I patosensibili
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poiché so che il dolore esiste ed è dappertutto, che senso ha addolorarsi solo quando
lo si vede e dimenticarlo quando non lo si vede, magari divertendosi?
Piuttosto ipocrita, no? Se il patosensibile fosse coerente, la consapevolezza che in questo momento
c'è sicuramente qualcuno che sta morendo, che sta soffrendo ecc. dovrebbe renderlo
continuamente triste.
Il vero problema è che non sa uscire dalle contraddizioni logiche che tali frasi portano con sé,
soprattutto in occasione di conflitti peraltro non sempre ipotetici. Per chi fosse interessato ai
problemi di coerenza che tali massime generano, rimando alla pagina sul prossimo.
L'idealista
http://www.albanesi.it/Mente/patosensibile.htm 20/06/2009
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Il patosensibile idealista è una persona che ha razionalizzato la sua patosensibilità (infatti spesso
non si ritiene nemmeno patosensibile); non soffre più di tanto per il dolore che è nel mondo perché
tiene a bada il suo senso di colpa per la sofferenza altrui con la sua etica (per esempio è anche
sempre pronto a giustificare il male fatto dagli altri, è o vuole apparire una "brava persona").
Spesso sente come colpa (e quindi tende a rifiutarle) anche le condizioni facilitanti, soprattutto la
ricchezza. L'idealista ha elaborato tutta una serie di teorie più o meno articolate per dimostrare a sé
stesso (prima che agli altri) che la sofferenza che avverte nel mondo non è colpa sua. Ha elaborato
una sua morale le cui basi sono circa queste:
Ovviamente è impossibile non creare nessuna sofferenza nell'ambiente che ci circonda. Si tratta di
avere un atteggiamento equilibrato bilanciando la sofferenza che inevitabilmente si crea con le
necessità (fisiche e psicologiche) legate al vivere. L'etica consiste nell'arte di avere un modello di
vita che provochi la minore sofferenza all'ambiente che ci circonda massimizzando al tempo stesso
la felicità personale.
Questa base di partenza può essere condivisa da tutti, ma... non serve a nulla. Leggiamo
attentamente la definizione e scopriremo che ognuno può interpretarla a suo modo. Immaginiamo
tutto graficamente, una linea (segmento dell'egoismo) ai cui capi stanno la sofferenza
dell'ambiente esterno (pensiamo a una persona che mi ama e che io respingo oppure a una persona
che licenzio, che boccio a un esame, che non assumo ecc.) e la mia felicità. Il principio
sopraesposto non vuol dire altro che decidere di porsi in un certo punto (punto Z) della linea, verso
destra o verso sinistra, ma dove situarsi questo il principio non lo dice e ognuno lo interpreta in
base alla propria sensibilità. Così c'è chi è sensibile alla sofferenza dei bambini che muoiono di fame
e poi vive comunque ben al di sopra della soglia della povertà oppure chi è contro la caccia e
magari non è nemmeno vegetariano. Il patosensibile è tale perché in questo suo posizionamento
tiene in eccessivo conto la sofferenza dell'ambiente esterno, ma in sostanza è un falso santo perché
non avverte l'ipocrisia di un punto Z puramente soggettivo, scelto in funzione della qualità della
vita, sua e dei suoi cari. Magari è disposto a rinunciare a molte più cose della media della
popolazione, ma se ne tiene ben strette altre, insomma non è certo un novello San Francesco!
Per una persona equilibrata il posizionamento è dato dalla sua qualità della vita, cioè dalla
massimizzazione della propria felicità; è la società con le leggi che impedisce che questi
posizionamenti egoistici possano degenerare in conflitti fra individui: essere criminali e rapinare una
banca per arricchirsi, al di là di ogni considerazione etica, non ha semplicemente senso perché "non
conviene". Purtroppo il patosensibile è invece convinto che ogni sofferenza inflitta (quindi anche
quelle legali, magari involontarie o nella necessità delle cose) si ritorca a mo' di boomerang
attraverso una rete di interconnessioni profonde e invisibili. Anche in questa convinzione è evidente
la priorità data alla sofferenza anziché alla felicità personale e non comprende la vera soluzione.
