « stessa cosa sono vivo e morto,
desto e dormiente, giovane e vecchio:
questi mutando trapassano in quelli e
quelli ritornano a questi »
fr. 54 « l’armonia invisibile, della
visibile è migliore »
fr. 27 « agli uomini che muoiono
attende ciò che non si aspettano né
immaginano ».
Iniziazione e sacrificio della donna

Persefone è simbolo sia del destino


della donna che della vita in genere:
appena sboccia, fiore tra i fiori, e vuol
cogliere i fiori sbocciati con lei, è colta
essa stessa, rapita alla sua fanciullezza,
rapita alla madre che in lei viveva e
gelosamente custodiva il fiore della
propria giovinezza. Passa ad altra vita e
Hades, il dio dell’altro mondo, sembra
figura perfetta di quella soglia
essenziale che si varca in un solo verso
e che al momento delle nozze separa la
donna dalla sua vita di fanciulla.
A differenza dell’uomo che deve
affrontare le prove nel percorso
labirintico della vita, per la donna il
percorso è verticale e metamorfico.
« Nell’antichità le spose si conse-
gnavano agli sposi velate allo stesso
modo in cui si consegnavano alla morte
coloro che erano consacrati agli inferi:
nel velamento dei Mystes » (Kerényi,
Miti e Misteri, 155).
Nelle nozze la fanciulla è pronta a
dare se stessa in sacrificio alla vita; le è
fatto indossare l’abito nuziale che
indica, come l’abito dell’iniziando, la
rinuncia sacrificale della sua precedente
vita per entrare nella nuova.
Le cerimonie nuziali odierne,
benché in forma inconsapevole,
ripetono un rito sacrificale con la
preparazione e la vestizione della
vittima che deve varcare la soglia della
vita. Il letto nuziale sarà l’ara sacrificale.
In certe regioni sopravvive l’usanza che
le donne appartenenti alle famiglie
degli sposi preparino, come un altare
ornato con fiori e erbe, il talamo sul
quale il suo corpo si dovrà aprire alla
gestazione e alla generazione di altre
vite.
La giovane Alcesti, nell’omonima
commedia di Euripide, chiede agli dei
di poter morire al posto del marito
sacrificando la sua vita e coraggiosa-
mente abbraccia i figli e saluta tutti,
compresi i servi.

« … Ma quando entrò nella stanza


nuziale e si lasciò cadere sul suo letto di
sposa, allora sì scoppiò in lacrime,
diceva: “ addio, letto delle mie nozze,
dove l’uomo che amavo, l’uomo per cui
muoio, mi tolse la verginità. Non voglio
tradire te e il mio sposo. Ecco perché
muoio ” ».

Ancora è forte in molte contrade la


tradizione per cui l’abito nuziale sarà
anche l’abito con cui la donna, quale
che sia l’età raggiunta, sarà sepolta.
Perché la via che è destinata alla
fanciulla–sposa, pur passando per il
distacco dalla terra e dai viventi, per il
silenzio e la discesa nell’ombra, porta
ad una nuova significativa vita. Come
Proserpina essa è riconosciuta sposa di
Hades, l’invisibile, re dei molti, e il suo
ruolo è quello di regina di un regno
eternamente fecondo.
Nel Rapimento di Proserpina di
Claudiano, Hades consola la fanciulla
aprendole la visione di un altro mondo:

« … non credere di aver perduto la


luce: abbiamo altri astri, altre orbite,
vedrai un chiarore più limpido e più
ammirerai l’elisio sole e i pii abitanti; là
è l’umanità più nobile, vi soggiorna
l’aurea stirpe e noi possediamo per
sempre ciò che sulla terra fu meritato
una sola volta… Ai tuoi piedi verranno
i re porporati privi del loro splendore,
confusi nella folla dei poveri (tutti
eguaglia la morte!)
Tu condannerai gli empi, tu porterai
pace ai pii. Al tuo giudizio i colpevoli
confesseranno le infami azioni della
vita.
Accetta per ancelle le Parche con le
onde letèe e destino divenga ciò che
decreti ».

