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Simondon: mito e oggetto tecnico


di Giovanni Carrozzini e Andrea Bardin*

17.1
Per un’assiomatica delle scienze umane

Gilbert A. B. Simondon (1924-1989) fu normalien e agrégé di Filosofia.


Insegnò Psicologia generale prima a Poitiers e in seguito alla Sorbona,
dove fondò e diresse il Laboratoire de psychologie générale et techno-
logie fino al 1984. In questa fase della sua carriera dedicò i propri corsi
universitari allo studio dei processi cognitivi, alla storia della psicologia
contemporanea, all’evoluzione delle tecniche. Nel 1958 fu immediata-
mente pubblicata la sua tesi complementare di dottorato di Stato diret-
ta da Georges Canguilhem, Du mode d’existence des objets techniques,
che lo rese noto soprattutto a un pubblico di specialisti di settore. Nel
1964 iniziò invece la pubblicazione, completata solamente nel 1989,
della tesi principale, L’individuation à la lumière des notions de forme et
d’information, scritta sotto la direzione di Jean Hyppolite. Simondon
elaborò un pensiero teso a rintracciare analogie operative fra il domi-
nio della filosofia della natura e quello della riflessione sulle tecniche.
La sua formazione risulta fortemente influenzata dal duplice incontro
con Maurice Merleau-Ponty e Canguilhem, che lo lega alle tradizioni
fenomenologica ed epistemologica francesi, sebbene il suo pensiero ri-
sulti difficilmente ascrivibile a una precisa corrente filosofica. Sono,
infatti, numerose le critiche da lui mosse ai suoi stessi “maestri” e alle
tradizioni filosofiche di cui questi sono tra gli esponenti di spicco. Al
contempo, risulta comunque evidente, nei suoi scritti, la vicinanza a un

* Giovanni Carrozzini ha scritto i parr. 17.1 e 17.2, Andrea Bardin i parr. 17.3
e 17.4.

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filosofie del mito nel novecento

programma di ricerca d’ispirazione razionalista, del genere che Gaston


Bachelard definì, icasticamente, come “impegno razionalista”.
Il progetto di un’assiomatica delle scienze umane, che Simondon
sviluppa programmaticamente a partire dalla sua filosofia dell’indivi-
duazione, deriva, in primo luogo, da una documentata riflessione sulle
tecniche, che proseguirà lungo tutto l’arco della sua produzione scien-
tifica, ovvero dalla prima metà degli anni Cinquanta sino alla prima
metà degli anni Ottanta. Occorre osservare comunque che «con que-
sta nozione [Simondon] non designa un sistema formale alla pari delle
assiomatiche logico-matematiche, bensì solo un insieme di principi,
o di proposizioni prime, che consentono di collegare concetti fonda-
mentali», consegnandoci, anche in questo caso, «un programma piut-
tosto che una teoria compiuta» (Barthélémy, 2013, pp. 111, 119, trad.
mia). Questo programma trova forse la sua formulazione più efficace
in apertura della sua tesi complementare:

la cultura si è costituita in sistema di difesa contro le tecniche; ora, questa di-


fesa si presenta come difesa dell’uomo, presupponendo che gli oggetti tecnici
non contengano alcuna realtà umana. Vorremmo dimostrare che la cultura
ignora la realtà umana che soggiace alla realtà tecnica, e che, per svolgere il
suo ruolo compiuto, la cultura deve incorporare gli esseri tecnici sotto forma
di conoscenza e di senso dei valori. La presa di coscienza dei modi d’esistenza
degli oggetti tecnici deve essere effettuata dal pensiero filosofico, che si tro-
va a dover perseguire, in quest’opera, un dovere analogo a quello che è stato
svolto in vista dell’abolizione della schiavitù e per l’affermazione del valore
della persona umana (Simondon, 2012, p. 9, trad. mia).

La riforma delle scienze umane dovrebbe provvedere, negli intenti di


Simondon, anche al riconoscimento di quella “parte umana” che sog-
giace all’oggetto tecnico, per la costituzione, in ultimo, di una “cultura
tecnica” (a partire dalla formalizzazione di una mentalità dello stesso
ordine), ovvero di una cultura che, invece di opporsi alla tecnicità e
alle sue oggettivazioni, si lasci penetrare dalle scoperte e dalle invenzio-
ni delle scienze e delle tecniche, riconoscendo il loro autentico valore
culturale. Così, è proprio nella sua analisi della mancata integrazione
simbolica delle tecniche nella cultura contemporanea che Simondon,
a partire da alcune suggestioni durkheimiane e bergsoniane, giungerà
a connettere la trattazione del mito allo studio della funzione sociale
delle tecniche.