Infatti l'idealista trova la teoria dei tre mondi egoistica perché ritiene assurdo non provare nulla per
chi è nel mondo neutro, non riesce a comprendere come ci possano essere persone così insensibili
da non sentire quel macigno della sofferenza del mondo che lui, più o meno inconsciamente, sente
sopra di sé. Non comprende che se ognuno amasse veramente il proprio mondo dell'amore, poiché i
mondi dell'amore dei singoli individui sono fra loro disgiunti, l'onda d'amore si allargherebbe a tutto
il mondo con un effetto positivamente devastante.
Le due tipologie - Gli idealisti sono spesso associati alle personalità degli irrazionali, dei mistici o
dei romantici: sono soggetti che non sanno elaborare le priorità e vengono dominati dalla necessità
di combattere sempre, comunque e dovunque il male, la sofferenza e il dolore. L'idealista può
essere teorico o pratico.
L'idealista teorico è colui che "a parole" ama tutto il mondo, ma in pratica non fa granché per
aiutarlo. Poiché l'amore si dimostra con le azioni, è una versione nobile del patosensibile ipocrita.
Sicuramente è persona gentile, ogni tanto dà l'elemosina a una persona che soffre, porta i suoi
vestiti vecchi ai poveri, partecipa a un incontro sulla pace, magari adotta un bambino a distanza. Il
suo impegno economico è minimo rispetto alle sue possibilità (è un teorico anche il mecenate che
dà la millesima parte di ciò che guadagna in un anno in beneficienza) e pure quello in termini di
tempo. La sua azione non è più risolutiva di chi si promuove per favorire la solidarietà come
sentimento sociale (che senso ha dare spontaneamente l'1% del proprio reddito? non è più giusto
battersi perché per solidarietà sociale tutti lo facciano?), ma lui si sente "migliore".
Il pratico è invece colui che quotidianamente fa qualcosa per il mondo neutro (esempio classico
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madre Teresa di Calcutta), per esempio il medico che si sottopone a massacranti turni di lavoro,
ben più di quello che gli è richiesto dal livello standard della sua professione. In questo secondo
caso siamo di fronte a sindromi del missionario, cioè a persone che non hanno un proprio mondo
dell'amore (e trasformano il mondo neutro nel proprio mondo dell'amore, ma non si può certo
pretendere che tutti lo facciano) oppure trascurano il proprio mondo dell'amore a favore di quello
neutro.
L'ipocrita
Il patosensibile ipocrita è la versione moralmente discutibile del patosensibile idealista, tanto che in
alcuni casi può esserne una degenerazione (pensiamo agli idealisti che sono pronti ad aiutare i
bisognosi e poi si scannano nelle riunioni di condominio con il vicino che fa questo o quello).
Gli ipocriti in genere sono associati alle altre personalità, deboli, sopravviventi, insufficienti,
semplicistici in primis. Il meccanismo è semplice, quello che è richiamato dal noto detto mal
comune, mezzo gaudio. Il soggetto è patosensibile perché si immagina nella stessa condizione di
chi è oggetto della sofferenza. Il debole per esempio avrà una patosensibilità esagerata per bambini
e per anziani o più modernamente per gli animali: pensiamo al mendicante che per raccattare
qualche soldo in più si "dota" di cagnolino strappalacrime; il mio springer ha occhi talmente cadenti
che gli danno un'espressione tristissima anche quando è felicissimo: con lui penso che riuscirei a
ricavare interessanti redditi esentasse. I paurosi invece hanno una patosensibilità esagerata a causa
della loro paura del dolore: la morte, le catastrofi ecc. sono ciò che fa scattare la patosensibilità.