Il chicco della rossa melograna che


Kore gusta la radicherà fortemente al
regno dell’aldilà. Nell’antichità i cibi
rossi venivano offerti solo ai morti.
La melograna è un frutto altamente
simbolico. La sua buccia coriacea che
passa dal colore rosato al rosso scuro,
termina in una corona.
Nell’albero della vita descritto dalla
Cabala, kheter, la « corona », è alla
sommità delle dieci Sefirot (Luci divine
o emanazioni) che terminano in basso
con malkut, il « regno ». Alcuni
commentari fanno di kether l’avvio di
un nuovo malkut, un regno
trascendente incoronato e benedetto,
alla fine della serie di Sefirot emanate
dalla « corona divina ». Il frutto
incoronato ha stimolato dal principio
letteratura e arti d’Israele. Lo troviamo
tra gli elementi che la Bibbia prescrive
come decorazione dei capitelli delle
colonne del grande Tempio, simbolo di
regalità materiale e spirituale.
La melograna è, si sospetta, il frutto
che nella tradizione biblica Eva coglie
dall’albero della conoscenza del bene e
del male (o della gioia e del dolore) e
che la porterà all’uscita dal « giardino
delle delizie » per entrare nella vicenda
della vita mortale, col suo susseguirsi di
vite e di morti. Ma proprio da questo
cibo inizierà anche la nuova via di
salvezza.
Quando il frutto della melograna è
maturo la corteccia si apre, quasi in una
ferita, e rivela i grani vermigli che
gustati ridonano energia.
La melograna in Mesopotamia, per la
quantità dei suoi chicchi, è simbolo di
amore, fertilità e prosperità. E in Grecia
è dedicata ad Afrodite.
Una leggenda racconta che il primo
granato nacque dal sangue di Dioniso
colpito dai Titani. Analoga polisemica
valenza simbolica permane altresì nel
cristianesimo. Nella Madonna del
melograno di Botticelli lo sguardo
meditante della Vergine si posa su quel
frutto, simbolo di una nuova fecondità
che sorge dalla morte, dal sacrificio del
suo figlio divino.
Secondo che insegnavano gli
umanisti e i maestri ermetici del
rinascimento nutriti della filosofia di
Platone, dei neoplatonici e della
mitologia orfica, morire significa essere
amato da un dio e amare significa
morire a causa di un dio. Amare è
un’iniziazione, in cui è necessaria la
morte, o il superamento dei limiti
umani, per accedere alla realtà dello
spirito.
Uno sguardo all’India classica,
seguendo la lezione di Charles
Malamoud, ci può illuminare sul
significato archetipico delle tradizioni
riguardanti il matrimonio, visto come
rito iniziatico ad un tempo samskàra
(perfezionamento), evento della vita
sacramentale, e yajna (sacrificio).
Sia per l’uomo che per la donna la
cerimonia è una dïksâ, consacrazione
preparatoria alla sessione sacrificale di
lunga durata (sattra) che è la vita di
coppia.
Nei confronti della sposa viene
recitata questa preghiera:
« Generoso Indra, rendi felice questa
donna con figli belli, fa’ che nel suo
seno nascano dieci figli e fa’ dello sposo
l’undicesimo » (Rk–Sarnhitâ X 85, 45).
La sposa è designata jâyâ, (Aitareya–
Brâhmana VII 13): colei in cui, divenuto
germe, rinasce (jâyate) al decimo mese
lo sposo – che è quindi suo figlio.
Il matrimonio risulta dunque una
perfetta iniziazione (samskâra) per lo
sposo in quanto la trasformazione che
opera lo conduce a una nuova nascita.
Ma per la giovane donna è ancora più
importante: è upanayana (l’iniziazione
alla classe dei due volte nati).
Nella cerimonia sacrificale (che
coinvolge le famiglie degli sposi e la
comunità al completo) il padre della
sposa assume il ruolo di colui che
compie il sacrificio (yajamâna) e la
fanciulla ha il ruolo della vittima (pasu).
La cerimonia del matrimonio, i cui
nomi più usuali sono vivaha, udvâha
(dalla radice VAH – transportare)
consiste in una serie di spostamenti che
alludono al rapimento con il quale il
giovane porta la ragazza fuori dalla
casa di suo padre.

Il ratto rituale compare ai nostri


giorni ancora in alcune forme
tradizionali di matrimonio della Sicilia
o della Sardegna, dissimulate e non
immediatamente riconoscibili.
I misteri eleusini e l’orfismo

Il mito di Persefone e l’iniziazione


dei misteri Eleusini ci pone in contatto
con l’orfismo e la religione di Dioniso,
sfera fra le più profonde e segrete del
mondo greco, e con il mistero
dell’esistenza.
Dioniso è forse il figlio virginale di
Persefone, rappresentato nel Brimos
(Terribile) la cui nascita viene
solennemente annunciata ad Eleusi
dallo ierofante.
Anche Dioniso, come Persefone, si
mostra all’improvviso per scomparire
altrettanto misteriosamente. Sotto il
nome di Zagreus (il cacciatore), subisce
da parte dei Titani la morte e lo strazio,
lo sparagmós, da cui nasce la nuova vita
su un altro piano.