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17.2
Mito e processi d’individuazione
Simondon si riferì costantemente, seppur spesso implicitamente, agli
studi di Marcel Mauss e di André Leroi-Gourhan per sottolineare il
ruolo decisivo svolto dalle tecniche nel processo di ominazione. La
sua riflessione sulla paradigmaticità degli schemi tecnici, che traduco-
no la relazione originaria tra uomo e ambiente, lo indusse a elaborare
una concezione ambivalente del mito: da un lato, infatti, egli sviluppò
una critica costante al rischio di “chiusura comunitaria” veicolato dal
mito e dalla sacralità in generale, dall’altro tese a riprodurre, nell’am-
bito dell’operare tecnico, la ricerca di una funzione archetipica dello
“schema tecnico”, forse ispirata al lavoro di Carl G. Jung e Mircea Elia-
de. Tuttavia, Simondon si mantenne estraneo all’ispirazione ultima
di queste indagini, giacché, come pure ricorda la sua collaboratrice
Denise van Caneghem (1989, pp. 816-7, trad. mia): «ciò non gli ap-
pariva “scientifico” [...]. Fu un aspetto su cui avevamo orientamenti
divergenti, specialmente sul problema dell’analisi dei miti, o quello
dei fantasmi originari compresi nei grandi sogni che manifestano il
rinnovamento delle nostre “alleanze” con la vita, l’altro, il cosmo».
Sebbene quella del mito non possa considerarsi una nozione centrale
per la comprensione del suo sistema filosofico, Simondon manifestò
comunque un certo interesse per il processo di elaborazione e costru-
zione dei miti, ovvero per l’operazione di genesi dei miti stessi: «il
significato di questo movimento [d’individuazione] gli resterà enig-
matico e trascendente in rapporto all’individuo e alle sue relazioni;
transindividuale. Solo i miti possono dire qualcosa di quest’enigma.
È questa la ragione per cui tenne altresì dei corsi su qu’est-ce qu’un
mythe?». Riferendosi agli studi di Franz Cumont, in particolare Lux
perpetua dedicata ai riti e ai miti funebri nella Roma antica, Simon-
don (2011, p. 338) afferma:

il mito acquisisce un senso profondo, poiché non consiste solo in una rap-
presentazione finalizzata all’azione o in una semplice modalità di azione e
non si può rendere conto del mito né attraverso la rappresentazione né per
mezzo dell’azione, poiché non costituisce solo un’incerta rappresentazione
o piuttosto un processo orientato all’azione. La fonte del mito risiede infatti
nell’affettivo-emotività e il mito consiste, a sua volta, in un fascio di senti-
menti relativi al divenire dell’essere: tali sentimenti arrecano elementi rappre-

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filosofie del mito nel novecento

sentativi e movimenti attivi, sebbene si tratti di realtà accessorie e non piutto-


sto essenziali rispetto al mito stesso.

La fonte del mito, la sua “origine” e la sua “genesi” andrebbero pertan-


to reperite, secondo Simondon, nella dimensione dell’affettivo-emo-
tività, ovvero in quello «strato relazionale [che] costituisce il centro
dell’individualità» e, al contempo, funge da alveo per l’instaurazione
d’individuazioni collettive, giacché «l’emozione [che attualizza que-
sto strato, N.d.A.] consiste nella [...] individuazione del collettivo colta
nell’essere individuale che partecipa a quest’individuazione» (ivi, pp.
335-41). In ultima analisi, l’elaborazione del mito risulta contempora-
nea a certi processi di strutturazione del collettivo, proprio a partire
dall’attualizzazione della dimensione affettiva attraverso l’operatività
dell’emozione. Ciononostante, il limite di questo processo risiede nel
fatto che, se su un fronte il mito collabora fattivamente all’instaura-
zione di un’individuazione collettiva in quanto «prolungamento di-
namico e strutturale delle operazioni d’individuazione del gruppo»,
sull’altro finisce per fungere da

luogo comune delle opinioni che obbediscono ad una sistematica di interio-


rità del gruppo e per questo motivo il gruppo non può svilupparsi in modo
efficace in forma pura se non in seno al gruppo di interiorità, poiché presup-
pone una logica di partecipazione ad un certo numero di evidenze di base che
appartengono all’individuazione di gruppo (ivi, p. 405).

