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Joannes Yrpekh

Il Cammino di Maat
Luci sull’antica sapienza egizia
La citazione in copertina: “…poiché non esistono saggi per nascita”, è tratta dal prologo de
Gli Insegnamenti di Ptah-Hotep (41).

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Alla memoria di Antonio,
un seguace di Horus della nostra epoca.

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INDICE

Ringraziamenti 9
Premessa 11
Introduzione 13
I. L’INSPIEGABILE NOSTALGIA 15
Cosa si nasconde dietro il linguaggio geroglifico 17
I limiti della razionalità 17
La riscoperta dei simboli 19
Un archeologo alieno 22
Principi cabalistici 25
Simboli vivi e simboli artificiali 29
Sulla soglia dell’antico Egitto 33
Il mistero della vita 33
La terra d’Egitto 35
La scienza degli dei 38
I geroglifici si rivelano 43
Il Tao egizio 48
II. SULLA SOGLIA DEL TEMPIO 55
Una civiltà solare 57
Coscienza osiridea e coscienza horusiana 57
La mitologia dell’Essenza 61
L’Egitto biblico 69
La ricerca della perfezione 75
La teocrazia faraonica 75
Le corone della vita 78
L’arte del cambiamento 87
La natura dei conflitti 94
Il servizio disinteressato 102
III. CON NUOVI OCCHI 109
La Casa della Vita 111
Due livelli di insegnamento 111
La meta della felicità 115
Il valore dell’amicizia 118
L’Insegnamento Universale 121
La funzione di un maestro e di una scuola 125
Il metodo 131

7
L’importanza della gratuità 135
La struttura dell’essere umano 139
La conquista dell’immortalità 139
Il desiderio di esistere 142
L’arte di ascoltare il proprio cuore 145
L’uovo-microcosmo 149
Energia ed Essenza 153
Il contatto con il divino 159
IV. OLTRE IL PENSIERO 163
La pesatura del cuore 165
Libro dei morti o libro dei vivi? 165
La consapevolezza del proprio destino 168
Il contrappeso 172
Il verdetto della bilancia 177
La forza attrattiva delle illusioni 183
I differenti piani di esistenza 186
Il nuovo Egitto 193
Attraverso le ere 193
L’eone di Maat 198
La comprensione dell’Amore 201
L’arte di ascoltare 204
Tutti sotto un unico cielo 207
V. L’ADDIO 215
Conclusione 219
Bibliografia 221

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Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare alla mia compagna di viaggio in


questa vita; averla al fianco fa sorgere in me ogni giorno il desiderio
di smascherare le illusioni che mi impediscono di poterla amare
sempre più profondamente.

Un ringraziamento a Sergio per la passionale rilettura e


correzione del presente lavoro, e alla sua compagna Daniela per non
essersi fatta scoraggiare dalle avversità del passato, ritornando più
che mai salda e sincera nella danza della vita.

Un ringraziamento agli amici del Lectorium Rosicrucianum per


aver rinnovato in me la gioia di poter condividere le avventure del
Cammino.

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Premessa

Questo libro tratta di SPIRITUALITÀ.


Ma cosa significa questa parola? Si potrebbe traslitterare con
amore verso il prossimo, oppure contatto con il divino, ma tali
definizioni sono ancora troppo evanescenti, troppo lontane da una
comprensione quotidiana, troppo soggettive e fraintendibili; da un
certo punto di vista, troppo comode.
Il significato che qui assume la spiritualità è quello di
CONSAPEVOLEZZA, di se stessi, degli altri, dei rapporti, della vita
in generale. In altre parole, spiritualità è il RISVEGLIO dal torpore
di un’esistenza abitudinaria, fondata sulla mediocrità del tutto
automatica e priva di ogni impulso creativo.
La spiritualità è LIBERTÀ, in primo luogo dall’illusione di
essere già liberi, in secondo luogo dai condizionamenti, dalle
identificazioni, dal cieco egoismo. La spiritualità non è dunque un
preciso e definibile stato di coscienza, ma è un processo, un percorso
graduale, un CAMMINO appunto, che conduce verso una
leggerezza d’animo.
Si possono allora individuare alcune caratteristiche fondamentali
con cui affrontare questa meravigliosa – per quanto spesso faticosa –
avventura: l’UMILTÀ, ossia la predisposizione a mettersi
costantemente in gioco di fronte all’imprevedibilità della vita, la
SINCERITÀ di voler intimamente riconoscere ed accettare quanto
passo a passo i propri comportamenti, parole e pensieri, riveleranno
della propria attuale natura e condizione; l’ONESTÀ nel far fronte
alla moltitudine di paradossi, dissonanze e discrepanze tra il mondo
delle convinzioni personali e il mondo del reale. E ancora il
CORAGGIO di affrontare a testa alta le proprie paure e la
RESPONSABILITÀ di riconoscersi come protagonisti all’interno
del gioco della vita, e non più come semplici spettatori inermi.
Ovviamente, non è necessario aderire ad un credo o ad una
religione per rendere spirituale la propria vita, giacché questo
implica l’assunzione di un approccio concreto all’esistenza
incontenibile da un qualsivoglia ideale o filosofia.

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Introduzione

Il presente trattato non ha pretese di scientificità, perlomeno non


come comunemente la si considera. L’obiettivo è quello di evocare
la ricchezza della civiltà egizia attraverso una visione simbolica,
assumendo in tal senso una prospettiva esoterica, dal greco
esoterikos, ossia INTERIORE. Nulla a che vedere dunque con
l’occultismo o lo spiritismo.
Invito dunque il lettore a farsi prendere per mano per compiere
un viaggio in un mondo a mio avviso ancora troppo inesplorato; un
viaggio onirico i cui riflessi si possono però ritrovare chiaramente
dentro la struttura animica di ogni essere umano.
È probabile che molte considerazioni che verranno qui esposte
potranno non essere condivise dai lettori di stampo prettamente
egittologico, da ciò la mia premessa di non volermi schierare contro
nessuna metodologia archeologica classica, ma di voler solo offrire
una chiave di lettura alternativa di carattere psicologico, filosofico,
religioso, in definitiva, spirituale.
Non posso in tal senso non manifestare la mia gratitudine alla
schiera di egittologi che da più di duecento anni hanno cercato di
recuperare e ricostruire l’immagine della civiltà faraonica,
mantenendone sempre viva l’attenzione e l’interesse. È proprio
grazie alla divulgazione delle loro ricerche e delle loro testimonianze
litografiche prima e fotografiche poi, che è possibile librarsi in volo
verso nuove esplorazioni interiori proprio come da un trampolino di
lancio. Molti grandi uomini della nostra epoca – noti e non – hanno
dedicato buona parte della loro vita al tentativo di evidenziare tali
spunti di riflessione, a mio avviso di un valore per nulla inferiore
agli approcci storiografici di stampo accademico.
Le considerazioni presenti in questo lavoro sono dunque frutto di
esperienze dirette, studi, osservazioni effettuate sul campo della vita
quotidiana e accurate riflessioni compiute intorno a diversi testi e
testimonianze orali che si tramandano da secoli.
Volgo al termine di questa introduzione con un solo augurio: che
nulla di quanto sarà qui di seguito esposto possa divenire una
considerazione conclusiva intorno ad un universo simbolico di una

13
portata vitale impossibile da racchiudersi all’interno di sterili
classificazioni, così come non è possibile contenere entro argini
artificiali e definiti la vitalità di un fiume in piena.
Non nascondo infatti le difficoltà nell’esporre in forma
sequenziale una dottrina di natura tutt’altro che analitica, e a tal
proposito mi affido allo sforzo del lettore nel cercare di assimilarla
in una visione vitale e compenetrata, dove ogni concetto non segue
né precede un altro, ma dove tutti coesistono simbolicamente legati
tra loro come cellule di un unico organismo.
Ogni parola spesa in merito ad un messaggio spirituale di natura
simbolica sarà infatti nel migliore dei casi un’onesta menzogna, nel
senso che non potrà non tradirne il profondo messaggio evocativo,
per sua peculiarità situato ad un livello superiore al comune
linguaggio del pensiero. Esorto dunque il lettore ad accogliere ogni
nozione che verrà qui esposta unicamente come un modesto
tentativo di offrire spunti di riflessione per un’indagine interiore del
tutto intima e personale.
Ogni due capitoli, lo scritto sarà inoltre intervallato dal racconto
di un giovane cercatore della Verità nell’antica terra d’Egitto, la cui
avventura proverà ad accompagnare il lettore nel cuore
dell’insegnamento faraonico.

14
La ricerca di Ak-Yb-Ka

I.

L’INSPIEGABILE NOSTALGIA

Ak-Yb-Ka era ancora molto giovane, ma già vedeva intorno a sé i


suoi coetanei divertirsi e godersi spensieratamente la loro
adolescenza, perfettamente immersi nelle innumerevoli distrazioni
che un paese come l’Egitto poteva offrire ai suoi figli. Inoltre, molti
di loro non avevano dubbi sul futuro che li attendeva; alcuni si
allenavano con tenacia alla lotta sognando di divenire grandi
condottieri, altri si cimentavano nei rudimenti della scrittura per
poter presto ricoprire un lavoro di rilievo nella società, altri ancora
perfezionavano l’intelletto giocando al senet per imparare l’arte
della strategia politica e della diplomazia.
Ma lui, nonostante cercasse nei modi più disparati di svagarsi o
di dare un senso alla sua vita, non riusciva a liberarsi da quel
profondo senso di vuoto, quell’inspiegabile nostalgia. Per quanto
potesse infatti lasciarsi trasportare da frequenti e facili entusiasmi,
una velata tristezza tornava presto a ricoprire il suo cuore. Si
sentiva solo, disperatamente solo. Eppure era circondato da una
famiglia affettuosa e premurosa, e da molti amici con cui aveva un
forte legame.
Cercava ardentemente delle risposte per quella sua incolmabile
insoddisfazione nella religione, trovandovi a volte anche delle
spiegazioni convincenti. Ma come è fragile la logica nel mezzo della
danza della vita! Eppure, ogni tanto avvertiva un flebile sussurro
che dal profondo del suo essere gli suggeriva che ben altro si celava
dietro ai racconti mitologici, alle monumentali costruzioni, ai
simboli che lo circondavano ovunque, alle cerimonie e ritualità
ricorrenti.
Poteva il mondo essere realmente sorretto dai tanti dei
dall’aspetto antropomorfo? E dove si nascondevano? E come
giustificare il senso di ingiustizia che permeava la vita intorno a lui?

15
No, dietro tutto ciò doveva necessariamente nascondersi qualcosa di
diverso, un altro tipo di conoscenza.
Tutta la sua curiosità iniziò a rivolgersi verso ciò che si celava
dietro al Tempio, oltre la sua funzione manifesta cui tutti
sembravano accontentarsi, nell’ineffabile Scuola dei Misteri che
lontano dagli occhi del mondo operava silenziosamente. L’intero
popolo d’Egitto era consapevole di questo nucleo di persone, di
questi grandi saggi cui il faraone stesso apparteneva. Ma nessuno
sapeva nulla di più, nessuno ne conosceva l’identità oltre a quella
visibile del re. Coperti infatti dal voto di sacra umiltà, quei sapienti
vivevano nel mondo quotidiano nelle insospettabili vesti di qualsiasi
funzione sociale, dagli scribi agli artigiani, commercianti, pescatori
o contadini.
Sì, non vi erano più dubbi ormai, Ak-Yb-Ka riconobbe
chiaramente ciò che il suo cuore desiderava ardentemente: entrare
a far parte della Scuola della Vita, fino alla sfera più intima di essa,
lì dove ogni segreto cessa di essere tale.
Fu così che si mise in viaggio attraverso tutto l’Egitto,
guadagnandosi da vivere con umili mansioni sempre diverse, e nella
speranza di arricchirsi il più possibile di quelle occulte conoscenze
che gli avrebbero con certezza aperto le porte del Tempio Interiore.

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Cosa si nasconde dietro il linguaggio geroglifico

I limiti della razionalità

Alla nostra cultura occidentale piace considerarsi fondata su una


mentalità scientifica e razionale. Tutto sommato, anche noi siamo
felici ed orgogliosi di considerarci tali, indipendentemente da come
poi viviamo realmente la vita. Tale presupposto è ormai divenuto
garanzia di serietà, obiettività, pragmaticità, insomma, di un
approccio lucido e maturo verso gli eventi dell’esistenza. Eppure, in
molte occasioni non possiamo non ammettere di nasconderci dietro
questa così nobile modalità operativa. Significative appaiono a tal
proposito le parole dell’egittologo John Anthony West.

Sono i sensi a favorire lo scetticismo. Quando scienziati e


intellettuali sostengono che è la ragione a imporre loro
l’ateismo o l’agnosticismo, hanno torto. Semplicemente, non
sono riusciti ad applicare la loro razionalità ai dati relativi e
provvisori riverberati dai sensi.1

Ogni fenomeno che può spaventarci o che richiede in noi uno


sforzo anche solo concettuale per poter essere compreso, non
rientrando nella nostra ordinaria visione del mondo, tende ad essere
negato o ridimensionato nella sua portata con poche semplici parole:
sono un tipo razionale con i piedi per terra, io. La verità, è che
siamo costantemente in lotta per mantenere in piedi le rudimentali
certezze su cui basiamo quotidianamente le nostre scelte di vita, e
nelle quali vogliamo ancorarci per affrontare il futuro. In rari casi
una sincera curiosità ci spinge ad affrontare il nuovo per conoscerlo,
liberi da pregiudizi e da aspettative.
In questo modo, passo dopo passo, ci illudiamo di vivere nel
migliore dei modi, issando ogni volta la bandiera della verità, cui ci
sentiamo ovviamente detentori in quanto membri effettivi della
civiltà più evoluta che la storia abbia mai visto.

1
John Anthony West, Il serpente celeste, Corbaccio, Milano, 1993.

17
Ma esistono realmente le prove di questo assunto? È tale
convinzione una reale sicurezza nelle nostre virtù, o è forse una
scorciatoia per compensare un vuoto di insicurezze che dal fondo di
noi stessi reclamano il loro diritto ad essere affrontate e rimesse in
discussione? Proviamo ad esaminare più da vicino la semplice vita
quotidiana che accomuna tutti quanti. Anche perché lo scopo di tale
trattato è proprio quello di parlare di noi, del nostro mondo interiore
più che di quello esteriore, perché è qui che troveremo le “prove”
dell’esistenza di un attuale antico Egitto, oltre gli schemi classici
convenzionali.
Approfondiamo dunque il nostro approccio razionale alla vita in
relazione ad un approccio chiaramente simbolico e ben conosciuto
da tutti: la PUBBLICITÀ, i cui fondamenti poggiano sulla scienza
del comportamento umano. Per esempio, chiunque di noi,
aggirandosi tra gli scaffali di un supermercato alla ricerca di una
confezione di biscotti, sarà propenso a lasciarsi attrarre molto più
facilmente da un’etichetta nota piuttosto che da una sconosciuta. Se
poi la marca è stata ripetutamente vista o sentita in televisione, le
probabilità aumentano vertiginosamente.
Ma da cosa è guidato questo strano impulso d’acquisto? Dal fatto
che negli spot vengono illustrate e dimostrate nel dettaglio la
provenienza delle materie prime, la loro preparazione tradizionale
senza l’aggiunta di sostanze additive dubbie per la nostra salute? Il
tutto magari attraverso un rigoroso metodo scientifico e razionale
che ne certifica l’indiscussa qualità? Facile immaginare la risposta.
Qualsiasi azienda con un minimo di senso commerciale, saprebbe di
buttare via i soldi nell’investire in una propaganda di questo genere.
Buona parte degli stimoli pubblicitari fanno leva su
caratteristiche che con il prodotto non hanno quasi mai una reale
relazione. Basti pensare proprio alla famiglia perfetta cui tutta la
felicità sembra ruotare intorno a una merendina, o alla frequente
associazione che vede a fianco di un nuovo modello di auto una
splendida modella. Gli esempi potrebbero continuare per pagine e
pagine, ma ciò che ci interessa ora è constatare come tutte le
strategie psicologiche siano edificate sulla base di tre materie prime
indissolubilmente legate tra loro: EMOZIONI, ILLUSIONI e
DESIDERI.

18
Nel profondo di noi stessi, nel nostro intimo, siamo molto più
attratti dall’idea – seppur evanescente ed illogica – di ritrovare forse
un po’ di quella felicità che viene presentata, piuttosto che dirigere
in modo razionale, obiettivo e scientifico la nostra attenzione verso
aspetti che sappiamo essere di gran lunga molto più importanti e
seri, ad esempio gli ingredienti di un alimento che potrebbero
influire sulla salute, o le caratteristiche tecniche di un’auto
necessarie e sufficienti per l’utilizzo reale che ne andremo a fare.
Non è necessario scandagliare ulteriormente tutti gli ambiti in cui
la nostra stabilità razionale viene a mancare, anche perché tali
tentativi di condizionamento sono talmente presenti e ramificati, che
in molti casi è addirittura impossibile delineare quella linea interiore
che separa ciò che siamo realmente da ciò che le forze esterne
concorrono a delineare della nostra immagine.
La verità è che oggi più che mai, specialmente nell’ambito delle
scienze umane, si è giunti all’inequivocabile conclusione che i fili
che muovono la nostra vita sono tutt’altro che razionali. Se è pur
vero che i recinti della nostra cultura sembrano nettamente stabiliti
entro limiti logici e di parvenza scientifica, è anche fin troppo
evidente quanto all’interno di essi si muovano caoticamente un
marasma di impulsi soggettivi, irrazionali, incoerenti ed instabili.
Eppure, alla prima occasione troviamo sempre la forza di
riaffermare: sono un tipo razionale con i piedi per terra, io.

La riscoperta dei simboli

Il mondo scientifico ha attraversato negli ultimi cinquant’anni


una rivoluzione paradigmatica senza pari che lo ha portato a mettere
in discussione alcuni fondamenti su cui si è sempre poggiato, primo
fra tutti il fatto che non può esistere una modalità conoscitiva di tipo
oggettivo, ma ogni osservatore – per quanto si sforzi di rimanere
neutrale di fronte ad un fenomeno che vuole studiare – diviene
inevitabilmente un PARTECIPATORE, nel senso che non potrà non
influire su ciò che intende esaminare, con le sue aspettative, con le
sue idee, con le sue esperienze, con il fatto stesso di esistere.
Altro punto essenziale, protagonista del capovolgimento di
prospettiva, è stato il riconoscimento dell’inadeguatezza del

19
linguaggio razionale nell’esprimere ciò che progressivamente il
linguaggio simbolico matematico portava alla luce.
La realtà che si è dispiegata agli occhi dei grandi ricercatori delle
diverse discipline scientifiche, appare incomunicabile tramite i
comuni canali logici, attraverso i quali non potrebbe che scontrarsi
in continue definizioni contraddittorie. Pensiamo ad esempio al
fenomeno della dualità onda-particella, per il quale la natura della
luce può essere osservata e descritta sia tramite caratteristiche
corpuscolari che ondulatorie, due aspetti razionalmente inconciliabili
tra loro. Ciò che potrebbe sembrare un koan zen, è divenuto invece
un assunto scientifico.
È sorta quindi l’esigenza di rivolgersi a strumenti comunicativi
più evoluti, in grado di sopperire alle limitate restrizioni del
linguaggio e della logica umana. Quale migliore strumento del
linguaggio simbolico? Come affermò Georg Groddeck, principale
fonte di ispirazione del pensiero psicoanalitico di Sigmund Freud:

i simboli non sono inventati; esistono, appartengono


all’inalienabile patrimonio dell’umanità; si potrebbe anzi dire
che tutti i pensieri e le azioni coscienti sono la conseguenza
inevitabile del processo inconscio di simbolizzazione, e che
la vita dell’uomo è governata dai simboli. 2

Abbiamo precedentemente messo in risalto come i messaggi


simbolici, che sono il campo di studi e di applicazione nell’ambito
pubblicitario, assumono la stessa importanza anche per i moderni
sistemi didattici, i quali ne hanno riscontrato l’elevato grado di
efficacia nella sfera dell’apprendimento.
Passiamo ora a cercare di capire più nel dettaglio cosa sia in
realtà un simbolo. L’etimologia greca della parola, symbàllò, è la
forma verbale che significa METTERE INSIEME, legare tra loro
parti separate. Essa costituisce un mezzo per indicare qualcosa che
va oltre se stesso attivando un pensiero di tipo associativo, una
naturale funzione della mente umana, molto più profonda ed efficace
di un pensiero di tipo lineare e razionale.
Consideriamo per un attimo il classico simbolo del dollaro
(figura 1), da sempre il più rappresentativo per tutto ciò che riguarda

2
Georg Groddeck, Il libro dell’Es, Adelphi, Milano, 1990.

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il mondo del denaro. La maggior parte delle persone di questo
pianeta assocerà alla vista di questa immagine una serie di concetti
ed emozioni relativi agli affari, all’economia, al potere di acquisto,
alle banche. Altri potrebbero associarlo alla corruzione, alla
malavita, alla causa della povertà nel mondo, ed altri ancora ai
propri sogni di ricchezza, di successo e fama, di vincita a qualche
lotteria. Si potrebbe scrivere un intero libro per racchiudere tutte le
associazioni possibili che un simbolo del genere è in grado di
risvegliare nell’essere umano, ma ciò che si può facilmente
constatare è come esso sia a tutti gli effetti una sorta di chiave in
grado di aprire la porta ad un flusso di emozioni, aspettative, idee e
pregiudizi.

Figura 1 – Il simbolo del dollaro.

I simboli hanno dunque una portata molto più ampia, veloce ed


impattante di ogni qualsivoglia concettualizzazione; essi utilizzano
infatti una canale comunicativo che veicola contemporaneamente
sensazioni e ragione, agendo direttamente sul nostro lato
inconscio.
Pensiamo ad esempio alla croce cristiana, la cui sola immagine
può evocare in un breve istante aspetti religiosi, mistici, devozionali,

21
oppure può richiamare scene di guerre sante, inquisizioni e genocidi
in virtù di una conversione forzata. Se ci sforzassimo di mettere in
parole tutto ciò che racchiude il simbolo della croce per poter
trasmettere pienamente il suo significato ad altre persone, ci
troveremmo in seria difficoltà.

Un archeologo alieno

Proviamo per un attimo a cavalcare l’immaginazione


proiettandoci come osservatori esterni, silenziosi, in un futuro molto
molto lontano. Ipotizziamo ora che la nostra attuale civiltà sia già
scomparsa da millenni, lasciando sul pianeta solo una serie di reperti
confusi e poco comprensibili, e che casualmente l’astronave di un
archeologo alieno approdi proprio sul pianeta Terra.
Ebbene, questo anomalo esploratore potrebbe essere incuriosito
ed affascinato dalle tracce lasciate da una civiltà come la nostra, ed
inizierebbe molto probabilmente a raccogliere con cura tutti i reperti
a disposizione, nel tentativo di formulare poi delle ipotesi in grado di
evocare la nostra vita quotidiana, il pensiero, la religione, e così via.
Ad un certo punto il caro alieno potrebbe ritrovare, ai bordi di
una strada, una strana tavola con sopra disegnati la figura di una
piccola astronave che poggia su quattro ruote e un animale intento a
saltare all’interno di un minuscolo foro del veicolo. Noi sappiamo
benissimo che si tratta della famosa pubblicità di una nota
compagnia petrolifera, in cui una scritta e un’immagine esprimono
l’idea di mettere una tigre nel motore di un’automobile, per
simboleggiare il concetto di un carburante in grado di offrire potenza
ed elevate prestazioni.
Il problema è che il nostro caro alieno potrebbe non avere la
minima idea di cosa sia la pubblicità né tantomeno la tipologia di
linguaggio che essa utilizza. Ecco che allora potremmo essere
facilmente considerati come esseri preistorici, decisamente ingenui
nel credere di poter mettere un animale dentro una macchina
attraverso un foro per poter ottenere migliori prestazioni! Oppure
potremmo essere dipinti come una civiltà estremamente
superstiziosa, ancora convinta che una sorta di richiamo magico
dello spirito della tigre possa animare uno strumento meccanico. E

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ancora – orrore e disgusto – potremmo essere marchiati di inciviltà
per torturare e uccidere un animale costringendolo a passare per
un’apertura così piccola, in una sorta di brutale rituale di battesimo
per una macchina.
Ritorniamo ora indietro fino ai giorni nostri, e proviamo a
rimetterci nelle vesti dell’umano-alieno che cerca di conoscere una
possente civiltà ormai scomparsa da diversi secoli, e il cui ricordo è
sopravvissuto solo tramite una serie di immagini, di scritti
difficilmente comprensibili, di opere architettoniche maestose
quanto misteriose e di pochissime testimonianze dirette. Stiamo
parlando dell’antico Egitto.
Come possiamo studiare e interpretare i lasciti di una civiltà
senza compiere le sforzo di calarci il più possibile nella visione
dell’esistenza che essa esprimeva e ricercava, nel concreto modo di
affrontare la vita degli individui che la formavano? Generalmente
noi ci illudiamo di effettuare questo tipo di lavoro, ma il più delle
volte non facciamo che far accomodare barlumi di idee differenti
dalle nostre in una ben stabile e radicata costruzione di preconcetti
culturali indiscutibili.
Perfino nella nostra quotidianità abbiamo spesso la sensazione di
vivere in mezzo ad estranei, perfino con le persone con cui
condividiamo lo stesso tetto sopra la testa: genitori, fratelli, sorelle,
marito, moglie, figli, ecc. Non riusciamo a comprendere certi loro
ideali, certe loro prese di posizione e scelte di vita. Ogni nostro
sforzo di calarci nei loro panni, nei rari casi in cui le nostre energie
non siano convogliate nel tentativo di convincerli altrimenti, si
concretizza nel confrontare le altrui prospettive con le nostre,
trovando una sorta di compromesso accettabile; per farcene
insomma una ragione, non certo per provare ad accoglierle come
innovazioni esistenziali da poter sperimentare.
E quante volte ci ritroviamo a chiederci: io quello proprio non lo
capisco, come è possibile ragionare in quel modo? La realtà è che
siamo completamente assorbiti in una sorta di incantesimo culturale-
egocentrico per il quale tutto ciò che non si conforma ai nostri
ordinari processi di pensiero ci spaventa. Ora più che mai sono state
attivate delle paure ancestrali di autodifesa verso alcune culture
come quella musulmana; la stessa parola rimanda per i più a concetti

23
di fanatismo, di maschilismo, di terrorismo, di inciviltà. E poi, la
nostra religione è senz’altro la migliore!
Poco importa se noi, magari, non abbiamo mai letto neanche una
volta il Vangelo o la Bibbia, se ne conosciamo molto
approssimativamente i dettami guida e non ci siamo mai realmente
posti il problema di come poterli vivere praticamente. Già, perché è
risaputo che la maggior parte dei musulmani sono più dediti di noi
allo studio del Corano e alle pratiche quotidiane di preghiera.
Per tali motivi possiamo giungere ad una clamorosa conclusione:
gli alieni esistono, e sono proprio in mezzo a noi, al nostro fianco,
nella casa in cui viviamo, sul posto di lavoro, ovunque. Si, siamo
tutti alieni l’un con l’altro, e anche con noi stessi. Non c’è alcun
bisogno di andare a disturbare l’abitante di qualche mondo lontano.
Come fare dunque per superare questo empasse? Come fare per
allargare lo sguardo oltre i paraocchi che da sempre ci
accompagnano stabili ed immobili? La risposta implica una nostra
totale volontà a metterci in gioco, a buttarci verso il nuovo, non
necessariamente per distruggere tutto ciò in cui crediamo, ma
perlomeno per accogliere altre prospettive con sincera
predisposizione. Tale è il motivo per cui gli antropologi conducono
buona parte della loro vita nel mezzo della civiltà che studiano,
vivendo con loro ogni prezioso istante della vita quotidiana. E
quanto imparano da queste esperienze: aspetti che non avrebbero
mai immaginato, e che con stupore li colpiscono spesso a tal punto
da segnare per sempre la loro vita.
Ovviamente a noi ora non è data la possibilità di vivere in mezzo
al popolo dell’antica terra d’Egitto, ma non sono pochi coloro che ci
sussurrano come la strada per una comprensione più profonda sia
comunque ancora possibile, passando attraverso una riscoperta di sé
che viaggia di pari passo con il riconoscimento del messaggio che
questa sacra civiltà sembrava permeare in ogni suo aspetto. Come
scrisse René Schwaller de Lubicz:

nella storia dell’umanità, una data importante è quella in cui


Champollion ha riscoperto uno dei significati di queste
iscrizioni; uno dei significati, perché l’altro è indissociabile
dallo spirito stesso del pensiero dei maestri dell’Opera, è un

24
tutto, una sintesi che non potrebbe essere trascritta in
vocaboli di un dizionario. 3

Alcuni passi sono già stati compiuti, e grazie ad essi possiamo


avvalerci di alcune basi concettuali per intraprendere un’avventura
in un mondo completamente sconosciuto fino a duecento anni fa.
Possiamo ora metaforicamente affermare di avere a disposizione una
buona mappa sotto mano, ma il vero passo per un’esplorazione
approfondita e dettagliata necessita che ognuno di noi scenda
fattivamente sul campo.
L’avventura nel mondo simbolico e sacrale infatti, secondo il
pensiero dei maestri alchimisti, non può che essere essenzialmente
individuale; solo nella propria interiorità si possono ritrovare le
risonanze, le conferme, le certezze e, cosa ancora più importante, le
vere domande. Ciò che si può fare insieme è condividere le
indicazioni di un percorso tanto meraviglioso quanto misterioso,
sempre pieno di sorprese e certamente non privo di difficoltà.

Principi cabalistici

La prime osservazioni sulla natura della scrittura geroglifica si


ritrovano nei vari scritti di Jean-François Champollion, il geniale
studioso francese che nel 1822 riuscì a fornire la prima chiave per
decifrare l’antica scrittura, e per tale motivo ancora oggi considerato
il padre dell’egittologia. Anche se alcune spiegazioni si sono poi
rivelate errate, la maggior parte delle sue intuizioni sono risultate
esatte. Come egli stesso affermò:

la mia scienza geroglifica è avanzata quanto basta per


intravedere l’immenso spazio che le resta da percorrere prima
di marciare senza ostacoli nel grande labirinto della scrittura
sacra. Io vedo la strada che bisogna seguire, ma ignoro se lo
zelo di un solo uomo e la sua intera vita possono bastare per
una sì vasta impresa.4

3
René Adolphe Schwaller de Lubicz, I Templi di Karnak (vol. I), Mediterranee, Roma, 2001.
4
Jean-François Champollion, citato da Jves Naud, La vendetta dei faraoni, Famot, Ginevra,
1977.

25
L’intero corpo geroglifico è composto da oltre settecento
caratteri, che nel loro complesso offrono l’immagine di tutte le classi
di esseri presenti nella creazione, o perlomeno nella creazione
conosciuta a quell’epoca nella terra d’Egitto. Vi possiamo
riconoscere infatti la rappresentazione dei diversi corpi celesti,
dell’uomo in tutte le sue forme, degli animali domestici e selvaggi,
degli uccelli, dei rettili, dei pesci, degli insetti, dei vegetali, fiori e
frutti. Il tutto affiancato da altri generi di segni rappresentanti tutti i
tipi di attrezzature e prodotti utilizzati dall’uomo e dalla donna per lo
svolgimento della vita quotidiana, e da altri segni ancora di forme
geometriche. Ma oltre a ciò che l’essere umano poteva osservare nel
campo dell’esistenza visibile e – apparentemente – reale, compaiono
anche una serie di caratteri che raffigurano esseri fantastici, forse
mitologici.
Solo una piccola parte di questa moltitudine di segni, dai
ventidue ai ventotto a seconda dell’interpretazione, assumono la
funzione di lettere alfabetiche, e vengono denominati
GEROGLIFICI FONDAMENTALI, cioè i mattoni che costituiscono
le fondamenta dell’intera scrittura. Altri caratteri rappresentano con
una sola immagine il suono di una sillaba o addirittura una parola
intera; altri ancora esprimono un’idea che determina il significato
della parola.
Vi è poi un elevato numero di geroglifici comunemente chiamati
biconsonantici e triconsonantici, che individuano l’associazione di
due o tre segni fondamentali. Per chiarire meglio il concetto (che
tornerà utile in seguito) possiamo prendere come esempio un
geroglifico triconsonantico tra i più noti, il famoso ankh,
comunemente conosciuto come CHIAVE DELLA VITA, e la sua
relativa composizione:

A tali caratteri fondamentali corrispondono determinate


consonanti, mentre le vocali non compaiono, e vengono oggi
utilizzate dalla traslitterazione egittologica come pura convenzione.
Senza di esse non sarebbe infatti possibile rendere leggibile nessuna
parola egizia antica.