« Dioniso è in rapporto con la totalità


della vita… Attraverso le sue epifanie e
le sue occultazioni, rivela il mistero e la
sacralità dell'unione tra la vita e la
morte. ...
Scomparsa e occultamento sono
espressioni mitologiche della discesa
agli Inferi, dunque della morte... Ed
infine il mito di Zagreus–Dioniso narra
della morte violenta del dio; ucciso,
smembrato e divorato dai Titani.
… Come Persefone gioca nel cogliere
i fiori, così Dioniso–Zagreus gioca
attratto da balocchi (uno specchio, una
palla, una trottola, un rombo), quando
giungono i Titani, lo massacrano, lo
fanno a pezzi (sparagmós) che fanno
cuocere in un calderone e, secondo
alcune versioni, lo divorano. Una dea
(Atena, Rea o Demetra) salva il cuore in
un cofanetto. Zeus folgora i Titani... In
alcune versioni del mito, accettate
nell'orfismo, dalle loro ceneri sono stati
creati gli uomini. » (Mircea Eliade,
Storia delle credenze e delle idee religiose,
I).
Pregnante il significato misterico
dello sparagmós (presente anche nel
mito di Osiride fatto a pezzi dal fratello
Set), nonché della cottura, o del
passaggio attraverso il fuoco, elemento
purificatore che, parimenti al dio
vedico Agni, porta all’immortalità.
I riti di smembramento e cottura o
passaggio attraverso il fuoco
(ricordiamo che Demetra esponeva
Demofoonte al fuoco) caratterizzano le
più arcaiche iniziazioni sciamaniche
con il novizio che viene « ucciso », allo
scopo di farlo « ri–nascere » a uno stato
superiore di esistenza.

Eraclito, ancora Eraclito, ci aiuta a


comprendere la nuova possibilità che si
apre agli iniziati, il loro risveglio alla
nuova luce:

fr. 18 « se non speri l'insperabile non


lo troverai (exeuresei), perchè è sottratto
alla ricerca e ad esso non porta nessuna
strada (aporon) »
fr. 27 « agli uomini che muoiono
arrivano cose che non si aspettano e che
non sanno rappresentarsi ».
fr. 15 « il medesimo sono Hades e
Dioniso ».

Dioniso è anche il dio della vite, i cui


grappoli, attraverso il sacrificio degli
acini, forniscono il sacro succo
inebriante dalle virtù trasformatrici che
ricorda il Soma vedico e l’avestico
Haoma.
L’offerta di Soma, pianta colta in
regioni montuose, dai cui steli
schiacciati a colpi di pietra, veniva
estratto un succo, liquore di
immortalità per gli dei e bevanda
psicotropa per i mortali, costituisce il
sacrificio più importante nel mondo
vedico.
Soma, come il vino, è un dio che gli
uomini mettono a morte e il cui
sacrificio mantiene l’immortalità degli
altri dei rinnovandola.
Il dio dai numerosi nomi e epifanie è
presente nell'ebbrezza, nell'erotismo,
nella fertilità universale, nelle estasi
terrificanti suscitate dal ritorno
periodico dei morti, nella mania
selvaggia animalesca, nell'enthousiasmos
(invasamento divino).
Egualmente al dio Shiva è immagine
della misteriosa travolgente forza della
vita.

Diodoro Siculo ci informa che Orfeo


era proclamato « profeta di Dioniso »,
« fondatore di tutte le iniziazioni » (III,
65, 6), riformatore dei misteri dionisiaci
e che tutte le iniziazioni dovute a
Dioniso sono chiamate orfiche: « Orfeo
ha trasmesso nelle cerimonie dei misteri
lo smembramento di Dioniso » (V, 75,
4).
L’orfismo, scienza iniziatica non
comunicabile ai profani tranne che in
un linguaggio altamente simbolico,
esige un’intima e severa tensione sia
etica che intellettuale ed è connesso con
la figura di Persefone nella variante del
mito che la voleva madre di Dionisio.
Si diceva anche che la dea,
commossa dal canto di Orfeo, gli aveva
concesso di riportare sulla terra l’amata
Euridice, piegando la legge altrimenti
inviolabile dell’oltretomba che sancisce
l’inconciliabilità tra i mondi dei morti e
dei vivi. Il suo dono tuttavia era stato
vano perché Orfeo non era riuscito a
superare la prova di non voltarsi
indietro a guardare Euridice finché non
avesse varcato il regno dei morti.