Ciò accade perché l’operazione d’individuazione del gruppo, di cui


i miti e le opinioni individuali costituirebbero la struttura, «non
risulta più attuale, più possibile, più riattivabile» (ibid.). È proprio
in ragione del fatto che quest’individuazione del gruppo risulta, in
siffatte condizioni, ormai non più in atto, ovvero chiusa e conclusa,
che il mito perde la sua funzione originaria, traducendosi in «stere-
otipia mitologica, infeconda e contraddittoria» (Simondon, 1959a,
p. 13, trad. mia). Il mito, dunque, diviene fondamento di condotte
pregiudiziali, atte solo a rafforzare i confini entro cui si svolge la vita
comunitaria. Queste condotte, poiché connesse a processi identitari
alle volte forzosi e claustrofobici, rischiano di sfociare in xenofobie
primitive che influiscono sugli stessi processi di costruzione della cul-
tura (Simondon, 2012, p. 10).

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17.3
Mito e funzione archetipica
Simondon (2011, p. 335) riconobbe a Jung il fatto di aver svelato i
«motivi affettivo-emotivi», che stanno alla base della sua stessa con-
cezione di una «struttura di personalità fatta di strati e livelli» (Si-
mondon, 2008, p. 74, trad. mia), nonché di aver «scoperto, nell’a-
spirazione degli alchimisti», il significato generale dell’«operazione
di individuazione» (Simondon, 2011, p. 759). In effetti, la teoria jun-
ghiana della psiche mostra alcune affinità con quella simondoniana,
in quanto costituisce un sistema in cui tendenze contrastanti forni-
scono un supporto energetico per processi di autoregolazione di-
namica: in questo senso il processo d’individuazione consiste nella
progressiva integrazione delle differenti parti in una totalità, la cui
strutturale conflittualità marca la natura creativa della psiche. Ma la
distanza tra i due approcci si misura innanzitutto a partire dal fatto
che, per Simondon, le differenti normatività attraversanti il soggetto
(biologica, tecnica, sociale) non sono riconducibili ad alcuna “essen-
za” da realizzarsi, quindi l’individuazione non può essere pensabile
come un processo di adattamento, anche se creativo, a un supposto
«originario stato di identità» dell’individuo. Una natura “sfasata”
come quella dell’individuo simondoniano, sempre in corso d’indi-
viduazione, non ammette infatti l’ipotesi di una norma preesisten-
te i processi d’individuazione psichica e collettiva, mentre secondo
Jung (1969, pp. 637-9) l’individualità psichica è un dato «correlativo
all’individualità fisica» in quanto «l’individuum» è «un dato a pri-
ori psicologico e fisiologico». Al contrario, Simondon (2011, p. 335)
concepì «il subconscio dei viventi» come una rete di relazioni che,
pur essendo alla base dei miti, non può essere sostanzializzata in alcun
modo – né in senso individuale, né collettivo – pena la sua stessa mi-
tizzazione in quanto origine.
Ma è proprio il tema dell’archetipo a marcare meglio la distanza
che separa il pensiero di Simondon da quello di Jung. Nonostante ri-
conosca che «Jung aveva già stabilito il carattere sovradeterminato de-
gli archetipi» (Simondon, 1961, p. 319, trad. mia), secondo Simondon
questa «seducente» interpretazione va integrata proprio con la sua
concezione di un regime d’individuazione in cui né l’individuo né il
suo milieu culturale sono presupposti, ma emergono lungo il medesi-

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mo processo. Secondo Simondon (2008, p. 129, trad. mia) gli archetipi


sono «schemi d’immaginazione [...] appartenenti al passato dell’uma-
nità (probabilmente) a fasi pre-umane dell’evoluzione» che divengo-
no operative solamente – e qui il filosofo sottolinea incidentalmente
la propria distanza anche da Eliade – in un regime d’individuazione
“misto”, psichico e collettivo, ovvero “transindividuale”. In ultima ana-
lisi, piuttosto che come una struttura, l’archetipo va concepito come
un’«originaria fonte archetipale» che funge da «stampo d’immagi-
ni» (ivi, pp. 123, 129, trad. mia). In questo senso, la «funzione arche-
tipica» è interamente risolta da Simondon nella sua operatività ed è
dunque – a rigore – senza origine, seppure visibile nella continua pro-
duzione di oggetti-simbolo (artistici, cultuali, tecnici), latori di una
potenza normativa di tipo sia sociale sia biologico sia tecnico, che gio-
cano, con gli (altri) individui, una funzione sistemica come “germi di
conoscenza e azione”:

postulare [...] che non vi siano isole perdute nel divenire, regioni eterna-
mente chiuse in se stesse, autarchia assoluta dell’istante, significa affermare
che ciascun gesto possiede un senso d’informazione e risulta simbolico in
rapporto alla vita intera e all’insieme delle vite (Simondon, 2011, p. 452,
trad. mod.).