26
Se proviamo a fare un piccolo salto nella tradizione ebraica, che
ci verrà in soccorso diverse volte nel corso di questo lavoro,
possiamo vedere come in tale scrittura valga lo stesso principio di
assenza di vocali. Anche in questo caso esse vengono
convenzionalmente inserite in un secondo momento dall’apparizione
di un testo sacro – composto unicamente da consonanti – tramite
l’utilizzo di piccoli segni denominati masoretici e che vengono
situati sotto le lettere o all’interno di esse. Il tutto per rendere
possibile perlomeno un primo livello di lettura razionalmente
comprensibile.
Immaginiamo un libro scritto interamente da una serie
ininterrotta di caratteri, senza vocali e senza punteggiatura, un vero e
proprio codice cifrato la cui genialità dell’autore ha permesso che vi
si possano ritrovare diversi livelli di lettura semplicemente
modificando al suo interno le vocali e la punteggiatura secondo uno
schema criptico ben definito.
Permettiamoci ora di considerare un esempio estremamente
banale e riduttivo, ma di altrettanta efficacia per comprendere i
principi di cui stiamo parlando. Data una serie di consonanti:

C N S C T S T S S

si potranno ottenere diverse soluzioni interpretative in base alle


vocali inserite:

C’è NaSCiTa Se i Tuoi USi oSi

CoN uSi CauTi Si TeSSe

CoNoSCi Te STeSSo

ecc…

Uno dei testi più noti al mondo redatto tramite un sistema del
genere è proprio la Bibbia (per essere più precisi i primi cinque libri,
che costituiscono la Torah ebraica). La traduzione comunemente
conosciuta e considerata da diverse religioni non rappresenta infatti

27
che un primo livello di lettura, piccolissima parte di un messaggio in
realtà molto più vasto e profondo.
Si vocifera che secondo la Cabalà, definibile altrimenti come la
corrente esoterica (quindi interiore) della cultura ebraica, esistano in
realtà quindici livelli di lettura differenti, e che ognuno di essi riveli
aspetti dettagliati della natura umana e della realtà non
comunemente visibile.
Non dimentichiamoci infatti che la Bibbia adottata dalla cultura
cristiana è la traduzione effettuata a partire da una versione ebraica
divulgata nel X secolo d.C., e che ne esistevano e ne esistono in
realtà molte altre versioni, la maggior parte delle quali
probabilmente ancora oggi sconosciute ai più.
Oltretutto, nelle versioni che si possono ottenere dai codici
consonantici delle lingue sacre, emergono spesso delle omonimie su
cui è altrettanto possibile lavorare. Anche in questo caso possiamo
considerare un semplice esempio a partire dalle parole:

IL SENSO DEL TASSO

si potranno leggere almeno quattro interpretazioni diverse:

La direzione verso cui è diretto l’animale,


il significato che l’animale assume,
la direzione dell’indice di interesse,
il significato che l’indice di interesse assume.

Non dimentichiamo infine che le due prospettive interpretative


appena analizzate sono sempre associate anche ad altri aspetti di
carattere sia simbolico-figurativo che allegorico-metaforico.
Insomma, non è difficile essere sopraffatti da un indescrivibile senso
di stupore e meraviglia – quasi incredulità – di fronte a tanta
genialità e perfezione comunicativa, così immensamente lontana dai
classici parametri linguistici cui siamo abituati.
Ma la nostra naturale tendenza è quella di accontentarci di ciò
che viene superficialmente offerto, sedendoci comodamente sopra
gli allori di una versione apparentemente moralistica e a tratti
contraddittoria, per nulla utile al nostro concreto sviluppo interiore
se non viene accesa da una riflessione più approfondita e

28
intimamente correlata alla propria quotidianità. Sì, perché anche
nella versione ufficiale dai più oggi conosciuta, sono nascoste una
miriade di sfaccettature in grado di offrire insegnamenti di carattere
metaforico e simbolico.
Un discorso analogo vale per la tradizione egizia, per i suoi testi
sacri e i geroglifici che li compongono. Nulla è lasciato al caso, tutto
è codice, tutto è metafora, tutto è simbolo. Lo stesso Champollion si
rese conto di questa realtà, e il suo colpo di genio fu proprio quello
di non scindere le diverse parti tra loro, ma di approcciarsi ad esse
con una visione più olistica. Scrive a tal proposito:

la scrittura geroglifica è un sistema complesso, una scrittura


nel contempo figurativa, simbolica e fonetica, in uno stesso
testo, in una stessa frase, direi quasi nella stessa parola.5

A onor del vero, il primo personaggio della storia occidentale che


propose una lettura in chiave simbolica-figurativa fu lo scrittore
egiziano Orapollo nel IV secolo d.C. Il suo scritto fondamentale, lo
Hieroglyphica, fu scoperto nel 1419 e rimase per diversi secoli come
l’unico punto di riferimento per l’antica scrittura egizia.
Champollion partì proprio da tale prospettiva ma, senza escluderla,
introdusse l’idea che ogni geroglifico potesse anche assumere il
carattere di un segno fonetico.
Noi oggi potremmo aggiungere, in analogia con la Ghematria,
che ad ogni carattere corrisponde anche un numero. Secondo tale
metodologia interpretativa esiste infatti un’equivalenza analogica fra
parole le cui lettere possiedono lo stesso valore numerico.

Simboli vivi e simboli artificiali

Il nostro approccio interpretativo è dunque viziato da una


mentalità estremamente diversa e lontana da quella antica, per certi
versi molto più sterile e riduttiva. Cercare di convertire una sì ampia
forma d’arte, così geniale e profonda, entro i parametri classici con i
quali siamo abituati a leggere e tradurre le opere della nostra cultura,

5
Jean-François Champollion, Compendio del sistema geroglifico, su www.aton.ra.com.

29
è tanto assurdo quanto voler far passare una tigre attraverso il foro di
un serbatoio.
Fino a quando terremo ben stretti un paio di occhiali con le lenti
grigie, come potremmo pensare di cogliere tutte le sfaccettature di
un mondo colorato? Necessitiamo allora di un aiuto che possa porci
il più possibile in sintonia con una prospettiva che ha consentito agli
antichi saggi di dar vita ad una lingua sacra così perfetta e compiuta,
in grado – non dimentichiamocelo – di apparire quasi
improvvisamente nella storia della civiltà e di rimanere
sostanzialmente inalterata per almeno quattromila anni.
Il metodo interpretativo che più di ogni altro può oggi avvicinarsi
alla scrittura geroglifica è il REBUS, dove il significato delle
immagini e delle parole varia a seconda del contesto, basato su
forme grammaticali e figurative miste tra loro. Inoltre, non esistendo
l’interpunzione nella lingua sacra, sarà il testo stesso ad evocarla alla
nostra coscienza in parallelo con la personale predisposizione ad
accoglierne un significato piuttosto che un altro. Non è azzardato
affermare che solo colui che raggiunge la piena realizzazione
interiore, il contatto con la parte più intima e sacra di sé, potrà
disporre di tutte le chiavi per una lettura definitiva e completa. Da
tale punto di vista lo studio dei geroglifici diviene implicitamente
anche uno sprono a percorrere un cammino per ampliare la propria
consapevolezza ed ottenere così nuovi stimoli a proseguire.
Un ultimo tratto essenziale da considerare per un approccio del
genere, impone di non cadere nella trappola di confondere ciò che la
nostra mentalità intende comunemente con la parola simbolo e ciò
che intendeva invece la mentalità faraonica. Il simbolismo dei
geroglifici è sempre naturale, universale, mai convenzionale. Esso
non è un’invenzione umana, è una trasmissione divina, e come tale
coglie ed esprime una particolare ESPRESSIONE VITALE
dell’esistenza, comunicandola per mezzo del principio di
evocazione. Compito del neofita che gli si avvicina è quello di creare
le condizioni interiori affinché tale evocazione possa trovare lo
spazio per esprimersi.
Cosa si intende dunque per simbolo convenzionale, e come fare a
riconoscerlo? Prendiamo come esempio le bandiere che
contraddistinguono le diverse nazioni. Esse sono state create
artificialmente dall’intelletto umano per esprimere tramite alcuni

30
segni e colori le caratteristiche che possono sommariamente
rappresentare una popolazione. Noi sappiamo infatti che il
significato dei colori che compongono la bandiera italiana può
essere sintetizzato nel seguente modo: verde per la speranza, bianco
per la fede e rosso per la carità. Una simbologia del genere, nel caso
della nostra nazione come per le altre, acquisisce poi un valore
rappresentativo estremamente forte, tanto da costituire precise
condanne per coloro che la oltraggiano in qualsivoglia forma.
Diviene difficile quindi non considerare viva una bandiera del
genere.
Eppure, se volgiamo l’attenzione verso una bandiera dai colori
analoghi alla nostra, come quella messicana, ritroviamo una serie di
significati completamente diversi associati ai colori: il verde per
l’indipendenza, il bianco per la religione e il rosso per l’unione. Non
solo, ma gli stessi colori possono nel tempo acquisire modificazioni
nel loro significato, infatti – rimanendo in Messico – intorno al 1870
è stata introdotta dal presidente Benito Juàrez una nuova
interpretazione: il verde per la speranza, il bianco per l’unità e il
rosso per il sangue degli eroi della patria.
Ma come è possibile che un colore possa assumere
arbitrariamente significati diversi? La risposta diviene piuttosto
complessa, dato che non vi è limite alle possibilità di associazione.
In tutti i casi tali significati acquisiranno comunque un certo valore e
connotato emotivo per coloro che li hanno scelti, ma ciò nonostante
potrebbero non riguardare il vero significato vitale di cui il colore è
portatore.
Se rappresentassimo il sole tramite un segno stilizzato, e
volessimo poi rappresentare tramite questa immagine un circolo
culturale di speleologia, non ci sarebbe alcun problema. Anzi,
nessuno escluderebbe che tale immagine possa raccogliere intorno a
sé molte persone attratte dal mondo delle grotte, e che in breve
tempo tali persone possano anche associare questa loro passione al
simbolo del sole. Eppure, volenti o nolenti, il sole continuerà ad
essere tale, e nessun ragionamento o decisione umana potrebbe mai
modificare uno dei suoi profondi ed evidenti significati vitali poco
conformi al mondo delle grotte: luce e calore.
La scrittura geroglifica rientra nell’inalienabile patrimonio
simbolico universale che da sempre ha accompagnato – e

31
accompagna tuttora – l’essere umano nel suo percorso di risveglio. I
simboli che la compongono sono veri, vivi, finestre verso una realtà
molto più vasta di quella visibile e tangibile, una realtà interiore. A
noi compete il compito di renderli nuovamente vivi dentro di noi,
sperimentarli nella vita quotidiana, lasciare che ci possano
trasmettere i messaggi di cui sono portatori. Non ci saranno limiti
per coloro che vi si pongono di fronte con cuore sincero e onesto,
non ci saranno domande alle quali non forniranno risposta.
Ma occorre procedere con prudenza, perché la nostra coscienza
logica e razionale è sempre in agguato, e tende ad offrirci ad ogni
passo delle comode soluzioni ed approssimative interpretazioni sulle
quali poter speculare senza sosta. L’essenza vitale di un simbolo non
potrà mai essere rinchiusa in una descrizione, per quanto
soddisfacente essa sia. Attenti dunque a non soffocarne i messaggi.
Manteniamo sempre acceso il desiderio della ricerca.
Non occorre dilungarci oltre la breve panoramica fin qui esposta,
giacché non è l’obiettivo di tale trattato scendere nel dettaglio della
grammatica geroglifica. Fondamentale è però scorgere l’enigma che
ancora oggi rappresentano le scritture sacre, il profondo mistero che
si cela dietro di esse, e verso il quale non si potrà giungere attraverso
i metodi classici di ricerca.
Ciò che le lingue antiche reclamano è di essere continuamente
studiate e vissute. Le tradizioni tramandano che la loro
comprensione viaggia di pari passo con lo sviluppo coscienziale di
chi le legge. D’altronde, è probabile che molti di noi abbiano toccato
con mano un simile principio nella propria vita ogni qual volta si
sono apprestati a rileggere uno stesso libro a distanza di anni,
ritrovandosi poi a pensare: mi sembra di aver letto un altro libro,
quante cose mi erano sfuggite la scorsa volta! Applicando dunque la
stessa regola ai testi sacri, depositari del mistero della vita e
volutamente scritti con l’intento di rivelarlo a coloro che con zelo e
perseveranza lo ricercano, il risultato sarà analogo ma molto, molto
più travolgente.

32
Sulla soglia dell’antico Egitto

Il mistero della vita

Ci si potrebbe chiedere, in effetti, il motivo per cui valga la pena


compiere un così ampio tuffo nel passato per cercare di risvegliare le
vestigia di una civiltà ormai scomparsa da oltre duemila anni. Forse
per la nostalgia di un passato tanto affascinante? O per rifugiarsi
emotivamente in un mondo lontano da quello attuale, con il quale è
difficile identificarsi? O, ancora, per accogliere la sfida di poter
trovare una volta per tutte un’appagante spiegazione in grado di
colmare le miriadi di enigmi che continuano a circondare l’antica
cultura egizia?
Quale che sia la risposta, ciascuno di noi sarà comunque sempre
ricondotto di fronte all’unico vero quesito, che lo si voglia
riconoscere o meno: il senso della vita. In un periodo come quello in
cui stiamo vivendo, dove ogni sorta di corrente psicologica,
filosofica, religiosa ed iniziatica sembra essere a disposizione di
tutti, riempiendo libri, pagine web, riviste, centri di formazione, e
così via, ci sentiamo paradossalmente più confusi, più soli che mai.
In molti il desiderio di ricerca cresce di pari passo con la diffidenza,
e molte sono probabilmente le delusioni in cui ognuno di noi si sarà
imbattuto. Eppure, una strana forza ci spinge ogni volta a guardare
avanti, a cercare ancora.
L’antica tradizione egizia non concederà certo risposte precise e
definitive, ma potrà piuttosto offrire tutte le indicazioni necessarie
per imparare a porsi in modo più chiaro e sincero la domanda
esistenziale sul senso della vita o, meglio ancora, sul senso della
propria vita.
Ogni sistema tradizionale è in grado – anzi è nato – con tale
nobile obiettivo. Siamo noi stessi ad averli intorpiditi per piegarli ed
adattarli ai nostri doppi fini, ai nostri interessi ed ai nostri bisogni di
certezza. In un’epoca in cui arti sacre come lo Yoga o il Tai-Chi
sono divenuti principalmente passatempi da palestra, in cui
l’Astrologia e il Tarot vengono relegati ad appariscenti quanto futili
sistemi per predire il futuro, in cui ogni reale messaggio tradizionale

33
diviene una moda speculativa priva di ogni risvolto pratico se non
quello di alimentare la propria autostima, come non ci si può sentire
frastornati e delusi? Tutti noi siamo dunque chiamati a ritornare sui
nostri passi, a lottare per ridare dignità a questi antichi saperi
millenari il cui cuore continua a pulsare più che mai dietro la coltre
di banalità con cui li abbiamo ricoperti.
L’antico Egitto rappresenta la culla della nostra civiltà
occidentale, il primo luogo in cui si è storicamente manifestata la
GNOSI, e la prima civiltà da noi oggi conosciuta che ha dato così
tanto risalto a questo messaggio universale. Ogni testo, ogni
immagine, ogni costruzione, ogni gesto quotidiano, religioso,
scientifico, medico, politico e poetico ci parla in modo più o meno
velato di tale rivelazione divina.
L’antico Egitto è dunque qualcosa di più di un insieme di reperti
archeologici e di dati storici. Una sintesi magistrale venne esposta
dal prof. Pasquier (che conobbe e frequentò la coppia Schwaller de
Lubicz) in una conferenza tenuta nel 1986 presso il castello di
Guardea.

Egitto, come una precisa “Qualità dell’Intelligenza”; un altro


modo di esistenza dell’Intelligenza umana. Questo “Egitto”
non ha niente a che vedere con i tempi storici (anche se
questa Intelligenza si espresse nella terra del Nilo in una
precisa epoca storica), ma rappresenta piuttosto un ben
preciso Luogo/Stato di coscienza. Per entrare in questo
Egitto, eternamente presente, l’uomo deve imporre a se stesso
una disciplina. Egli deve, abbandonando la coscienza
dialettica, risvegliare un rapporto interiore vivente con
l’oggetto della propria ricerca, quella che AOR [nome con
cui si firmava René Schwaller de Lubicz] definiva
Intelligenza del Cuore. Questo era lo scopo: risvegliare, con
un lavoro su di sé, l’Intelligenza del Cuore, giungere con essa
all’essenza vivente dei fenomeni, e quindi poter giungere
all’Essere Universale. Se l’uomo riesce a penetrare nel
proprio “Cuore”, riesce anche a penetrare nel “Cuore” delle
cose.6

6
Prof. Pasquier, L’Egitto di Schwaller de Lubicz - AOR, su
www.accademiehermetichekremmerzianeunite.org.

34
La SFINGE simboleggia proprio questo mistero della vita che
ogni individuo è chiamato a ricercare. Lei rimane sempre lì,
imperturbabile, e con una pazienza senza tempo e senza spazio ci
attende sulla soglia di un nuovo viaggio, il ritorno verso casa, la cui
dimora si trova nascosta dentro di noi. Ecco perché la sfinge non
scruta nessun paesaggio terreno, il suo sguardo immobile è sempre
rivolto all’interno, e il segreto del suo enigmatico sorriso è la
conoscenza del Sé.
La sfinge, il cui nome significa STATUA VIVENTE, in egizio
shesep ankh, e in geroglifico

incarna le tre domande essenziali di colui che si appresta ad


intraprendere un cammino iniziatico: da dove vengo, chi sono e dove
vado. Tale quesito è ciò che ha regolato per migliaia di anni l’intero
sviluppo della civiltà sorta intorno alle rive del Nilo.

La terra d’Egitto

Il nome Egitto da noi oggi conosciuto trae le sue origini dalla


parola egizia het ka ptah, letteralmente la CITTÀ DELLA DIMORA
DEL KA DI PTAH, in geroglifico

I greci antichi tradussero questo nome del Tempio di Menfi nel


termine da noi oggi conosciuto. In origine il popolo egizio nominava
però la sua terra (figura 2) in altri modi: kemyt o kemet, ossia
TERRA NERA, in geroglifico

da cui tra l’altro trae origine la parola ALCHIMIA.

35
Comunemente l’Egitto viene associato ad un luogo desertico,
tuttavia, ad una indagine più approfondita, si può evincere come
anticamente era al contrario noto per la sua eccezionale fertilità e
rigogliosità, dovuta proprio al limo grigio-nero portato dal Nilo
durante le sue regolari inondazioni.
In altre occasioni il paese assumeva l’epiteto di ta neteru, ossia
TERRA DEGLI DEI, in geroglifico

dato che veniva simbolicamente considerata come lo specchio del


regno divino.
Un altro nome cui veniva associato l’Egitto è ta mery, ossia
TERRA AMATA o TERRA DELL’AMORE o TERRA
CALAMITA, in geroglifico

sia perché la sua civiltà era tesa verso la ricerca e la trasmissione


del puro sentimento, sia perché attraeva le forze vitali a sé come una
calamita.
Un ultimo epiteto era tawy, ossia LE DUE TERRE, in geroglifico

dato che il paese è nato mitologicamente e, forse, storicamente


dall’unione della terra del sud, l’Alto Egitto, suddiviso
simbolicamente in 22 distretti o province, e quella del nord, cioè del
Basso Egitto, suddiviso in 20 distretti.
A livello climatico, l’anno egizio era composto da tre stagioni,
comprendenti ciascuna quattro mesi. La prima si estendeva dalla fine
di Luglio alla fine di Novembre, denominata akhet, ossia
INONDAZIONE, in geroglifico

36
dove il carattere  raffigura un terreno inondato dal quale
spuntano dei germogli, per indicare il senso di ciò che inizia. Il suo
nome è basato sulla radice della parola akh, che significa LUCE; tale
momento era infatti luminoso, benedetto, in quanto le terre venivano
irrigate dalla piena del Nilo che deponeva il suo fertile limo sulle
coltivazioni.

Figura 2 – Mappa contemporanea dei luoghi più significatici


con evidenziata l’antica suddivisione in Alto e Basso Egitto.

37
La seconda stagione si estendeva dalla fine di Novembre alla fine
di Marzo, e prendeva il nome di peret, ossia la STAGIONE DEI
GERMOGLI, in geroglifico

simile alla nostra stagione invernale, era caratterizzata dalla


nascita del grano. La radice che compone il suo nome – per –
significa infatti USCIRE, ad indicare che in tale periodo tutto ciò che
era stato seminato iniziava ad uscire dalla terra.
La terza ed ultima stagione si estendeva invece dalla fine di
Marzo alla fine di Luglio, col nome di shemu, ossia STAGIONE
CALDA, in geroglifico

era il tempo dei raccolti ed anche del caldo più intenso dell’anno.
In quanto periodo più secco dell’anno, il segno  che
contraddistingue il suo nome evidenzia il necessario utilizzo
dell’acqua contenuta nei bacini idrici di riserva.

La scienza degli dei

Inizieremo ora ad addentrarci nel vivo della tradizione egizia, e lo


faremo prendendo in considerazione la religione, nonostante il fatto
che non esisteva a quel tempo un simile termine in contrapposizione
alla scienza o alla filosofia. In Egitto ogni forma di conoscenza era
vita ed esaltava la vita, e i nostri attuali significati contrapposti di
fede, ateismo, agnosticismo, misticismo o razionalismo, non
avevano alcuna ragion d’essere.
Ad ogni modo, comunemente, si considera l’antico culto egizio
come una religione politeista, ed è comico constatare come sia
spesso sufficiente tale definizione per risvegliare in noi la
presuntuosa idea di appartenere oggi ad una religione monoteista,
dunque superiore, più evoluta.

38
Procediamo allora per gradi, iniziando ad analizzare il termine
neter, che contraddistingue il concetto di Dio, in geroglifico

il cui significato letterale è FUNZIONE o PRINCIPIO.


Per quale motivo utilizzare una bandiera per esprimere il concetto
di divinità?
Noi possiamo osservare che la bandiera contraddistingue un
punto di riferimento, una direzione da seguire, così sono infatti gli
dei per gli uomini; ma ancor più in profondità essa simboleggia lo
strumento per mezzo del quale una forza che non è direttamente
visibile si manifesta (sventolando lo stendardo), rivelando così la
propria esistenza attraverso la constatazione e la verifica dei suoi
effetti. Difficile scindere in una definizione del genere gli aspetti
religiosi da quelli scientifici.
Consideriamo per esempio la legge di gravità: nessuno
obietterebbe sulla sua esistenza, sugli effetti estremamente fisici e
tangibili della sua forza. Eppure non la si può vedere, toccare,
fissare, ed inoltre – cosa ancora più importante – non la si può
eludere. Ecco perché Carl Gustav Jung incise sulla porta di ingresso
della sua casa la massima: invocati o meno, gli dei sono presenti.
Gli dei venivano considerati dagli antichi egizi al pari di leggi o
principi di vita (da cui la traduzione del geroglifico) impossibili da
relegare in un ambito scientifico piuttosto che religioso o filosofico.
I neter simboleggiano la molteplicità delle forze che permettono
la vita, le funzioni della natura attraverso le quali la Creazione è
venuta in essere e si mantiene. La loro rappresentazione attraverso
immagini antropomorfiche e all’interno di un’organizzazione di
legami parentali, non è che un escamotage simbolico-figurativo per
avvicinare alla loro comprensione la coscienza umana ordinaria e
dialettica. Fermarsi ad esse significa però soffocarne il valore
spirituale, e questo ben lo sapevano gli antichi saggi che non si
risparmiavano certo di sottolinearlo come monito. Ricordiamo le
parole di Plutarco:

39
perciò quando ascolterai le storie che gli egiziani raccontano
sugli dei – peregrinazioni, smembramenti e altre avventure
del genere – dovrai ricordarti di quello che abbiamo detto, e
non credere che quanto essi affermano corrisponda a fatti
realmente accaduti. […] solo così potrai sfuggire alla
superstizione, che è un male certo non inferiore all’ateismo
stesso.7

I neter rappresentano un’energia divina in azione, sfaccettature


differenti che compongono la superficie dello stesso diamante, verso
il quale è più facile avvicinarsi a piccoli passi, analizzando lato per
lato le sue singole caratteristiche, i suoi attributi, per poi giungere
infine alla sua interezza, priva di ogni reale suddivisione.
Scomporre in piccoli sottoinsiemi la natura di un organismo o di
un’entità difficile da comprendere nella sua interezza, è insita nella
modalità umana di condurre una ricerca. Gli antichi saggi non
facevano altro che adeguarsi a questa evidenza cavalcandone la
metodologia con l’auspicio di poter poi ricondurre le coscienze
verso la riunificazione del tutto, verso la percezione dell’unità di
base.
Osserviamo come la fisica sia da secoli dedita allo studio dei
mattoni fondamentali che compongono la materia, gli atomi, o la
biologia con lo studio delle cellule. Eppure proprio la rivoluzione
scientifica attuale sta invertendo la rotta, prendendo coscienza del
fatto che la realtà dei fenomeni non potrà mai essere compresa se
non ricongiungendo i suoi diversi aspetti.
Una vera medicina non può più permettersi di trascurare gli
aspetti psicologici o alimentari tanto quanto quelli anatomici e
fisiologici. La dinamicità e la vitalità di una foresta non potrà mai
essere compresa a fondo con lo studio in laboratorio di ogni suo
singolo abitante, per quanto approfondito esso sia. Solo
l’osservazione sul campo, anzi, la partecipazione sul campo,
permetterà di cogliere quell’anima vitalizzante che tutto muove,
quella forza invisibile che sventola la bandiera.
Saltando dall’altro lato della “barricata” osserviamo come anche
nella religione cristiana domini la tendenza a parcellizzare il modo di
adorare il Signore attraverso le diverse figure di angeli e di santi,

7
Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, Milano, 2002.

40
ognuno dei quali incarna proprio degli aspetti vitali divinizzati.
Nulla di diverso dalle strutture deistiche antiche. In tale ottica non
possono allora non nascere seri dubbi sulla possibilità o meno di
confinare una religione entro parametri definiti. Dove risiede la linea
di confine che separa il monoteismo dal politeismo? E ancora, quale
superbia ci fa sentire in diritto di volgere lo sguardo con superiorità e
sufficienza verso un’antica tradizione come quella egizia?
I differenti neter, al plurale neteru, sono l’espressione di un’unica
potenza divina originaria, il Neter Neteru, il PRINCIPIO DEI
PRINCIPI, in geroglifico

la suprema divinità senza nome cui può corrispondere il concetto


di ASSOLUTO.
Il pericolo più grande nello studio della tradizione egizia,
nell’approfondimento dei neteru, è infatti quello di perdere di vista il
Neter Unico, soffermandosi ad adorare o a speculare intorno ai
mezzi che conducono ad esso.
Non dimentichiamoci mai che il dito che indica la luna non è la
luna, giacché la nostra cerebralità è sempre pronta ad appropriarsi ed
identificarsi con nozioni schematiche e limitative che nascondono la
vera conoscenza, la Gnosi. Occorre dunque prestare attenzione e
vigilare affinché la mente non divenga il proprio neter distruttore,
trasformandoci in adoratori di noi stessi in un circolo vizioso senza
uscita.
Si potrebbe ora dedurre che la visione cosmologica dell’antico
Egitto sia di carattere panteistico, secondo il quale tutto è Dio, ma
anche questa visione si rivela inesatta. Il panteismo identifica il
Creatore con la Creazione. Sarebbe dunque più corretto parlare di
paninteismo, dove tutto è in Dio. Il mondo non è Dio ma solo una
parte di esso; mentre Dio riempie il mondo, il mondo non riempie
tutta l’essenza divina, ma rappresenta solo la manifestazione di una
realtà che va ben oltre, che siamo chiamati a ricercare e a riscoprire.
In tal senso la tradizione contemporanea più affine all’antica
tradizione egizia sembra essere la corrente ebraica del chassidismo,

41
non meglio sintetizzabile che con le parole di un suo eccellente
portavoce attuale, Rabbi Rami Shapiro.

La nostra esperienza di Dio e della creazione è di per sé


dualistica: vediamo noi stessi e gli altri, Dio e la creazione, il
bene e il male, e tutte le miriadi di diadi che compongono la
nostra visione della realtà. Proiettiamo questo dualismo su
Dio quando ci esprimiamo in termini di contrazione ed
espansione, rottura e riparazione, esilio e redenzione, ma in
realtà si tratta solo di una proiezione. Dio è l’Ayn Sof,
infinito, ed è quindi un non-dualismo intatto. La dveikus,
l’unione con Dio, non è un traguardo da raggiungere ma un
dato acquisito di cui prendere coscienza. Il fine non è
raggiungere la dveikus ma esserne consapevoli, sperimentare
la da᾽at dveikus, ovvero la consapevolezza del non-dualismo
di Dio presente con (e in) tutte le cose.8

La tradizione egizia ha espresso il suo insegnamento mediante la


raffigurazione simbolica e mitica proprio nel tentativo di evitare
l’errore di cadere in schematizzazioni, classificazioni, speculazioni
teoriche o dogmatismi sterili che sopprimono il carattere vitale del
vero messaggio universale. L’iniziazione egizia impone alla
coscienza un’IDENTIFICAZIONE CONTINUA con la vita per
poterla comprendere e trascendere.
L’Inconoscibile può essere avvicinato con la pura meditazione
senza oggetto o con l’intuizione risvegliata dai simboli analogici; i
saggi egizi adottarono questo secondo sistema nella stesura dei testi
e nella costruzione dei templi, fornendo tutti gli elementi esoterici
necessari per la comprensione della vita, ma sempre velati da un
aspetto apparentemente banale.
I neteru sono le caratteristiche, gli attributi che la divinità
suprema manifesta in NATURA. Proprio tale parola trae la sua
origine etimologica dal termine neteru. La natura e l’essere umano
stesso esistono e si esprimono per mezzo di queste potenze divine;
ecco perché i neteru sono presenti dentro ognuno di noi, e solo lì
possono essere ritrovati.

8
Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario. Racconti chassidici, Giuntina, Firenze,
2004.

42
Tutta la scenografia del mondo manifesto che ci circonda non è
altro che uno specchio magico in grado di riflettere la nostra
interiorità, un concetto forse semplice da comprendere
razionalmente (anche grazie alle ultime ricerche in ambito
scientifico) ma estremamente complesso da applicare nel quotidiano.

I geroglifici si rivelano

Permettiamo ora alla scrittura sacra egizia di presentarsi da sola


attraverso il termine che la contraddistingue, ossia medu neteru,
traducibile come PAROLE DIVINE, in geroglifico

dove il simbolo intermedio raffigura un semplice bastone di


legno. Una traduzione più dettagliata del termine è infatti PRINCIPI
(o FUNZIONI) PORTATI DA UN SEGNO, dato che le parole sacre
si poggiano sui segni come l’uomo si poggia sul bastone. La divinità
stessa si appoggia ad essi per esprimersi e manifestare le sue
molteplici caratteristiche, e per mettersi in contatto con la scintilla
divina che giace ancora assopita nell’essere umano.
Il bastone è lo strumento utilizzato per spostarsi sicuri e stabili
sul cammino, per raggirare gli ostacoli ed aiutarsi a mantenere
l’equilibrio. Esso è costituito da un ramo di legno nel quale è fluita
la linfa; nonostante si presenti di consistenza secca ed inerte,
conserva la forma del vegetale anche in assenza del fluido vitale.
Allo stesso modo la parola conserva la forma ma non la vita, che
sarà resa possibile dall’intonazione della voce nella lettura e dalla
profondità di coscienza applicata per sviscerarne il significato.
Come il bastone porta la linfa, i geroglifici veicolano la
conoscenza dei neteru grazie all’ausilio di immagini simboliche in
grado di richiamarne le funzioni, percepibili nella natura esteriore
quanto in quella interiore.

Secondo la vera conoscenza, lo studio dell’uomo deve


svolgersi parallelamente allo studio del mondo e lo studio del
mondo parallelamente allo studio dell’uomo. Le leggi [o

43
principi] sono dappertutto le stesse, nel mondo come
nell’uomo. […] Rendendosi conto dell’imperfezione e della
debolezza del linguaggio ordinario, gli uomini che
possedevano la conoscenza oggettiva hanno cercato di
esprimere l’idea dell’unità sotto forma di “miti”, di
“simboli”, e di “aforismi” particolari che, trasmessi senza
alterazione, hanno tramandato questa idea da una scuola
all’altra, sovente da un’epoca all’altra. […] I simboli
impiegati per trasmettere le idee della conoscenza oggettiva
racchiudevano i diagrammi delle leggi fondamentali
dell’universo, e non trasmettevano soltanto la conoscenza
stessa, ma indicavano anche la via per raggiungerla. […] I
simboli erano suddivisi in fondamentali e secondari. I primi
comprendevano i principi dei differenti rami della
conoscenza; i secondi esprimevano la natura essenziale dei
fenomeni in relazione con l’unità.9

Queste parole di George Ivanov Gurdjieff aiutano a ricollegarci


con quanto anticipato nel capitolo precedente, cioè come all’interno
di una moltitudine di segni che compongono l’alfabeto ve ne siano
alcuni (figura 3) con la funzione di rappresentarne le fondamenta, i
mattoni dell’intera struttura simbolica. Mentre questi ultimi
assumono l’aspetto di simboli fondamentali, tutti gli altri assolvono
la funzione di simboli secondari.
Potremmo anche esemplificare tale aspetto attraverso un
parallelismo analogico con l’organismo legislativo di una nazione:
così come i principi di una costituzione definiscono la struttura, la
forma e le regole fondamentali di uno stato, da cui derivano tutte le
altre classi di leggi che li approfondiscono nei dettagli per renderli
più facilmente comprensibili ed applicabili, nel medesimo modo i
principi divini che regolano la Creazione sono espressi dai
geroglifici fondamentali, e sviscerati in modo particolareggiato
tramite l’ausilio di altri caratteri ed immagini. Tale esempio non fa
altro che evidenziare il fatto di come sia insita nella natura umana,
per quanto spesso inconsapevole, l’idea di una struttura esistenziale
che viene inevitabilmente dall’uomo riproposta goffamente nel

9
G. I. Gurdjieff, citazione in P.D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto,
Astrolabio, Roma, 1976.

44
tentativo di ripristinare un “giusto” ordine di vita. Non creò forse
Dio l’uomo a sua immagine e somiglianza?