Gli iniziati orfici venivano seppelliti


recando a pendant di una collana delle
sottili lamine d’oro arrotolate recanti
incisa l’indicazione di scegliere la via
retta, quella di destra, e la formula di
passo che l’iniziato doveva pronunciare
davanti ai guardiani dell’Ade affinché
lo accogliessero tra i beati.

A Mnemosyne è sacro questo


(dettato):
(per il mystes), quando sia sul punto
di morire.
Andrai alle case di Ade: v’è sulla
destra una fonte,
accanto ad essa si erge un bianco
cipresso;
lì discendono le anime dei morti per
aver refrigerio.
A questa fonte non accostarti
neppure;
ma più avanti troverai la fredda
acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne: vi stanno
innanzi custodi,
ed essi ti chiederanno in sicuro
discernimento,
che mai cerchi attraverso la tenebra
dell’Ade caliginoso.
Dì: « (Son) figlio della Pesante e del
Cielo stellato;
di sete sono arso e vengo meno: ma
datemi presto
da bere la fredda acqua di
Mnemosyne ».
Ed essi son misericordiosi per volere
del sovrano degli inferi,
e ti daranno da bere (l’acqua) del
lago di Mnemosyne;
e tu quando avrai bevuto percorrerai
la sacra via su cui anche gli altri
mistai e bacchoi procedono gloriosi.

Le parole esprimono sete di verità


(alétheia), ripudio dell’oblìo (léthe) e
desiderio di perenne memoria
(mnemosyne) della propria origine
(« sono figlio della Terra e del Cielo
stellato »). Testimoniano una dottrina
religiosa in cui alla perturbante teleuté
(fine, compimento) si unisce un intimo
enthusiasmós bacchico. Tale religione fu
professata da filosofi, cultori delle
Muse, conoscitori della virtù divinatrice
del canto e dell’ispirazione pitica. Essi
erano consapevoli del limite, della
soglia tra divino e umano, contingente
ed eterno.
Il bacchos è iniziato sotto il segno di
Mnemosyne, figlia della Terra e del
Cielo stellato notturno, madre delle
Muse altrici di arti e scienze che
promette la vita eterna non della
psyché ma del nûs. L’ispirazione pitica
e il culto della memoria sono
fortemente presenti nella religione e
nell’etica del movimento orfico–
pitagorico. Secondo quanto leggiamo
nella Vita di Pitagora di Giamblico,
correva fama che Pitagora avesse il
potere di conservare da vivo e da morto
il ricordo dell’accaduto.
Empedocle, seguace di Pitagora,
proclama: « Già un tempo io nacqui
fanciullo e fanciulla, arboscello e
uccello e pesce ardente balzante fuori
dal mare » (fr. 117).
In Parmenide di Elea, che si
considera legato al pitagorismo, è
determinante l’attenzione alla « giusta
via » (la hierà hodós citata nella lamina
di Hipponion) che porta alla verità.
La « vita orfica » (Orphikós bios) viene
descritta da Diogene Laertio, VIII 33 e
da Platone Leggi VI, 782 c.
Platone, giunto in Italia nel 388/7
divenne amico di Archita e di altri
filosofi che avevano ricostituito in
Taranto un’importante comunità orfica.

Scrive Giovanni Pugliese Carratelli


(Tra Cadmo e Orfeo, 1990):
« Nei dialoghi scritti dopo il suo
viaggio – il Gorgia, l’Apologia, il
Menone, il Fedone – son dibattuti
problemi che hanno le loro radici
nella dottrina dell’immortalità
dell’anima e della metempsicosi, che
da un’autorevole tradizione era
considerata dottrina primamente
elaborata da Pitagora, non senza
ispirazioni di varia origine:
dall’escatologia dionisiaca cretese e
italiota che affiora in Pindaro e in
Empedocle, a quella eleusinia e forse
anche a esperienze sciamaniche dei
Traci ».
Calcato Proserpinæ limine

Apuleio, iniziato ai misteri di Iside,


racconta di essere disceso all’Inferno,
salito al Cielo, di aver attraversato i
quattro elementi, di aver visto a
mezzanotte il sole brillare di candida
luce, e infine di aver celebrato il giorno
della sua nascita (natalem sacrorum) da
iniziato.