Non per un reale interessamento al soggetto che subisce il dolore (altrimenti sarebbero patosensibili
idealisti), ma per l'inconscia domanda: "e se ci fossi stato io al suo posto?".
Il patosensibile ipocrita spesso elimina vigliaccamente la vista del dolore (perché così può
continuare a credere che la sua occasionale commozione di fronte a una vicenda triste che non può
eliminare sia alta sensibilità d'animo), lo fugge. Non tollera il sangue, la morte, gli dà
immensamente fastidio sentire parlare di un funerale o di una malattia incurabile. I media questo lo
sanno benissimo e per catturare questa parte della popolazione costruiscono storie che strappano
lacrime perché ormai dalla televisione e dai giornali non si può sfuggire. Così facendo però, ipocrita
diventa l'informazione che discrimina il dolore in dolore vendibile (quello che fa più audience) e
dolore non vendibile. La retorica serve poi per foraggiare la patosensibilità degli ascoltatori. Vi siete
mai chiesti perché nell'elenco dei morti si differenzia spesso il numero dei bambini (e delle donne)?
Perché sembrano più indifesi e colpiscono maggiormente il patosensibile. Sono "innocenti". Perché
forse un ragazzo di 18 anni che è rimasto vittima di una bomba mentre andava a trovare la sua
ragazza non era innocente? Si dice: "hanno una vita davanti". Forse che un uomo adulto di 25 anni
non ce l'ha?
Alcuni patosensibili ipocriti sono tali anche nel bene: paesi interi che brindano perché uno
sconosciuto (magari il riccone del paese) ha vinto al Superenalotto. Ma perché si deve brindare?
Donne in lacrime quando vedono uscire una sposa da una chiesa. Ma perché si deve piangere di
commozione? Magari si sono sposati perché lei è incinta, lui ha già l'amante e fra due anni
divorzieranno…
Per dirti, ieri ho compiuto 17 anni e nessuno s'è degnato (nonostante di amici ne abbia e
nonostante le carinerie con cui vengono trattati) di venirmi a trovare. Questo tuo discorso cade per
l'egoismo che c'è nelle persone, nella volontà di risolvere la propria vita e i propri casini.
Capito? Lui pensa agli altri perché vorrebbe che qualcuno pensasse a lui.
Sicuramente chi scrive è una persona gentile e a modo, ma non riesce a capire che un sorriso in
seguito a una gentilezza non è poi granché, è di circostanza. Le vere amicizie non si costruiscono
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sulle carinerie, ma su situazioni in cui abbiamo dato veramente una mano a qualcuno, gli abbiamo
"risolto" un pezzo della sua vita. Il patosensibile idealista che è schifato dall'egoismo che è nel
mondo dovrebbe riflettere: vede egoismo e menefreghismo dappertutto; ma se gli uomini sono
così "cattivi", che senso ha salvarne? È proprio certo che quelli che salverà gliene saranno grati e
riceverà quell'amore che cerca? Oppure, come gli altri, non faranno altro che usare la loro forza
ritrovata per scannarsi a vicenda? In realtà le cose non sono così buie, stanno a metà strada tra
l'egoismo e l'utopia del patosensibile.
La qualità della vita degli ipocriti è determinata dai loro rimanenti pregi/difetti. La patosensibilità è
una bomba che può esplodere a seconda delle vicende personali.
Del resto pensiamo a come popoli diversi affrontano il rito della morte. Ricordiamo le preficae
romane, donne pagate perché ai funerali piangessero, si strappassero i capelli e gli abiti,
simulassero insomma dolore. Ancora oggi, da noi esiste l'assurda equazione che si soffre quanto più
si piange. Presso altri popoli, il funerale è addirittura una cerimonia con cibo e musica.
Pensiamo a come si affronta tradizionalmente una malattia incurabile. E pensiamo come la affronta
un medico come Patch Adams. Chi ha visto il film, sa che il sorriso, e non la disperazione, dà forza e
dignità.