Figura 3 – Una delle possibili classificazioni dei


geroglifici fondamentali e relativa traslitterazione.

Ogni insegnamento tradizionale – in alcuni casi in forma più


esplicita, in altri meno – conduce verso la conoscenza di tali principi
divini. E anche se questa realtà potrebbe spaventare ed apparire
troppo cinica da accettare (se la vita è guidata da leggi precise, dove

45
finisce infatti la figura di un Dio buono e compassionevole pronto ad
intervenire per mezzo di suppliche e preghiere?), è anche vero che
una prospettiva del genere pone una luce molto più nitida su diversi
aspetti apparentemente inspiegabili dell’esistenza. Ma per fare
questo è necessario invertire la tendenza attuale, nella quale è
l’essere umano ad aver creato un Dio a sua immagine e somiglianza.
Occorre sforzarsi di lasciare alle spalle i propri moralismi, le
proprie personalissime concezioni di giustizia od ingiustizia divina,
di bene e di male. Se ad esempio ci capitasse di ritrovarci in alcune
località esquimesi, potremmo imbatterci in una tipica usanza del
luogo per la quale gli uomini offrono ad altri uomini la propria
moglie in “regalo” per una notte come gesto di ospitalità. Inutile
precisare che un nostro rifiuto provocherebbe una grave offesa, per
l’uomo e per la donna. Nel caso volessimo invece dimostrare con lo
stesso sistema la nostra gratitudine per l’ospitalità in un altro angolo
del mondo, ci ritroveremmo con altissima probabilità ad essere
cacciati malamente da chi, poco prima, ci ha calorosamente invitato.
Siamo dunque sinceramente in grado di definire cosa è
universalmente giusto o sbagliato?
Ci reputiamo una civiltà evoluta in quanto improntata su
fondamenta scientifiche, obiettive ed oggettive; eppure, non appena
volgiamo lo sguardo in una direzione considerata “spirituale”
perdiamo completamente le qualità che contraddistinguono una
mentalità razionale.
Ci sogneremmo mai di giudicare ingiusta la legge di gravità nel
vedere un individuo cadere per terra dopo essere inciampato sopra
una pietra? Oppure potremmo additare come cattivo il fuoco
nell’assistere ad un’ustione di un incauto giocoliere alle prese con
torce infuocate? O ancora, chi accuserebbe l’acqua di essere maligna
se per una propria incapacità di nuotare dovesse ingurgitarne un po’
durante un bagno al mare?
È evidente che tali domande potrebbero continuare all’infinito. È
altrettanto evidente come vi siano alcuni aspetti naturali
dell’esistenza la cui neutralità è data ormai per scontata: non sono
tali entità a manifestare caratteristiche di bene o male, ma sarà il
nostro approccio ad esse a determinarne gli esiti.
Ipotizziamo allora che i principi spirituali che regolano
l’esistenza non siano differenti dalle leggi scientifiche, ma anzi le

46
incorporino al loro interno. Immaginiamo inoltre che tali principi,
disponendo di un linguaggio simbolico estremamente più ampio e
completo di quello logico-razionale, rivelino anche aspetti
dell’esistenza molto più sottili di quelli osservabili da un punto di
vista fisico, scandagliando la natura umana da una prospettiva
organica, psicologica, energetica e spirituale. Se tutto ciò fosse vero,
ogni nostra recriminazione nei confronti dell’esistenza dovrebbe
essere imputata ad un problema di inconsapevolezza piuttosto che un
problema di ingiustizia.
Il monito biblico per il quale occorre assumere un atteggiamento
timoroso verso il Signore potrebbe non essere interpretato come una
sorta di minaccia di un Dio severo e vendicativo, bensì come un
avvertimento, un consiglio di procedere con prudenza ed attenzione
nella propria vita, alla stregua di come si fronteggerebbe un
fenomeno naturale ancora ignoto, per poterlo meglio conoscere, a
piccoli passi e, perché no, per prove ed errori compiuti in modo
consapevole.
La condizione di schiavitù e sofferenza dell’essere umano cui
tante tradizioni fanno riferimento, viene infatti attribuita proprio
all’ignoranza, non ad un male oggettivo, non alla cattiveria, non ad
entità demoniache. Non siamo realmente vittime della vita più di
quanto non lo sia un principiante sul bordo di una piscina che si
appresta ad entrare senza saper nuotare. Il problema è che nella
maggior parte dei casi ci ostiniamo a volerci buttare senza prima
fermarci un attimo per acquisire le nozioni basilari, oppure
preferiamo rimanere all’asciutto fantasticando sulla bellezza del
nuoto!
In entrambi i casi non potremmo mai fare realmente esperienza di
come i principi dell’acqua agiscono sul nostro corpo, e non
potremmo mai acquisire un reale ed efficace stile di nuoto, piacevole
ed elegante. Tale appare infatti lo stile di vita di coloro che ricercano
la perfezione nell’arte della vita.
Ma, ahimè, non esisterà manuale tecnico in grado di esporre i
principi divini con una chiarezza logica tanto cara alla nostra
razionalità. La maturazione di una tale conoscenza – per sua stessa
natura simbolica – deve inevitabilmente passare attraverso una
sperimentazione concreta nel quotidiano di ciò che viene trasmesso
dagli insegnamenti tradizionali. Così come la pratica senza studio

47
può divenire pericolosa, lo studio senza la pratica rimane sterile ed
inutile. Il vero manuale è il LIBRO DELLA VITA, e le sue pagine
sono le esperienze che ci vengono presentate in ogni momento.
Non dimentichiamo che nella storia occidentale Socrate fu il
primo a parlare esplicitamente dell’esistenza di questi principi
divini, le cui forze si dispiegano costantemente mostrando i loro
effetti attraverso i diversi elementi organici ed inorganici che si
muovono intorno a noi.

Si tratta di scoprire in oggetti diversi le parti elementari


uguali che si possono avere. Così si svelano i sacri segni.
[…] Agisce allora la funzione: ciò che è puro, immortale,
immutabile, appunto. La materia agisce sui sensi, la funzione
sui pensieri. Staccati dal corpo i pensieri agiscono per mezzo
di queste funzioni invarianti, semplici, indissolubili, costanti
e immutabili. […] Ma quando vedrete chiaramente gli
archetipi viventi che da sempre sono in voi, e muoiono con
voi, e non muoiono e non nascono, allora vorrei vedere la
vostra faccia stupefatta!10

L’insegnamento egizio sprona infatti il ricercatore ad osservare


con estrema attenzione e sacralità ciò che lo circonda, ogni cosa che
possa rientrare nel suo campo esperienziale. Ciò conduce a tutti gli
effetti l’iniziato a vivere in uno stato di meditazione, in una completa
immersione nel momento presente, per riconoscere infine il tutto
come un riflesso della propria realtà interiore. Sarà allora che
ritroverà le chiavi della Gnosi, là dove non avrebbe mai pensato di
guardare.

Il Tao egizio

Vi sono ancora alcuni simboli tradizionali il cui messaggio


originario non è andato perduto nel tempo. Uno di questi casi è il
TAO cinese (figura 4). Certamente non possiamo affermare di
conoscerne in profondità il reale potere evocativo, per una serie di

10
Socrate, citazione in Mario Pincherle, Archetipi. Le Chiavi dell’Universo, Macro edizioni,
Diegaro di Cesena (FC), 2002.

48
ovvie motivazioni che abbiamo precedentemente affrontato, ma ne
possiamo delineare approssimativamente alcune evidenti peculiarità.

Figura 4 – Il Tao cinese.

Traducibile letteralmente come LA VIA o IL SENTIERO, dalla


traslitterazione cinese dào, rappresenta l’eterna forza essenziale che
dà vita e sostiene tutto l’universo attraverso l’alternanza di due
principi fondamentali: lo yang, il principio positivo maschile
(bianco) e lo yin, il principio femminile negativo (nero).
È la loro costante alternanza a costituire la trama della vita in cui
siamo immersi e cui siamo soggiogati oscillando da una parte
all’altra inconsapevolmente. Ciò si verifica sia fuori di noi, con il
susseguirsi del giorno e della notte, dei cicli stagionali, caldo e
freddo, dilatazione e contrazione, sia dentro di noi, con le sensazioni
di tristezza e gioia, salute e malattia, piacere e dispiacere, giudizi di
bene e male. Tale è l’intreccio di forze opposte così chiaramente
rappresentato nella simbologia celtica (figura 5) e nella simbologia
templare (figura 6); tale è il campo esperienziale in cui viviamo.
La via proposta dal Tao è il raggiungimento dell’armonia con la
vita che si concretizza nell’equilibrio dei due principi, altresì
definibile come assenza di polarità. In tale condizione il saggio non
si identifica più con l’alternanza degli opposti, non ne viene

49
costantemente coinvolto e sommerso, ma vi cammina con
leggerezza ed agilità, in mezzo ad essi ed allo stesso tempo al di
fuori di essi. Egli trova la pace interiore, una serenità che nulla ha a
che vedere con gli eccessi di una gioia entusiastica o di una cupa
tristezza.

Figura 5 – La dualità secondo la simbologia celtica.

Figura 6 – La dualità secondo la simbologia templare.

50
La sapienza faraonica esprime tale principio dualistico attraverso
la simbologia di uno dei geroglifici fondamentali, vero e proprio Tao
egizio:

che oltre a rappresentare la lettera b, caratterizzata dal numero 2


in rapporto agli alfabeti semitici, esprime molto chiaramente
l’immagine di una gamba, evocando l’idea di un appoggio e di
un’alternanza necessari al movimento. Una sola gamba non è infatti
sufficiente per camminare, ecco perché la struttura dell’essere
umano è dotata di due arti inferiori opposti tra loro, senza i quali
nessuna strada, nessun sentiero potrà essere percorso.
Tale simbolo rappresenta dunque il SOSTEGNO,
l’ALTERNANZA e il MOVIMENTO, dove ogni passo richiama
naturalmente quello successivo, così come nel Tao cinese
compaiono in ogni forza i semi di quella opposta. Non solo, ma la
gamba sott’intende implicitamente l’esistenza di un unico corpo a
cui entrambi gli arti sono collegati. Per quale motivo allora gli egizi
avrebbero omesso di rappresentare l’intero organismo, forse per
dimenticanza?
Così come il Tao cinese cela l’idea di un’unica forza alla base
della quale si dispiegano lo yin e lo yang, anche tale geroglifico ne
vela l’esistenza non per volontà di nasconderla, ma semplicemente
perché essa è naturalmente invisibile ed intangibile per la coscienza
umana ordinaria. A noi spetta l’avventura di ricercarla, di risalire
verso l’alto per svelarne il corpo, e la volontà che lo guida.
Per arricchire la simbologia di questo principio duale, possiamo
richiamare la figura della dea NEITH (figura 7), in egizio Neret,
traducibile come LA TESSITRICE, in geroglifico

l’energia primordiale femminile della Creazione. Le due frecce


che impugna rappresentano l’alternanza che dà un aspetto a tutto
ciò che esiste nel tempo; il suo nome contraddistingue infatti la

51
funzione di tessitura della vita, il misterioso sistema di intreccio alla
base della realtà visibile.

Figura 7 – La dea Neith.

È il neter che veicola la Verità dell’esistenza, in quanto artefice


dei meccanismi che strutturano le concatenazioni di tutti gli eventi.
Per tale motivo è preposta alla tutela dei tribunali e dei giudici.
Come evidenzia Luigi Anzoli:

il Principio di Giustizia nasce soltanto dopo la conoscenza


delle leggi che governano la Manifestazione… quindi, in
altre parole, dopo che l’uomo ha imparato ad osservare i
sottili fili d’Oro e di Argento che, intrecciati da Neith, creano
il “Tutto”. In quest’ottica, soltanto Neith e coloro che
possono osservare la “Doppia Verità” saranno in grado di
vedere e comprendere la natura umana, poiché avranno

52
scoperto l’occulto sistema di intreccio che sta a monte della
Manifestazione.11

11
Luigi Anzoli, Neith. Custode dell’ultimo segreto alchimico, Kemi, Milano, 1999.

53
54
La ricerca di Ak-Yb-Ka

II.

SULLA SOGLIA DEL TEMPIO

Ak-Yb-Ka si trovava finalmente lì, di fronte ai portali del Tempio,


in attesa che si aprissero per rivelare l’aspetto di colui che si celava
dietro di essi.
Sapeva di essere pronto, da diversi anni ormai si era cimentato
nello studio dei testi occulti, nell’esercitazione delle più disparate
tecniche energetiche per manipolare gli eventi secondo la sua
volontà. Aveva girato in lungo e in largo il paese per incontrare i
più noti custodi delle arti magiche e aveva appreso i sistemi per
entrare in contatto con entità sottili e farsi insegnare da esse.
Sì, sentiva di non aver più nulla da condividere con le persone
comuni; egli ambiva ormai al raggiungimento delle più alte vette
spirituali, ambiva ad entrare nell’intima e misteriosa cerchia dei
grandi sacerdoti, nella scuola dei misteri della vita.
Il suo corpo era ora febbricitante di emozione, una sorta di
entusiasmo misto a timore per ciò che stava per accadere. Una
svolta epocale stava infatti per rivoluzionare la sua vita. Quante
volte cercò in passato di mettere in mostra le sue capacità e le sue
conoscenze per attirare l’attenzione dei saggi! Finalmente, avevano
forse riconosciuto le sue qualità convocandolo al Tempio.
Passarono solo pochi minuti ma gli parvero un’eternità.
Ed ecco schiudersi lentamente l’imponente portale di legno.
Dietro si intravedeva la figura sempre più nitida del faraone, il
padre d’Egitto, messaggero divino. Fece pochi passi per avvicinarsi
di fronte al candidato, il quale si inginocchiò come d’istinto e, con
voce tremante per la commozione, disse:
“Mio Signore, ho inseguito per anni le sottili conoscenze che
conducono oltre le apparenze ed ora sono pronto per conoscere
Dio.”
Il faraone gli prese amichevolmente la mano e lo fece alzare;
senza dire nulla, gli diede una rapida occhiata dall’alto verso il

55
basso, soffermandosi un solo istante sui calzari dell’aspirante. Poi il
suo sguardo gli si pose pieno di compassione e tenerezza negli
occhi, ma con tono severo e grave parlò:
“Forse sarebbe meglio iniziare prima con l’imparare ad
allacciarsi i sandali…”

56
Una civiltà solare

Coscienza osiridea e coscienza horusiana

Il percorso che conduce verso la conoscenza dei principi


universali e verso la consapevolezza dei loro influssi nell’intima
sfera vitale, non può che procedere di pari passo al risveglio di una
scintilla divina che giace assopita in ciascuno di noi.
Stante alla cultura religiosa cui siamo abituati, ciascun essere
umano possiede già per diritto di nascita un’anima immortale, e il
destino oltre la vita terrena sarà definitivamente stabilito per
l’eternità in base alla sua scelta di fede o meno.
Secondo la sapienza egizia invece, ogni individuo nasce con la
possibilità di conquistarsi l’immortalità, e tale coronamento potrà
avvenire solo nel riconoscimento e nell’ascolto di quel principio
germinale che dal profondo del proprio essere reclama
nostalgicamente la sua salita al trono interiore.
La scienza faraonica distingue due processi all’interno di questa
maturazione spirituale. Il primo viene identificato con il dio
OSIRIDE (figura 8), in egizio Usyr e in geroglifico

il cui nome significa RINNOVAMENTO, nella natura come


nell’individuo umano. Egli esprime tutte le forze cicliche presenti
nell’uomo, nella società, nel mondo e nel cosmo; è il neter del
DIVENIRE ESISTENZIALE, dove la vita non si estingue con la
morte ma rinasce sotto un’altra apparenza. È la trasposizione della
vita essenziale nella vita organica, per cui ne subisce
inesorabilmente le leggi. Il suo regno è dunque la terra, il mondo
dialettico. I suoi scettri contraddistinguono il dominio sui tre aspetti
dell’essere: fisico, emotivo e mentale (o animico).

57
Figura 8 – Il dio Osiride.

Lo stato di coscienza che Osiride rappresenta è la COSCIENZA


DELL’IO, testimone permanente delle diverse personalità umane sia
all’interno di questa vita materiale che nella sopravvivenza nel regno
dell’aldilà; tale sopravvivenza rimane però sempre uno stato di
immortalità relativo perché non definitivo.
Secondo la saggezza faraonica oltre la morte si trova un luogo
non sottomesso alle contingenze fisiche ma in cui sussiste comunque
uno stato d’essere psichicamente vegetativo, per molti versi non
dissimile da quello attuale, alimentato dai legami terreni contratti a
causa dei desideri e degli interessi personali. La transitorietà di tale
regno è condizionata dall’esaurimento più o meno rapido di queste
forze di attrazione di carattere psichico, o dalla necessità di una
nuova incarnazione.

58
La coscienza osiridea concede all’uomo la padronanza sul piano
terreno e sul piano astrale, da non confondersi però con le “questioni
di Dio”. Ecco perché il geroglifico che contraddistingue il suo nome
– il trono – è il seggio fisico su cui poggia la volontà divina per
espletarsi ma senza rivelare apertamente i suoi intenti.
Il secondo tipo di maturazione spirituale viene invece identificata
con il dio HORUS (figura 9), in egizio Hor e in geroglifico

il cui significato letterale è QUELLO CHE È SOPRA,


identificando uno stato di coscienza dentro il mondo ma al di sopra
di esso. È il figlio di RA (figura 10), in egizio Ra e in geroglifico

che può essere tradotto sia come SOLE che come VERBO IN
AZIONE (facilmente deducibile dal segno della bocca congiunto a
quello del braccio), a sottintendere il fatto che la Parola che Dio
proferì al principio divenne realtà, ossia visibile. Il sole è infatti la
manifestazione visibile più vicina alla divinità, simbolo di sorgente
di ogni vita sulla terra, di potenza, di punto di riferimento e centro
dal quale irradia la luce che rende visibile tutte le forme del creato.
La parola Ra è anche una sillaba-seme, un suono che denota il
potere creativo, concetto analogo a quello espresso dalla Om
secondo la tradizione induista.
L’animale che rappresenta entrambi i neteru Horus e Ra è il
falco, i cui occhi possono affrontare meglio di chiunque altro i raggi
del sole senza che questi disturbino o possano danneggiare
minimamente la vista; inoltre è il solo in grado di volare diritto verso
l’alto, mentre gli altri uccelli devono salire obliquamente.
Simboleggia anche la superiorità e la vittoria, in quanto superiore a
tutti gli altri uccelli presenti nella terra d’Egitto ed in grado di
vincerli nella lotta.

59
Figura 9 – Il dio Horus, figlio di Ra. Figura 10 – Il dio supremo Ra.

Horus simboleggia dunque il principio divino realizzato


nell’umano, unione indissociabile della consapevolezza terrena con
quella spirituale. L’ELEMENTO HORUSIANO – o elemento
cristico – è il solo ed unico atomo immortale presente in potenza
dentro l’essere umano, e la cui volontà è quella di unirsi all’uomo
corporale per globalizzarne la coscienza ed insegnargli a discernere i
valori reali dai valori relativi.
La luce divina risvegliata nella sua incarnazione umana assume
infatti il nome di Cristo nel Vangelo e Horus nella tradizione egizia.
Abbiamo quindi rilevato una prima importante analogia tra le due
figure, simboli del processo di rinascita interiore giunto al suo
compimento, che delimita il passaggio dalla sensazione di essere un
organismo individuale alla sensazione cosciente di essere una parte
del Tutto. Per un unico principio che sorge dalla forza generatrice

60
della volontà orientata allo spirito, sono sorti tanti nomi e tante
immagini quante lingue e culture hanno solcato il mondo nel corso
dei millenni.
Chi realizza se stesso risvegliando il proprio Horus, o meglio,
diventano egli stesso Horus, entra a far parte di coloro che gli egizi
conoscevano come la confraternita dei SEGUACI DI HORUS,
Shemes Hor e in geroglifico

altrimenti conosciuti in occidente come la FRATELLANZA DEL


SOLE o l’ORDINE DEI ROSACROCE. Pochi sono realmente
questi Inviati; mai descrivono se stessi con tali epiteti e difficilmente
si rivelano apertamente al mondo, ma nel silenzio accompagnano
instancabilmente l’umanità senza mai abbandonarla.
Il loro operato viene volutamente svolto lontano dall’attenzione
caotica ordinaria, ma nei rarissimi casi in cui la loro missione
impone di palesarsi alle masse, ecco che la loro memoria si inscrive
indelebilmente nella storia. Alcuni di questi nomi possono essere
Buddha, Gesù, Khrisnamurti, ecc.
Coloro che raggiungono la liberazione dalle illusioni vanno al di
là delle religioni, delle definizioni, perdendo la propria individualità
e divenendo parte di quella forza spirituale destinata a guidare tutti
coloro che iniziano ad avvertire la voce di Horus in forma ancora
germinale e confusa.

La mitologia dell’Essenza

La storia di Osiride è la trasposizione mitologica del percorso


iniziatico. Osiride fu il primo sovrano della terra e, portando la
civiltà agli uomini, insegnò loro come coltivare i campi, ottenerne
del cibo e produrne del vino. Molto amato dal popolo, attirò su di sé
l’invidia di suo fratello SETH (figura 11), in egizio Suty e in
geroglifico

61
o

letteralmente TAGLIARE o DIVIDERE; significato analogo al


concetto cristiano di diavolo, dal greco diabolos, ossia COLUI CHE
DIVIDE, ma anche in stretta analogia con il termine ebraico di
Satana, ossia Saitan, letteralmente AVVERSARIO. L’animale che lo
rappresenta somiglia in parte ad un asino ed in parte ad un
formichiere, la cui punta delle orecchie è tagliata ad indicare che non
è in grado di ascoltare la saggezza divina.
Seth cospirò dunque per uccidere il fratello Osiride, vi riuscì
smembrandolo in quattordici pezzi e disperdendolo nelle varie parti
d’Egitto. Tale è la condizione nella quale un individuo si ritrova
quando perde la propria illusoria identità, la propria certezza di
essere un Io integro, riconoscendosi piuttosto in una moltitudine di
personalità differenti, ciascuna in lotta per la supremazia.
Una presa di consapevolezza del genere non può che coincidere
con la profonda sensazione di essere a pezzi, avendo perso ogni
parametro, ogni punto di riferimento, ogni certezza in merito alla
propria reale identità. Tutte le diverse personalità – o maschere – che
riscopriamo in noi stessi, rispecchiano la coscienza osiridea
dell’esistenza; esse sono di natura precaria e nascono, vivono e si
alimentano all’interno di una visione dualistica della vita.
I frammenti di Osiride furono poi ritrovati dalla sua sposa, la dea
ISIDE (figura 12), in egizio Aset e in geroglifico

controparte femminile del principio incarnato dal marito.


Ma nonostante il tentativo di ricomporre le diverse parti, il dio
che fu non riuscì a riprendere vita. Solo in uno dei suoi lembi,
l’organo genitale, inghiottito e quindi custodito dal pesce ossirinco,
continuò a persistere quell’energia vitale in grado di fecondare Iside.
Tale energia simboleggia la VOLONTÀ D’ESISTENZA oltre il
mondo dialettico, rappresenta la quintessenza di Osiride, la pura
creatività, riconoscibile attraverso quell’inspiegabile senso
nostalgico che sprona a ricercare la verità celata oltre le apparenze.

62
Durante il periodo della gravidanza, Iside si nascose per evitare
di essere scoperta dall’invidioso e spietato Seth. In altri termini, il
principio germinale dell’Essenza – ancora molto fragile – tende
spontaneamente a non manifestarsi troppo per non consentire alle
forze caotiche della vita illusoria di sopprimere quella debole voce
che reclama il diritto alla vita, alla vera vita, per fuoriuscire
dall’opprimente ciclicità terrena, osiridea.

Figura 11 – Il dio Seth. Figura 12 – La dea Iside.

E fu così che da questa magica unione tra Iside e l’organo


genitale di Osiride prese vita HORUS BAMBINO – o HORUS IL
FANCIULLO – in egizio Hor pa Khred e in geroglifico

63
che rappresenta la SCINTILLA SPIRITUALE risvegliata a
nuova vita. Le numerose raffigurazioni di questa importante fase del
mito lo rappresentano nelle braccia di Iside da cui viene
amorevolmente allattato (figura 13), una rappresentazione per nulla
differente dal significato veicolato dalle immagini cristiane della
Madonna che allatta Gesù bambino.
In tale fase Iside rivela un nuovo aspetto di se stessa, fino ad ora
rimasto celato agli occhi e alla coscienza dell’iniziato, assumendo il
nuovo nome di HATHOR (figura 14), in egizio Het-het, in
geroglifico

il neter dell’AMORE DIVINO che sostiene ed alimenta tutta la


vita, assumendo ora simbolicamente le sembianze della
PROVVIDENZA che si preoccupa di fornire all’iniziato tutto ciò di
cui ha bisogno per procedere nel suo cammino, sia in termini di
necessità terrene contingenti che di esperienze vitali.

“Per questo vi dico, non preoccupatevi per la vostra vita, cosa


mangiate, o cosa beviate, né per il vostro corpo, cosa vestiate.
Non è la vita più del cibo e il corpo del vestito? […] Non
preoccupatevi perciò del domani; infatti il domani si
preoccuperà di se stesso: basta a ciascun giorno il suo
affanno.”12

“Gli intrighi del genere umano non arrivano mai a


compimento, è quello che Dio ordina che si compie. Pensa a
vivere in pace con quello che hai e quello che ti spetta verrà
da sé.”13

Iside-Hathor, nelle vesti della VITA MADRE-MAESTRA, ci


chiede di occuparci della nostra vita e non di preoccuparci per essa;
una sottile differenza concettuale che contraddistingue però un
approccio alla vita estremamente rivoluzionario in confronto a
quanto siamo comunemente abituati.

12
Vangelo (Mt 6,25).
13
Gli insegnamenti di Ptah-Hotep (115).

64
Figura 13 – La dea Iside (qui ha già assunto
l’aspetto di Hathor) che allatta Horus bambino.

Di esperienza in esperienza, un passo dopo l’altro, il piccolo


seme spirituale acquisirà sempre più spazio all’interno della vita
dell’iniziato, fino a raggiungere una maturazione tale da consentirgli
di vivere apertamente la sua nuova natura, sperimentandola in ogni
occasione con tutte le forze a disposizione.
È questo il punto di svolta che coincide con l’inizio di una nuova
avventura interiore, in quanto la natura di Horus è ancora vincolata
al dominio materialistico di Seth, ed è anzi proprio qui che
quest’ultimo sfoggia tutte le sue armi più sottili. Secondo la

65
mitologia Horus dichiarò infatti guerra a suo zio per vendicare la
morte del padre. La loro è l’eterna battaglia della luce contro le
tenebre, l’essere contro il non-essere, la conoscenza contro
l’ignoranza.
Ma proprio quando Horus sembrò avere la meglio contro Seth,
nel momento in cui stette per infliggergli il colpo di grazia,
intervenne il dio THOT (figura 15), in egizio Thehuty e in
geroglifico

colui che riflette la luce di Ra come la luna riflette la luce del sole
nella notte, confortando coloro che vagano nel buio.
Egli simboleggia la SCIENZA SACRA DELLO SPIRITO, la
reale conoscenza e comprensione della vita, è il mediatore tra gli
esseri umani e il mondo divino, il neter che veicola la Gnosi
stimolandone la ricerca ed occultandola allo stesso tempo.
L’Insegnamento Universale di cui è portatore viene modellato e
plasmato attraverso i tempi, adattandosi alla cultura e alla mentalità
del momento in cui si manifesta, rimanendo però sempre invariato
ed immutabile nella sua essenza.
Il suo animale sacro – l’ibis – simboleggia il cuore, luogo in cui
risiede la conoscenza divina. In natura infatti, quando la testa
dell’ibis è ripiegata sul suo petto, forma con il corpo e le ali una
figura simile al geroglifico del cuore. Tale uccello utilizza inoltre il
suo lungo becco per pescare nel fango, e questa caratteristica di
attingere il nutrimento dentro un fondale melmoso apparentemente
privo di vita, indica per analogia la funzione di cogliere le
caratteristiche dell’Essenza assopite e nascoste all’interno di noi.
Thot assume nel mito il ruolo di portatore di SERENITÀ, di pace
interiore, di pacificatore nell’interminabile conflitto tra Seth e Horus,
impedendo a quest’ultimo di uccidere lo zio, ed offrendogli allo
stesso tempo la sublime coscienza del progetto divino, della Grande
Opera. La realizzazione ultima è l’unione in amicizia tra i due rivali,
la loro conciliazione.
Horus ottenne allora il potere supremo non uccidendo Seth, ma
piuttosto tenendolo sotto controllo, mantenendo un equilibrio tra i

66
due principi che rappresentano. Ecco perché l’iniziato che raggiunge
un tale livello di consapevolezza viene raffigurato con i due neteru
ai lati in atteggiamento di riverenza (figura 16).

Figura 14 – Il dio Thot. Figura 15 – La dea Hathor.

Anche secondo gli insegnamenti cabalistici gli uomini nascono


con due impulsi: lo yetzer harà, l’ISTINTO VERSO IL MALE, e lo
yetzer hatov, l’ISTINTO VERSO IL BENE. Il primo non designa il
male di per sé, ma  piuttosto l’inclinazione al male quando esso non
viene propriamente bilanciato dal secondo istinto; potrebbero
tradursi infatti più propriamente come l’ISTINTO EGOISTICO nel
primo caso, e l’ISTINTO ALTRUISTICO nel secondo caso. Senza il
primo un uomo non potrebbe costruirsi una casa, sposarsi e avere
famiglia, perché tali cose richiedono un senso della propria identità

67
che aspira ad autorealizzarsi. Esso diviene specificatamente
malvagio quando gli si permette di agire senza essere
controbilanciato dall’istinto del bene. Quando agiamo solo per noi
stessi, il lavoro diventa sfruttamento, il matrimonio oppressione, il
sesso violenza. Quando agiamo invece sia per noi che per gli altri, il
yetzer harà è sotto controllo, segue la guida dell’istinto buono e gli
fornisce l’energia per raggiungere il bene, diviene il suo veicolo
fondamentale in terra.

Figura 16 – La riappacificazione di Horus e Seth nell’iniziato.

È a tal punto che l’Horus che vive in noi raggiunge la piena


maturazione, la completa coronazione, trovando la sua definitiva
dimora: l’AMORE, simboleggiato nella mitologia dalla sua unione

68
matrimoniale con Hathor, il cui nome significa letteralmente la
DIMORA DI HORUS, e che esprime il sentimento divino nella sua
purezza più elevata. Colei che in una fase precedente era la madre
dell’Essenza in divenire, ne diviene infine anche la sposa fondendosi
con essa.
Le corna di bovino raffigurate sul suo copricapo (figura 14)
rivestono un’elevata importanza per gli egizi, evocando l’idea di
aprire o inaugurare la capacità di DISCERNIMENTO, di giudicare
non più attraverso parametri umani ma secondo la volontà divina. Le
due corna rappresentano infatti i due aspetti della realtà all’interno
dei quali è sorto il Sole, simbolo dell’intelligenza divina per
eccellenza, unica in grado di discernere senza mettere in opposizione
e separare. Da ciò si può dedurre che l’iniziato che realizza se stesso,
che diviene Horus, dimora stabile nell’Amore e con l’Amore.
Con questa breve panoramica sul mito di Horus non abbiamo che
sorvolato solo alcuni dei possibili messaggi contenuti al suo interno.
Ogni fase della storia potrebbe infatti essere ulteriormente
approfondita, ricercandone i significati nella genesi del nostro
mondo interiore così come in quello esteriore, senza però mai
perdere di vista il fatto che il linguaggio con cui cerca di comunicare
è il simbolo.