« Accessi confinium mortis, et


calcato Proserpinæ limine, per omnia
vectus elementa remeavi: nocte
media vidi solem, candido
coruscantem lumine; Deos Inferos et
Deos Superos accessi coram et
adoravi de proximo... Ex hinc
festissimum celebravi natalem
sacrorum » (Metamorphoseon, XI, 23).

L’iniziato, al pari dello ierofante,


diviene simbolo del Sole e del Principio
Creatore chiamato in Egitto Osiride.
Da Boris de Rachewiltz, dottissimo
studioso dell'Egitto, apprendiamo che
un testo misterico accessibile ai faraoni
e a una ristretta cerchia sacerdotale a
cominciare dalla XVIII dinastia
fondatrice del Nuovo Impero, il Libro
dell’Amduat, descrive il viaggio che il
Sole (Osiride) compie dopo il tramonto,
procedendo per la Via di Sinistra, nelle
regioni infere popolate da entità
mostruose e terrificanti fino a risorgere
vittorioso sulla Via di Destra in forma
di Kepri (lo scarabeo sacro).
L’iniziando, assimilato al sole della
notte, al dio Sokar, il patrono dei morti
a Menfi riconosciuto in Osiride, parte
nella prima ora per il suo viaggio da
morto, dal Duat (terra dei morti). Nel
linguaggio misterico è considerato
morto il non–iniziato che acquisterà lo
stato di vivente soltanto al termine
dell’iniziazione.
Il massimo rito trasformativo
cominciava a mezzanotte, momento del
giorno che nell’anno corrisponde al
solstizio invernale nel Capricorno.
Il sole di mezzanotte è il Sole di
Giustizia, che splende nelle notti di
iniziazione mentre per il profano è
tenebra.
Nell’antica Roma, i Collegia Fabrorum
celebravano nei due solstizi le feste di
Giano (Janua), « Il Signore delle Due
Vie ». Janua Coeli, sole nascente, nel
Capricorno, è la Porta stretta, difficile
da passare, della liberazione; Janua
Inferi, sole calante, nel Cancro, è la
Porta larga della discesa agli inferi. Gli
ebrei chiamavano quest’ultimo segno
« la bara », per i primi Cristiani era « la
tomba di Lazzaro ». Tramanda Proclo
che secondo Numenio è dalla Porta del
Cancro che le anime cadono sulla Terra,
ove si incarnano nella bara del corpo. Il
mese di giugno nell’antico Egitto era
chiamato meore, nuova nascita. Nello
zodiaco egizio di Dendera, il Cancro è
rappresentato dallo Scarabeo (che vale:
soltanto generato).
Sul fondo di un sarcofago egizio del
Medio Regno si trova un disegno
intitolato Libro delle Due Vie. La
superiore, sinuosa con sette curve ben
definite, è del colore azzurro di un
corso d’acqua; l’inferiore, di andamento
irregolare, è del nero di una strada di
terra. Il defunto entra all’estremità
destra, dove ci sono due porte: la Porta
di Fuoco e la Porta di Tenebra a forma
semicircolare. La prima è guardata da
« Colui che ostacola il criminale », una
creatura dal corpo mummiforme con
un coltello in mano, e da creature ostili
dai nomi spaventosi: L’oppressore,
Colui che brucia, il Saltatore, il Feroce,
Colei dal coltello, il Bestemmiatore, il
Divoratore…
Su quella inferiore, i demoni
guardiani sono in quantità minore ma
ancora più spaventosi: Coltello, Muso
d’ippopotamo, Faccia schifosa che vive
nel letame.

