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17.1
Per un’assiomatica delle scienze umane
* Giovanni Carrozzini ha scritto i parr. 17.1 e 17.2, Andrea Bardin i parr. 17.3
e 17.4.
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filosofie del mito nel novecento
200
17. simondon: mito e oggetto tecnico
17.2
Mito e processi d’individuazione
Simondon si riferì costantemente, seppur spesso implicitamente, agli
studi di Marcel Mauss e di André Leroi-Gourhan per sottolineare il
ruolo decisivo svolto dalle tecniche nel processo di ominazione. La
sua riflessione sulla paradigmaticità degli schemi tecnici, che traduco-
no la relazione originaria tra uomo e ambiente, lo indusse a elaborare
una concezione ambivalente del mito: da un lato, infatti, egli sviluppò
una critica costante al rischio di “chiusura comunitaria” veicolato dal
mito e dalla sacralità in generale, dall’altro tese a riprodurre, nell’am-
bito dell’operare tecnico, la ricerca di una funzione archetipica dello
“schema tecnico”, forse ispirata al lavoro di Carl G. Jung e Mircea Elia-
de. Tuttavia, Simondon si mantenne estraneo all’ispirazione ultima
di queste indagini, giacché, come pure ricorda la sua collaboratrice
Denise van Caneghem (1989, pp. 816-7, trad. mia): «ciò non gli ap-
pariva “scientifico” [...]. Fu un aspetto su cui avevamo orientamenti
divergenti, specialmente sul problema dell’analisi dei miti, o quello
dei fantasmi originari compresi nei grandi sogni che manifestano il
rinnovamento delle nostre “alleanze” con la vita, l’altro, il cosmo».
Sebbene quella del mito non possa considerarsi una nozione centrale
per la comprensione del suo sistema filosofico, Simondon manifestò
comunque un certo interesse per il processo di elaborazione e costru-
zione dei miti, ovvero per l’operazione di genesi dei miti stessi: «il
significato di questo movimento [d’individuazione] gli resterà enig-
matico e trascendente in rapporto all’individuo e alle sue relazioni;
transindividuale. Solo i miti possono dire qualcosa di quest’enigma.
È questa la ragione per cui tenne altresì dei corsi su qu’est-ce qu’un
mythe?». Riferendosi agli studi di Franz Cumont, in particolare Lux
perpetua dedicata ai riti e ai miti funebri nella Roma antica, Simon-
don (2011, p. 338) afferma:
il mito acquisisce un senso profondo, poiché non consiste solo in una rap-
presentazione finalizzata all’azione o in una semplice modalità di azione e
non si può rendere conto del mito né attraverso la rappresentazione né per
mezzo dell’azione, poiché non costituisce solo un’incerta rappresentazione
o piuttosto un processo orientato all’azione. La fonte del mito risiede infatti
nell’affettivo-emotività e il mito consiste, a sua volta, in un fascio di senti-
menti relativi al divenire dell’essere: tali sentimenti arrecano elementi rappre-
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filosofie del mito nel novecento
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17. simondon: mito e oggetto tecnico
17.3
Mito e funzione archetipica
Simondon (2011, p. 335) riconobbe a Jung il fatto di aver svelato i
«motivi affettivo-emotivi», che stanno alla base della sua stessa con-
cezione di una «struttura di personalità fatta di strati e livelli» (Si-
mondon, 2008, p. 74, trad. mia), nonché di aver «scoperto, nell’a-
spirazione degli alchimisti», il significato generale dell’«operazione
di individuazione» (Simondon, 2011, p. 759). In effetti, la teoria jun-
ghiana della psiche mostra alcune affinità con quella simondoniana,
in quanto costituisce un sistema in cui tendenze contrastanti forni-
scono un supporto energetico per processi di autoregolazione di-
namica: in questo senso il processo d’individuazione consiste nella
progressiva integrazione delle differenti parti in una totalità, la cui
strutturale conflittualità marca la natura creativa della psiche. Ma la
distanza tra i due approcci si misura innanzitutto a partire dal fatto
che, per Simondon, le differenti normatività attraversanti il soggetto
(biologica, tecnica, sociale) non sono riconducibili ad alcuna “essen-
za” da realizzarsi, quindi l’individuazione non può essere pensabile
come un processo di adattamento, anche se creativo, a un supposto
«originario stato di identità» dell’individuo. Una natura “sfasata”
come quella dell’individuo simondoniano, sempre in corso d’indi-
viduazione, non ammette infatti l’ipotesi di una norma preesisten-
te i processi d’individuazione psichica e collettiva, mentre secondo
Jung (1969, pp. 637-9) l’individualità psichica è un dato «correlativo
all’individualità fisica» in quanto «l’individuum» è «un dato a pri-
ori psicologico e fisiologico». Al contrario, Simondon (2011, p. 335)
concepì «il subconscio dei viventi» come una rete di relazioni che,
pur essendo alla base dei miti, non può essere sostanzializzata in alcun
modo – né in senso individuale, né collettivo – pena la sua stessa mi-
tizzazione in quanto origine.