L’Egitto biblico

Volgendo l’attenzione sulla Torah ebraica, possiamo cogliere


alcune importanti considerazioni sia sulla civiltà che sulla tradizione
dell’antico Egitto. La legge mosaica che traspare da una visione
letterale del testo sacro coincide con il principio osirideo della vita,
per il quale l’alternanza tra un bene e un male relativi incombono
senza sosta sull’essere umano; unica possibilità per mantenersi il più
possibile lontani dalle sventure accidentali è quella di obbedire ai
dettami imposti.
Tale visione è la religione di superficie, cui la maggior parte del
popolo si accontenta sforzandosi di seguirne le regole con la paura di
risvegliare l’ira del dio, e con la speranza di accontentarlo in modo
che la propria vita possa galleggiare in acque tranquille.
L’obbedienza è ciò che contraddistingue questa religiosità, in cui

69
non vi è consapevolezza reale di ciò che risiede dietro le apparenze,
e in cui le illusioni della manifestazione continuano a dominare
indisturbate.
Ma proviamo a scendere ad un livello interpretativo allegorico-
simbolico più profondo. Nel fare questo, possiamo cogliere
l’occasione per sfatare la tanto radicata quanto falsa idea della
schiavitù del popolo ebraico in Egitto, per la quale non esiste
nessuna testimonianza né reperto archeologico che faccia supporre la
veridicità della narrazione biblica.
Secondo l’opinione della maggioranza degli studiosi, la Bibbia è
dal punto di vista storico un poema epico che coniuga molte
invenzioni ed alcuni avvenimenti reali all’interno di una narrazione
mitologica.
Esaminiamo allora gli avvenimenti che vedono co-protagonisti
gli antichi egizi, partendo proprio dalla parola comunemente tradotta
con Egitto, in ebraico Mytzraym, scritto

il cui significato letterale è NEL MEZZO DELLE ACQUE.


Possiamo subito notare come non vi sia nessuna correlazione con il
termine utilizzato dagli egizi per nominare la loro stessa terra (come
precedentemente analizzato), né tanto meno questo nome descrive la
posizione geografica del paese, non essendo certo un’isola situata in
mezzo al mare.
L’immagine evocata dal nome potrebbe però simboleggiare
proprio il mare della vita cui ci sentiamo spesso naufraghi, soli e
sperduti nella continua ricerca di certezze, la terraferma. Ed ancora
ritorna il concetto di esistenza osiridea, secondo la quale la nostra
vita è comunemente immersa in un’incostante alternanza duale di
stati d’animo: la calma e tranquillità dell’acqua seguita da tempeste
ed uragani in un divenire ciclico senza fine.
L’unica via di fuga da una tale condizione è quella di superare le
acque passando per la via che le attraversa, là dove esse si sono
miracolosamente divise in due, mostrando chiaramente come la
natura che le contraddistingue possa tenere l’essere umano
prigioniero nella convinzione che la possibilità di approdare alla
“terra promessa” al di là di esse sia un’assurda utopia.

70
Una tale lettura dell’Esodo biblico potrebbe venire altresì
avvalorata dall’analisi del termine utilizzato per designare il faraone,
in ebraico phara’oh, scritto

la cui radice rimanda al significato letterale di GIOVANE TORO.


Anche in questo caso – come vedremo in seguito – non vi è alcuna
relazione con il termine utilizzato dagli egizi per contraddistinguere
il loro re. Tale nome sembra piuttosto rimandare al concetto egoico
di Io: giovane, scalpitante, forte ed accentratore come un sovrano. Il
suo regno è il mondo terreno, e tutto ciò che rischia di metterne in
discussione il potere e il controllo sulla totalità dell’individuo, lo
conduce a lottare per ostacolarne il processo. Non può fare
altrimenti, questa è la sua natura.
Ecco dunque che il più grande profeta della cultura ebraica,
MOSÈ, nasce sì in seno alla famiglia reale ed allevato da essa, ma
senza esserne consanguineo, come a simboleggiare che la sua vera
natura non è di questo mondo anche se nasce in questo mondo. Il
termine ebraico Moshe si scrive

e significa letteralmente TRATTO DALLE ACQUE o


SALVATO DALLE ACQUE.
Mettendo in relazione il nome col significato della parola Egitto,
emerge una meravigliosa correlazione con la genesi spirituale
propria dell’essere umano, il quale vede nascere una scintilla
spirituale all’interno del regno della personalità terrena – succube
inconsapevole delle influenze di carattere fisico, emotivo e razionale
– che via via prende sempre più spazio fino a manifestarsi
apertamente, creando un’inevitabile contrasto con l’energia egoica
che fino a quel momento ha regnato indisturbata.
L’ego non può far altro che lottare per la propria sopravvivenza,
non potendo seguire il seme spirituale al di là dei confini del suo
regno mondano.

71
Seguendo tale interpretazione il popolo eletto, ISRAELE, altro
non è che la rappresentazione mitica della coscienza umana che
prende atto della sua condizione di schiavitù e decide di
intraprendere un cammino di consapevolezza che la condurrà verso
il regno divino, oltre le apparenze del mondo.
Uno dei tanti paradossi che costellano la Bibbia vuole che la
stirpe prescelta da Dio sia stata da egli stesso nominata con il
termine ebraico Yshra‘el, scritto

letteralmente COLUI CHE LOTTA CONTRO DIO.


Come potrebbe dunque una tradizione spirituale di così ampia
portata denominare la figura ideale di un iniziato con un tale
appellativo? Ciò sembra in evidente contrasto con l’idea di fede,
devozione ed obbedienza che contraddistinguono tutto
l’insegnamento ebraico-cristiano. Ed in effetti, così è.
Per quanto consapevoli che una tale osservazione potrebbe
scuotere le fondamenta di molte delle nostre certezze religiose, non
possiamo esimerci di porla in rilievo, giacché il profondo valore
spirituale del nome, il suo obiettivo vitale, è proprio di destabilizzare
in noi queste fondamenta concettuali cui siamo sterilmente abituati.
Il passo in cui viene effettuata questa nomina divina si ritrova
nella Genesi, dove Giacobbe trascorre una notte intera a lottare
contro un misterioso personaggio, che si rivelerà essere Dio solo
dopo aver subito e riconosciuto la sconfitta.
La divinità sembra dunque affrontarci continuamente in battaglia
nel campo della vita, e solo se abbiamo il coraggio di raccogliere la
sfida e lottare fino alla vittoria, potremo riconoscere gli intenti di
questo suo strano modo di agire.
Ma di quale battaglia stiamo parlando? Riflettiamo sulle parole di
Krishnamurti per aiutarci nella riflessione.

Credere in Dio o essere atei sono, secondo me, entrambe cose


assurde. Se sapeste che cos’è la verità, se sapeste che cos’è
Dio, non sareste né credenti, né atei, perché quella
consapevolezza renderebbe inutile qualsiasi bisogno di
credere. Ma quando l’essere umano non è consapevole, vive

72
di speranze e di immaginazioni e nella fede o nella mancanza
di fede cerca un appoggio che gli consenta di agire in un
determinato modo. […] Per scoprire Dio, per scoprire la
verità – e io affermo che esistono, io li ho scoperti – la mente
deve essere libera da qualsiasi impedimento creato nel corso
dei secoli dalla sua continua ricerca di sicurezza e di
protezione.14

Nella Bibbia Dio ci offre una vasta panoramica di dettami cui


attenerci scrupolosamente, alcuni ovvi per la nostra moralità, altri
meno comprensibili o per certi versi troppo rigidi da accettare.
Leggendo però tra le righe, sembra essere lui stesso a suggerire di
non accontentarsi delle sue regole ma di cercare di andare oltre, di
lottare contro di lui appunto, o meglio contro le idee e i preconcetti
che inevitabilmente ci costruiamo intorno alla sua figura.
In altre parole, egli ci chiede di non dimenticare mai di essere
stati creati a sua immagine e somiglianza, e non viceversa. La nostra
umana tendenza è infatti quella di ricercare certezze relative e punti
saldi provvisori su cui poter gettare le fondamenta vitali, e da lì
interpretare e filtrare ogni esperienza futura.
Ma la ricerca della Verità deve passare attraverso la disponibilità
di accettare il nuovo e l’imprevedibile ad ogni istante. La vita è un
torrente in piena sempre in movimento, ed accontentarsi di risposte
prestabilite e relativi dettami cui adeguarsi, significa aderire alla
legge mosaica (od osiridea). Ciò permetterà comunque di galleggiare
sulle acque della vita, ma non consentirà mai di risalire il torrente
fino a conoscerne la sorgente.
Nelle scritture, Dio sembra offrire all’essere umano entrambe le
possibilità; mentre l’accettazione passiva di regole morali è alla
portata di tutti e dunque esplicitamente e letteralmente espressa, la
ricerca dei significati profondi richiede una precisa volontà di
orientare la propria vita verso una direzione verticale, spostando il
proprio sguardo dal mondo esteriore all’universo interiore.
È a questo punto, dopo una tale scelta espressamente manifestata
attraverso passi concreti e non teorico-filosofici, che l’iniziato
assume il nome di Israele, aprendo le porte a quella scintilla interiore
denominata Mosè.

14
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.

73
Mosè sembra infatti seguire i dettami del suo Signore, sembra
accettare le regole del gioco divino, i principi che governano il
mondo terreno a cui non ci si può sottrarre, ma la sua sete di
comprensione si spinge anche oltre, affrontando con un
RAGIONEVOLE DUBBIO la voce divina e contrapponendosi ad
essa laddove la sua valutazione cosciente non gli permette di
obbedire ciecamente, in alcune occasioni addirittura
rimproverandola!

Il Signore disse ancora a Mosè: “Ho considerato bene questo


popolo; ecco, è un popolo dal collo duro. Dunque, lascia che
la mia ira s’infiammi contro di loro e che io li consumi, ma di
te io farò una grande nazione.” Allora Mosè supplicò il
Signore, il suo Dio, e disse: “Perché, o Signore, la tua ira
s’infiammerebbe contro il tuo popolo che ha fatto uscire dal
paese d’Egitto con grande potenza e con mano forte? […]
Calma l’ardore della tua ira e pentiti del male di cui minacci
il tuo popolo.” […] E il Signore si pentì del male che aveva
detto di fare al suo popolo. 15

Credo appaia evidente il fatto che passi biblici come il sopracitato


siano piuttosto enigmatici e di difficile comprensione, e sembrino
invocare lo sforzo di scendere a livelli interpretativi più sottili. Come
potrebbe mai osare un profeta opporsi al proprio Signore? E come
potrebbe mai un dio pentirsi di ciò che con solennità ha appena
affermato?
Lasciando ad ognuno la possibilità di riflettere personalmente su
queste domande, possiamo comunque raccoglierle come spunti
rappresentativi dell’intero racconto biblico, una veste allegorico-
simbolica necessaria per veicolare profondi messaggi esistenziali
che non devono necessariamente essere confusi con una veridicità
storica.
In questa accezione vengono scardinati i preconcetti per i quali
l’antico Egitto è stato un reale protagonista biblico, un popolo
schiavista con a capo un sovrano tirannico e crudele.

15
Bibbia, Esodo 32, 9.

74
La ricerca della perfezione

La teocrazia faraonica

È stato René Schwaller de Lubicz il primo a parlare di teocrazia


faraonica per indicare il tipo di governo di carattere politico e
religioso vigente nell’antico Egitto, in cui il faraone incarnava sia il
potere temporale che quello spirituale, per alcuni tratti non dissimile
dalla figura del Dalai Lama per la popolazione tibetana attuale.
La parola faraone risale al termine greco pharaò, traduzione
dall’egizio per-aa, letteralmente GRANDE CASA, in geroglifico

dove il primo segno raffigura la pianta semplificata di un edificio,


mentre il secondo una colonna, in tale contesto simbolo di
grandezza.
Ciò indica che il faraone non era ritenuto unicamente un uomo
politico ma un’entità simbolica, un grande tempio la cui funzione era
quella di accogliere dentro di sé tutti i neter e tutto il popolo
d’Egitto. Egli offriva rifugio e protezione, ed il suo nome ricalca
l’appellativo indiano di Mahatma, letteralmente GRANDE ANIMA,
riservato alle grandi guide spirituali come Gandhi.
Dobbiamo però oggi compiere uno sforzo notevole per
comprendere quanto in realtà tali concetti non erano per gli antichi
egizi solo sterili ideali, fantasie od aspettative illusorie in merito alla
sua figura. Il faraone non si sforzava di incarnare o di mostrare le
qualità che gli competevano, egli era effettivamente e
quotidianamente quelle qualità.
Il tirocinio che lo conduceva al trono non era certo paragonabile
alle nostre università o ai nostri master, ma era un cammino
iniziatico trasfiguristico che lo poneva in pieno contatto con la
divinità celata dentro il suo cuore.
Il faraone era divinizzato non in quanto Dio in terra, ma in quanto
tramite di Dio in terra, profondo conoscitore dei suoi principi e,

75
quindi, della sua Volontà. In estrema sintesi egli era il simbolo
dell’ESSERE UMANO REALIZZATO, l’esempio vivente – sotto
gli occhi di tutti – di un percorso evolutivo potenzialmente aperto a
chiunque ne avverta il richiamo.
È dunque di vitale importanza non confondere la figura storica
del faraone cui siamo generalmente abituati con la sua immagine
simbolica, che si situa per definizione al di fuori del tempo e dello
spazio, veicolando un messaggio sempre attuale di speranza, di
possibilità di incarnare il PRINCIPIO REGALE attraverso un serio
percorso di conoscenza interiore. La funzione faraonica non si limita
nel mostrare come diventa un essere umano realmente libero, ma
principalmente come lo si diventa.
Diversi sono gli appellativi che contraddistinguono i suoi
attributi. Vediamone alcuni tra quelli più significativi.
Nelle vesti di sovrano del sud, cioè dell’Alto Egitto, egli porta in
capo la corona bianca ed assume l’epiteto di nesut, ossia QUELLO
DEL GIUNCO, in geroglifico

pianta considerata sacra in quanto permetteva la costruzione di


oggetti particolarmente utili alla vita quotidiana, dai sandali al
supporto scrittoio degli scribi. Tale è infatti il faraone per il popolo,
offrendo a chiunque tutte le condizioni necessarie per poter condurre
una vita terrena dignitosa e per poter realizzare le proprie aspirazioni
spirituali.
In qualità di sovrano del nord, cioè del Basso Egitto, egli porta in
capo la corona rossa e assume l’epiteto di byt, letteralmente APE, in
geroglifico

creatura straordinaria che incarna più di ogni altro essere la totale


devozione al prossimo, al popolo. Ogni ape dedica infatti tutta la sua
vita al sostentamento e alla crescita dell’alveare, consentendo inoltre
alle piante di esistere e di riprodursi. Non solo, essa è anche in grado

76
di compiere una vera e propria trasmutazione alchemica producendo
l’oro liquido, il miele, estremamente prezioso per le sue qualità
terapeutiche antisettiche e cicatrizzanti; ecco che il faraone incarna
colui che si prende cura della salute fisica e spirituale del suo
popolo.
Il suo potere è associato al bastone heqa (visibile in mano ad
Osiride nella figura 8), in geroglifico

che significa letteralmente GOVERNARE, comunemente


conosciuto per la sua funzione di bastone pastorale. Simboleggia
infatti il compito del faraone nella guida del popolo così come un
pastore guida e veglia sul suo gregge cercando di impedire che
qualche pecora si possa smarrire. Egli era infatti conosciuto anche
come IL BUON PASTORE secoli prima dell’avvento del
cristianesimo.
L’altro scettro regale spesso associato al bastone pastorale è il
nek-hakha (anch’esso visibile nella figura 8), in geroglifico

letteralmente FLAGELLO, anch’esso uno strumento da pastore,


utilizzato inoltre per la raccolta di un’essenza sacra, il laudano.
Mentre con il bastone pastorale il faraone tiene a sé i suoi sudditi
per evitare che possano smarrirsi dalla Via, con il flagello egli li
sprona affinché possano proseguire senza perdersi d’animo. Da tale
bastone sgorgano inoltre tre flutti, ossia i tre aspetti dell’essere
fisico, emotivo e mentale, sui quali vi è a questo livello di coscienza
pieno controllo e consapevolezza.
Un ultimo importante epiteto con cui si designa il faraone è ket-
ankh, in geroglifico

77
che significa letteralmente ALBERO DELLA VITA, a
simboleggiare il fatto che egli è il vero albero della civiltà egizia,
colui che le apporta nutrimento spirituale e materiale così come il
fusto e i rami sostengono le numerose foglie. Tale appellativo
rimanda inoltre allo stesso concetto presente nella Cabalà,
simboleggiando la sintesi del sentiero che conduce dalla condizione
umana istintuale a quella divina.
Nei tempi antichi, nella stanza dedicata a Ra sulla terrazza del
tempio di Amon a Karnak, durante la processione più importante che
si svolgeva al suo interno per festeggiare il nuovo anno, il faraone
rinnovava la sua unione con il Padre per mezzo di un rito conosciuto
come knem yten, in geroglifico

letteralmente UNIRSI AL SOLE o IRRADIAZIONE, nella quale


avveniva una rigenerazione che infondeva al re una nuova energia,
ristabilendo il suo patto con il popolo, con la vita, con Dio.

Le corone della vita

Per fare un passo avanti nella comprensione della simbologia


egizia, diviene indispensabile soffermarsi sul significato che
assumono le diverse corone spesso associate ai neteru, ai faraoni o
ad altre personalità che rivestivano importanti ruoli all’interno della
società.
In tutte le culture del mondo il copricapo ha sempre assunto la
funzione di contraddistinguere lo stato di coscienza della persona
che lo veste, una sorta di artefatto convenzionale con lo scopo di
rendere manifesto a tutti un livello energetico comunemente non
visibile all’occhio umano.
Un esempio lo possiamo facilmente osservare nell’arte sacra a
noi più vicina, in cui le raffigurazioni del Cristo e dei santi vengono
accompagnate dal famoso attributo figurativo noto come
AUREOLA o NIMBO; ma una tale usanza la ritroviamo anche

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all’interno delle principali dottrine del mondo, da occidente a oriente
(figura 17).
Da una tale evidenza non possiamo non riconoscere la possibilità
dell’esistenza di una sorta di sfera energetica che viene attivata
all’altezza del capo in concomitanza ad una determinata
consapevolezza vitale, per quanto i nostri occhi fisici non la riescano
a scorgere e per quanto non esistano ad oggi comprovati strumenti di
misurazione che ne attestino la presenza.

Figura 17 – Rappresentazione dell’aureola nel cristianesimo e nel buddismo.

La simbologia egizia parte dallo stesso assunto, rappresentando


tramite l’utilizzo delle corone i diversi stati di coscienza che un
essere umano può raggiungere o può assumere in determinati
momenti della sua vita, prima del raggiungimento della piena
consapevolezza divina che l’aureola sembra certificare: la
COSCIENZA SOLARE, evidenziata dal disco solare di Ra (figura
10).

79
Anche questo tipo di analisi ci impone uno sforzo di
comprensione in grado di superare gli attuali stereotipi, che
associano le corone regali ad un concetto di potere puramente
egocentrico, senza alcuna correlazione con la reale maturazione
interiore di coloro che le portano in capo.
È infatti facilmente deducibile dalla storia a noi più prossima
come il diritto al trono potesse essere ereditato unicamente per linea
di sangue o per conquista militare. Non compaiono allusioni al fatto
che un regnante avesse dovuto intraprendere un determinato
percorso iniziatico per poter assumere la funzione di guida del
popolo, né ciò lo si può dedurre dalle molteplici evidenze di
atteggiamenti unicamente egoistici, avidi e crudeli che hanno mosso
diverse scelte politiche nella storia.
Il profondo significato dei diademi regali si è affievolito nel
tempo fino a perdere quasi completamente l’originario valore. La
responsabilità cui era messo di fronte un sovrano in Egitto – come in
diversi altri antichi popoli nel mondo – era un qualcosa di
estremamente serio, di vitalmente sacro. La sua saggezza e la sua
coscienza dovevano essere così limpide da non rischiare di essere
compromesse da aspettative personali, interessi economici o ideali di
auto-affermazione; ogni decisione o presa di posizione era
determinata da una forza interiore in grado di travalicare il comune
limite individuale.
Uno dei copricapi egizi più noti dalle comuni raffigurazioni è il
nemes (figura 18), in geroglifico

conosciuto come l’ACCONCIATURA REALE, una cuffia di


stoffa a strisce oro e blu che avviluppa la testa e, allargandosi da
ciascun lato delle orecchie, ricade sul petto.
Essa caratterizza il fatto che colui che la porta in capo sta
percorrendo la Via solare che conduce alla realizzazione, al pieno
riconoscimento della propria natura divina e al conseguente dominio
sui propri impulsi egoici.

80
Figura 18 – Tutankhamon con il copricapo nemes

Figura 19 - Stemma pontificio con le due chiavi.

81
Passiamo ora ad esaminare le tre corone fondamentali, le tre
tappe del risveglio dell’essere umano. Il potere di accesso al Regno
dei Cieli – che è dentro di noi – è simboleggiato nel cristianesimo
attraverso la CHIAVE D’ARGENTO e la CHIAVE D’ORO, ben
espresso nello stemma pontificio (figura 19).
Nell’arte egizia tali chiavi sono espresse per mezzo di due
copricapo, il primo dei quali è il khedyet, la CORONA BIANCA
(figura 20), in geroglifico

che oltre a rappresentare la sovranità sull’alto Egitto simboleggia


la COSCIENZA DELL’IO, in altre parole il potere temporale sugli
esseri e sugli stati d’essere che fanno parte della natura, e in quanto
tale condizionato dal tempo e dalle circostanze del divenire ciclico
dell’esistenza terrena. Ecco il motivo per cui questa corona sovrasta
la figura del dio Osiride (figura 8).
La coscienza osiriaca dell’Io dona all’uomo la padronanza sul
regno terreno, egli non è più vittima inconsapevole di ignote forze
che lo muovono e lo dominano, non è più soggiogato dal suo mondo
inconscio, ma ne è interamente cosciente muovendosi nella sfera
materiale con sicurezza e disinvoltura.
Viene qui a cadere il contrasto interiore dovuto al continuo ed
inconsapevole altalenarsi delle molteplici personalità, lasciando
emergere un unico centro di relazione con il mondo circostante. Ma
questo stato è però una sorta di immortalità transitoria e non
definitiva, ancora vincolata ai legami terreni contratti a causa di
desideri e obiettivi personali.
Si potrebbe altresì affermare che in questa fase l’essere umano è
libero dai condizionamenti esteriori della vita, dall’influenza
dell’educazione ricevuta, della cultura di appartenenza e da tutte le
idee preconcette fornite dalla società circostante, ma non è libero dai
condizionamenti interiori. Il proprio ego è qui libero di esprimersi e
di muoversi nel mondo con agilità e sicurezza, ma è ancora schiavo
di se stesso.

82
La coscienza dell’Io fornisce all’uomo la chiave della padronanza
dei tre stati inferiori del suo essere: fisico, emotivo e mentale. Tale
padronanza non è però che il piano inferiore del regno sovraumano,
riferendosi ancora agli affari degli uomini e non al mistero di Dio.
Questo punto è di vitale importanza, dato che frequentemente siamo
portati a confondere un percorso di carattere spirituale con un
percorso di carattere personale.
L’attrazione verso il mistero della vita rischia di approdare verso
campi comunemente ignorati che possono profondamente ammaliare
per il potere in grado di sprigionare; è quindi molto facile lasciarsi
conquistare da essi scivolando nell’errore di identificarli con il regno
divino. Rientrano in tal senso molte tecniche cosiddette
“energetiche” che promettono all’uomo di migliorare la sua
esistenza, celebrando per questo obiettivo retaggi tradizionali come
la meditazione, danze sacre, cerimonialità varie, studi simbolici,
eccetera. E, in molti casi, la confusione aumenta.
Estrapolare alcune nozioni da contesti molti più ampi e per
millenni indissociabili dalle dottrine che le hanno veicolate, con tutti
gli accorgimenti del caso, è tanto sciocco quanto pericoloso.
Laddove anche i risultati di determinate tecniche possano rivelarsi
estremamente efficaci, ciò non significa che corrispondano a “salti
evolutivi”.
Il fatto che si possa accumulare più energia per realizzare i propri
desideri, per ottenere dalla vita ciò che si reputa giusto per se stessi,
per affermare la propria immagine agli occhi altrui o per ostentare
qualche potere in grado di far distinguere dalla massa, non farà
necessariamente di noi delle persone migliori, più libere. Eppure
quanto è facile confondere la propria elevatura energetica per
elevatura spirituale.
Se un antico romano fosse improvvisamente proiettato qui oggi e
fosse messo davanti a un televisore, con molta probabilità vedrebbe
in esso uno strumento divino, messaggero di realtà più sottili ed
inspiegabili, e dunque spirituali. Ma noi ben sappiamo, a livello più
o meno tecnico, cosa si nasconde dietro un televisore. Eppure la
tendenza psicologica umana è da sempre quella di associare
l’inspiegabile al divino, come se fosse istintivamente preclusa la
ricerca di Dio negli aspetti più semplici e banali della vita
quotidiana.

83
La corona bianca simboleggia dunque uno stato di coscienza
potenzialmente pericoloso per i risvolti in cui rischia di far
inciampare, ma è altrettanto fondamentale come tappa per un
risveglio sovraumano, dato che tale passaggio permette all’individuo
di uscire dalla sua condizione di automa e di divenire cosciente di
tutti i recinti concettuali ed emotivi che lo tengono prigioniero.
La seconda chiave è invece rappresentata con la CORONA
ROSSA (figura 20), il desheret, in geroglifico

raffigurante la sovranità sul Basso Egitto e simbolo della


COSCIENZA SPIRITUALE, il potere spirituale che dona la
consapevolezza del proprio principio divino universale.
Essa è dunque la chiave del regno sovraumano, la forza che tende
a condurre l’essere umano verso la liberazione dai cicli del divenire,
dall’incatenamento karmico. Tale coscienza è di carattere neutro,
totalmente indipendente dalla personalità che la veicola ed in
costante contatto con le sfere più sottili del creato, i principi
invisibili dell’esistenza.
Ma anche tale stato coscienziale, per quando possa apparire
compiuto e definitivo, è in realtà incompleto. Per colui che si
estranea dal mondo per isolarsi in un quieto eremitaggio
contemplativo, non vi potrà mai essere una reale vittoria sul mondo.
Un misticismo vissuto in solitudine potrà avvicinare ad un contatto
con piani esistenziali più sottili, ma inesorabilmente allontanerà dal
proprio mondo quotidiano, e quindi dalla vitale possibilità di
confrontarsi con gli altri e con se stessi.
Sarà solo l’incrocio delle due chiavi (figura 19), l’unione della
corona rossa con la corona bianca, il sekhemty (figura 20), in
geroglifico

a simboleggiare la completa supremazia sul regno d’Egitto, in


altre parole l’unione indissociabile della coscienza umana con la

84
coscienza divina, il potere supremo che dona l’immortalità
definitiva, l’ingresso nel regno dell’Eterno.
Tale è la REALIZZAZIONE HORUSIANA, in cui la propria
personalità terrena si purifica dalle incontrollabili tendenze egoiche
per conciliarsi con la volontà divina e servirla. Colui che pone in
capo entrambe le corone, è uscito dal ciclo delle reincarnazioni e non
appartiene più al mondo dei vivi né a quello dei morti, pur
continuando a vivere in mezzo a loro per aiutarli. Non ci si libera
per se stessi, ma per assistere gli altri nel loro percorso.

Figura 20 – Raffigurazione della corona bianca, rossa e della loro unione.

L’elemento horusiano, o cristico, è la parte immortale dell’uomo


che vuole unirsi all’individuo per espandergli la coscienza ed
insegnargli a discernere i valori reali da quelli relativi, propri della
natura dualistica del mondo. Ed è proprio questa la grande paura
della personalità mortale che cerca di resistergli fino all’ultimo,
dando vita a quella sorta di combattimento interiore che siamo
chiamati quotidianamente ad affrontare.
Diventa allora più semplice comprendere il significato attribuito
ad un altro importante diadema: la CORONA AZZURRA (figura
21), il khepresh, in geroglifico

85
nota più propriamente come la CORONA DEL TRIONFO. Essa
è simbolo per eccellenza dell’iniziato posto consapevolmente di
fronte ai propri conflitti interiori, e di come la forza di volontà del
suo spirito possa raggiungere la supremazia sulle energie avverse
che ne opprimono la vitalità.
Il tema del conflitto, delle battaglie e delle innumerevoli guerre
cui sembra costellata la storia antica, è di fondamentale importanza
quanto di delicata analisi.

Figura 21 – Corona azzurra in capo al faraone durante la battaglia.

Possiamo infatti notare che buona parte dei testi sacri sono
strettamente collegati a temi di carattere bellico: è il caso della
Bhagavad Gita, della Bibbia, del Corano e della simbologia egizia
stessa. Ciò potrebbe apparire ovviamente insensato: come possono
parlare di guerra i libri che insegnano a perseguire il vero Amore
verso la vita e il prossimo?

86
Eppure i paradossi sono chiarissimi e sotto gli occhi di tutti, basti
pensare al fatto che nel libro sacro più letto al mondo coesiste a
fianco del comandamento di non uccidere un incitamento alla
battaglia per l’invasione di terre e popoli stranieri. È evidente che se
non vogliamo farci trarre in inganno da una visione letterale, occorre
approfondire ulteriormente la questione.

L’arte del cambiamento

Per affrontare il tema del cambiamento è opportuno esaminare il


termine che contraddistingue la corona del trionfo. Il primo
geroglifico che la caratterizza è infatti la raffigurazione del famoso
scarabeo stercorario con cui veniva identificato il neter KHEPRY,
analogo all’egizio Khepry (figura 22), in geroglifico

che significa letteralmente DIVENIRE, TRASFORMARSI,


TRASFIGURARSI.
Questa divinità rappresenta la natura mutante di Ra, la
manifestazione dei cambiamenti che avvengono in natura e che
elevano verso una consapevolezza più ampia, più reale. Mentre i
mutamenti che soggiacciono sotto l’influenza di Osiride rientrano in
un processo di trasformazione sopra un piano orizzontale – dunque
all’interno di un circuito chiuso in se stesso – le modificazioni
animate dallo spirito di Khepry contraddistinguono uno sviluppo
verticale, un’ascesa alchemica verso il divino nascosto dentro di sé.
Per quanto si possano ricercare modificazioni caratteriali e
comportamentali in vista di una vita più piena, più felice, più
appagante e più emozionante, o per quanto si possano sviluppare
poteri e capacità non ordinarie in grado di percepire od anche
manipolare una realtà più sottile di quella apparente, tutto ciò
rientrerà sempre all’interno di un circolo vizioso sottostante alle
medesime leggi di natura terrena, da non confondere quindi con il
regno spirituale.

87
Figura 22 – Il dio Khepry.

Un concetto analogo lo si ritrova in tutte le dottrine nate con lo


scopo di condurre l’essere umano verso la meta della liberazione. La
Ruota della Vita presente nell’iconografia buddista tibetana (figura
23), rappresenta proprio l’ininterrotto ciclo di vita-morte-rinascita, il
SAMSARA. In esso ogni individuo può sperimentare condizioni
esistenziali che potremmo definire infernali o celestiali, ma anche in
questo secondo caso non sarà libero dal Signore del Tempo, il
padrone delle illusioni (che nell’immagine sostiene il cerchio
mordendolo).
Nella stessa illustrazione simbolica viene spesso raffigurata una
piccolissima strada che fuoriesce dall’immensa ruota per condurre
verso la condizione di Buddha (in alto a destra), colui che si
risveglia dal sonno della coscienza, osservando dall’esterno i suoi

88
simili in modo distaccato e libero, con il solo fine di indicare loro la
Via.

Figura 23 – La Ruota della Vita secondo il buddismo tibetano.

89
Ecco allora che lo stato coscienziale rappresentato da Khepry
individua quella forza in grado di guidarci nelle lotte interiori cui ci
troviamo immersi quotidianamente, dove uno schieramento tende a
tenerci vincolati alla natura ciclica mentre l’altro a spingerci fuori da
essa per risorgere a nuova vita.
Una considerazione del genere ci porta a comprendere più da
vicino il motivo per cui il simbolo di questo dio è stato scelto come
geroglifico per delineare il nome della corona del trionfo, laddove
colui che la porta in capo ne è ispirato a tal punto da trovare la forza
di perseguirne i dettami attraverso le difficoltà dell’esistenza, mosso
da un desiderio di libertà in grado di trascendere le forze avverse: le
illusioni.
Non a caso il piccolo insetto nero, lo scarabeo, si può osservare in
natura nel suo paziente lavoro di raccogliere gli escrementi per
deporvi le uova, e poi formarne delle pallottole nere da cui
nasceranno i suoi piccoli. Quale migliore rappresentazione
alchemica! Elaborare pazientemente la materia informe e putrida per
trasformarla in un ambiente fertile da cui nascerà nuova vita. Da ciò
possiamo facilmente dedurre il motivo per cui ancora oggi lo
scarabeo viene associato – seppur in modo molto sbrigativo – alla
fortuna e al buon auspicio, divenendo forse il souvenir più noto nelle
attuali mete turistiche egiziane.
Khepry incarna il risveglio di un rivoluzionario modo di vedere la
vita e di porsi in essa, un approccio creativo completamente
svincolato dai classici modelli trasmessi dall’educazione e dalla
cultura. Egli è più propriamente l’INTELLIGENZA DEL CUORE,
generalmente assopita nella maggior parte degli esseri umani e
facilmente confusa con aspetti caratteriali emotivi o buonisti. Tale
intelligenza va al di là di parametri specifici con cui poterla
identificare dall’esterno; essa emerge in ciascuno di noi a mano a
mano che si dissolvono i veli delle proprie false personalità tenute in
vita da una moltitudine di paure e attaccamenti.
Interessante notare infatti come la prospettiva dello scarabeo
visto dall’alto ricordi quella della calotta cranica, custode
dell’organo preposto alla ragione umana, così come Khepry lo è
dell’intuito (figura 24).