Nel mondo vedico Yama (figura


successiva e modificata del dio irano–
ario Yima, il figlio del Sole, il re solare)
è il primo uomo che ha provato la
morte riuscendo a introdursi così
nell’altra e superiore dimensione
dell’aldilà, egli è colui che « per primo
ha trovato la via » (Julius Evola, La
Dottrina del Risveglio, 1943). Anche nel
suo caso ricorre la bipolarità archetipica
del sole, con i due volti, il mortifero e il
vitale, da astro che vittorioso attraversa
la notte per riemergere sempre nuovo
all’alba del giorno successivo.
Hermes, il messaggero

Dobbiamo parlare del quarto dio che


nel nostro mito viene a completare la
triade Demetra Persefone Dioniso:
Hermes, il messaggero degli dei,
mediatore tra i mondi.
Schelling lo assimila al Cabiro
Kasmilos « colui che procede dal dio »,
mediatore della parola di un dio che
non ha nome, inconoscibile, e lo assimila
anche all’egiziano Thot, inventore della
scrittura, dio « del pensiero che
scompone e distingue ma anche il dio
che comprende contemporaneamente la
molteplicità delle figure.
Come afferma Giamblico, ... era detto
Ermete il grande, il tre volte grande
(Hermês trismégistos). ... egli pone e
comprende per tre volte il dio supremo,
perché egli è l'unico legame che ancora
connette quella trinità suprema,
intelligibile, è la coscienza suprema che
in tutto risiede, che tien ferma l’unità
assoluta, ossia sostanziale, di Dio anche
nelle figure distinte come tali e che,
viceversa, mentre pensa l'unità
distingue tuttavia le tre figure. »

Hermes, è anche amico della nera


notte (Inno XIII: A Hermes, 290) – la
notte da cui l'anima proviene e in cui
rientra dopo l'esistenza e, spiega
Kerényi, « egli è certamente la profonda
oscurità, da cui noi stessi proveniamo »,
noi che siamo misteri.
Hermes è l’imponderabile che
sopravviene a sorprenderci nel nostro
cammino: è hérmaion, l’elemento
primordiale del caso, figlio di Chaos. I
dadi, i sorteggi e gli oracoli tratti dalla
casualità degli eventi sono suoi simboli,
e in primis il caduceo, un asse intorno
al quale si intrecciano confrontandosi
due serpenti simbolo della pace
ottenuta attraverso il dialogo, parola
mediatrice di realtà diverse ma tutte
religiosamente legate. Parola magico–
ermetica che sa il silenzio da cui
scaturisce ogni parola e che conclude
ogni discorso.
Nei versi senza tempo di Rainer
Maria Rilke (Orfeo. Euridice. Ermes,
1904) avvertiamo la voce di questo
silenzio e la presenza di Hermes, guida
delle anime nel passaggio al di là
dell’esperienza umana.
Attraverso il dolore di Orfeo
percepiamo l’impenetrabilità di quel
mondo e il suo arreton (indicibile).

Era la prodigiosa miniera delle anime.


Come vene d’argento silenziose
scorrevano il suo buio. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli
uomini
e greve come porfido appariva nel buio.
Di rosso altro non c’era.
Rupi c’erano,
selve incorporee e ponti sul vuoto
e quell’enorme, grigio, cieco stagno,
sospeso sopra il suo lontano fondo
come cielo piovoso su un paesaggio.
E in mezzo a prati miti di pazienza,
pallida striscia, un unico sentiero era
visibile
come una lunga tela distesa a
imbiancare.
E per quest’unico sentiero essi venivano.
In testa l’uomo snello in manto azzurro,
guardando innanzi muto e impaziente
divorava la strada col suo passo
a grandi morsi senza masticarla.
Gravi, chiuse,
dalle pieghe del manto pendevano le
mani,
dimenticata ormai la lieve lira
ch’era incarnata nella sua sinistra
come tralci di rosa nel ramo dell’ulivo.
Ed i suoi sensi erano in due divisi:
mentre l’occhio in avanti correva come
un cane,
tornava ed ogni volta nuovamente
lontano
alla prossima svolta era ad attenderlo –
l’udito gli restava – come un odore –
indietro.
Talora gli sembrava di percepire il passo
degli altri due viandanti che dovevano
seguirlo fino al colmo dell’ascesa.
Poi nient’altro che l’eco del suo
ascendere
dietro di lui e il vento del suo manto.
E tuttavia venivano, si disse
a voce alta, e udì perdersi la voce.
Venivano, gli parve, ma con passo
inudibile,
i due. Se per un attimo
gli fosse dato volgersi (se il volgersi a
guardare
non fosse la rovina dell’intera sua opera
prima del compimento) li vedrebbe
i silenziosi due che lo seguivano:
il dio dei viandanti e del messaggio
lontano, sopra gli occhi chiari il pètaso,
lo snello caduceo proteso innanzi,
e alle caviglie il battito dell’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.
La Tanto–amata che un’unica lira
la pianse più che schiera di prèfiche nel
tempo,
e dal lamento un mondo nuovo nacque,
ove ancora una volta tutto c’era: selva,
valle,
paesi, vie, e campi, e fiumi e belve;
e intorno a questo mondo del lamento
come intorno ad un’altra terra, un sole
ed un cielo stellato taciti si volgevano,
un cielo del lamento pieno di astri
stravolti –:
Lei, la Tanto–amata.
Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe
bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come un grembo che
prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a
lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurità e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era
incomprensibile.
Ella era in una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano così immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve,
come un contatto troppo familiare
l’offendeva.
E non era più lei la bionda donna
che echeggiava talvolta nei canti del
poeta,
isola profumata in mezzo all’ampio
letto;
né più gli apparteneva.
Come una lunga chioma era già sciolta,
come pioggia caduta era diffusa,
come un raccolto in mille era divisa.
Ormai era radice.
E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore
esclamò: Si è voltato –,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?
Ma in lontananza – oscuro contro
la soglia chiara –
qualcuno in volto non riconoscibile
immobile guardava
la striscia di sentiero in mezzo ai prati
dove il dio messaggero, l’occhio afflitto,
si voltava in silenzio seguendo la figura
che per la via di prima già tornava,
e il passo le inceppavano le lunghe
bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza.
La parola del passato e il presente