Ma è proprio il tema dell’archetipo a marcare meglio la distanza
che separa il pensiero di Simondon da quello di Jung. Nonostante ri-
conosca che «Jung aveva già stabilito il carattere sovradeterminato de-
gli archetipi» (Simondon, 1961, p. 319, trad. mia), secondo Simondon
questa «seducente» interpretazione va integrata proprio con la sua
concezione di un regime d’individuazione in cui né l’individuo né il
suo milieu culturale sono presupposti, ma emergono lungo il medesi-
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filosofie del mito nel novecento
postulare [...] che non vi siano isole perdute nel divenire, regioni eterna-
mente chiuse in se stesse, autarchia assoluta dell’istante, significa affermare
che ciascun gesto possiede un senso d’informazione e risulta simbolico in
rapporto alla vita intera e all’insieme delle vite (Simondon, 2011, p. 452,
trad. mod.).
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17. simondon: mito e oggetto tecnico
17.4
Mito e tecnicità
Secondo Simondon (1961, p. 319, trad. mia), quando Eliade classifica i
«contenuti di rappresentazione e uso della tecnicità fra gli altri conte-
nuti della civiltà», opponendoli all’eternità dei simboli della cultura,
commette l’errore di istituire un’opposizione ontologica fra il mondo
astorico della sacralità-cultura e quello artificiale e contingente della
tecnicità-civilizzazione. Nel suo attacco a Eliade, Simondon coinvolge
anche Martin Heidegger e Arnold J. Toynbee, nonché l’intera rilet-
tura francese della tradizionale dicotomia di matrice tedesca del rap-
porto fra Kultur e Zivilisation (come nel caso della fenomenologia e
dell’esistenzialismo), che, in tal senso, potrebbe concepirsi come una
sorta di «meccanismo di difesa» con il quale la cultura stessa produce
«miti difensivi» che sfociano in un’impotente tecnofobia, refrattaria
all’effettivo contenuto “culturale” degli oggetti tecnici (ivi, p. 320, trad.
mia). Simondon ribalta i termini della questione richiamandosi, su un
fronte, alla storicità della cultura e, sull’altro, a una sorta di a-tempora-
lità degli «schemi della tecnicità», cui attribuisce un significato e una
potenza normativa compatibili con la teoria dell’evoluzione tecnica
sviluppata in Du mode:
io penso che la perdita di funzione sia una perdita temporanea e che i disposi-
tivi tecnici abbiano uno schema fondamentale che può essere in determinati
momenti inattuale, ma che conserva la sua essenza. Schema che di conseguen-
za può tornare a esistere, riprendere la propria attività e integrarsi a un nuovo
dispositivo più complesso. Vi è qualcosa d’eterno in uno schema tecnico. Ed
è proprio questo che è sempre al presente e può essere conservato all’interno
di una cosa (Simondon, 1979, p. 87, trad. mia).
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filosofie del mito nel novecento
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17. simondon: mito e oggetto tecnico
la normatività tecnica modifica il codice dei valori di una società chiusa, poi-
ché esiste una certa sistematicità dei valori e, pertanto, ogni società chiusa che
ammetta una nuova tecnica introduce valori inerenti a questa tecnica e per
questo opera una nuova strutturazione del suo codice di valori. Giacché non
esistono comunità che non adoperino tecniche o che non ne introducano di
nuove, non esistono comunità assolutamente chiuse o inevolutive (Simon-
don, 2011, p. 708).
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