90
È a questo tipo di intelligenza, la ROSA DEL CUORE, nella sua
disarmante semplicità, cui tutte le dottrine fanno riferimento come
prerogativa per riscoprire la realtà divina dentro di sé.

Convertitevi, poiché è vicino il regno dei cieli.16

Facendo riferimento a tale monito si sono compiuti nell’arco


della storia ogni sorta di efferatezze e guerre sante. Il concetto di
conversione è stato comodamente utilizzato per scopi colonialistici,
dove il forzare altre culture e civiltà ad aderire a un credo cristiano –
liberamente interpretato – equivaleva nei fatti a controllarle e
dunque sfruttarle con più facilità. La tendenza umana a voler
imporre ad altri il proprio credo nasconde sempre fini egoistici,
siano essi di natura economica, di potere, di affermazione o
semplicemente di compensazione per le proprie profonde incertezze
ed insicurezze.

Figura 24 – Lo scarabeo e la calotta cranica a confronto.

16
Vangelo (Mt 4,17).

91
Ma i principi alla base di ogni tradizione, vissuta nella sua
purezza, sono estremamente chiari e rigorosi nell’escludere ogni
forma di coercizione nel cammino spirituale. Tutte le dottrine sono
consapevoli di portare in serbo lo stesso Insegnamento Universale,
come potrebbero dunque veicolare messaggi di superiorità nei
confronti delle altre?
Non si pone certo come voce fuori dal coro il cristianesimo: la
parola conversione è infatti la traduzione del termine greco
originario di metanoein, che significa letteralmente CAMBIARE
MENTALITÀ o CAMBIARE NEL CUORE. Ben lontani dunque da
un dover aderire ad una religione piuttosto che un’altra.
Sostituire un credo con un altro, senza effettuare un’effettiva
conversione nel proprio intimo, equivale semplicemente a riempire
la propria mente di pensieri diversi da quelli precedenti, cosa che
non provocherà nessun reale cambiamento.
Parimenti, mantenere una stessa fede religiosa con una
disposizione d’animo tanto flessibile da permettere una continua
messa in gioco del proprio modus operandi, rimanendo sempre tesi
verso l’ascolto di un’intelligenza di fondo in grado di valicare i
limiti di una logica assordante, potrebbe coincidere a pieno titolo
con un’effettiva conversione.
Un approccio di questo tipo non implica l’abbattimento della
ragione, ma un suo decisivo ridimensionamento nelle scelte vitali
che siamo chiamati ad affrontare nel corso dell’esistenza. È infatti
importante comprendere che è il pensiero discorsivo a governare
tutta la nostra vita, e che per sua stessa natura non può offrire
soluzioni creative ai problemi, ma ci spinge nel rimuginare sempre
all’interno di rivisitazioni di esperienze passate o ipotesi future. Ogni
attimo è unico ed irripetibile, e non vi sarà razionalità in grado di
fissarlo ed analizzarlo senza perderne il valore vitale.
Il giusto posto della ragione è quello di affiancare gli impulsi di
una coscienza superiore, dell’intelligenza del cuore appunto, senza
soffocarne i sussurri o filtrarne i messaggi per meglio adattarli al
proprio egoismo. In altre parole, mente e cuore devono imparare a
collaborare armonicamente; ogni dissonanza tra loro non potrebbe
portare buoni frutti ma solo dogmatismo, fanatismo, sofferenza e
caos. Ben identificò Gesù questa necessità vitale.

92
Ma il vostro parlare sia: “Sì, sì; no, no”; poiché il di più viene
dal maligno.17

La tradizione egizia illustra in modo meraviglioso il potenziale


equilibro tra i due aspetti attraverso i geroglifici che li
rappresentano. Un altro modo di definire l’intelligenza del cuore è
infatti sya, in geroglifico

traducibile come INTELLIGENZA INTUITIVA, l’impulso


horusiano che tende a sintetizzare le percezioni per farne emergere
un aspetto vitale.
Al suo opposto troviamo la funzione cerebrale ays, in geroglifico

letteralmente INTELLIGENZA COMPARATIVA, l’impulso


sethiano razionale analitico e separatore.
È facilmente osservabile come i due termini siano
figurativamente speculari, l’uno il riflesso dell’altro, evocando in tal
senso la naturale necessità di conciliazione, dove il primo impulso
sarà veicolato dal secondo, la mente al servizio del cuore.
Ma il processo che conduce a un tale equilibrio, per quanto
appaia concettualmente molto semplice, si concretizza in una sottile
lotta interiore, trovando nella vita quotidiana il campo di battaglia
ideale.
La scelta di accettare apertamente questa sfida richiede una
sincera aspirazione e una forte determinazione, dato che le difficoltà
e le ripetute sconfitte non si faranno certo attendere. Non a caso gli
egizi consideravano la mente razionale il laboratorio di Seth, nella
quale moltitudini di ingegnosi alibi e giustificazioni sono sempre in
agguato per reprimere od alterare ogni eventuale barlume di
consapevolezza spirituale.

17
Vangelo (Mt 5,37).

93
La natura dei conflitti

Possiamo ora volgere nuovamente l’attenzione alle simbologie


guerriere per ricercarne un significato che travalica i limiti
dell’apparenza. La raffigurazione del faraone nel bel mezzo di una
battaglia (figura 21) potrebbe non essere dissimile dalla condizione
interiore descritta nel più famoso poema sacro indiano: la Bhagavad
Gita (figura 25).
In tale trasposizione simbolica viene infatti narrato lo stato
coscienziale in cui si trova l’iniziato, Arjuna, nel momento in cui
riconosce al suo fianco Dio stesso nelle vesti del fedele amico,
Krishna, che lo ha sempre accompagnato nel corso della vita ma che
solo ora gli si rivela apertamente per incitarlo al combattimento e per
indicargli il Cammino.

Figura 25 – La battaglia di Arjuna nella Bhagavad Gita.

Il campo di battaglia in cui il protagonista si ritrova prende il


nome di Kurukshetra – la vita quotidiana – e gli avversari che è

94
tenuto ad affrontare ed uccidere sono i membri della sua stessa
famiglia, parenti, mentori ed amici del passato.
Possibile che la divinità sia così crudele da condurre il devoto a
macchiarsi le coscienza con simili omicidi, contravvenendo al
dettame universale di non uccidere? Eppure non è necessario
giungere fino alla tradizione indiana per scorgere simili paradossi.

Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non
sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a
dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora
dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di
casa sua. Chi ama padre e madre più di me, non è degno di
me; e chi ama figlio e figlia più di me, non è degno di me.
Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è
degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi
avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà.18

Siamo stati abituati fin da piccoli ad immaginare la figura di


Gesù come un essere estremamente amorevole, dolce e
compassionevole; la medesima cosa credo la si possa affermare
relativamente all’immagine di Krishna per gli indiani. Possibile
dunque che la dottrina di questi grandi inviati si riduca nel gettare
semi di discordia tra le persone? O come fare per conciliare tali
insegnamenti con il loro messaggio di amore verso il prossimo?
Torniamo dunque alla nostra “ipotesi di lavoro” iniziale,
considerando ogni descrizione od incitamento bellico come
un’evocazione simbolica di una condizione in cui ognuno di noi può
rispecchiarsi dentro la propria sfera interiore.
In quante occasioni ci ritroviamo infatti a dover compiere delle
scelte nella vita e a sentirci per questo combattuti da una parte di sé
che vorrebbe perseguire una strada e un’altra parte che desidererebbe
andare in un’altra? Spesso poi, le parti in gioco non sono solamente
due ma ne intervengono molte altre. Non occorre allora andare
molto lontano per assistere ad uno scontro di diversi schieramenti.
Il nostro comune stato d’essere è di natura conflittuale. Divenirne
consapevoli non significa creare nuovi problemi esistenziali – come
spesso alcuni di noi si trovano a pensare quando viene loro

18
Vangelo (Mt 10,34).

95
consigliato di volgere dentro di sé l’attenzione – ma significa
riconoscere uno stato d’essere cui siamo inevitabilmente soggetti,
volenti o nolenti.
Un cammino iniziatico (al di là del nome altisonante che può far
pensare a chissà quale tecnica occulta e segreta) passa proprio
attraverso un meticoloso studio di sé, dei conflitti in atto, degli
schieramenti in gioco e del movente che li ha condotti a
fronteggiarsi in battaglia.
Il primo passo è quello di divenire uno spettatore cosciente
dell’arena interiore, di aprire gli occhi di fronte ad una sottile guerra
che si svolge quotidianamente nelle profondità dell’animo. A ben
osservare vi possiamo scorgere molteplici personalità che si
contendono la supremazia le une sulle altre, in una lotta di potere
senza sosta, nonostante talmente impercettibile da mantenere in noi
viva l’illusione di essere persone integre e dotate di un Io stabile.
Ma le sensazioni di disagio che accompagnano spesso la nostra
esistenza possono ritrovare le loro radici anche in altri aspetti
conflittuali, come ad esempio la dissonanza causata tra ciò che si è e
ciò che si vorrebbe essere, o ancora tra ciò che si è e ciò che si pensa
di dover essere. Nulla provoca più spossatezza del prendere atto di
come le nostre azioni e i nostri comportamenti siano spesso in piena
contraddizione con pensieri e buoni propositi.
Una tale prospettiva offre una solida base interpretativa per
comprendere a fondo gli accadimenti bellici descritti nei più
importanti poemi sacri, per i quali sono sorte non poche perplessità
in merito all’effettiva veridicità dei fatti narrati. Potremmo allora
decidere di scartarne a priori ogni validità per via della loro
infondatezza storica, o volgerci ad essi con un punto di vista meno
comune ma sicuramente più prezioso.
Per esempio, la tanto nota battaglia di Kadesh (figura 21),
documentata nelle raffigurazioni di ben sette monumenti dell’antico
Egitto, rappresenta uno scontro bellico avvenuto tra il faraone
Ramesse II e l’esercito Ittita sulle rive del fiume Oronte in Siria.
Secondo il resoconto egizio il faraone ottenne una memorabile e
gloriosa vittoria, sottomettendo gli stranieri alla sua volontà; peccato
che gli storici moderni siano propensi ad affermare che a vincere
furono gli Ittiti.

96
Il poema egizio si rivela essere un’opera surreale delle gesta del
faraone, di carattere quasi propagandistico e di molto lontano dal
potersi considerare un effettivo resoconto della battaglia. Di fronte
ad esso ci si può dunque porre con un duplice atteggiamento: o
credere che il faraone abbia voluto ingannare il suo popolo per
coprire l’umiliazione di una sconfitta subita – in tal caso risulta
difficile comprendere come possa aver nascosto l’evidenza di una
ritirata di circa 20.000 uomini – oppure considerare tale battaglia
come un’occasione storica per mettere in scena un’avventura mitica
di natura quasi esclusivamente simbolica.
Ciò cui l’iniziato ambisce è proprio il raggiungimento della
PACE INTERIORE, ponendo fine ai conflitti che attanagliano la sua
vita. Mentre il faraone simboleggia la nostra Essenza, gli stranieri
sono i nemici da affrontare e sconfiggere, in altre parole gli aspetti di
noi che non ci appartengono, estranei appunto, e che mirano a
tenerci legati ad essi nel caos del mondo dialettico. Tra essi vi
troviamo le paure, insicurezze, invidie, avidità, dubbi, pregiudizi,
abitudini, eccetera. Se volessimo identificarli in una parola sola: ego.
È interessante osservare come la parola egizia pace, hotep, in
geroglifico

è figurativamente, considerando i caratteri fondamentali che li


compongono, il riflesso del nome del dio PTAH (figura 26), Ptah
anche in egizio e in geroglifico

simbolo della SCINTILLA DIVINA ancora imprigionata nella


materia, in attesa di essere liberata per poter esprimere la sua vitalità.
L’unione di queste due parole dà vita ad un nome molto noto
nell’antico Egitto, PTAH-HOTEP, in geroglifico

97
associabile sia ad un personaggio realmente esistito quanto ad
una figura simbolica, per nulla dissimile dalla possibile realtà
storico-mitologica di Gesù Cristo o Cristiano Rosacroce. Il nome
Ptah-Hotep si presta infatti a molteplici possibilità di traduzione ed
interpretazione, la prima delle quali potrebbe essere COLUI NEL
QUALE LA SCINTILLA DIVINA HA TROVATO LA PACE.

Figura 26 – Il dio Ptah.

Egli contraddistingue infatti l’essere umano che ha conciliato il


divino con la propria individualità terrena, librandosi oltre i limiti
della dualità per raggiungere la pace interiore, la liberazione.
Analizzando il nome privo dell’aggiunta convenzionale di vocali,
ci si trova di fronte ad un palindromo:

P-T-H-H-T-P

98
che individua nel suo centro il proprio equilibrio, la stabilità
interiore, il ritrovamento del proprio centro di gravità permanente,
così come le due intelligenze dell’essere umano (analizzate in
precedenza) trovano la loro piena e corretta vitalità nell’equilibrio.
L’unione delle due parole che compongono il termine Ptah-Hotep
rimandano infatti all’idea di una scintilla divina cui è stata offerta
l’opportunità di ritrovare la pace, liberandosi dalle costrizioni
illusorie del mondo, ponendo fine all’eterna lotta contro i “nemici”
interiori che mirano al lento soffocamento della sua voce.
Ad una figura di così ampia portata viene attribuito un magnifico
testo sacro, valutato come uno dei più antichi scritti dell’umanità,
risalente a circa 4500 anni or sono. Stiamo parlando
dell’INSEGNAMENTO DI PTAH-HOTEP, considerato a tutti gli
effetti come l’equivalente egizio del Tao Te Ching cinese.
Tale libro è costituito da una serie di massime che sono state a
lungo presenti nella storia dell’antico Egitto, sopravvivendo fino ai
giorni nostri grazie alla protezione dei monaci copti, i probabili
discendenti dell’originaria civiltà faraonica (oggi infatti la maggior
parte degli abitanti del paese d’Egitto sono i discendenti dei
colonizzatori arabi) che hanno cercato di mantenere viva la Gnosi
egizia velandone il messaggio per mezzo del simbolismo cristiano.
Ma per tornare all’analisi della natura conflittuale, anche nella
Bibbia possiamo trovare diversi riferimenti, alcuni più espliciti
mentre altri più velati. Un esempio tanto evidente quanto enigmatico
lo si incontra nell’Esodo.

Il Signore disse a Mosè: “Quando sarai tornato in Egitto,


avrai cura di fare davanti al faraone tutti i prodigi che ti ho
dato potere di compiere; ma io gli indurirò il cuore ed egli
non lascerà partire il popolo.19 […] Mosè e Aronne fecero
tutti questi prodigi davanti al faraone; ma il Signore indurì il
cuore del faraone, ed egli non lasciò uscire i figli d’Israele dal
suo paese.20

In diverse occasioni nel corso del racconto delle dieci piaghe


d’Egitto, il faraone sembra infatti ravvedere la sua posizione in

19
Bibbia, Esodo 4,21.
20
Bibbia, Esodo 11, 10.

99
merito al popolo ebraico, pronto a lasciarlo partire in pace verso la
sua terra promessa; ma ogni volta interviene il Signore per indurirgli
il cuore.
Per quale assurdo motivo Dio avrebbe allora chiesto al suo più
caro devoto di compiere un’impresa nella quale lui stesso sarebbe
poi intervenuto per interferire? Ci troviamo forse di fronte ad
un’ingiustizia e un sadismo divini? Oppure questo aneddoto
potrebbe rivelare la necessità vitale di passare attraverso le diverse
esperienze conflittuali?
In questo caso è infatti Dio stesso a spronare continuamente
Mosè nel recarsi al cospetto del faraone, figura autoritaria che il
profeta teme e che non si sente all’altezza di affrontare. Ma il
destino lo chiama a compiere una simile impresa, così come Krishna
chiama Arjuna ad impugnare con coraggio le sue armi per
l’imminente battaglia. Saranno proprio le difficoltà insite in una tale
esperienza che gli permetteranno di fuoriuscirne più forte, più
consapevole.
Potremmo dedurre che proprio grazie a questo difficile compito
Mosè ha potuto maturare più che mai il forte senso della presenza
divina dentro di sé. A ben guardare infatti la più corretta traduzione
delle parole rivoltegli da Dio, emerge un particolare di straordinaria
importanza:

“Vieni dal faraone.”21

Vieni, non và. In altre parole, il Signore era perfettamente


consapevole delle paure che affliggevano Mosè, della sua sensazione
di inferiorità nel porsi di fronte ad una così ampia impresa, per
questo gli disse: “Vieni con me dal faraone”, ricordandogli che
sarebbe stato sempre con lui, dentro di lui.
Nel porci di fronte alle difficoltà della vita, Dio sembra offrirci la
possibilità di rivoluzionare il nostro comune atteggiamento mentale
di paura e senso di abbandono. Egli ci invita ad andare con lui, a
ricercarne la presenza attraverso tutte le esperienze che siamo
chiamati ad affrontare, consapevoli che in definitiva – come nel caso

21
Bibbia, Esodo 9,1.

100
di Mosè – sarà sempre lui a dar vita alle nostra battaglie e ad agire in
noi anche per mezzo di coloro che consideriamo nemici.

Figura 27 – Il simbolo di Horus evidenziato nel cerchio.

Figura 28 – Horus scolpito dietro il capo del faraone

101
Ecco infine lo scopo di ogni battaglia interiore: la conoscenza di
sé e il senso della Presenza. Diviene ora più chiara l’immagine di
Horus spesso raffigurata nella corona del trionfo (figura 27) o
scolpita dietro il capo nelle statue dei faraoni (figura 28). Tale è
infatti il simbolo della VOCE DI HORUS, della Presenza divina, del
Signore al nostro fianco, dell’amicizia di Krishna.

Il servizio disinteressato

Secondo una storiella ebraica, ad un rabbi molto giusto fu


concesso di visitare ancora in vita il purgatorio, Gehenna, e il
paradiso, Gan Eden. Venne prima condotto verso il purgatorio e,
man mano che si avvicinava, poteva udire sempre più nitidamente
terribili grida di uomini e donne fortemente tormentati; varcata la
soglia vide un gran numero di persone sedute a banchetto intorno ad
una grande tavola apparecchiata in modo lussuoso ed imbandita con
i cibi più prelibati che si possano immaginare. Non riuscendo a
capacitarsi del motivo per cui soffrissero tanto, il rabbi si accorse
dopo qualche attimo che i loro gomiti erano invertiti, in modo tale da
non poter piegare le braccia per portarsi il cibo alla bocca. Il rabbi
venne poi condotto verso il paradiso, dove echeggiavano già in
lontananza forti risa di gioia e di festa. Ma con sua grande sorpresa
si imbatté in una scena simile alla precedente: uomini e donne seduti
ad un sontuoso banchetto, ed anche in questo caso con i gomiti alla
rovescia. Solo un particolare era diverso: ognuno di essi portava il
cibo alla bocca del proprio vicino o della propria vicina.
Il concetto di servizio è indissociabilmente legato ad un percorso
di consapevolezza, a tal punto che risulta difficile stabilire quale dei
due sia la conseguenza dell’altro. Tutti i grandi maestri della storia
sono noti per la loro totale dedizione al prossimo, instancabilmente
occupati ad offrire i propri servigi al fine di indicare la Via ed
incoraggiare a percorrerla.

Poiché la vita nello Spirito, con lo Spirito e attraverso lo


Spirito è innanzitutto unificatrice. […] Il segreto del successo
sta nel non limitarsi soltanto a cercare, ma nel voler anche
costruire; e ciò non per se stessi, ma innanzitutto al servizio

102
degli altri […] Servire gli uomini è il solo modo per ottenere
la resa di sé. Solo servendo gli altri infatti s’impara a
dimenticare se stessi; solo mettendosi al servizio degli uomini
l’Io è eliminato, annientato, purificato. Solo mettendosi al
servizio degli uomini si può percorrere il cammino.22

Diviene dunque un paradosso spirituale la ricerca della


liberazione per se stessi, per “sentirsi meglio” e per poter essere
riconosciuti e rispettati come maestri illuminati. Lo scopo della
liberazione è di aiutare i propri simili nel raggiungimento dello
stesso fine. Ecco perché un vero maestro difficilmente si proclama
tale; ecco perché un rosacroce non dichiara di esserlo, vive
semplicemente la sua condizione in totale umiltà, completamente
indifferente al fatto che il mondo intorno a lui possa accorgersi o
meno del suo stato.
Mille Cristo possono essere venuti prima e dopo la scomparsa di
Gesù senza che nessuno di noi se ne sia mai accorto. Diverse
condizioni storiche, religiose e politiche hanno permesso che una
figura di duemila anni fa divenisse particolarmente nota, ma siamo
realmente convinti che se oggi fosse vivo tra noi un simile uomo – o
donna – si porrebbe sotto i riflettori? Siamo inoltre sicuri che il
mondo di oggi sarebbe in grado di accettare il suo messaggio
rinnovato? E ancora, siamo così certi di poter essere noi per primi in
grado di riconoscerlo?
Deificare un grande maestro dopo la sua morte rischia di divenire
molto più comodo che deificarne gli insegnamenti: mentre il primo
non può più garantire la sua presenza fisica per stimolare e
correggere severamente, i secondi, se vissuti con estrema onestà,
possono continuare a mantenerne vivo il messaggio nel tempo. Ma
la difficoltà di poterli accogliere, sperimentare e vivere, risiede
proprio nella loro natura non egoica, in netto contrasto con le
comuni aspettative di poterne ottenere un tornaconto personale.
Uno dei principali appellativi spesso associato al nome del
faraone è hem, in geroglifico

22
Jan van Rijckenborgh, La Gnosi nella sua manifestazione attuale, Edizioni Lectorium
Rosicrucianum, Milano, 1991.

103
comunemente tradotto come SUA MAESTÀ, che ha in realtà il
significato letterale di SERVO.
Il simbolo della parola raffigura un picchetto, ossia ciò che
designa l’asse, la stabilità interiore, la lealtà incorruttibile verso il
benessere del proprio popolo, la capacità di non essere influenzati da
interessi personali nell’adempiere alla propria missione. Il rimando
alla scena del Vangelo in cui Gesù lava i piedi ai suoi discepoli è
evidente; tale compito era infatti una consuetudine dei servi.
Sempre al concetto di servizio è legato il termine SACERDOTE,
hem neter, in geroglifico

letteralmente SERVO DI DIO.


L’epiteto hem assume un’importanza fondamentale nella
tradizione egizia e rappresenta molto di più di una semplice nozione,
simboleggia la PASSIVITÀ VIVENTE, lo stato di non volontà
personale. Tale condizione interiore è l’unica in grado di accogliere
l’impulso di saggezza, di captare la Luce divina e di conoscere
infallibilmente i principi universali. Ecco la vera maestà regale.
Lo stesso concetto viene veicolato dalla tradizione cinese con il
termine wu wei, in ideogrammi

traducibile come NON AZIONE, da non confondersi come


indolenza o pigrizia. Essa è da intendersi piuttosto come un’azione
disinteressata, scevra dall’attaccamento al risultato, dalle aspettative
di poterne cogliere e gustare i frutti.
Il wu wei è il fine della saggezza, potremmo anzi dire che è
l’attuazione stessa della saggezza. Il sapiente non è infatti mai
immobile, è sempre attivissimo ma completamente libero da ogni
secondo fine che non sia quello di agire per amore della vita e in
equilibrio con essa.

104
Occorre dunque uno sforzo elevato per comprendere la
profondità di questo messaggio, giacché la prospettiva vitale radicata
nelle nostre cellule è viziata da una forte cultura utilitaristica, per la
quale ogni nostra azione deve mirare ad un preciso fine, sia esso
materiale od affettivo, anche a scapito del benessere altrui. E il
problema non si esaurisce qui, dato che nella maggior parte dei casi
coloriamo ogni nostra azione con splendide motivazioni altruistiche,
senza valutare realmente ciò che ha mosso l’agire.
Eppure ritroviamo in tutte le dottrine la necessità di divenire
consapevoli delle reali cause che muovono la nostra vita, per
trasmutare infine la volontà personale nella volontà di Dio. Possiamo
infatti leggere ciò che Krishna insegna ad Arjuna:

Compi sempre i tuoi doveri senza essere attaccato ai risultati,


perché colui che compie il suo dovere senza alcun
attaccamento raggiunge il Supremo. [...] Così come
l’ignorante agisce per attaccamento al frutto dell’azione, o
discendente di Bharata, anche il saggio compie il proprio
dovere, ma senza attaccamento, per beneficiare il mondo.
[…] Coloro che desiderano il successo nelle attività
interessate adorano gli esseri celesti in questo mondo, perché
tale metodo permette di ottenere molto velocemente il
successo nell’azione interessata.23

Tali parole esprimono con chiarezza e forza il fine cui un sentiero


spirituale deve condurre, e ne evidenziano efficacemente anche il
grosso pericolo insito nel percorso: lasciarsi sedurre dalle
potenzialità che ogni dottrina veicola per volgerle a proprio
vantaggio.
Sempre più spesso possiamo infatti leggere o entrare in contatto
con nuovi metodi e sistemi che, facendo riferimento ad antiche
tradizioni, provano a riattarne gli insegnamenti promettendo un
sicuro successo nella vita economia ed affettiva. Ma non è questo il
fine dei percorsi spirituali nella loro purezza, non lo è mai stato né
mai lo sarà. Ciò non significa che sia semplice superare la propria
volontà personale, ma è sicuramente disonesto e pericoloso
nascondere i propri limiti con alibi spirituali.

23
Bhagavad Gita, (III, 19; III, 25; IV, 12).

105
Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno
dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non
abbiamo forse profetato nel tuo nome, e col tuo nome
abbiamo cacciato i demoni e col tuo nome abbiamo fatto
molti prodigi?” E allora dirò loro apertamente: “Mai vi
conobbi. Allontanatevi da me operatori di iniquità”.24

Non è sufficiente aderire con fervore ad una fede religiosa per


avvicinarsi al divino. Accogliere nuove idee e convinzioni ed
assumere un nuovo linguaggio ricco di termini spirituali,
mantenendo però sostanzialmente inalterato il proprio modo di
rapportarsi con il mondo, equivale semplicemente a colorare con
nuove tinte la stessa parete.
La verità è che dietro la cosiddetta “parola Dio” ci si può
nascondere meglio di qualsiasi altra cosa; essa può voler dire tutto o
niente. In suo nome può alimentarsi comodamente ogni sorta di
desiderio egoico, così come può essere attinta quella forza in grado
di far nascere un nuovo nucleo vitale. La differenza la potrà stabilire
ognuno per sé, nel proprio intimo, purché il livello di onestà
interiore sia tale da permettere di affrontare con coraggio le dure
verità che si potranno incontrare.
Di conseguenza, il servizio disinteressato può facilmente
confondersi con un falso umanitarismo, nel quale, dietro a grandiose
opere in favore del prossimo, si celano sottili interessi più o meno
consapevoli di auto-affermazione o di un “riconoscimento” dalla vita
pari alle energie investite.
Per quanto non si possa non essere grati a tutti coloro che
svolgono attività di aiuto, per amor del vero sarà comunque
importante una profonda riflessione sulle motivazioni soggiacenti,
non per ritornare sui propri passi, bensì per elevare in senso
realmente spirituale una così nobile impresa. Le parole di Schwaller
de Lubicz corrono in aiuto per comprendere meglio cosa significa
votarsi al servizio:

24
Vangelo (Mt 7,21).

106
significa voler dare e poter dare; significa saper attingere alla
fonte inesauribile e offrire questo alimento a coloro che
hanno fame e sete, nella forma che a loro si confà.
L’Altruismo è il criterio per riconoscere l’uomo che
oltrepassa l’umanità.25

Risulta forse ora ancora più chiaro quanto sia difficile giudicare
dal di fuori la purezza o meno di un’azione altruistica. Grandi
personaggi noti per la loro propensione al prossimo possono in realtà
nascondere doppi fini di carattere personale, mentre altri individui
sconosciuti che agiscono nella loro sfera vitale con piccoli gesti
sinceri possono incarnare pienamente la passività vivente, liberi da
ogni vincolo egoico.
In conclusione, è importante considerare che l’analisi del
concetto di volontà divina rimanda subito all’idea di enormi imprese,
di gesta eclatanti che necessitano di una certa mole di energia per
essere attuate. Nulla di più lontano dalla realtà. Ogni dottrina
sottolinea che la Via è per tutti e alla portata di tutti, ed è proprio
nelle piccole cose che essa può e deve essere vissuta e sperimentata.
Occorre dunque vigilare affinché l’idea di una “inarrivabile Volontà
di Dio” non diventi una buona giustificazione per la propria pigrizia
interiore.

25
R.A. Schwaller de Lubicz, Verbo Natura, Tre Editori, Roma, 1998.

107
108
La ricerca di Ak-Yb-Ka

III.

CON NUOVI OCCHI

Circa un anno trascorse dall’emozionante incontro con il


faraone, padre spirituale d’Egitto. Pochi attimi, ma quale intensità!
Al ricordo di tutte le certezze e conoscenze con le quali giunse
fino a quel magico momento, un lieve sorriso gli si impresse sul viso.
Era ancora viva infatti la dolorosa ma liberatoria sensazione
provata nel trovarsi faccia a faccia con la sfinge. Quante illusioni
coltivate e quante chimere inseguite! Mai avrebbe prima di allora
immaginato come molte conoscenze potessero essere proposte sotto
le mentite spoglie di insegnamenti spirituali. Quanti inganni sul
Cammino! Ma nessun rimpianto sfiorava il suo cuore; egli sapeva
che tutto quanto aveva compiuto con la massima intensità gli aveva
comunque permesso di raggiungere quel luogo, o meglio
quell’intima sfera vitale.
Quanta severità dovette poi fronteggiare da parte dei maestri.
Quante liti e incomprensioni si sono consumate con i suoi compagni.
Fino a maturare lentamente, ma sempre più limpidamente, come in
realtà la sua ricerca spirituale fosse principalmente trainata da
desideri di auto-affermazione che nulla avevano in comune con la
purezza poi assaporata. Tutto quello che pensava di aver
conquistato per potersi meritare l’ingresso nel Tempio, è stato in
realtà tutto ciò che ha dovuto con sofferenza abbandonare, come
una zavorra pesante. In vista di quale gioia, però!
I padri della Scuola dei Misteri, a differenza di quanto lui aveva
sempre creduto, non smisero mai di seguire con attenzione e
compassione ogni passo da lui compiuto dal momento della sua
nascita in questa vita, ma non gli aprirono le porte della Scuola per
premiare le sue conoscenze acquisite, bensì per dare spazio a quella
sua predisposizione di cuore che rivelava una scintilla divina pronta
a destarsi alla vita.

109
Anche il faraone era ben consapevole di questa sua realtà
interiore, e la riconobbe subito al primo incontro. Per tale motivo lo
affidò direttamente alla protezione e alla guida del Grande Maestro
del Tempio d’Egitto, cui il faraone stesso si rivolgeva in segreto per
chiedere consiglio sulle questioni più difficili e delicate.
Severo l’insegnamento, ma delicata ed accogliente la Luce cui
esso conduce.
Ad Ak-Yb-Ka venne così rivelato il nome e l’aspetto di colui che
svolgeva una semplicissima vita in mezzo al popolo – a parità di
diritti e doveri – pur non essendo riconosciuto da esso per la sua
incommensurabile funzione spirituale. E fu per questo motivo che
venne chiesto al novizio di custodire per sempre in segreto tale
identità.

110
La Casa della Vita

Due livelli di insegnamento

Seguendo le diverse citazioni storiche e secondo quanto viene


tradizionalmente tramandato, nell’antico Egitto era presente una
forma di istruzione che potrebbe essere suddivisa in due livelli, non
necessariamente consecutivi l’uno all’altro.
Da un lato veniva impartita un’istruzione di tipo ordinario, con lo
scopo utilitaristico – ma necessario – di formare delle persone in
grado di soddisfare alcune esigenze sociali. Era questo il caso degli
scribi, il cui compito si concretizzava nell’amministrazione pubblica,
nella contabilità e nella stesura o riproduzione delle opere letterarie.
Dall’altro lato, per una cerchia più ristretta di persone, veniva
invece concesso di accedere ad un altro tipo di istruzione,
un’educazione superiore improntata sulla conoscenza dei principi
vitali che regolano l’esistenza.
La scuola all’interno della quale venivano impartiti questi due
livelli di istruzione prendeva il nome di CASA DELLA VITA, in
egizio per-ankh e in geroglifico

sede dell’insegnamento esteriore ed interiore.