Ci siamo a lungo soffermati sui riti


misterici dell’antica Grecia, la parola
del passato, per ritrovare la voce del
mistero, dell’arreton, dell’indicibile
proprio oggi, nel tempo invaso dal
culto assordante delle scienze esatte,
dalla fede in un’assoluta verità
scientifica che tutto può rivelare, tutto
dire in una trasparenza laica.
I problemi primi ed ultimi, per
eccellenza legati al mistero, sono quelli
su cui si accanisce la sperimentazione
scientifica, nuova divinità che si leva a
Signora della vita e della morte. Alla
tradizionale sottomissione dell’uomo
pio alla legge delle leggi, al logos che
universalmente comanda, numinosum e
tremendum sempre, quale che sia il suo
nome, si è sostituita la sottomissione
indiscussa alla verità cosiddetta
scientifica, unica dea.
Eppure la stessa scienza, come ogni
divinità, ben lo sapevano le antiche
tradizioni religiose, ha un volto
tremendum, e non diversamente dalla
dea Kalì, chiede terribili sacrifici ai suoi
fedeli.

Più volte abbiamo parlato della


necessità di restituire al nostro mondo
tecnologico, unidimensionale, univoco,
lo spessore simbolico della vita che, pur
parlando dagli aspetti più vivi e
palpitanti della natura visibile, allude
ad una parte arreton indicibile e alle
potenzialità trasformative di ciò che
« … fu sempre, è e sarà, fuoco di eterna
vita, che si accende con misura e si
spegne con misura » (Eraclito, fr. 30).