Il superamento
Il patosensibile spesso non fa che mettere delle pezze al dolore. Essere distaccati dal dolore non
significa non agire, significa semplicemente avere la forza di rimanere lucidi e operare al meglio.
Quindi
Egoismo e patosensibilità
Qual è la differenza fra l'egoismo e il non essere patosensibili? Il fatto che l'egoista ha un mondo
dell'amore vuoto, non ama nessuno al di fuori di sé o, al più, usa pochissima bontà nel suo mondo
dell'amore. L'equilibrato invece ha un mondo dell'amore ricco, contenente diverse persone cui
dimostra il suo amore con le sue azioni. Come vedete non esistono solo due livelli, egoismo e
altruismo, ma ne esistono tre: egoismo, equilibrio, patosensibilità.
La vera soluzione
San Francesco e Madre Teresa di Calcutta sono spesso
citati come esempi ideali cui l'uomo dovrebbe tendere.
Ma chi vorrebbe una vita come la loro? Certo è facile
avere degli alibi ("ho famiglia, come faccio a
spogliarmi di tutto?"; alibi che curiosamente tirano
sempre in ballo il proprio mondo dell'amore e un
posizionamento puramente soggettivo sul segmento
dell'egoismo), ma, anche se si rimuovessero gli alibi,
pochissimi farebbero cambio. E allora perché non dirlo
chiaramente che quelli non sono affatto esempi da
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imitare?
Molto probabilmente perché la patosensibilità vuole una soluzione e, non riuscendo a trovarla, si rifà
sempre ai vecchi condizionamenti.
In realtà la soluzione esiste e si chiama ola (onda) dell'amore. La prima volta uso il termine
spagnolo perché rispetto a quello italiano rende meglio (fare la ola) il propagarsi dell'effetto.
Supponiamo che ognuno di noi definisca il proprio mondo dell'amore, cioè le persone che migliorano
la qualità della sua vita. Il mondo di Tizio è in parte sovrapponibile al mondo di Caio, ma, messi
assieme fanno un mondo più grande, spesso molto più grande.
Immaginiamo ora che l'operazione si estenda come una grande onda a tutti gli uomini. Cosa
accadrà? Che ognuno di noi, a meno di non essere il peggior criminale o una persona
assolutamente impossibile, sarà compreso nell'insieme globale.
Se tutti si adoperassero a far vivere bene chi è nel proprio mondo dell'amore, ecco che tutto il
mondo vivrebbe meglio.
Il nostro scopo non è quindi di fare generici propositi di bontà e di santità e di amare (a parole)
tutto il mondo, ma è quello di amare al meglio il nostro mondo dell'amore e di farci amare. Se tutti
realizzassero questo scopo, l'onda dell'amore travolgerebbe il mondo.
Il vero (vero perché concreto, fattibile, non penalizzante) altruismo passa attraverso quattro stadi,
gli ultimi tre dei quali rappresentano la bontà:
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I COMMENTI E LE MAIL
La cecità del patosensibile idealista
Diciamo che mi ritrovo abbastanza nella definizione del "patosensibile idealista", anche se non
riesco a vedere la connessione con la definizione generale di patosensibile.
Leggi la definizione: il patosensibile è colui che "soffre con l'altro", spesso pur "non conoscendolo"
minimamente". Mi fai notare che "una persona nel 1994 poteva starsene felice con la sua ragazza e
intanto in Ruanda veniva ucciso un milione di persone" oppure che "la sofferenza del mondo non è
colpa mia, ma penso che in un certo senso tutti noi siamo colpevoli, nel senso che portiamo in noi il
germe del male". Non basta?