La tendenza entropica delle comunità verso una stabilità fatale è con-


trastata da processi d’individuazione collettiva, innescati dalla riattiva-
zione dell’originaria funzione di prolungamento dinamico e strutturale
dell’individuazione di gruppo svolta dal mito nella sua fase costitutiva.
Simondon assegna questa funzione d’innesco ai cosiddetti individui
puri che, in ultima analisi, corrispondono ai “tecnici”: «all’interno di
una comunità, un tecnico apporta un elemento nuovo e insostituibile,
ovvero quello del dialogo diretto con l’oggetto nascosto o inaccessibile
al semplice uomo della comunità» (ivi, p. 705).
Si tratta ora di spiegare perché l’attività tecnica degli individui
puri o individui liberi (ma anche di oggetti tecnici trasposti da una
comunità a un’altra) avrebbe il potere di riattivare e prolungare l’indi-
viduazione del gruppo, contrastando quel processo che contribuisce
alla sedimentazione del mito nei termini di «mito difensivo parago-
nabile tutt’al più agli stereotipi mentali di un gruppo che arrivano a ri-
fiutare la natura umana agli individui dell’altro gruppo» (Simondon,
1961, p. 320, trad. mia).

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17.4
Mito e tecnicità
Secondo Simondon (1961, p. 319, trad. mia), quando Eliade classifica i
«contenuti di rappresentazione e uso della tecnicità fra gli altri conte-
nuti della civiltà», opponendoli all’eternità dei simboli della cultura,
commette l’errore di istituire un’opposizione ontologica fra il mondo
astorico della sacralità-cultura e quello artificiale e contingente della
tecnicità-civilizzazione. Nel suo attacco a Eliade, Simondon coinvolge
anche Martin Heidegger e Arnold J. Toynbee, nonché l’intera rilet-
tura francese della tradizionale dicotomia di matrice tedesca del rap-
porto fra Kultur e Zivilisation (come nel caso della fenomenologia e
dell’esistenzialismo), che, in tal senso, potrebbe concepirsi come una
sorta di «meccanismo di difesa» con il quale la cultura stessa produce
«miti difensivi» che sfociano in un’impotente tecnofobia, refrattaria
all’effettivo contenuto “culturale” degli oggetti tecnici (ivi, p. 320, trad.
mia). Simondon ribalta i termini della questione richiamandosi, su un
fronte, alla storicità della cultura e, sull’altro, a una sorta di a-tempora-
lità degli «schemi della tecnicità», cui attribuisce un significato e una
potenza normativa compatibili con la teoria dell’evoluzione tecnica
sviluppata in Du mode:

io penso che la perdita di funzione sia una perdita temporanea e che i disposi-
tivi tecnici abbiano uno schema fondamentale che può essere in determinati
momenti inattuale, ma che conserva la sua essenza. Schema che di conseguen-
za può tornare a esistere, riprendere la propria attività e integrarsi a un nuovo
dispositivo più complesso. Vi è qualcosa d’eterno in uno schema tecnico. Ed
è proprio questo che è sempre al presente e può essere conservato all’interno
di una cosa (Simondon, 1979, p. 87, trad. mia).

Secondo Simondon, una pedagogia della tecnicità deve contribuire a


diffondere proprio questi schemi, impliciti nella mentalità tecnica e
incarnati nell’oggetto tecnico, in vista della costruzione di una cultura
tecnica. Tale progetto è già chiaramente presente nei suoi primi scritti
e suggerisce una possibile interpretazione pedagogico-politica della sua
attività didattica a cavallo tra filosofia, psicologia e tecnologia. Fin dai
suoi esordi, Simondon (1953, pp. 117-20, trad. mia) mirò a un’«impresa
costitutiva [...] fondata sulla sociologia» che avrebbe dovuto consentire
di elaborare una «vera e propria tecnologia connessa alla storia del pen-