Tale scuola era molto rinomata nel mondo antico, considerata
centro iniziatico per eccellenza, tanto che diversi grandi personaggi
divenuti noti nella nostra cultura occidentale furono formati proprio
all’interno di essa. Pensiamo ad esempio a Plutarco, Pitagora,
Platone, al Giuseppe biblico e, secondo alcune ipotesi storiche,
anche a Mosè.
La maggioranza del popolo invece, nonostante fosse molto
rispettoso dei culti religiosi e delle festività tradizionali dei neteru,
non prestava molta cura allo studio della scienza dello spirito, ma si
accontentava di ciò che più superficialmente veniva offerto in modo
letterale dalla mitologia.

111
In compenso, qualsiasi persona – indipendentemente dal sesso,
dall’età e dalla classe sociale di appartenenza – poteva risalire tutti i
gradini della scala del TEMPIO, hut neter, in geroglifico

letteralmente CASA DEL DIO, il cuore della Casa della Vita


adibito all’insegnamento interiore.
La terra d’Egitto è ancora oggi costellata da numerose opere
templari, erette sulla base di principi architettonici di inaudita
precisione e magnificenza. Ma non è a tali templi che ci si riferisce
in questo caso, bensì a quella CONOSCENZA SACRA da cui essi
traevano ispirazione, una conoscenza vitale ed impercettibile che
viveva e vivrà sempre attraverso i tempi indipendentemente da un
suo riconoscimento ufficiale o meno, e che gli egizi denominavano
rek, in geroglifico

dove l’ultimo segno – un papiro arrotolato e sigillato – mette in


risalto il fatto che l’occhio umano non è in grado di vederne lo
scritto, dunque deve ricercarne il senso non apparente tramite una
visione diversa da quella comune, oltre la logica e la razionalità: la
già citata intelligenza del cuore.
Tale simbolismo spiega il motivo per cui in alcune raffigurazioni
di dei, faraoni ed iniziati, li si può osservare con in mano un papiro
arrotolato: essi sono padroni di una scienza sacra che và al di là delle
parole, oltre il pensiero dialettico, e raggiungibile solo per
RIVELAZIONE, per intuizione diretta, non certo per una serie di
informazioni accumulate.
In Egitto vigeva dunque un sistema didattico proporzionato alle
capacità individuali, in grado di fornire ad ognuno gli elementi
necessari per stimolare l’interesse e le capacità di lavoro, ma
riservava l’insegnamento del Tempio a chi dimostrava di essere un
sincero cercatore, con la disponibilità ad accogliere una nuova

112
mentalità ed accettare senza riserve le forti responsabilità che una
scelta del genere imponeva.
Così come oggi, anche allora era infatti essenziale rispettare e
tutelare gli insegnamenti fondamentali come l’unico vero tesoro cui
l’essere umano possa ambire. Tale è il motivo per cui la cerchia
ristretta della sfera più interiore del Tempio, composta dai grandi
saggi – cui il faraone apparteneva non come figura dominante ma
come confratello paritario – prestava una particolare attenzione al
mantenimento del SEGRETO, seshetet, in geroglifico

da non considerarsi con il significato generalmente inteso nella


nostra lingua, ossia come qualcosa che si vuole nascondere, bensì
con una traduzione più corretta del termine: INACCESSIBILE. Tale
è infatti non ciò che è nascosto ma ciò che non si è in grado di
raggiungere o di conoscere per insufficienza di mezzi, di
consapevolezza.
Tale concetto è strettamente collegato alla parola SACRO, theser,
in geroglifico

letteralmente METTERE IN DISPARTE, ad indicare che ciò che


è sacro deve essere tenuto lontano dal profano per proteggerlo da
esso. Possiamo rievocare a tal proposito le parole di Gesù:

Non date la cosa santa ai cani, neppure gettate le vostre perle


davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e,
voltatisi, non vi sbranino.26

Anche per tale motivo l’insegnamento egizio si espleta attraverso


una modalità simbolica. Tutte le iscrizioni, la storia delle dinastie, le
mitologie, le raffigurazioni, possono essere considerate come
simboli, e in quanto tali possiedono diversi livelli di interpretazione

26
Vangelo (Mt 7,6).

113
via via più profondi a seconda dello stato di coscienza di colui che si
appresta a studiarli.
L’insegnamento faraonico era infatti esposto sotto gli occhi di
tutti, sui muri dei templi, sulle steli, obelischi, nelle tombe; eppure la
vera scienza era inaccessibile a coloro che non erano educati alla
mentalità dei saggi, non per avidità di sapere ma per evitare che tali
messaggi potessero essere travisati od utilizzati per fini egoistici.
È interessante considerate come il verbo INSEGNARE, seba, in
geroglifico

sia contraddistinto come segno finale da un uomo che tiene nelle


mani un bastone onde sottolineare la necessità di approcciarsi con
fermezza nel difficile compito della formazione, e di prestare dunque
molta attenzione nella sua delicata esecuzione.

Figura 29 – Raffigurazione alchemica della visione del Reale.

114
Il penultimo geroglifico – una stella – è invece la
rappresentazione simbolica per eccellenza dell’insegnamento; la
stella è infatti una guida luminosa nel buio della notte, nel caos
dell’esistenza. Lo stesso segno individua anche i concetti di PORTA
e di LUCE, precisando proprio il fatto che gli insegnamenti sono un
corpus di saggezze in grado di aprire la porta ed illuminare il
cammino verso un nuovo modo di vedere e vivere la vita, oltre le
apparenze (figura 29).

La meta della felicità

Per riprendere da un’altra prospettiva l’arte dell’insegnamento, è


importante considerare il verbo ISTRUIRE, suta yb, in geroglifico

che significa letteralmente RENDERE FELICE IL CUORE,


compito tanto nobile quanto arduo e gravoso.
Per gli egizi non poteva essere contemplata una conoscenza priva
di un cuore capace di contenerla e metterla a frutto. Ecco perché una
reale istruzione non poteva ridursi ad una mera trasmissione di
informazioni, ma doveva necessariamente passare tramite una
formazione dell’individuo, un risveglio delle sue particolari facoltà
creative. Possiamo leggere a questo proposito negli scritti di Seneca:

Ricordare è custodire ciò che è stato affidato alla memoria,


mentre sapere significa far proprie le nozioni apprese e non
star sempre attaccato al modello, con lo sguardo sempre
rivolto al maestro. Chi accetta passivamente il pensiero di un
altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo.27

L’obiettivo di ogni insegnamento non può che essere la felicità


dell’allievo, la sua capacità di adattarsi alla vita muovendosi in essa

27
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano, 2002.

115
con flessibilità ed armonia, e ciò può realizzarsi solo tramite la
riscoperta di uno stile strettamente personale. Ogni altra forma di
indottrinamento non si potrà mai definire realmente formativa e
costruttiva, ma piuttosto un modo per ricalcare sterilmente idee
altrui.
Sorge però il problema di comprendere cosa si intenda per
felicità, dato che intorno a questa parola si raggruppano spesso i
significati più disparati. Se è pur vero che la maggior parte di noi
condivide il fatto per cui dietro tutti i desideri che riempiono la vita
si nasconde la speranza di raggiungere definitivamente una tale
condizione, è anche vero che difficilmente ci soffermiamo nel
cercare di capire a fondo cosa essa sia.
Potremmo allora partire dall’analisi di ciò che non è la felicità.
Siamo infatti generalmente portati ad identificarla con l’entusiasmo,
ma a ben vedere esso è solo una saltuaria scossa emotiva destinata
presto a svanire per lasciare il posto ad una sensazione contraria di
pari intensità.
Alcuni pongono invece il fine della felicità nel raggiungimento di
una stabilità economica o nel mantenimento di una buona salute, o
ancora nella realizzazione delle proprie ambizioni di notorietà,
carriera lavorativa, eccetera.
La cruda verità è che nulla di tutto questo riesce mai ad
acquietare e soddisfare definitivamente la nostra ricerca; come veri e
propri tossicodipendenti ritorniamo in breve tempo alla carica per
colmare nuovamente una profonda insoddisfazione.
Come potrebbe infatti una reale serenità d’animo dipendere da
eventi esterni? La natura stessa della vita è impermanente e
imprevedibile. Vincolare dunque un’idea di felicità a condizioni
esistenziali incontrollabili equivale a costruire una casa sulle pendici
di un vulcano attivo. Diviene dunque indispensabile un cambio di
rotta per concentrare la ricerca direttamente all’interno.
Il concetto di felicità viene espresso nella scrittura sacra egizia
per mezzo della parola au-yb, definibile anche come GIOIA, in
geroglifico

116
che significa letteralmente LARGHEZZA DI CUORE, in
esplicita contrapposizione ad un atteggiamento di contrazione, di
chiusura verso la vita e le altre persone.
La vera gioia è dunque la capacità di condividere il proprio
cammino con il prossimo, metterne al servizio le esperienze affinché
possano arricchire quelle altrui, sapersi porre in discussione per
poter accogliere altri punti di vista, offrire il proprio aiuto ogni qual
volta le situazioni lo richiedano.
In così poche parole può dunque racchiudersi il segreto della
felicità? Secondo la dottrina egizia, sì. Nulla di occulto, nulla di
complesso. La semplicità più disarmante. Eppure, bastano pochi
tentativi per toccare con mano quanto il nostro modo d’essere sia
lontano da una spontaneità del genere.
Potremmo leggere tutta la vita i più diversi testi sacri,
memorizzarne gli insegnamenti carichi di amore verso il prossimo,
ma rimanere negli anni esattamente quelli di sempre, con le proprie
paure, insicurezze, avidità, invidie. Certo, forse con qualche sforzo
di volontà potremmo ricalcare più o meno goffamente qualche
amorevole atteggiamento, ma presto o tardi una tale finzione sarebbe
destinata a smascherarsi. Quindi? Esiste una via di uscita?
I saggi egizi riconducono ancora una volta l’esame del problema
negli aspetti più quotidiani e semplici dell’esistenza. Non abbiamo
infatti altre unità di misura per conoscerci se non le nostre stesse
azioni, i fatti concreti con cui costruiamo giorno per giorno la nostra
esistenza. Ogni altra analisi rischia di dissolversi in elucubrazioni
mentali fine a se stesse. Non saranno i nostri splendidi ideali o le
nostre ambizioni spirituali a certificare chi siamo realmente.

Un giorno Omar morì. Nel suo nuovo stato di realtà, apprese


i segreti del cielo e della terra e anche le destinazioni dei suoi
simili nei regni dell’altra vita. Così, fece una scoperta
straordinaria. Un suo amico asceta sarebbe finito tra le
fiamme dell’inferno, mentre un potente re avrebbe goduto
delle gioie del Paradiso! Sconcertato, Omar domandò a un
arcangelo il motivo di quella strana sorte. Lo spirito rispose:
“Non stupirti per ciò che hai visto e che accadrà nel futuro. È
un giusto destino. L’asceta infatti viveva in solitudine, senza
affetto per il prossimo. Mentre il re era sempre in contatto

117
con la gente, elargendo benefici. Perciò, finché ti basi sulle
apparenze, come puoi penetrare la volontà di Dio?”28

Noi possiamo sentirci profondamente generosi, possiamo anche


presentare ad altri questo aspetto come nostro tratto caratteriale, e
trarre conferma da ciò per il fatto che nel vedere i senza tetto ai
margini della strada ci rattristiamo, e ci impietosiamo nel leggere
notizie di bambini nel terzo mondo che a stento riescono a procurarsi
una porzione di cibo.
Ma se dalle nostre tasche non uscirà fattivamente un solo
centesimo, se ad ogni moto di compassione corrisponderà un’ottima
giustificazione per non compiere nessun passo concreto verso l’altro,
allora tutta la nostra generosità rimarrà unicamente una pia illusione,
uno spregevole auto-inganno per colmare la paura di osservare
quello che realmente siamo. Solo da lì possiamo infatti partire per
dar vita a qualcosa di diverso. Il buon Dante insegna che per
giungere alla più alta vetta del paradiso, occorre prima passare
attraverso tutto l’inferno. Non esistono scorciatoie!

Il valore dell’amicizia

Per gettare un ponte sull’abisso che sembra separare il sentimento


di puro Amore verso il prossimo dal caos di contraddizioni che
accompagnano costantemente le nostre azioni quotidiane, la
tradizione egizia pone in risalto il concetto di amicizia come il
sentimento divino a noi più vicino.
La parola AMICO, ak-yb, in geroglifico

significa letteralmente COLUI CHE PENETRA ALL’INTERNO


DEL CUORE, descrizione che delinea chiaramente il profondo
valore del termine. Strettamente legata ad esso compare anche la sua
caratteristica basilare, uba-yb, in geroglifico

28
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.

118
traducibile sia come PENETRARE NEL CUORE che come
OTTENERE LA CONFIDENZA, una condizione essenziale che ne
sottende velatamente molte altre: intimità, disponibilità, sincerità,
lealtà, discrezione e affetto.
Forse sono proprio queste ultime qualità ad ergere l’amicizia
come il veicolo più sacro per mezzo del quale si può manifestare la
rivelazione divina. Basti pensare all’epopea della Bhagavad Gita,
dove il Signore si cela dietro le vesti del suo fedele amico per
iniziarlo alla scienza del Vero. Ma troviamo riferimenti espliciti
anche nel Vangelo.

Questo è il mio comandamento: che vi amate gli uni gli altri,


come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di
quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici,
se fate le cose che io vi comando.29

Da sottolineare il fatto che non viene richiesto di morire per i


propri amici, ma di donare la propria vita, quindi di metterla al loro
servizio, senza annullare se stessi ma in virtù di un’unione capace di
valicare i limiti ordinari per attingere ai livelli più puri
dell’esistenza. Chiunque di noi può infatti toccare con mano come
condividendo con un amico fidato un problema, questo perda subito
di quell’eccessiva importanza che lo poneva poco prima in una
condizione di insuperabilità, lasciando così emergere un nuovo
punto di vista più ricco.
È infatti evidente che l’amicizia di cui si parla non è quel legame
illusorio che spesso unisce le persone per farle condividere momenti
di superficialità dietro ai quali non sussiste nulla, ma si tratta di una
condivisione per crescere insieme, per sostenersi l’un l’altro in vista
di una riscoperta della gioia della vita.

29
Vangelo (Gv 15,12-14).

119
Se mi fosse concessa la saggezza, a patto di tenerla nascosta
in me, senza comunicarla ad altri, la rifiuterei: nessun bene ci
dà gioia, senza un compagno.30

L’amicizia è quanto di più naturale e semplice si possa fare


esperienza, al di là di ogni credo, religione o concetto spirituale,
ciascuno di noi tende spontaneamente a riconoscerle un valore
fondamentale per la propria vita. Grazie ad essa è possibile mettersi
in gioco e misurarsi senza sosta, e più la sincerità e la franchezza
conquisteranno spazio, più lo specchio in cui riflettersi sarà limpido.
Le tradizioni ci offrono un preziosissimo regalo ponendo il
sentimento dell’amicizia sullo stesso piano di quello dell’Amore. Si
potrebbe quasi affermare che in tal modo viene posta alle strette ogni
tentazione di fuga dai nostri limiti caratteriali per divagare su
speculazioni teorico-filosofiche che rischiano di allontanarci dalla
verità di noi stessi.
Spesso e volentieri, infatti, preferiamo fuggire dalla semplicità
perché ci sentiamo forse disarmati di fronte ad essa, e ricerchiamo
rifugi più scomodi ma più sicuri nei momenti di meditazione,
preghiera, studio o ritualità in cui, tutto sommato, siamo soli con le
nostre illusioni e quindi al riparo da confronti scottanti.
Per quanto tutte queste forme di cerimonialità possano essere
estremamente sacrali ed importanti, occorre vigilare con severità sul
rischio di trasformarle in nascondigli per i propri limiti egoici;
facilmente esse possono venire travisate per assumere l’aspetto di
allettanti alibi spirituali con cui isolarsi dalle problematiche
relazionali quotidiane.

Se dunque presenti il tuo dono sull’altare e là ti ricordi che


tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti
all’altare e và prima a riconciliarti con tuo fratello, e dopo
ritorna presentando il tuo dono.31

Una significativa storiella indiana narra di un topolino che per


sventura si ritrovò a vagare nel freddo della notte per un alto valico
di montagna. Estremamente infreddolito ed affamato, scorse in

30
Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano, 2002.
31
Vangelo (Mt 5,23).

120
lontananza una piccola luce provenire da una grotta non molto
distante da lui. Senza pensarci troppo, si diresse subito verso
quell’apertura. Giunto all’ingresso, vide all’interno un vecchio
asceta seduto in meditazione vicino al fuoco e con al fianco una
sacca colma di cibo. Il topolino, superando per la fame le sue
titubanze, raggiunse i piedi del monaco per spronarlo leggermente
con la sua zampina; ma il vecchio non sembrò dargli molto peso,
scuotendo semplicemente il piede per allontanarlo. Il topolino,
credendo di avergli fatto solo solletico, gli si rifece appresso
scuotendogli con più forza il piede. A questo punto l’asceta aprì gli
occhi, vide il topolino, e lo allontanò con più decisione
rimproverandolo: “Topo! Come osi disturbarmi nella mia
meditazione trascendentale? Non capisci che io sto raggiungendo
l’unione con Dio? Và dunque a disturbare qualcun altro!” Il topolino
rimase alcuni secondi a fissare con occhi spiaciuti e increduli il
monaco, poi disse: “Sono giunto fin qui a disturbarti perché sono
infreddolito ed affamato, mi sarebbe bastato molto poco per trovare
sollievo. Se non sei dunque in grado di unirti con un piccolo topo
come me, come potrai mai unirti con Dio?” Detto ciò, si girò con
delusione ed uscì dalla caverna.

L’Insegnamento Universale

Si tramanda che ogni dottrina spirituale nella sua purezza – non


edulcorata nel corso della storia per fini utilitaristici – sia portavoce
di un unico Insegnamento Primordiale che da sempre accompagna
ed accompagnerà l’essere umano, pur adeguandone il linguaggio e il
simbolismo al periodo culturale del momento.
Stiamo dunque parlando di un insegnamento immortale ed
eterno, ossia al di fuori del tempo e dello spazio, alla cui vitalità si
può accedere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. Ecco perché
tutti coloro che ergono la propria tradizione sopra un piedistallo
comparandola alle altre, hanno già compiuto un primo passo di
allontanamento da essa.
Gli antichi saggi egizi erano perfettamente consapevoli di tale
realtà, liberi dalla superbia e dall’arroganza di considerare la loro
conoscenza la sola ed unica strada per giungere al divino. In

121
profondo contatto con l’Insegnamento Universale, i loro sforzi erano
semplicemente tesi a tradurne il messaggio tramite un simbolismo
naturale consono al luogo e alla cultura in cui vivevano.
Un’antica leggenda narra che Buddha, dopo aver donato agli
uomini la dottrina per un nuovo risveglio spirituale ed aver così
lasciato questo mondo al termine dalla sua missione, constatò che in
seguito alla sua apparizione si scatenarono terribili lotte tra i
sostenitori e conservatori dell’induismo e i portavoce del nuovo
buddismo. Il Maestro, il cui unico fine era quello di servire
l’umanità portando ad essa un messaggio di amore e libertà, soffrì
profondamente nel veder compiere omicidi nel suo nome. Decise
allora di tornare sulla terra circa dodici secoli dopo la sua scomparsa,
assumendo la nuova identità di Shankara il Sublime. Egli insegnò la
sintesi di tutta la saggezza divina contenuta nei Veda, nelle
Upanishad e negli insegnamenti buddisti, mostrando come
parlassero in realtà della medesima natura interiore e di come
perseguissero lo stesso obiettivo, pur utilizzando linguaggi e
simbologie differenti.
Attraverso questa prospettiva, possiamo subito renderci conto in
quale particolare momento storico ci ritroviamo oggi a vivere. La
velocissima globalizzazione degli ultimi anni – fenomeno del tutto
nuovo per la civiltà umana – sta causando una sempre più evidente
compenetrazione di razze, culture e usanze. Ciò ha permesso alle
diverse filosofie spirituali di divenire manifeste potenzialmente per
chiunque; un’occasione tanto meravigliosa quanto pericolosa.
Meravigliosa perché i diversi linguaggi si confanno alle più
disparate strutture mentali che tanto ci contraddistinguono gli uni
dagli altri, offrendo l’opportunità di perseguire il medesimo
cammino pur partendo da presupposti apparentemente tanto diversi.
Pericolosa perché le diverse dottrine possono da un lato essere
osteggiate e giudicate ponendosi nella rigida e fanatica prospettiva di
una sola di esse, o dall’altro lato essere inserite con estrema
leggerezza in un unico calderone caotico che rischia di confonderle e
denaturalizzarne. Ogni dottrina esige infatti uno studio e una sua
applicazione seria e meticolosa.

122
Figura 30 – La gamba sinistra avanti sul Cammino:
“Questa strada ha un cuore?Se lo ha, la strada è buona.”

Per comprendere meglio questo concetto poniamoci molto


banalmente nei panni di un grande amante dell’esercizio fisico.
Costui potrebbe irrigidirsi nella passione per un’unica attività
sportiva denigrando tutte le altre, escludendo in tal modo dalla sua
vita la gioia di poter condividere e accogliere nuovi spunti di
riflessione in grado di migliorare la sua stessa materia ginnica.
Oppure potrebbe saltare qua e là svolgendo superficialmente e
saltuariamente diverse discipline sportive, ma anche in questo caso
rimarrà inconcludente e una sensazione di insoddisfazione lo
accompagnerà sempre, non potendo capire a fondo quella particolare
coscienza fisica cui può condurre solo una seria a costante
applicazione. O, ancora, potrebbe prediligere un’unica attività

123
sportiva fra le tante, a lui più affine e più in sintonia, perseguirla con
passione e dedizione, ma senza per questo considerare di minor
importanza tutte le altre, né tantomeno tirarsi indietro laddove le
circostanze offrano la possibilità di confrontarsi con esse e di
sperimentarle per arricchirsi di nuove prospettive.
Emerge dunque con evidente urgenza la necessità di palesare più
chiaramente il filo d’oro che da sempre lega ed anima ogni dottrina
spirituale. Compito assai arduo per lo stato di consapevolezza, di
chiarezza e di onestà che un tale lavoro richiede.
Il mondo attuale offre miriadi di offerte spirituali attraverso libri,
corsi, stage, scuole, facenti riferimento alle diverse tradizioni o al
mondo della scienza moderna. Innanzitutto, è importante evidenziare
come primo elemento discriminatorio il fatto che un reale percorso
di consapevolezza non potrà mai passare tramite una didattica di tipo
informativo, ma unicamente per mezzo di una trasmissione
formativa.

La conoscenza gonfia, l’amore edifica.32

Un altro fondamento su cui poggia un vero cammino iniziatico è


la necessità di orientare tutta la vita dell’aspirante intorno al concetto
di cuore, un atteggiamento che potremmo altresì definire come un
sano egoismo di conoscenza interiore il cui fine è volto al puro
servizio altruistico, ma analizzeremo maggiormente questo aspetto
in seguito. Emblematiche appaiono a tal proposito le parole che
rivolge don Juan al suo apprendista Carlos Castaneda:

Tutto è solo una strada tra tantissime possibili. Devi sempre


tenere a mente che una strada è solo una strada; se senti che
non dovresti seguirla, non devi restare con essa a nessuna
condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi
condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi
strada è solo una strada e che non c'è nessun affronto, a se
stessi o agli altri, nel lasciarla andare se questo è ciò che il
tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo desiderio di insistere sulla
strada o di abbandonarla deve essere libero dalla paura o
dall'ambizione. […] Ti avverto. Guarda ogni strada

32
Bibbia, Prima lettera ai Corinzi, 8:1.

124
attentamente e deliberatamente. Mettila alla prova tutte le
volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te
stesso soltanto, una domanda […]: Questa strada ha un
cuore? Se lo ha, la strada è buona. Se non lo ha, non serve a
niente.33

Ciò è letteralmente scolpito nella pietra nella tradizione egizia. In


ogni statua che ritrae un iniziato o un essere divino in movimento, si
può infatti notare come compaia sempre la gamba sinistra in avanti –
lato organico in cui è situato il muscolo cardiaco – a simboleggiare il
fatto che ogni azione deve essere mossa in virtù del proprio cuore
(figura 30). Ogni passo compiuto nella vita non può prescindere da
questo.

La funzione di un maestro e di una scuola

Altro elemento essenziale per intraprendere un percorso di


conoscenza di sé è l’ingresso in una scuola adibita allo svolgimento
di tale compito, e ciò apre una serie non indifferente di parentesi e
precisazioni.
Organizzazioni di questo tipo vedono generalmente contrapporsi
due differenti schieramenti di pensiero: da un lato coloro che non
accettano la figura di un maestro di riferimento, dall’altro coloro che
fondano la loro ricerca sull’emulazione di una persona riconosciuta
come leader spirituale. La storia religiosa è costellata da questo
dibattito, in molte occasioni anche in seno alla medesima corrente
spirituale.
La saggezza egizia si svincola da una simile dualità di carattere
tipicamente umano e poco divino, senza schierarsi per nessuno dei
due arroccamenti ma muovendosi in mezzo ad essi con equilibrio,
flessibilità e, soprattutto, con la consapevolezza di ciò che il
momento presente può offrire.
Abbiamo introdotto questo capitolo parlando della sede
dell’insegnamento esteriore ed interiore, adibita quindi alla
formazione di una coscienza morale e razionale in grado di
permettere solo successivamente lo sviluppo di una vera coscienza
33
Carlos Castaneda, Gli insegnamenti di don Juan, Rizzoli, Milano, 1999.

125
spirituale. Tale organizzazione era dunque una vera e propria Scuola,
riconosciuta e rispettata da tutta la popolazione come il più elevato
centro di formazione in grado di condurre un individuo verso il
contatto con la sfera più profonda di sé.
È interessante osservare come il suo nome, per-ankh, non si
traduce però con il termine scuola della vita ma con casa della vita.
Evidenziando brevemente una differenza tra le due parole, emerge
spontaneamente il fatto che la casa contraddistingue un ambiente più
familiare, più intimo, confidenziale, in cui determinate dinamiche
caratteriali si manifestano più facilmente sotto gli occhi di tutti, ed in
cui la solidarietà quotidiana trova un terreno più fertile.
Inoltre il concetto di casa fa piazza pulita di ogni illusoria
convinzione o speranza di poter raggiungere una qualsivoglia vetta
spirituale in piena autonomia e solitudine. Se è pur vero che la
ricerca non può che essere strettamente personale, è altrettanto vero
che necessita vitalmente di un continuo confronto con i propri simili.

La conoscenza di noi stessi affiora quando siamo consapevoli


delle nostre relazioni nelle quali ci riveliamo per quello che
siamo, di momento in momento. La relazione è uno specchio
nel quale ci vediamo come effettivamente siamo. Ma la
maggior parte di noi non sopporta di vedersi per quello che è;
così immediatamente cominciamo a condannare o a
giustificare quello che vediamo. Giudichiamo, valutiamo,
confrontiamo, neghiamo o accettiamo, ma non osserviamo
mai sul serio quello che è. Questa sembra essere la cosa più
difficile e tuttavia è l’unica che ci consenta di accostarci alla
conoscenza di noi stessi. […] Ed è solo allora che la mente
sarà libera di scoprire quello che è al di là del pensiero.34

Quale ambiente migliore dunque di un gruppo di persone che si


ritrovano all’interno di un clima familiare per condividere un
medesimo obiettivo? Non mancheranno certo le difficoltà dovute al
relazionarsi con punti di vista estremamente differenti, con abitudini
differenti, con approcci differenti, ma sarà proprio il confronto con
essi a mettere in gioco i propri meccanismi profondi, in virtù di una
reale e sincera accettazione.

34
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.

126
Sempre collegato al concetto di casa fa seguito il concetto di
maestro, la cui parola non trova realmente spazio nella lingua sacra
se non per mezzo del termine yty, in geroglifico

il cui significato letterale è semplicemente PADRE. Non esiste


dunque reale distinzione tra un padre fisico e un padre spirituale; in
entrambi i casi viene contraddistinta una persona che si prende cura
di un figlio – o allievo – con l’obiettivo di renderlo autonomo e
responsabile nei confronti della vita.
L’utilizzo di questa parola ha causato nel tempo non poca
confusione nelle traduzioni dei testi sacri egizi, lasciando sempre
aperto il dubbio sul suo riferimento carnale o spirituale. Ma il
significato si estende ancora oltre, ponendosi al di là dei comuni
concetti di maestro e guru cui siamo attualmente abituati, e
aiutandoci a porre più chiarezza in essi.
Considerando infatti il prototipo ideale di padre – o di madre,
ovviamente – la maggior parte di noi converrà nel fatto di come la
sua funzione non sia in nessun modo quella di condurre il proprio
figlio ad imitarlo, ricalcandolo goffamente come copia, né
tantomeno quella di spingerlo a confermare le sue aspettative. Il vero
padre è infatti colui che, mosso unicamente dall’Amore, sprona il
figlio a ricercare la sua vera natura, anche se questo volesse dire
condurlo fisicamente lontano da sé o razionalmente al di fuori dei
propri concetti di bene e male. Il puro spirito paterno non è
macchiato da doppi fini legati a desideri personali, ma è in grado di
calarsi completamente nel cuore del figlio per suggerirgli i passi da
compiere, e tutto ciò nel pieno rispetto della sua libertà o volontà di
perseguire altre strade da quella consigliata.
Laddove un tale spirito si manifesta, sia attraverso una scuola, un
amico, un marito, una moglie, uno sconosciuto, e così via fino ad
accogliere ogni possibile sfaccettatura con la quale la vita si rivela, lì
si potrà vivere l’esperienza di imparare da un maestro.

Un derviscio disse: “Un giorno, finalmente, decisi di


incamminarmi sul sentiero. Tuttavia, non sapevo come
procedere. È strano: fu un cane a suggerirmelo! Si era

127
fermato davanti a una pozzanghera e la sua figura si rifletteva
nell’acqua. Subito mi accorsi che era impaurito e non
smetteva di contemplare la sua immagine. In realtà, credeva
che un altro cane lo stesse minacciando. Ecco perché non si
muoveva, per paura di essere attaccato! Ma poi, finalmente,
vinse l’esitazione e si gettò nella pozzanghera. Fu allora che,
come per incanto, l’altro cane svanì, lasciandolo padrone del
campo. Riuscite ora a capirmi, se vi dico che fu un cane a
indicarmi la Via?”35

Ovviamente vi sono molti individui che si proclamano


apertamente maestri, guru o guide spirituali, e in molti casi
potremmo con cognizione di causa parlare di falsi profeti, laddove il
loro intento si concretizza nel voler nutrire la personale autostima,
conducendo i relativi discepoli verso il percorso e la realizzazione di
dogmatici e limitativi ideali di vita. Ma se un cieco guida un altro
cieco, entrambi cadranno nel fosso. Personaggi del genere non
sarebbero nemmeno degni di nota, se non per evitare di equipararli
frettolosamente a molti reali messaggeri dediti a servire l’umanità
dalla notte dei tempi, celati a volte dietro le vesti più impensate.
Diviene quindi estremamente relativo negare o accettare
tassativamente la figura di un maestro, idem per quanto riguarda
l’autorità o meno di una scuola, criticando magari l’assenza di una
figura realmente realizzata che possa guidare impeccabilmente i
passi degli allievi. Ancora una volta infatti, si potrebbe affermare
che la vita batte le opinioni dieci a zero; ad ognuno di noi spetta di
vivere con la massima intensità ciò che le circostanze possono
offrire, senza precludersi esperienze sulla base di concettualizzazioni
a priori.
Chi di noi avrebbe il coraggio di disconoscere un gruppo fraterno
di persone con cui poter condividere un reale percorso di
smascheramento delle proprie illusioni? O chi di noi non vorrebbe
stare vicino ad un individuo nel quale si riconosce una pura
espressione cristica?
Il tema forse più importante da affrontare, sembra ricadere ancora
una volta su se stessi: ricercare la perfezione di una scuola o di una
guida spirituale a cui si possa con tutta tranquillità e sicurezza

35
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.