So bene che dovremmo mettere in discussione molte cose che coinvolgono la nostra stessa vita (ad
esempio nei paesi africani dove ci sono le guerre si estraggono i minerali per costruire i nostri
telefonini), ma mi domando se sia migliore una posizione che ignora questi problemi. Per esempio
tu dici: "essere criminali e rapinare una banca per arricchirsi, al di là di ogni considerazione etica,
non ha semplicemente senso perché "non conviene"." Ecco, in certi paesi essere criminali conviene,
allora che dice in questi casi la tua teoria? A Stalin per esempio è "convenuto" fare i gulag, dato che
è morto contento di morte naturale essendo a capo di una superpotenza.
Non si tratta affatto di ignorarli, si tratta di darne una soluzione razionale. La gestione di problemi
internazionali (sicurezza, solidarietà ecc.) non è un problema che compete al singolo, è un problema
sociale che deve essere risolto dalle istituzioni. Nel caso della giustizia, chi pretende di intervenire
direttamente nella gestione senza lasciarla alla polizia e alla magistratura non è che un giustiziere
della notte; così nella gestione della sofferenza universale chi si sente incaricato di "fare qualcosa"
agisce da giustiziere. Più razionale è:
1) affidare la propria "delega" a politici capaci (se si pensa che non ce ne siano, anziché fare il
giustiziere sociale si scenda in politica e si entri nella stanza dei bottoni!) che possono operare
molto meglio del singolo;
2) occuparsi del proprio mondo dell'amore.
Inoltre essere criminali non conviene mai, anche in Paesi non democratici perché non è il massimo
doversi guardare sempre le spalle da chi ci odia. La frase su Stalin indica che tu sei pesantemente
condizionato dal potere e che lo reputi una condizione sufficiente per essere felice. Cosa che non è.
Un capo di Stato che teme in ogni istante di essere avvelenato, di essere rovesciato, di essere
ammazzato come può essere "contento"?
Poi ho qualche dubbio su "non avverte l'ipocrisia di un punto Z puramente soggettivo". "Magari è
disposto a rinunciare a molte più cose della media della popolazione, ma se ne tiene ben strette
altre, insomma non è certo un novello San Francesco!" Questo vuol dire che l'unico modo di essere
coerenti se si vuole eliminare la sofferenza nella terra è di rinunciare a tutto?
Per essere coerenti, sì. Tu mi sensibilizzi sui milioni di morti per le guerre o per la fame e mi chiami
egoista se io ti dico che non soffro più di tanto; però poi non ti accorgi che nella tua vita ci sono
molti momenti in cui ti diverti, magari a cena con la tua famiglia o i tuoi amici; ci sono momenti in
cui ti compri cose che migliorano la tua vita, ma che certo non sono indispensabili. Momenti in cui
ridi proprio mentre milioni di persone muoiono di fame o per guerre. Certo, puoi fare molti distinguo
e molte eccezioni per spiegare quei tuoi momenti di gioia (Eh che? Uno non può certo soffrire per
sempre!), ma in quei momenti tu rimuovi quelle tragedie esattamente come faccio io per tutto il
tempo. Solo che io ho il coraggio di dirlo e non voglio sembrare migliore (secondo parametri
buonisti) di quello che sono.
Anzi io potrei rigirare il discorso dell'onda dell'amore, e ribaltare la tua frase: "se è giusto soffrire
ogni volta che si vede dolore, allora la nostra vita è dolore e la felicità è impossibile."
Certo potresti e dovresti farlo secondo la tua concezione. Poiché io invece ritengo che la felicità sia
possibile e che la vita non sia dolore, ecco che "non" è giusto soffrire ogni volta che si vede dolore".
Confronta la soluzione del patosensibile che tu proponi con la mia dell'onda dell'amore:
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Soluzione del patosensibile: se tutti noi ci rifiutassimo di pensare ai nostri fatti privati e rifiutassimo
di essere felici finché non si sconfiggano la fame nel mondo e le guerre, queste ultime
scomparirebbero molto presto.