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siero e alla coscienza sociale» veicolante – secondo la lezione comtia-


na – «germi di necessaria positività». Il filosofo ritenne di coniugare
questo progetto con la potenza liberatoria di un umanismo che sapesse
integrare le tecniche nel funzionamento del sistema sociale «contro le
forze che tendono ad alienare l’uomo, a privarlo della sua eredità, a ren-
derlo schiavo dei miti» (Simondon, 1954, p. 53, trad. mia), assumendo
la forza di demistificazione implicita nella scienza e nella tecnologia,
ricche di un’«eredità [umana] densa di significato implicito che la ri-
flessione può rendere manifesto» (ivi, p. 54, trad. mia).
Durante gli anni Cinquanta, Simondon vide nella cibernetica di
Norbert Wiener la possibile premessa per un «nuovo enciclopedi-
smo»: anche grazie al progetto di riforma del concetto d’informazione
da lui stesso avanzato in Individuation, questo enciclopedismo rinno-
vato avrebbe finalmente offerto un’opportunità inedita a un’umanità
alle prese con i rischi e le opportunità di un’accelerazione tecnologica
che rimetteva in gioco, su scala globale, le forme di organizzazione e
la sopravvivenza stessa delle culture. Sulle orme tracciate dall’opposi-
zione tra società chiusa e società aperta teorizzata nel 1932 da Henri
Bergson nelle Due fonti della morale e della religione, Simondon riat-
tivò il progetto positivistico di uno sviluppo armonico di tecnologia
e società, tentando tuttavia di svincolarlo dal mito tutto eurocentrico
del progresso. In ultima analisi, piuttosto che un elemento di omologa-
zione, intravide nella tecnica un fattore d’invenzione e differenziazio-
ne continue delle forme della collettività. Grazie allo sforzo filosofico
di integrare il potere demistificante degli schemi della tecnicità nella
cultura, si sarebbe potuti giungere a una «demistificazione parallela
della sacralità e della tecnicità» (Simondon, 1961, p. 320, trad. mia).
Secondo Simondon, la cultura che si costituisce in sistema di di-
fesa contro gli oggetti tecnici risulta drammaticamente stereotipata,
perché soffocata in quel processo di chiusura comunitaria che porta al
lento disfacimento entropico del sistema sociale. È proprio in questa
prospettiva che egli analizza le condizioni di possibilità di una conver-
genza di “tecnicità” e “sacralità”, elaborando la necessità di un progetto
pedagogico, di carattere istituzionale, che ne possa integrare le rispet-
tive funzioni all’interno dei meccanismi di riproduzione e apertura del
sistema sociale. Per questo, appunto:

vorremmo evitare l’opposizione della sacralità e dei rappresentanti della sa-


cralità allo sviluppo delle tecniche e soprattutto alla loro piena integrazione

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nei contenuti culturali, poiché quest’opposizione ci sembra provenire da un


mito di carattere psico-sociale. Questa lotta contro un falso nemico ci sem-
bra nociva per la stessa sacralità. L’oggetto tecnico viene troppo facilmente
concepito come capro espiatorio. Se tutte le nostre sofferenze provenissero
dagli oggetti tecnici, basterebbe gettarli in mare, dopo averli ritualmente fatti
carico delle nostre colpe (ibid., trad. mia).

Il rischio corso dal pensiero di Simondon di fare della stessa potenza


inventiva della tecnicità un mito appare in questa luce tanto speculare
alla supposta inesauribilità dell’élan vital bergsoniano, quanto omo-
logo alla fiducia durkheimiana in un progresso sociale guidato dallo
sviluppo tecnico e scientifico. Ciononostante, questo fatto nulla to-
glie all’intelligenza e all’inattualità delle sue analisi del rapporto tra
tecnica e cultura, che tentano di cogliere le funzioni tendenzialmente
divergenti svolte all’interno dei sistemi sociali dal mito e dalle tecni-
che; queste ultime veicolo di una normatività che, vicina ai bisogni del-
la specie, può essere «assolutamente universalizzabile» (Simondon,
1959b, p. 373, trad. mia). Tali analisi lasciano aperta la possibilità di
giocare, contro la potenza ipnotica e paralizzante della macchina mito-
logica, la funzione inventiva e “metastabilizzante” di un rapporto con
il mondo mediato dall’oggetto tecnico, il cui funzionamento sfugge
talvolta all’apparato di cattura della normatività sociale stabilita:

la normatività tecnica modifica il codice dei valori di una società chiusa, poi-
ché esiste una certa sistematicità dei valori e, pertanto, ogni società chiusa che
ammetta una nuova tecnica introduce valori inerenti a questa tecnica e per
questo opera una nuova strutturazione del suo codice di valori. Giacché non
esistono comunità che non adoperino tecniche o che non ne introducano di
nuove, non esistono comunità assolutamente chiuse o inevolutive (Simon-
don, 2011, p. 708).

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