Una vita in cui non è presente la


sacralità del simbolo fa sì che la
funzione immaginativa, componente
fondamentale della psiche umana,
divenga strumento e veicolo soltanto
delle più primitive esigenze biologiche,
legate alla vita animale.
Le esigenze della psiche e dello
spirito, sono essenziali all’uomo, sono il
tratto specifico della sua natura. La
complessità del cervello presenta una
divisione degli emisferi cerebrali,
diversamente specializzati, ma collegati
dai fasci di fibre mieliniche del corpo
calloso che permette l’unificazione
dell’informazione elaborata in maniera
diversa da ciascun emisfero,
realizzando la complementarità tra le
due metà della corteccia cerebrale.
L’indefinita possibilità di connessione
dei neuroni, l’enorme capacità di
apprendimento in molteplici modi, e in
particolare la capacità di assimilazione
dei cosiddetti neuroni a specchio, ci
parlano delle potenzialità, ancora
appena minimamente sviluppate, della
mente umana.
L’aspirazione orfica dell’uomo che si
sente figlio della terra e insieme del
cielo stellato, le cui radici affondano
nella preistorica cultura sciamanica, o la
concezione heideggeriana dell’uomo
« pastore dell’essere », rischiano di
scomparire, quasi superstizioni
invecchiate da fugare, dal sentire della
modernità.
Procedendo per demitizzazioni e
razionalizzazioni, e per semplificazioni
uniformi, l’indicibile potenza del tutto
ha finito per ridursi esclusivamente al
piano orizzontale, al guénoniano regno
della quantità, al mondo tecnico–
scientifico–economico.
La crisi dell’economia che all’aprirsi
del terzo millennio ha colpito il globo
intero e l’incombente minaccia di
catastrofe ecologica hanno evidenziato
quanto ogni disegno conoscitivo, per
quanto possa essere un riferimento
imprescindibile, finisce per dimostrarsi
un ambiguo feticcio se non viene
integrato dagli altri piani dell’esistenza.
A questo ci porta il mito di re Mida
che vide esaudito il desiderio che
diventasse oro quello che toccava.
Malauguratemente per lui, poiché l’oro
che cercava non era simbolo di purezza
perfezione ed eternità, quale l’oro degli
alchimisti, bensì appena aurum vulgi,
oro volgare, scoprì che trasformava in
oro anche ciò che avrebbe voluto
portare alla bocca per placare la fame e
la sete e dunque vivere. La cieca avidità
lo aveva portato a dimenticare la legge
(dharma, nella parola indiana vedica)
che ordina il tutto in un segreto
equilibrio.
Le promesse della scienza di
allungare le aspettative di vita, fino a
renderci immortali, non rendono
l’incubo meno spaventoso. Anzi. In un
mondo desacralizzato il mistero della
morte, l’arreton di ogni iniziazione, è
divenuto un incubo segreto, una
minaccia annichilente che vanifica ogni
evento che l’uomo esperimenta, sogna,
soffre: in definitiva il senso stesso della
vita all’interno del grande e misterioso
progetto dell’universo.
Testimonianze

Aristotele, de philosophia, fr. 15 Ross:

a) apud Synes. Dio. 10, 48 a:


« Come sostiene Aristotele, che gli
iniziati non devono imparare (matheîn)
qualcosa, bensì subire un’emozione
(patheîn) e essere in un certo stato
(diatethênai), evidentemente dopo di
essere divenuti capaci di ciò. »

b) apud Mich. Psell. Schol. ad Joh.


Climac. 6, 171 Bidez:
« ... ciò che appartiene all’
insegnamento (didaktikón) e ciò che
appartiene all’iniziazione (telestikòn). La
prima cosa invero giunge agli uomini
attraverso l’udito, la seconda invece
quando la capacità intuitiva stessa
subisce la folgorazione (éllampsin): il che
appunto fu chiamato anche misterico
da Aristotele, e simile alle iniziazioni di
Eleusi (in queste difatti l’iniziato
risultava modellato rispetto alle visioni,
ma non riceveva un insegnamento). »

Giorgio Colli, La sapienza greca, I, 39:

« Le apparenze che troviamo narrate


da Orfeo non sono pura illusorietà, la
creazione di un mondo fittizio
contrapposto a uno reale, ma sono
un’espressione di quel mondo reale,
cioè del mondo divino.
... Questa espressione – pur essendo
apparenza – dice quello che era la
primitiva natura divina, la conserva
esprimendola, quindi mantiene la
continuità, sostituisce quella natura con
un’altra ... nel ricordo: è Mnemosine,
l’augusta dea orfica, che ... additando il
passato riconduce ... alla grande
iniziazione, da cui discendono le
immagini degli dei ...
L’aver divinizzato ... il ricordo ... è
una precisa indicazione metafisica. E
questo ... per l’indicazione di un luogo
assoluto – che è l’inizio del tempo – e
staccato da tutte le altre esperienze.
Ora proprio questo inizio staccato
può di nuovo venire afferrato durante
la nostra vita, se riusciamo a spezzare
l’individuazione: è Mnemosine che ci
rende capaci di tanto ».
Con Apollo si vede, si vede il futuro,
cioè si vedono i decreti di Zeus, della
grande Mente che regola il cosmo, del
Nous divino supremo.
In Dioniso si vive la comunione della
vita sovraindividuale, si vede la morte
dei singoli e attraverso di essa la vita di
tutti.
 
 
 
 
 
Bibliografia
dei testi citati

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des idées religieuses, Paris 1975; tr. it.
Storia delle credenze e delle idee religiose, I.
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Dario Zucchello, Eleusi, Dioniso, Orfeo.


Contemplazione e destino nella religione
greca, Il giardino dei pensieri.eu 2000
Persefone e Hades
in trono con simboli di fertilità
Pinax di Locri Epizefiri

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