Le ipotesi sono irrealistiche (se tutti…) quindi alla fine il tuo impegno in cosa si traduce, visto che,
mi sembra, non credi in un premio ultraterreno? Nello sprecare la tua vita! Sì perché se il tuo sogno
(qui c'è anche un che di romantico) non va in porto, per tua stessa decisione avrai rifiutato di
essere felice per tutta la tua vita. No, grazie!
Lo tsunami
Pistorius
http://www.albanesi.it/Mente/patosensibile.htm 20/06/2009
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Caro Roberto,
ho letto con interesse le tue risposte alla vicenda delle due Simone; per quanto io possa essere
d'accordo sulle tue conclusioni sulla loro psicologia, non lo sono completamente con le tue critiche
verso i "patosensibili". In particolare mi sono rimaste impresse queste tue frasi: "se le avessero
sgozzate o uccise nel più barbaro modo, avrei preso atto della situazione, avrei assimilato
l'informazione ma senza emozione", "se gioissi o fossi triste per qualcosa che accade a persone che
nemmeno conosco, sarebbe la fine".
Il messaggio che percepisco leggendo i tuoi pensieri è quello di promuovere una totale autonomia e
distacco dell'uomo verso i dolori di chi non gli è vicino, escludendo sentimenti quali compassione e
empatia verso "gli estranei". Io trovo che con il tuo messaggio rischi di diffondere cinismo e totale
indifferenza verso i rapporti sociali, mentre, visti i tempi che corrono, penso che sarebbe meglio un
po' più di interesse verso la solidarietà e cooperazione verso gli altri per evitare l'ulteriore
isolamento delle persone, la spietata concorrenza, il logoramento progressivo del tessuto sociale e
della collettività.
Ti racconto un episodio capitato a una mia amica questa estate a Bologna e colgo l'occasione per
chiederti cosa ne pensi. Lei stava scendendo dei gradini verso la strada, è scivolata e sbattendo
violentemente contro il marciapiede, ha iniziato a sanguinare dalla testa e da un braccio. È capitato
in una strada trafficata e, chiedendo aiuto con vari cenni e urla, ha visto tirare dritto più di un
centinaio di macchine senza che nessuna di queste si fermasse. Dopo ben 10 minuti (era agosto)
finalmente un passante le è corso in aiuto; al pronto soccorso ha poi scoperto di essersi rotta
l'omero ed alcune costole. Che ne pensi di chi ha "tirato dritto", non li biasimi solo perché non
avevano nulla a che fare con quella poveretta? Se un dolore altrui non ci coinvolge emotivamente,
non dovremmo cercare di stare un po' più attenti cercando di ascoltarlo? Penso che ne avremmo da
guadagnare tutti.
Quello che consigli è di posporre razionalmente il sentimento alla ragione, sempre e comunque
quando hai gli elementi per farlo; non pensi che sia meglio considerare un equilibrio tra mente e
cuore piuttosto che limitare con la ragione quest'ultimo?
Mi piacerebbe avere un tuo commento su questi argomenti, ma soprattutto sapere se ho male
interpretato le tue conclusioni. Ciao, Piero.
Essere distaccati dal dolore non significa non agire, significa semplicemente avere la forza di
rimanere indifferenti perché chi è colpito dal dolore è come dici "un estraneo". Se hai letto Hard
People, sai che definisco tre mondi: quello dell'odio (sperabilmente vuoto), quello dell'amore
(sperabilmente ricco di persone a noi vicine) e quello dell'indifferenza (che con parole tue
potremmo definire "degli estranei"). Verso questo mondo non si può essere coinvolti emotivamente,
ma ti ripeto nulla vieta di agire. Il patosensibile è colui che "soffre con l'altro". Scusami, ma non
vedo il motivo di questa sofferenza. Anzi, come ho spiegato, se è giusto soffrire ogni volta che
si vede dolore, allora la nostra vita è dolore e la felicità è impossibile. Mi sembra banale.
L'esempio che porti è illuminante. Le persone che non si sono fermate sono semplicemente egoiste.