128
delegare la propria evoluzione personale, è una contraddizione in
termini. Niente e nessuno potrà mai compiere una ricerca interiore al
posto nostro, ma al limite solo offrire spunti di riflessione.
Emblematiche sono state le parole di Krishnamurti il giorno in cui
rifiutò ufficialmente la nomina di nuovo messia:

Io sostengo che la Verità è una terra senza stranieri, e che non


potete accedere ad essa attraverso nessun sentiero, nessuna
religione, nessuna setta. […] Nel momento in cui avrete
compreso questo, vedrete come non è possibile organizzare
una fede. La fede è una cosa strettamente individuale, e non
potete e non dovete organizzarla. Se lo fate essa muore, si
cristallizza, diventa un credo, una setta, una religione da
imporre ad altri. […] La Verità non può essere portata al
nostro livello, siamo piuttosto noi che dobbiamo fare lo
sforzo di salire al suo. Non potete portare la cima della
montagna nella valle. […] Se un’organizzazione è creata per
questo scopo, diventa una stampella, un fattore d’invalidità,
una catena, e necessariamente azzoppa l’individuo e gli
impedisce di crescere, di dare forma alla sua unicità, che
risiede nella scoperta personale dell’assoluta e incondizionata
Verità. […] Quando io vi dico che dovete cercare dentro di
voi se volete trovare l’illuminazione, la gloria, la
purificazione, l’incorruttibilità del sé, nessuno di voi è
disposto a farlo. Possono essercene alcuni, ma sono molto,
molto pochi. […] Ma quelli che veramente desiderano capire,
che stanno cercando ciò che è eterno, senza inizio né fine,
cammineranno insieme con più ardore, e saranno un pericolo
per tutto quanto è inessenziale, per ciò che non è reale, per le
ombre. […] Per quell’autentica amicizia, che voi non
sembrate conoscere, ci sarà reale cooperazione da parte di
ciascuno. E questo non perché ci sia l’autorità, non perché ci
sia la salvazione, ma perché si comprende realmente e quindi
si è capaci di vivere nell’eterno. Questa è una cosa più grande
di ogni piacere, di ogni sacrificio.36

Per quanto difficile sia da accettare e, ancor di più, da vivere, non


possiamo esimerci dal riconoscere che qualsiasi occasione

36
Krishnamurti, citazione in Mary Lutyens, La vita e la morte di Krishnamurti, Ubaldini,
Roma, 1990.

129
esperienziale veicola in sé una benedizione e una maledizione allo
stesso tempo. Benedizione in quanto la vita può concederci più
facilmente l’occasione di entrare a contatto con una parte più vera di
noi, tramite l’aiuto di persone che stanno compiendo un percorso
analogo e che ci possono offrire un apporto in tale direzione;
maledizione in quanto la sensazione di appagamento verso le proprie
sicurezze può spingerci ad accomodarci e a creare alibi per non
accettare le proprie responsabilità.
È invece essenziale non dimenticare mai che potremmo
trascorrere tutta la nostra vita in compagnia di cento persone
realizzate e pur giungere alla fine senza aver apportato nessun reale
cambiamento dentro di noi. Se anche Cristo nascesse mille volte a
Betlemme, ma non in noi, saremmo nondimeno perduti, scrisse
Angelus Silesius. Oppure potremmo non conoscere nulla in merito a
concetti spirituali di evoluzione e liberazione, e nonostante ciò
riuscire a risvegliare quella scintilla divina che giace assopita nei
recessi del cuore.

Un’associazione o un gruppo a solo scopo di conservazione o


di trasmissione della conoscenza è un nonsenso, una cosa
impossibile. Si possono comunicare solo argomenti logici,
dottrine razionali e esperienze; la conoscenza invece è di
ordine sovrannaturale e non può trasmettersi per iscritto, né
da bocca a orecchio, ma solo per ispirazione e illuminazione
diretta. Questo giustifica il carattere simbolico e parabolico
dei testi sacri o degli scritti dei saggi e degli adepti. Perciò un
gruppo può essere motivato soltanto da un comune scopo di
ricerca della conoscenza, in uno spirito di difesa morale della
dispersione della vita ordinaria. L’esistenza di un simile
gruppo richiede una regola generale di vita. Ma neanche la
sola ricerca della conoscenza è un motivo sufficiente per
l’esistenza di un gruppo di tal genere: la vera ricerca può
effettuarsi per ciascuno in qualsiasi ambiente e in qualunque
circostanza. La sicurezza e la facilità saranno piuttosto causa
di inerzia e di pigrizia che stimolanti.37

37
R.A. Schwaller de Lubicz, Insegnamenti e scritti inediti, Mediterranee, Roma, 2008.

130
Il metodo

Ci chiederemo ora quale sia la base dell’Insegnamento


Universale, quali i principi fondamentali, quale il metodo. La
risposta potrebbe assumere l’aspetto di un koan zen: esiste un unico
metodo ed esistono infiniti metodi. Laddove ogni dottrina spirituale
conduce verso il medesimo traguardo, verso una consapevolezza del
reale pressoché identica, la strada che vi conduce sembra abbastanza
ampia da poter accogliere differenti modalità di approccio, ciascuna
secondo la natura propria di colui che si pone sul Cammino.
Sul portale di ingresso di alcuni monasteri tibetani compare la
scritta: mille monaci, mille religioni. Ma la cosa ancor più
interessante è che essi convivono fraternamente sotto lo stesso tetto.
Emerge allora l’evidenza di come la diversità non sia sinonimo di
contrasto o isolamento, tutt’altro!
Secondo quanto ci narra una storia ebraica, il Rabbi Yissachar
Dov si recò un giorno a Lublino per incontrare il suo mentore, il
Rabbi Yaakov Yitzchak, per porgli una domanda che da diverso
tempo lo affliggeva: qual è il modo in cui tutti possono servire Dio.

“Un solo modo?” disse il Veggente. “Che cosa ti fa pensare


che ci sia un solo modo? Le persone sono forse tutte uguali,
per cui un unico tipo di pratica spirituale si adatta
indistintamente a tutti?” “Allora come posso insegnare alle
persone a trovare Dio?” chiese Rabbi Yissachar Dov. “È
impossibile dire alle persone come dovrebbero servire Dio.
Per qualcuno la strada migliore è lo studio; per qualcun altro
è la preghiera; per qualcun altro ancora è il digiuno o il darsi
ai banchetti; oppure per qualcun altro il modo migliore per
servire Dio è servire il proprio vicino.” “Che cosa mai dirò,
allora, a coloro che chiedono il mio consiglio in questo
campo?” “Dì loro così” disse il Maestro. “Osservate con cura
i moti del vostro cuore, vedete cosa muove la vostra passione
per Dio e per la devozione, e poi agite con tutto il vostro
cuore e tutta la vostra energia”. 38

38
Rami Shapiro (a cura di), Un silenzio straordinario. Racconti chassidici, Giuntina, Firenze,
2004.

131
Potremmo passare in rassegna centinaia di storie ed insegnamenti
tradizionali per ricercare chiare e lapidarie istruzioni su quale tipo di
strada seguire e sul modo in cui farlo. È il nostro innato desiderio di
certezza a condurci attraverso una ricerca del genere. Ma nessun
vero maestro potrà mai lasciare in eredità una ricetta di liberazione
predefinita per tutti, ciò equivarrebbe infatti a ledere quel puro senso
di riscoperta di sé che ognuno di noi è chiamato a compiere.
Come abbiamo anticipato nella premessa, la spiritualità è
consapevolezza, ed una reale e profonda presa di coscienza non
potrà mai essere delegata a qualcun altro, non la si potrà realizzare
conformandosi ciecamente ad una pratica, né tanto meno per mezzo
di un’esecuzione meccanica di una serie di regole e prescrizioni da
rispettare.
Meglio possiamo ora comprendere perché i grandi saggi hanno
lottato e lottano tutt’ora per liberare l’essere umano dalla sua
condizione di inconsapevolezza, senza voler ovviamente aggiungere
nuove illusioni; essi si limitano dunque ad evocare il desiderio di
salvezza che si cela in noi, mostrandoci con la forza del loro
esempio che vivere in una condizione di gioioso contatto con la
Luce è possibile. Il vero Amore non si concretizza semplicemente
nell’offrire pietosamente il pane all’affamato, ma nel prendersene
cura affinché egli possa imparare a procurarselo da solo.
Ecco perché, a dispetto di ogni nostro desiderio di ottenere
risposte definitive o scorciatoie per una rapida realizzazione, un vero
insegnamento ci pone di fronte ad uno specchio in grado di riflettere
un’immagine nella quale non sempre avremo il coraggio di
riconoscerci. Eppure, è proprio nel banale quanto difficile atto di
osservare che possiamo ritrovare l’unico metodo guida all’interno di
un non-metodo.
Avvicinarsi ad un qualsiasi percorso spirituale senza la
predisposizione e il coraggio di constatare la propria natura è nella
migliore delle ipotesi completamente inutile e nel peggiori dei casi
tremendamente pericoloso. La nostra mente è costantemente alla
ricerca di “buone motivazioni” con cui continuare a mantenere in
piedi ed alimentare i desideri egoici, e quale occasione migliore per
colorire le nostre viltà con splendidi pensieri di carattere spirituale!
Non dimentichiamo mai il detto secondo cui la strada per l’inferno è
lastricata di buone intenzioni.

132
L’osservazione nuda e cruda dei fatti è il primo gradino che ogni
dottrina pone di fronte a chiunque voglia intraprendere un reale
cammino di conoscenza. Nell’antica scienza sacra la parola
OSSERVARE, o VEDERE, in egizio maa e in geroglifico

significa anche CONSTATARE, traducibile letteralmente come


PRENDERE COSCIENZA DI.
Non si tratta qui di un’attenzione generica da porre
indistintamente su qualsiasi cosa attiri l’interesse della propria
mente, ma di iniziare a focalizzarla sui principali accadimenti
quotidiani che ci coinvolgono personalmente e direttamente,
osservando con estrema cura l’oggettivo dispiegarsi dei fatti e la
personale reazione ad essi.
La nostra vita è infatti costellata da reazioni meccaniche ed
impulsive, da accadimenti spesso travisati emotivamente ed
interpretati in base alle personalissime concezioni moralistiche o
utilitaristiche. È poi sufficiente che qualcuno ci rivolga una piccola
critica che metta in discussione un nostro atteggiamento per farci
sentire immediatamente minacciati o feriti ingiustamente.
Quante volte ci capita infatti di non reagire istintivamente per
proteggere la nostra immagine, ma piuttosto soffermarci con umiltà
per valutare in profondità la veridicità di ciò che è stato affermato?
Dove ci potrà allora condurre una qualsiasi via di conoscenza senza
aver prima affrontato e superato la paura di riconoscere e accettare
quello che umanamente siamo?

Conosci ciò che ti sta davanti, e ti si manifesterà ciò che ti è


nascosto. 39

È, a tal proposito, estremamente interessante evidenziare come la


parola egizia maa contraddistingue anche il concetto di
VEGGENTE, colui in grado di guardare oltre il velo delle apparenze
per scorgere l’andamento degli eventi in base ai principi della vita.

39
Vangelo (Tm 5).

133
Mentre potremmo infatti essere spontaneamente portati a porre su
piani differenti la capacità di osservare rispetto alla facoltà di
intravedere i piani divini, per i saggi egizi non esisteva un preciso
limite di demarcazione: il primo conduce inesorabilmente al
secondo. Essi erano consapevoli di quanto la mente e le emozioni
umane cooperino insieme come abilissimi architetti nel costruire e
perpetuare le prigioni illusorie che più si confanno a ciascun
individuo, portandolo a vivere entusiasmi passeggeri, sofferenze,
preoccupazioni, liti, eccetera.
Sviluppando l’attitudine a confrontare la realtà dei fatti privi di
ogni personale deduzione e distorsione con i flussi di pensiero ed
emozioni, emergerà una dissonanza disarmante, ma sicuramente
edificante per porre delle nuove basi da cui partire per vivere
veramente. Gli occhiali con i quali osserviamo e filtriamo
continuamente il mondo, non sono altro che congegni olografici di
una realtà totalmente soggettiva, e che quindi lasciano pochissimo
spazio per un sincero e aperto confronto con il mondo circostante.
Questo è il motivo per cui anche la cultura indo-vedica propone
con estrema concretezza di partire dalla semplice analisi di ciò che è,
come possiamo leggere nelle parole di uno dei più grandi maestri
rappresentativi dell’Advaita Vedanta, Sri Ramana Maharshi:

Un esame della natura effimera dei fenomeni conduce al


distacco. Quindi l’inchiesta (vichara) è il primo passo da
compiere. Quando l’inchiesta continua automaticamente, si
risolve nell’indifferenza per la ricchezza, la fama, la
comodità, il piacere, ecc.40

Ecco perché l’atto di constatare è simboleggiato in caratteri


geroglifici da un occhio che osserva e da una falce, strumento
impiegato per tagliare il grano – il nutrimento essenziale – e dunque
simbolo per eccellenza della SEPARAZIONE COSTRUTTIVA,
ossia un discernimento in grado di far risaltare con lucidità la forma
e il modo in cui i propri aspetti egoici influenzano il personale modo
di reagire e rapportarsi col mondo, offendo così nutrimento per una
reale crescita spirituale.

40
Sri Ramana Maharshi, Il Vangelo, I Pitagorici, Catania.

134
Una visione del genere diviene l’unico strumento in grado di
condurci verso la consapevolezza dei nostri processi di pensiero, di
quanto il loro rumore e il loro lavorio caotico ci imprigioni e non ci
permetta di vedere altro; solo questa chiarezza può aprire le porte ad
una nuova vita. Quale cammino seguire dunque?

Quello che ti pare incredibile; quello che coltiva in te un altro


modo di pensare, che risveglia in te una intelligenza senza
antinomie, che ti permette di trovare quella condizione di
“neutralità mentale” che è il terreno su cui cade, come un
seme, l’ispirazione pura, come la rugiada fecondatrice cade
sui campi.41

Ogni disciplina spirituale può condurre lontano o da nessuna


parte. La chiave di volta è la giusta INTENZIONE, ciò che la
tradizione ebraica chiama kavvanah, il desiderio di prendere
coscienza del proprio dialogo interiore, di quanto ci si identifica con
esso e di quanto la propria vita sia completamente avvolta nelle sue
mani, priva di ogni vero contatto con la realtà.
Una tale consapevolezza, lungi dall’essere una comprensione
razionale, è frutto di una instancabile indagine di sé nel mondo.

L’importanza della gratuità

Un ultimo aspetto su cui vale la pena soffermarsi per potersi


districare all’interno delle miriadi offerte di gruppi, circoli o scuole
spirituali, è il concetto di gratuità ad esse correlato. In un’epoca
come la nostra in cui l’interesse verso le diverse dottrine sta
aumentando vertiginosamente, si sta assistendo ad un conseguente
affacciarsi sul “mercato” di moltissime proposte di carattere
commerciale.
Ovviamente una finalità di tipo lucrativo non viene quasi mai
dichiarata apertamente, motivandola piuttosto con il fatto che i
“segreti esoterici” possono essere comunicati solo a coloro che li
desiderano intensamente, e dunque disposti a compiere anche
sacrifici economici in tale direzione.

41
R.A. Schwaller de Lubicz, Verbo Natura, Tre Editori, Roma, 1998.

135
Ma gli antichi sistemi tradizionali, veicoli dell’Insegnamento
Universale, parlano chiaro:

“Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.”42 […] Ed


entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e
comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e
le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si
portassero cose attraverso il tempio. Ed insegnava loro
dicendo: “Non sta forse scritto: la mia casa sarà chiamata
casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto
una spelonca di ladri!”43

Nessun vero maestro nella storia dell’umanità ha mai preteso


compensi di alcun genere per trasmettere gli insegnamenti,
chiedendo in cambio unicamente la buona volontà di sperimentarli
per metterli a frutto. Il fatto che un discepolo potesse poi offrire per
gratitudine omaggi di qualsiasi genere, non è quindi da confondersi
con una conditio sine qua non per poter accedere alla dottrina, ma
semplicemente come una forma di riconoscenza comunissima in
ogni tipo di rapporto amichevole.
Abbiamo precedentemente osservato come, secondo la saggezza
egizia, il concetto di scuola spirituale venga tradotto con il termine
casa, e il titolo di maestro con padre. Trasportando allora la nostra
attenzione dentro le mura domestiche, in quale famiglia vige
l’obbligo di pagare una retta per potervi appartenere, o quale padre o
quale madre potrebbe mai chiedere un compenso economico ai
propri figli in cambio di un’educazione?
Può realmente celarsi un sentimento vero e puro dietro interessi
di tutt’altra natura? E come è possibile veicolare un insegnamento il
cui fine è condurre alla libertà incondizionata, se i presupposti base
già sono vincolati e condizionati dalla moneta? Non è forse buffo e
particolarmente dissonante affrontare filosoficamente temi come
amore, non-attaccamento e divinità, all’interno di un rapporto
commerciale?
In alcuni circoli teosofici contemporanei si tramanda
ironicamente un detto secondo il quale più alto è il soldone, più

42
Vangelo (Mt 10,8).
43
Vangelo (Mc 1,15-17).

136
grosso è il bidone, sottintendendo proprio l’impossibilità di porre sul
medesimo piano la vera trasmissione spirituale con interessi di
carattere economico.
Nel testo egizio che raccoglie gli insegnamenti di Ptah-Hotep,
compare una massima che delinea chiaramente questo aspetto:

Così prescrive la legge per coloro amati dagli dei: in


relazione alla ricchezza materiale, l’uomo eccellente la
otterrà da solo. Sarà Dio a fare in modo che sia una persona
di qualità e a proteggerlo, anche quando dorme.44

Un vero iniziato troverà il modo di sostenersi economicamente in


questo mondo senza ricorrere alla commercializzazione di ciò che ha
appreso della scienza sacra, consapevole del fatto che gli
insegnamenti hanno un valore inestimabile tale da non poter essere
quantificato con nessuna moneta al mondo, semplicemente perché
appartenenti a due livelli vitali differenti. E una tale visione è così
radicata nelle differenti dottrine da poter essere considerata a tutti gli
effetti un denominatore comune. Pensiamo alla tradizione tolteca
rappresentata da don Juan, con il quale Castaneda decise un giorno
di affrontare la questione.

“Lavorerai per me e ti pagherò” dissi. “Quanto mi pagherai?”


chiese. Mi parve di notare una nota di avidità nella sua voce.
“Quello che pensi sia giusto” risposi. “Paga il mio tempo…
con il tuo tempo” disse.45 “Prima di tutto ciò che faccio per te
è gratis. Non mi devi nulla. Con te sono stato impeccabile, lo
sai. L’atto di dare gratis e in modo impeccabile mi
ringiovanisce e rinnova la meraviglia”.46

Simili prescrizioni le possiamo ritrovare anche nella tradizione


ebraica, e più precisamente nelle Massime dei Padri, contenute
all’interno del Talmud, dove compare anche un ammonimento per
gli studiosi della Cabalà che ne mercificano gli insegnamenti.

44
Gli Insegnamenti di Ptah-Hotep (X, 183).
45
Carlos Castaneda, Viaggio a Ixtlan, Rizzoli, Milano, 2000.
46
Carlos Castaneda, Il potere del silenzio, Rizzoli, Milano, 1988.

137
Hillèl infatti soleva dire: “Chi trae vantaggio personale dalla
Corona della TORAH è finito”. Impari così che chi riceve
profitto dalle parole della TORAH trae la sua persona fuori
dal mondo.47

Riconoscere ed accettare questa norma rischia di mettere in


discussione una moltitudine di offerte pseudo-iniziatiche attuali ed
inoltre impone a ciascuno di noi un riesame della tanto radicata
concezione utilitaristica della cultura in cui viviamo, che spesso
illude di poter avvicinare al sacro per una strada di cui non si
conosce in realtà lo sbocco.

47
Massime dei Padri, Mamash, Genova, 2007.

138
La struttura dell’essere umano

La conquista dell’immortalità

A differenza di quanto potremmo essere portati a credere, non è


in alcun modo possibile circoscrivere la tradizione egizia all’interno
di precisi canoni religiosi.
Di fronte alla domanda fondamentale sull’esistenza o meno di
un’anima immortale nell’essere umano, gli antichi saggi rispondono:
sì, e no. È infatti una caratteristica distintiva della dottrina egizia
quella di muoversi sinuosa e flessibile attraverso le definizioni e le
classificazioni, ponendosi al di sopra di esse per spronare ogni
individuo a ricercare le risposte oltre i limiti della dualità, nella sfera
più intima di sé.
Ma come è possibile conciliare la realtà dell’immortalità con il
suo opposto? Si potrebbe brevemente anticipare che ogni individuo
non nasce di fatto immortale ma con la possibilità di diventarlo, ma
per approfondire meglio la questione occorre sviscerare più nel
dettaglio gli aspetti che compongono e animano la nostra natura.
Il primo e più elementare costituente grazie al quale possiamo
muoverci e compiere esperienze in questo mondo terreno è il
CORPO FISICO, in egizio khat e in geroglifico

ossia il veicolo organico soggetto a crescita e decadimento,


caratteristiche evidenziate dal geroglifico rappresentante il corpo di
un cadavere, non per macabro simbolismo ma per efficacia e
schiettezza comunicativa: polvere eravamo e polvere ritorneremo.
Ma ciò non deve trarre nell’inganno di associare ad esso una
scarsa rilevanza nell’ambito di un percorso spirituale, anzi! Il corpo
fisico è a tutti gli effetti considerato come un tempio in grado di
ospitare l’essenza divina, e ciascuno di noi è chiamato a divenirne
responsabile prendendosene cura nello stesso modo in cui farebbe
con qualsiasi costruzione sacra cui tiene particolarmente.

139
È buona norma non dare mai nulla per scontato ma osservare con
curiosità silenziosa – priva di giudizi di valore – i propri
atteggiamenti paradossali. Non di rado capita infatti di volgere le
attenzioni più meticolose verso la manutenzione di un’automobile,
senza badare a spese per i pezzi di ricambio, le gomme e l’olio
migliori, trascurando d’altro lato senza troppi problemi la qualità dei
cibi per la propria alimentazione. E questo non rappresenta che uno
tra i tanti possibili esempi.
La salute del corpo è una condizione essenziale per colui che
decide di volgere la sua esistenza alla ricerca del vero celato dietro le
apparenze; egli dovrà necessariamente compiere i primi passi verso
uno stile di vita improntato sulla qualità e non più sulla quantità. E
quale prevenzione migliore di una equilibrata e sana alimentazione,
in grado di rispettare il più possibile i cicli stagionali di ciò che la
natura offre nel luogo in cui si vive? La tradizione egizia poneva in
risalto il sublime atto del MANGIARE, unem, in geroglifico

non come un’attività fine a se stessa ma come una precisa


disciplina avente la funzione di predisporre il proprio tempio
organico ad accogliere l’Ospite più ambito. Non si riservano forse
spontaneamente le migliori attenzioni nell’ordine della propria casa
e le migliori cure nella preparazione di un pasto nell’invitare una
persona tanto attesa e a noi molto cara? Come potrebbe non essere
altrimenti nel caso in cui l’invitato fosse Dio stesso?
L’alimentazione diviene allora il primo ambito vitale cui iniziare
a porre attenzione per rendere funzionale il corpo fisico ed elevarlo a
veicolo di espressione divina. I primi due geroglifici che
compongono la parola sopra citata, simboleggiano l’energia sottile
che si dischiude dai cibi come il profumo si sprigiona dai fiori – da
cui il primo segno – e la relativa presenza impercettibile ad uno
sguardo superficiale, così come la civetta che vive nel buio della
notte.
Ogni alimento è qualcosa in più di una semplice sostanza
organica finalizzata a riempire e saziare lo stomaco. Il cibo contiene
i più vari elementi nutrizionali: vitamine, proteine, carboidrati e

140
minerali, ma non si ferma qui, porta in serbo anche qualità
energetiche di carattere più sottile, di natura sia emotiva che
spirituale, inevitabilmente in grado di influenzare il nostro approccio
verso la vita. D’altronde è ormai riconosciuto il fatto che, ad
esempio, il nutrirsi di carne incida sul livello di aggressività e
reattività istintiva, e questa è una prima motivazione per la quale
moltissimi ordini tradizionali prevedevano e prevedono una dieta
vegetariana.
Un argomento del genere meriterebbe un ampio approfondimento
ma, senza intraprendere analisi troppo complesse, potremmo molto
semplicemente constatare ad esempio gli effetti causati da un solo
pasto eccessivamente ricco di grassi nelle ore successive alla sua
assunzione: senso di pesantezza, sonnolenza, lentezza, scarsa
capacità di concentrazione. Situazione evidentemente ben lontana da
una condizione di leggerezza tale da facilitare una presenza in se
stessi.
La cura del corpo si estende però anche oltre l’alimentazione, e
riguarda anche la sessualità, il sonno, il movimento e tutto ciò che ha
a che fare con il corpo fisico e i suoi bisogni. Trascurare questi
aspetti come non degni di nota, come non inerenti ad un percorso
spirituale, è un grave errore da cui ogni tradizione cerca di mettere in
guardia. Ricordiamo le parole che Krishna rivolge ad Arjuna:

Lo yoga non è per chi mangia troppo o troppo poco, o


Arjuna, per chi dorme troppo o resta sveglio troppo a lungo.
Chi è moderato nel mangiare, dormire, lavorare e vegliare, e
controllato nelle sue attività, può liberarsi da ogni sorta di
sofferenza con la pratica dello yoga.48

L’essere umano è un corpo fisico ma non necessariamente si


limita ad esso. In qualità di potenziale tempio di Dio in terra, può
creare le condizioni per accogliere e divenire portavoce di una
Presenza di portata inimmaginabile, eterna ed immortale.
Ma è bene sottolineare che questa è solo una delle possibilità, e
che la maggior parte dell’umanità non solo non riesce a realizzare un
obiettivo del genere, ma spesso e volentieri non vi ambisce neanche.
Se nessun individuo nasce per diritto con un’anima imperitura, sorge

48
Bhagavad Gita, (VI, 16).

141
spontanea la domanda di chi – o cosa – siamo realmente prima di
una tale conquista.

Il desiderio di esistere

La tradizione egizia simboleggia i passaggi che intercorrono tra


lo stato di sopravvivenza a quello di vera esistenza tramite lo
sviluppo di particolari corpi, dal più materiale (come quello fisico
precedentemente accennato) fino a quello più sottile e spirituale.
Ovviamente, ogni sorta di schematizzazione di aspetti vitali è per
propria natura solo indicativa, una convenzione dialettica necessaria
per stimolare una riflessione più profonda e strettamente personale.
Come si suole dire: la mappa non è il territorio. I confini che
distinguono un corpo dall’altro non potranno mai essere stabiliti con
precisione, così come non è possibile definire oggettivamente dove
inizia il caldo e dove il freddo.
Il livello basilare che permette ad un essere umano di vivere in
questa natura è la VOLONTÀ DI ESISTENZA, una sorta di
impulso, di flebile forza che si concretizza nella nascita nel mondo e
che si struttura nell’arco di breve tempo costituendo l’IO, in egizio
ynuk e in geroglifico

cui il primo segno – la canna fiorita – simbolo di fragilità e


flessibilità, contraddistingue la naturale propensione umana a farsi
abbattere e piegare dalle diverse circostanze esterne, ma allo stesso
tempo anche la potenziale capacità di rialzarsi senza farsi mai
definitivamente spezzare da nulla.
Il quarto ed ultimo geroglifico rappresenta invece un individuo
inginocchiato che si tocca il petto e alza la mano per manifestare la
sua presenza nell’universo. L’Io non si identifica quindi né con il
corpo né con alcun elemento spirituale, ma è inizialmente solo
un’entità energetica distinta dal resto del creato che ricerca un
proprio ed altrui riconoscimento.

142
Tale volontà di esistenza tende ad accentrare in sé tutti gli
elementi vitali che la vestono: essa è la forza che permette
l’esistenza ad ogni essere umano, mantenendolo e riportandolo
costantemente in vita fino alla sua definitiva realizzazione e
liberazione, o fino alla sua dissoluzione in una seconda morte.
I due geroglifici che compongono internamente il termine Io,

in egizio nuk, formano la parola EGO, una forza primitiva e


cieca, priva di ogni sentimento superiore. Il geroglifico superiore – il
vaso – simboleggia l’energia racchiusa e sigillata in un contenitore,
mentre sotto è situato il segno della cesta in qualità di strumento di
raccolta.
Il principio egoico potrebbe essere altresì definito come quella
forza che tende ad incentrare in sé tutte le energie con una sete ed
un’avidità insaziabili. Sarà proprio l’insieme di tali energie caotiche
ad offrire le sensazione illusoria di rendere piena la propria vita,
dandole così un senso.
Più il vaso, situato non a caso nel centro della parola Io, sarà
colmo di emozioni, informazioni, certezze, considerazioni altrui,
eccetera, più ampia sarà la possibilità di sentirsi realizzati. Ma una
tale rincorsa non avrà mai fine; non esiste limite alla voracità egoica.
Solo la morte fisica romperà il vaso, dando il via ad un processo di
inevitabile disgregazione delle energie in esso contenute, fino a
dissolverle e ridistribuirle nuovamente all’interno di un mare
caotico. Questo è il motivo per cui una parte di noi teme tanto la
morte, avvertendo istintivamente l’inevitabile destino a cui sarà
condotta l’egoicità.
La stessa sorte può però essere affrontata coscientemente e a
partire da subito, nel qui ed ora. La possibilità di infrangere il vaso
riconoscendo le diverse personalità illusorie che traggono origine e
forza in esso, è proprio il percorso proposto da ogni dottrina.
Ritroviamo chiarissime analogie del vaso-ego nello zen, nella nota
storia in cui il maestro avverte un sedicente discepolo di non poter
versare del tè in una tazza già colma, veicolando il messaggio che la
trasmissione di insegnamenti a colui che li ricerca con la consueta

143
predisposizione egoica, è perfettamente inutile se non
controproducente.
Emerge a questo punto una delicata ma importante
differenziazione tra ciò che si intende per Io e ciò che si intende per
ego. Quest’ultimo non è infatti equivalente al primo ma ne
costituisce il nucleo, il motore che sprona il movimento orientando
la direzione, rimanendo comunque sempre velato dietro al modo con
cui ci si presenta al mondo.
Ecco perché il termine ego (nuk), si pone figurativamente nel
geroglifico Io (y-nuk) dietro il simbolo della canna, determinativo
utilizzato proprio per contraddistinguere l’individualità, la
membrana che ci differenzia dagli altri rendendoci unici. Ma tale
individualità non è realmente un avversario nel cammino verso la
Luce, essa deve piuttosto divenire un alleato volgendo i suoi servigi
al principio divino.
Sarebbe sciocco ed avventato, per non dire contro natura,
dichiarare interiormente ed esteriormente guerra al senso di
individualità; esso è infatti tanto inevitabile quanto naturale. È grazie
a lui che possiamo muoverci nel mondo, svolgere il lavoro
necessario per vivere dignitosamente, fare esperienza degli eventi
della vita, comunicare con il prossimo ed aiutarci reciprocamente
con esso anche all’interno di un cammino spirituale. Negare dunque
l’importanza di una tale funzione, confondendola in modo
indissociabile con la tendenza egoica, equivale a sopprimerne
l’immensa potenzialità.
Possiamo in tal senso arricchire la nostra analisi osservando
come, secondo la tradizione ebraica, la parola Io, anì, scritto

sia composta dalle tre lettere alef, nun (che assume un connotato
grafico differente quando si trova in fondo alla parola) e yod, le
stesse che compongono anche la parola NULLA, ayn, scritto

144
corrispondente al nome con cui la Cabalà contraddistingue Dio,
più precisamente ayn sof, il NULLA SENZA FINE.
Sappiamo che quando parole diverse sono composte dalle
medesime lettere, si ritiene che condividano una profonda unità. In
questo caso è interessante porre l’attenzione sul fatto che nel primo
termine la yod si trova alla fine, mentre nel secondo si trova nel
centro. Considerando che tale lettera rappresenta yadà, la
CONSAPEVOLEZZA, ne possiamo dedurre che quando essa è
rivolta all’esterno emerge il principio egoico dell’Io, mentre quando
è rivolta verso l’interno emerge la presenza di Dio.
Nei piccoli particolari, nella totale semplicità, si nascondono le
chiavi di volta in grado di trasformare radicalmente il proprio stato
di coscienza nei confronti della vita, di come la si osserva, la si
comprende e la si vive. In ciò è racchiuso il prezioso insegnamento
dei saggi.

L’arte di ascoltare il proprio cuore

Il vero lavoro non consiste nello spogliarsi dall’abito con cui si


vive nel mondo – l’Io – ma nel non identificarci con esso, nel non
lasciarlo in balia di forze inconsce il cui unico fine è la
sopravvivenza nei piaceri e dispiaceri materiali. In altri termini,
liberarlo dalla schiavitù dell’ego.
Camminando su questa strada si creerà passo dopo passo uno
spazio interiore diverso, si risveglierà un organo generalmente
soffocato o tenuto sopito, ritenuto dagli egizi un vero e proprio corpo
spirituale: il CUORE, yb, in geroglifico

il mediatore tra le influenze di natura divina e quelle di natura


terrena; la sede dell’intuizione, dei sentimenti e del discernimento.
Se prestiamo attenzione ai geroglifici che compongono la parola,
possiamo subito cogliere come la raffigurazione del cuore (figura
31) si sia qui sostituita al concetto di ego, nuk, rimanendo però
sempre celata dietro il velo manifesto del simbolo dell’Io, la canna.

145
In uno stato coscienziale del genere non saranno più le pulsioni
inconsce ed animali a governare le azioni, le parole e i pensieri,
vincolando ad un’esistenza ciclica priva di ogni creatività, ma
interverrà un'altra natura più consapevole, realmente libera di
muoversi e di procedere nella vita – da cui il geroglifico della gamba
in movimento.
In questo livello scomparirà anche l’esigenza di manifestare
apertamente la propria presenza nel mondo, dato che emergerà
spontaneamente la profonda percezione di sentirsi già parte di un
tutto; il bisogno di auto-affermazione lascerà il posto alla semplicità
e all’umiltà.

Figura 31 – Il cuore nelle raffigurazioni.