Mi è già capitato di trovarmi in situazioni simili e ho soccorso diverse persone. Non ho perso un
attimo, ho tranquillizzato la persona e ho chiamato l'ambulanza. Tutto questo senza lasciarmi
coinvolgere emotivamente. È così difficile da capire? Agire non è sentire. La compassione e
l'empatia verso gli "estranei" a mio avviso definiscono il patosensibile che fra l'altro annega nel suo
dolore, spesso senza essere minimamente d'aiuto (continuando l'esempio, magari il patosensibile
sviene alla vista del sangue della persona). Compassione ed empatia non sono necessarie per
risolvere la situazione e dal mio punto di vista contano solo le azioni.
http://www.albanesi.it/Mente/patosensibile.htm 20/06/2009
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Tu dici: non pensi che sia meglio considerare un equilibrio tra mente e cuore piuttosto che limitare
con la ragione quest'ultimo?
L'equilibrio fra mente e cuore non esiste per il semplice fatto che se chiedo a chi lo perora di
spiegarmi come si fa a crearlo non sa che pesci pigliare. In realtà significa solo "giustificare" certi
atteggiamenti emozionali; in altri termini, un po' di sentimento non guasta. Una visione molto poco
precisa della realtà perché non si hanno elementi per usare correttamente ora il cuore ora la
ragione. Come ho già spiegato, la ragione limita il cuore solo per evitargli errori madornali, che
avvelenano la vita. Poi c'è massima libertà di sentire.
Uso il tuo esempio per spiegarmi meglio. Supponiamo che la tua amica, anziché rompersi l'omero,
fosse stata colta da shock anafilattico per una rara allergia. Stramazza al suolo perché la gola si è
ingrossata e non riesce più a respirare. Passo di lì, vedo che nessuno si ferma. La mia cultura
medica è tale che capisco la situazione; valuto che posso chiamare l'ambulanza (5% di probabilità
di sopravvivenza, arriverà troppo tardi) oppure posso praticare una tracheotomia con un temperino
che ho in tasca. Non l'ho mai fatto, non sono medico, ma è abbastanza semplice, diciamo che le
possibilità di salvezza salgono al 40%. Se la persona appartiene al mio mondo dell'indifferenza
chiamo l'ambulanza (in caso l'operazione non riuscisse, andrei infatti incontro a guai a non finire:
ecco che uso la ragione per evitare un errore madornale), se appartenesse al mio mondo dell'amore
rischierei, costi quel che costi (il perdere la persona che amo è immensamente più grave rispetto ai
guai che rischio).
Ti chiederai come sia possibile essere sempre così razionali. I problemi della vita nascono dal non
trattare razionalmente proprio i dettagli. Dal lasciarsi condurre una volta dal cuore e uno dalla
ragione, così a caso o come tira il vento.
La patosensibilità non è mai corretta. Il tuo dolore per ciò che capita ai cani in generale è
patosensibilità: a te capita con i cani, ad altri, molto frequentemente, capita con gli esseri umani.
Pensa a tutti quegli esseri umani che soffrono nel mondo, non per colpa loro, ma per colpa di altri.
E allora che facciamo?
a) Siamo tristi 24 ore al giorno.
b) Ignoriamo gli uomini con la scusa che sono stupidi, ma poi ci ributtiamo sugli animali (come fai
tu), dimenticando che asserire che "tutti i cani sono buoni" è equivalente alle affermazioni di chi
sostiene che "ogni uomo è buono, ha un'anima ed è da salvare". Come per gli uomini, ci sono cani
buoni e cani cattivi, cani sensibili e cani insensibili, la mia esperienza mi dice questo. E penso di
essere imparziale, visto che in generale amo moltissimo i cani. A molti sembrano tutti buoni come
agli occhi di molti tutti i bambini sembrano innocenti (ma si dimenticano che molti di quei bambini,
la stragrande maggioranza purtroppo, per loro scelta, diventeranno adulti di scarso spessore).
c) Non so se hai letto Hard People e conosci i tre mondi (amore, neutro, odio). Non si può amare
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tutto il mondo, per cui cerco di amare al meglio chi è nel mio mondo dell'amore. Chi ne è al di fuori
è come se fosse in un altro mondo. In questi giorni mi ha suonato alla porta uno che voleva parlare
delle cose scioccanti che accadono nel mondo. L'ho liquidato gentilmente dicendo semplicemente
che io non sono affatto scioccato. Mi informo, conosco, ma è saggio capire che l'aspettativa di un
mondo senza dolore, morte, cattiveria ecc. è assurda. è la stessa aspettativa di chi compra un
biglietto della lotteria e pretende di vincere perché quei soldi gli servono proprio, perché avrebbe
diritto a una vita migliore per la sua famiglia ecc.
In fondo la nostra vita ha senso anche perché il mondo non è perfetto. Sul fatto che non migliori
non è vero perché se guardi come si viveva 100, 200, 1.000 anni fa il cambiamento in meglio è
evidente. A me basta partecipare a un mondo che migliora lentissimamente e fare in modo che il
"mio" mondo dell'amore sia bello, magari contribuendo a migliorare quello neutro parlando con la
gente, convincendo uno su mille, diffondendo principi moderni. Quello che scrivi (...sarebbe meglio
se non esistessero e non mi do pace se la società li lascia a piede libero, così continuano a fare del
male indisturbati...) sa troppo di "giustiziere della notte", un concetto violento che non fa certo
andare avanti la società. Premesso che molti resoconti giornalistici sono ritoccati (per esempio
quello del cane malato di tumore che andava a trovare in ospedale il padrone ammalato pure lui
di tumore e che poi sarebbe morto il giorno stesso della morte del padrone, storia strappalacrime
smascherata mesi dopo come una grande panzana) e che per giudicare occorre conoscere i fatti,
evitando di mettere tutto il bene da un parte e il male dall'altra (come nella vicenda della rumena
assassina), bisogna ricordare che esistono le leggi; compito della società è di farle rispettare (giusta
la denuncia della ragazza, ma pensa se le avesse sparato, passando automaticamente dalla parte
del torto!) e applicare. Se si ritiene che le leggi siano troppo blande, ci si deve dar da fare per
cambiarle, non pretendere che sia applicata la "nostra" legge.
Cani di razza?
Dopo 3 anni di casa mia è giunto il momento di prendermi un cane, il cane che ho sempre sognato,
il jack russell.
Quello che più mi sconcerta e un po' mi butta giù è la faccia e le parole di amici e conoscenti
quando sentono che voglio un cane di razza dicono "eh....ma con tutti i cani abbandonati che ci
sono al canile, tu al solito fai il figo e ti prendi il cane di razza...".
Non hanno tutti i torti in effetti, ma in tutti questi anni io e i miei abbiamo recuperato non so quanti
cani dalla strada e dal canile. Ora non voglio con questo mettere a tacere la mia coscienza, ma
ammetto che quando gli amici dicono questo un po' mi fermo a pensare.
Che fare ??
Scegliere un cane di razza (o al canile, ma dopo lunga osservazione*, non il primo che capita solo
perché è buffo o fa pena) probabilisticamente vuol dire avere certi comportamenti, interazioni di un
certo tipo con l'uomo ecc. Se io e il cane dobbiamo legare, è ovvio che si deve scegliere un cane
"simile" a noi e al nostro modo di vivere (infatti un violento sceglie spesso un cane di una razza
socialmente pericolosa) perché ciò aumenta la probabilità che sia "favoloso".
* si deve cioè verificare il carattere del cane, i suoi pregi e i suoi difetti. Altro dato fondamentale è
l'età: Personalmente se scelgo un cane voglio che viva al più a lungo possibile con me, quindi non
sceglierei mai un cane adulto o di una razza (come i boxer) a vita media breve.
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