Ma gli antichi saggi distinguevano il cuore yb, considerato come


la SEDE DELLA COMPRENSIONE, dal cuore haty, in geroglifico

ossia la SEDE DELLE PASSIONI che è necessario dominare per


trascendere la natura inferiore che lega alla sfera terrena al pari di

146
una forza di gravità. Dunque, uno stesso organo per due aspetti vitali
apparentemente opposti.
Per complicare ulteriormente la faccenda, è importante
considerare come anche nel termine DESIDERIO, in egizio set-yb e
in geroglifico

compare il segno del cuore, accompagnato in questo caso dalla


raffigurazione del trono – simbolo del nome di Osiride – su cui
poggia la nostra possibilità di vivere coscientemente le esperienze
terrene, trasmutandone la natura dialettica in divina.
È infatti proprio il mondo nelle sue innumerevoli sfaccettature ad
attrarre la nostra attenzione, in un costante turbinio di pensieri ed
aspettative che si alimentano e si rigenerano. Non vi è sosta né limite
alla corsa incontrollata del desiderio. Ma tale forza è anche il motore
della vita. Spetta a ciascuno di noi riconoscerne i limiti per uscire dal
suo controllo e poter così cavalcare il suo fine regale: il
ricongiungimento con l’Uno.
Occorre quindi osservare con meticolosa attenzione ed onestà i
moti dei propri desideri, da dove essi nascono e dove ci vogliono
condurre, con la curiosità di riscoprire quell’unica pura aspirazione,
quella nostalgia divina in grado di condurci al cospetto del vero
cuore, là dove inizia per il Cammino.

Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore.49

Solo percorrendo questa strada potremmo passo a passo svelare


gli inganni che si annidano intorno al cuore mascherandolo ed
opprimendone il respiro.
Esiste una leggenda in India che parla dell’ultimo giorno della
Creazione, quando gli dei si riunirono per decidere di comune
accordo dove nascondere il segreto dell’universo. Il primo si fece
avanti consigliando la cima più alta dell’Himalaya, dove gli uomini
non potrebbero mai vivere, giacché le nevi sono eterne e non
esistono sentieri di accesso. “No”, risposero gli altri dei in coro,
49
Vangelo (Mt 6,21).

147
“abbiamo creato l’uomo forte ed ingegnoso, prima o poi troverà il
modo per raggiungere le vette più alte del mondo”. Poco dopo, ad un
altro dio venne l’idea di nascondere il segreto della vita nell’abisso
più profondo dell’oceano. “No, no”, ribadirono gli altri dei,
“abbiamo creato l’uomo coraggioso e temerario. Verrà un giorno in
cui egli escogiterà il modo per sondare gli abissi di tutti i mari”.
Dopo un lungo silenzio, un altro dio che rimase in silenzio e
pensieroso fino a quel momento, esclamò: “Io lo so, dov’è il
nascondiglio più sicuro. Nascondiamo il segreto dell’universo in
fondo al cuore di ogni essere umano. Là, potremo starne certi, non
guarderanno mai”. Fu così che tutti gli dei furono concordi.
Questa semplice storia porta in serbo una verità autentica: il
cuore come chiave di volta di tutte le dottrine. Ogni tradizione
riconosce ad esso un ruolo fondamentale, senza il quale ogni studio
rimane sterile ed ogni pratica diviene fuorviante e pericolosa. Ma la
stessa leggenda è anche portatrice di un’altra amara verità: la nostra
naturale tendenza a ricercare risposte altrove, o peggio ancora a
confondere con estrema facilità – e comodità – emozioni, fantasie,
aspettative e debolezze con i sussurri del cuore.
Se è vero che esplorare il proprio cuore significa conoscere
l’universo intero, è altrettanto doveroso non illudersi sul fatto che un
tale processo sia privo di ostacoli e difficoltà, certamente non
imputabili a un qualsivoglia evento esteriore.
L’ombra delle nostre paure e le astute seduzioni dell’ego sono
costantemente in agguato, in grado di portarci a compiere i più
deplorevoli atti pur mantenendo elegantemente in piedi compiacenti
alibi spirituali. La storia è costellata di genocidi, inquisizioni e
guerre compiute nel nome della pace o del Signore.
Un efficace aiuto chiarificatore ci viene offerto dalla tradizione
Sumarah, originaria dell’isola di Giava, nella quale il principio
egoico dell’Io, aku in giavanese, viene paragonato simbolicamente
all’immagine di un’anguilla bianca.

Aku è lungo e scivoloso come le anguille, sembra non aver né


capo né coda, non si lascia mai prendere, ma scappa dalle
mani all’ultimo momento. È bianco perché ha sempre una

148
pretesa di candore, vive nella convinzione di essere
perennemente nel giusto, nel bene, nell’onesto.50

Ecco perché sviscerare un concetto come il cuore è un lavoro non


esente dal rischio di fraintendimenti. La capacità di ascoltare il
proprio cuore è dunque una vera e propria arte, e come tale essa deve
essere tenacemente allenata e costantemente monitorata in modo da
imparare a discernere sempre più in profondità gli intralci che si
frappongono tra il vero cuore e il falso cuore. Mentre il primo
conduce ad un’unione disinteressata e libera con il prossimo, il
secondo non fa altro che simularne goffamente le presunte
caratteristiche, ostentando spesso una gioia e un ottimismo forzati,
così come una benevolenza ed un umanitarismo che nascondono
tensioni mal comprese e mal gestite.

L’uovo-microcosmo

Possiamo ora compiere un ulteriore sguardo nella realtà


strutturale umana introducendo il concetto di ciò che gli antichi egizi
chiamavano ren, in geroglifico

che significa letteralmente NOME e che è contraddistinto


simbolicamente dal primo segno – il cartiglio – comunemente noto
per la caratteristica figurativa di contenere al suo interno le iscrizioni
dei nomi propri. Ma la sua funzione evocativa va ben oltre!
Il ren è infatti la vera identità di ogni essere umano, la sua
“impronta” cosmica, la sua specifica vibrazione energetica che lo
contraddistingue come singola entità e che, allo stesso tempo, lo lega
a tutto l’universo.
In altre parole, è il MICROCOSMO, la cui manifestazione fisica
assume l’aspetto di una sfera ovoidale che circonda il corpo. Ecco
perché il secondo e il terzo geroglifico che compongono la parola –
la bocca aperta e l’energia in movimento – indicano che l’atto
50
Laura Romano, Sumarah. Il risveglio del maestro interiore, Ubaldini, Roma, 1999.

149
sacrale di scegliere un nome equivale a ricercare le reali
caratteristiche energetiche dell’individuo per poterle esprimere, non
certo una convenzione sociale con il solo fine di riconoscersi e
distinguersi dagli altri.
Il ren è dunque l’attributo con cui la dottrina egizia designa
l’individualità di un essere umano senza necessariamente riferirsi ai
suoi corpi spirituali. Esso costituisce piuttosto l’ambiente di base
dove sono presenti tutte le condizioni necessarie per permettere una
gestazione della scintilla divina, ma la scelta di intraprendere ed
alimentare un processo del genere è strettamente vincolata al libero
arbitrio personale.
All’interno del ren, nel punto centrale del suo spazio, vibra l’Io-
inek, intorno al quale gravitano caoticamente tutti i desideri e gli
impulsi ad esso collegati. Essi traggono infatti origine dal principio
egoico e lo alimentano a loro volta attraverso un circolo vizioso
apparentemente senza uscita. Solo il graduale processo di
sostituzione della natura egocentrica con quella altruistica, propria
dell’elemento cuore, condurrà inesorabilmente verso un collasso dei
desideri ed una liberazione dell’aspetto divino fino a quel momento
celato e soffocato.

Figura 32 – Il cartiglio, simbolo del microcosmo.

150
A ben vedere il simbolo che rappresenta il ren (figura 32), non
raffigura nient’altro che il tratto di una corda avvolta su se stessa in
modo da formare una sorta di anello, e legata poi alla base. Tale
corda è il confine che delimita il senso di identità microcosmica
dalla realtà macrocosmica, ma è anche la FORZA CONDUTTRICE
che lega un’esistenza all’altra. Il singolo cartiglio coincide infatti
con una sola esperienza vitale terrena, ma non per questo ne esclude
altre.
Il concetto della reincarnazione non è certamente un’esclusiva
delle dottrine orientali. Sembra che il cristianesimo la contemplasse
già all’interno della sua fede originaria, tanto che possiamo
ritrovarne espliciti riferimenti negli scritti di uno dei più grandi
teologi cristiani, Origene di Alessandria.

L’anima non ha principio né fine. Ogni anima entra in questo


mondo fortificata dalle vittorie oppure indebolita dai difetti
della vita precedente. Il suo posto in questo mondo, quasi
dimora destinata all'onore o al disonore, è determinato dai
suoi precedenti meriti. Il suo operato in questo mondo
determina il posto che essa avrà nel mondo successivo… Non
è forse più conforme a ragione che ogni anima, per certe
misteriose ragioni, venga introdotta in un corpo e ivi
introdotta secondo i suoi meriti e le sue precedenti azioni?51

La tradizione egizia veicola il medesimo messaggio per mezzo


della parola uhem ankh, in geroglifico

traducibile letteralmente come RINNOVAMENTO DELLA


VITA o RIPETIZIONE DELLE NASCITE, un concetto
volutamente reso poco manifesto per una serie di motivazioni che
possono renderlo facilmente fraintendibile.
Ciò che effettivamente si reincarna è infatti il ren-microcosmo, e
non le personalità con le quali così facilmente ci identifichiamo, che

51
Origene di Alessandria, cit. in David Donnini, Nuove ipotesi su Gesù, Macro Edizioni,
Diegaro di Cesena (FC), 2001.

151
per loro stessa natura sono aggregati energetici precari ed
evanescenti.
Non è quindi possibile affermare che esiste per tutti la possibilità
di una reincarnazione così come comunemente la si può intendere,
ma più precisamente una continuità confusa della vita istintiva
contenuta all’interno dell’involucro microcosmico; solo la graduale
condensazione di un nucleo cosciente potrà beneficiare di una reale
continuità cosciente attraverso le diverse vite terrene. Tale è il
motivo per cui la dottrina egizia introduceva il concetto della
reincarnazione unicamente all’interno della Scuola dei Misteri,
laddove i partecipanti avevano già scelto volontariamente e
consapevolmente di intraprendere un cammino di conoscenza
interiore.
Mentre la nascita terrestre crea lo spazio in grado di associare i
diversi elementi che costituiranno poi le caratteristiche della
persona, la morte li dissolverà nuovamente nel mare energetico
circostante, trasmettendo ad una vita successiva solo quelle
informazioni relative al grado di risveglio del proprio seme divino.

Figura 33 – Il concetto della reincarnazione simbolicamente espresso


tramite il dispiegarsi ed arrotolarsi della corda.

152
L’esistenza compresa tra la nascita e la morte corrisponde
all’anello formato sulla corda, il ren, altrimenti rappresentato anche
tramite spirali collegate e sostenute l’una all’altra grazie
all’impersonificazione simbolica del destino (figura 33). La corda
può formare degli avvolgimenti, degli anelli e dei nodi caotici, può
mutare direzione o mutare nome, ma essa resterà sempre quella forza
di coesione che lega un’esistenza all’altra, vincolata e soggiogata
dall’attrazione dialettica.
Solo una piena consapevolezza interiore permetterà di liberarsi
dalla sua morsa incontrollata per divenirne pienamente padroni; tale
è lo stato di colui che fuoriesce dal ciclo delle rinascite per rientrarvi
consapevolmente al servizio dei suoi simili. Il ren di un tale essere
diviene un veicolo perfetto per l’espressione della sua immagine
divina in terra, in completa armonia con gli altri microcosmi e con il
macrocosmo circostanti.

Energia ed Essenza

Un altro corpo citato frequentemente nella letteratura dell’antico


Egitto è il ka, in geroglifico

comunemente tradotto con il termine ENERGIA, anche se in


realtà esprime un concetto di portata molto più ampia, difficilmente
circoscrivibile all’interno di chiare descrizioni.
Per aiutarci in quest’impresa è possibile equipararlo al CHI della
tradizione cinese taoista, oppure ancora al PRANA induista. Il ka è
infatti quella forza cosmica che pervade tutto l’universo pur
rimanendo invisibile ed impalpabile, con la quale è però possibile
entrare coscientemente in contatto tramite un processo di graduale
sintonizzazione. Ecco perché il simbolo che contraddistingue il
concetto è la raffigurazione di due mani tese verso l’alto, al pari di
un’attuale antenna radiofonica capace di recepire informazioni
comunemente non accessibili ai nostri sensi ma comunque sempre
presenti nello spazio.

153
Lo sviluppo di una tale facoltà coincide con la formazione di uno
specifico corpo interiore ad essa correlato, simbolicamente
rappresentato dalla presenza del geroglifico sopra il capo
dell’iniziato (figura 34).
La caratteristica fondamentale del ka è il fatto di essere in origine
una FORZA NEUTRA, un’energia non polarizzata, ancora non
“contaminata” dall’alternanza duale del manifesto. Il fine di
ciascuno di noi è proprio quello di accedere alla sua sorgente più
pura, risalendo i cosiddetti ka inferiori per nutrirsi dei ka superiori.

Figura 34 – Colui che padroneggia il ka.

Tale corpo è il veicolo necessario per permettere al cuore di


esprimersi nel meglio delle sue possibilità; è il nuovo involucro
luminoso, puro, etereo, che permette all’individualità – ormai
spoglia delle maschere illusorie con le quali si identificava – di
mantenere la sua identità senza il rischio di dissolversi nuovamente.

154
Il ka è il primo nucleo imperituro del microcosmo che assicura
all’essere umano il mantenimento di un’identità non egoica
attraverso le diverse incarnazioni. Rappresenta il primo livello di
consapevolezza oltre quello razionale e morale, il primo stato di
coscienza potenzialmente esente dall’influenza delle alternanze
ordinarie della vita. Grazie al ka è possibile osservare la vita da una
prospettiva più obiettiva, in quanto non più preda dei coinvolgimenti
emotivi delle circostanze.
Si potrebbe affermare che ciascun individuo possiede questo
corpo già dalla nascita, ma che solo in alcuni casi si struttura in
forma libera ed autonoma. Il modo più semplice per comprendere il
suo processo di sviluppo è immaginarlo come un sintonizzatore di
energie. Fino a quando queste energie saranno di carattere animale,
istintuale e passionale (i ka inferiori), esse continueranno ad
alimentare l’aspetto egoigo, instabile ed impermanente.
Ma perseguendo un percorso di discernimento interiore, e
adottando uno stile di vita il più possibile in sintonia con qualità
energetiche di natura consapevole, altruistica e aggregativa (i ka
superiori), queste stesse si accorderanno gradualmente fino a
costituire un vero e proprio organo spirituale, strettamente collegato
con l’elemento cuore.
Abbiamo già anticipato come tutto ciò che esiste nell’universo sia
permeato da energia. Si impone dunque la necessità di passare da
una tipologia di ragionamento di tipo quantitativo ad un tipo
qualitativo o, più correttamente, vibrazionale.
In questa prospettiva ogni essere umano si nutre, consciamente o
meno, di tutto ciò che lo circonda, dai cibi solidi alla musica, alle
letture, agli ambienti che frequenta; e concorre lui stesso ad
immettere nutrimenti nel sistema, tramite azioni, parole e pensieri.
Tutto è ka. In accordo con quanto afferma l’Ayurveda, tutto è cibo.
Vigilando con pazienza e perseveranza sul proprio modo di
relazionarsi con il mondo, e cercando instancabilmente di porre
ascolto all’intelligenza del cuore, si metterà in sintonia il ka
personale con gli altri ka umani e animali, così come vegetali ed
inorganici, instaurando con loro un contatto di inimmaginabile
profondità.
Sarà forse ora più semplice comprendere il delicato concetto di
MAGIA, in egizio heka e in geroglifico

155
letteralmente l’AZIONE DEL KA SUI TRE PIANI, in quanto il
primo segno simboleggia proprio l’unione indissociabile di terra,
uomo e cielo.
L’arte magica è accessibile solo a colui che ha acquisito la
capacità di vedere e sentire coscientemente la vita, in grado di
muoversi agilmente all’interno dei diversi piani dell’esistenza.
Ancora una volta, il fine regale dell’arte magica è quello di metterla
al servizio dei propri simili, per aiutarli e sostenerli nel cammino
della vita.
Mago è colui capace di scorgere in profondità le cause al di là
delle apparenze, consapevole delle trame che muovono l’esistenza e
delle leggi che la regolano; egli può dunque alleggerire il fardello di
un proprio simile consigliandolo e sostenendolo rettamente (senza
però mai interferire o lederne la volontà), ma non è difficile
immaginare quanto siano pericolose simili conoscenze in mano a
coloro che sono ancora pieni di ambiziose velleità.
Coloro che non hanno sviluppato il proprio ka ritornano sulla
terra innumerevoli volte. Essi non beneficiano però coscientemente
di questi ritorni, ne restano piuttosto all’oscuro perché la coscienza
individuale sussiste solo attraverso il corpo del ka. Non si può quindi
dire che vi sia reincarnazione, ma più propriamente una continuità
della vita istintiva confusa in mezzo ad altre esistenze istintive.
Questo delucida in forma più completa il motivo precedentemente
accennato dell’inutilità di estendere la dottrina della metempsicosi al
popolo immerso nella vita istintiva.
Viceversa, colui che acquisisce la coscienza del ka, inizia a
sviluppare un senso di responsabilità verso le conseguenze future di
tutti i suoi atti all’interno del sistema universo in cui è inserito, al
pari di una cellula di un organismo.
Camminare nel sentiero della consapevolezza equivale ad elevare
la qualità del ka personale risvegliandone le facoltà spirituali e
riducendo proporzionalmente la tirannia dei ka inferiori, fino al
momento in cui qualcos’altro riconoscerà nell’individuo lo

156
strumento ideale per accoglierlo ed esprimerlo: la PRESENZA
DIVINA, il ba, in geroglifico

traducibile letteralmente come ESSERE PRESENTE, qui ed ora.


Il primo termine rappresenta la cicogna africana, conosciuta
come jabiru, e simboleggia la facoltà di muoversi, di migrare da Dio
all’uomo e viceversa, sottolineandone così il legame sottile ma
inestinguibile. Il secondo geroglifico è invece più comune e raffigura
un uccello con il volto e le braccia umane (figura 35), che
sembrerebbe evocare quell’aspetto umano capace di librarsi in volo
verso i piani più sottili di sé.

Figura 35 – La Presenza divina, il ba.

La caratteristica più importante e fondamentale del ba è che nelle


raffigurazioni compare sempre al di fuori dell’individuo; eppure ben

157
sappiamo quanto esso ne rappresenti a tutti gli effetti un corpo
interiore. Tale paradosso è rivelatore di uno dei più meravigliosi
misteri della vita cui siamo chiamati a sperimentare e a svelare in noi
stessi.
Il ba è la scintilla divina che reclama il suo diritto alla vita.
Ostacolarla, impedendogli di poter trovare un adeguato rifugio
dentro di sé, equivale a condannarsi alla morte spirituale, alla
dissoluzione.
Ecco il motivo per cui ogni dottrina prescrive un lavoro di
predisposizione interiore atto a creare le condizioni ideali affinché
l’Ospite possa riconoscere il suo regale alloggio. Una dieta specifica
e morigerata, uno stile di vita lontano dal chiasso mondano,
l’adesione a particolari norme di vita, sono tutte forme preparatorie
con il preciso fine di pulire ed ordinare il proprio Tempio, renderlo
pronto.
Il motivo per cui il ba resta in disparte nelle raffigurazioni, è
perché esso è neutro, impassibile ed indifferente alle vicende della
persona, al di fuori dalle tempeste emotive e da ogni sorta di
elucubrazione mentale. Esso è il vero IO SONO, e come tale può
essere percepito solo attraverso un silenzio interiore, una
sospensione del pensiero discorsivo capace di aprire le porte ad una
realtà del tutto nuova.
Si può ora facilmente immaginare come lo sviluppo del ka
costituisca un costante richiamo per il ba, che ne ritrova il supporto
energetico ideale e necessario. Mentre ba rispetto a ka è lo spirito
animatore, ka rispetto a ba è l’individualizzazione della coscienza
(un gioco continuo di intercambio che dà ad ognuno di loro un ruolo
sia passivo che attivo, considerazione importante per non cadere
nell’errore di interpretarne schematicamente le funzioni).
Laddove non si realizza nell’individuo una tale unione, il ba
ritornerà al suo luogo di origine confondendosi nuovamente con Dio,
così come una goccia d’acqua ritorna nell’oceano per dissolversi in
esso, mentre il principio egoico umano lotterà in terra per la sua
sopravvivenza, disgregandosi però anch’esso nel corso del tempo.

158
Il contatto con il divino

Per un individuo quindi, dopo un percorso di purificazione


interiore in cui inizia a riconoscere in se stesso la presenza del ba, si
aprono le porte per una nuova fase del Cammino.
Come abbiamo visto il ba è infatti uno stato coscienziale divino
ma di natura ancora transitoria. Data la sua peculiarità di
trasmigrare, egli può riconoscere il suo nido nell’essere umano
prendendovi alloggio per alcuni attimi, ma non è detto che riesca a
porvi dimora definitivamente; le tentazioni e le distrazioni della
natura dialettica hanno ancora la forza di soffocare abilmente la sua
voce e la sua presenza.
Ogni raggiungimento di un nuovo stato di coscienza impone una
sua immediata sperimentazione e concretizzazione a livello pratico,
nella vita quotidiana. Se ciò non avviene, qualsiasi eventuale
intuizione o “piccola illuminazione” perde immediatamente il suo
valore, rischiando di decadere a livello di elucubrazione mentale o
fantasia emotiva, pur mantenendo viva l’illusione di aver
definitivamente raggiunto una condizione di consapevolezza divina.
Il rischio di fraintendere alcune profonde ispirazioni filtrandole e
confondendole caoticamente con le proprie personali debolezze, è
sempre in agguato. Ciò è la causa di molti fanatismi, in cui tutte le
limitazioni e gli egoismi umani concorrono nel manifestare
apertamente quello che in origine potrebbe essere stato un reale
barlume di volontà superiore. Per ovviare a questo pericolo non vi è
altra strada che fare affidamento ad una serrata vigilanza interiore.
L’obiettivo di ogni disciplina tradizionale, dalle meditazioni alle
preghiere, dalle danze alle cerimonie, è quello di predisporre
l’individuo affinché possa vivere con piena consapevolezza e
responsabilità ogni attimo della sua esistenza. Si potrebbe dunque
equiparare ogni arte sacra ad una sorta di palestra preparatoria con la
precisa funzione di rendere vivo un particolare stato di coscienza
nella quotidianità.
Ad esempio nella tradizione Sumarah, a fianco della tecnica
meditativa “straordinaria” denominata sujud kusus, ne esisteva
un’altra di maggiore importanza:

159
È il sujud harian, la meditazione “quotidiana”, il momento in
cui portiamo le nostre conquiste e la nostra nuova e sempre
rinnovata consapevolezza nella vita di tutti i giorni. Possiamo
per un attimo avere l’illusione che sarà facile o in qualche
modo meno impegnativo meditare in mezzo alla vita che non
sedersi a meditare, ma ci accorgeremo presto che invece è
vero il contrario, soprattutto perché è proprio qui, nella
cosiddetta normalità della vita quotidiana che il nostro ego si
sbizzarrisce esibendosi in tutti i suoi più sofisticati giochi e
illusionismi.52

L’obiettivo del Cammino è la fusione del ba con tutto il proprio


essere, una vera e propria TRASFORMAZIONE, dove anche la più
piccola cellula del corpo muta la sua struttura per adempiere
completamente alla nuova funzione. Ad un tale livello il ba prende
definitivamente alloggio nel cuore dell’individuo, dando vita a
quello che gli antichi saggi chiamavano akh, in geroglifico

letteralmente ESSERE DI LUCE, la forma di esistenza perfetta,


impeccabile, dove la propria volontà terrena personale diviene un
tutt’uno con la volontà veicolata dalla presenza divina.
Il segno che rappresenta questo corpo è l’ibis comata, uccello
caratteristico per le piume dai riflessi metallici splendenti e luminosi,
simbolo dell’essere umano ILLUMINATO, che irradia la sua forza
per mezzo dell’esempio.
Akh è altrimenti conosciuto come il CORPO DI LUCE che non si
possiede al momento della nascita ma che si può conquistare solo
tramite un profondo lavoro di conoscenza e purificazione interiore.
Tale stato di coscienza non è comunque ancora una fase
conclusiva del Cammino, bensì una tappa verso una perfezione più
alta, verso la più elevata condizione che un essere umano può
fisicamente raggiungere nel mondo in cui viviamo: il sa-hu, in
geroglifico

52
Laura Romano, Sumarah. Il risveglio del maestro interiore, Ubaldini, Roma, 1999.

160
che può essere tradotto come MAGO e contraddistingue il
CORPO DIVINO, attraverso il quale l’individuo raggiunge un totale
contatto con la sfera celeste, unendosi ad essa per divenire a tutti gli
effetti un Dio in terra. Ecco perché il primo geroglifico della parola
simboleggia un particolare nodo che fissa nell’uomo la natura
divina, pur rappresentando allo stesso tempo un fluido vitale che
circola senza impedimenti al di fuori del tempo e dello spazio.
Sa-hu è il corpo iperspaziale capace di muoversi liberamente
attraverso tutti i mondi e le dimensioni; vivendo nell’Eternità, egli
non è più soggetto a limitazioni di nessun tipo. La discesa nei più
profondi meandri di se stessi conduce infatti alla percezione
dell’elemento sottile che dà vita e sostiene ogni cosa, travalicando la
materialità cristallizzata nello spazio-tempo. È in tale luogo
coscienziale che il mago, non più stregato dallo spettacolo illusorio
della vita, può coglierne le cause e i disegni soggiacenti in modo
presensoriale.

161
162
La ricerca di Ak-Yb-Ka

IV.

OLTRE IL PENSIERO

Ak-Yb-Ka riusciva a stento ad accettare ciò che ora poteva


vedere e sentire. Il bene? Il male? Due sottili inganni del pensiero,
schiavi entrambi della ricerca del piacere. Ma quanti ideali costruiti
negli anni intorno ad essi. La vita? Una serie ininterrotta di
significati ad essa attribuiti. E ora? Frantumare il tutto in vista di
cosa?
Eppure, un richiamo al risveglio lo incitava a spingersi ben oltre,
suggerendogli l’esistenza di un bene assoluto, per quanto
irraggiungibile con i comuni mezzi della logica umana.
Nella stessa strada intrapresa, riuscì a trovare una nuova
filosofia, una nuova scienza, nuove prospettive cui guardare la vita.
Ma ora stava emergendo la consapevolezza di come la loro funzione
non sia stata altra se non quella di accompagnarlo fino a quel
punto. Ripercorrendo le sue avventure, comprese infatti come
l’unico fine del Tempio fosse stato solo quello di spronarlo a
vigilare sempre attentamente su di sé.
Già, perché ogni commovente regalo della vita, ogni inaspettata
sorpresa, porta sempre in serbo anche inebrianti ebbrezze
soporifere per l’anima. Ak-Yb-Ka comprese allora come ogni
benedizione nasconde anche una potenziale maledizione di pari
intensità. “Là dove la Luce si fa più intensa e più vicina, le ombre si
fanno più minacciose, e maggiore sarà la responsabilità richiesta
per custodirla e perseguirla,” gli veniva spesso ricordato come
monito.
La presenza della Scuola, la presenza del suo maestro: quali
insidiose tentazioni di adagiarsi sul Cammino accontentandosi della
loro protezione e benevolenza. E quanto tirannica la mente nel voler
costantemente fossilizzare l’insegnamento in sterili norme di vita
dogmatiche.

163
Ak-Yb-Ka sapeva di trovarsi ormai sulla soglia tra il vecchio
mondo ed un nuovo universo inesplorato, e temeva profondamente
di spingersi oltre, ben sapendo però che nulla sarebbe stato più lo
stesso tornando indietro. Riportò alla memoria il passato,
quell’antica sensazione di tristezza ed amarezza che per molto
tempo lo accompagnarono. Non volle essere nuovamente inghiottito
dal caos. Giurò a se stesso che non avrebbe più indossato i vecchi
abiti. E si sentiva nudo, completamente nudo. Non era più sufficiente
la comoda illusione di appartenere all’elité del Tempio. Poteva forse
chiunque altro risvegliarlo al posto suo?
Fu allora che Ak-Yb-Ka si accorse della presenza silenziosa del
maestro alle sue spalle, e fu in quel momento che vide ridere e
danzare la separazione illusoria che tutto invade. Allora sentì di
essere parte del Tutto, di partecipare al Tutto. Lo vedeva senza
occhi, lo sentiva senza orecchie. L’esplosione del Sole nel cuore. Il
padre, la madre, i fratelli, gli amici, i nemici… il suo maestro, il
faraone, l’Egitto, il mondo, l’universo, la vita. Incontenibile il Tutto,
la suprema gioia nel Vuoto. Un silenzio assordante in cui uscire dal
tempo. E poi il pianto di una bambina in lontananza, lo smarrimento
dei suoi compagni, laggiù nel mondo; la paura, la solitudine.
Irrefrenabile il desiderio di tornare, per portare speranza, per
testimoniare la Luce.

164
La pesatura del cuore

Libro dei morti o libro dei vivi?

Il testo sacro dell’antico Egitto più noto ai giorni nostri è


sicuramente il Libro dei Morti, una raccolta di formule magiche con
l’apparente funzione di accompagnare l’anima del defunto nel regno
dell’aldilà. Ma questo titolo rischia di trarre in inganno, giacché il
suo vero nome, in egizio pert em heru e in geroglifico

si traduce letteralmente come USCIRE ALLA LUCE DEL


GIORNO, un significato di gran lunga differente dal primo.
Secondo la tradizione questa raccolta di formule è un vero e
proprio manuale simbolico in grado di guidare il microcosmo umano
al di fuori del caos del mondo (figura 19), sottraendolo dall’oscurità
dell’ignoranza per librarlo verso la luce divina. La potenza di questo
libro potrebbe dunque rivolgersi tanto ai vivi quanto ai morti, anche
perché secondo gli egizi la linea di confine tra ciò che noi
consideriamo comunemente mondo terreno e l’aldilà è molto, molto
aleatoria.
Forse, con maggior precisione, potremmo affermare che ciò che
differenzia lo stato di vita da quello di morte non sia solo la presenza
o meno di un corpo fisico. Il nucleo vitale di un essere umano (come
analizzato nel capitolo precedente) può continuare il suo percorso
anche dopo aver deposto il proprio abito organico terreno, così come
può spegnersi e dissolversi ancor prima di averlo abbandonato.
Il Libro dei Morti altro non è che uno strumento in grado di
fornire preziose indicazioni per orientare sul Cammino, per aiutare a
porre correttamente le domande esistenziali, non per fornire risposte
definitive. Per tale motivo ci riferiremo d’ora in avanti a lui con il
titolo di Manuale per la Vita.
Ovviamente non sarà qui possibile sviscerarne tutto il contenuto,
formula dopo formula, ma ci soffermeremo sulla famosa

165
raffigurazione della pesatura del cuore (figure 36-37-38), dato il suo
ricchissimo ed esplicativo simbolismo.

Figura 36 – La pesatura del cuore (a).

Figura 37 – La pesatura del cuore (b).

166
Figura 38 – La pesatura del cuore (c).

Conosciuta anche come PSICOSTASIA, questa scena


rappresenta la condizione interiore che ogni essere umano si trova a
vivere nel qui ed ora, non solamente al termine dalla sua esistenza.
Il protagonista è il microcosmo, cui viene costantemente offerta
l’opportunità di divenire consapevole di se stesso per poter così
spezzare le catene delle illusioni e divenirne finalmente libero. Esso
viene raffigurato in questo caso per mezzo di una figura maschile
che compare quattro volte all’interno dell’intera scena. Inizialmente
compie il suo ingresso nella cosiddetta Sala della Verità
accompagnato da una controparte femminile (figura 36),
impercettibile energia angelica che gli offre sostegno nel suo
desiderio di ricerca, infondendogli forza con il suono cerimoniale del
sistro. Subito dopo si ritrova sotto le braccia della bilancia,
specularmente al dio ANUBI, in egizio ynpu e in geroglifico

che significa APERTURA DEL CAMMINO, simboleggiando


proprio quel richiamo che chi desidera penetrare il mistero della vita

167
sente in fondo al suo cuore. L’animale che lo contraddistingue è lo
sciacallo, le cui qualità naturali gli consentono di ingerire carne
putrefatta per trasformarla in nutrimento, in analogia con la capacità
alchemica di trasmutare gli eventi della vita apparentemente privi di
senso in esperienze realmente spirituali, consapevoli, vere.
Anubi è dunque l’iniziatore, la guida che accompagna l’individuo
attraverso i molteplici ostacoli presenti sul Cammino; incarna infatti
la SPERANZA, qualità necessaria per procedere verso quella luce di
cui ancora non si conosce nulla ma di cui si può presagire l’esistenza
attraverso una profonda ed inspiegabile nostalgia interiore.
Il motivo per cui questo dio è spesso associato al concetto di
morte – le sue statue presiedevano i sarcofagi e i rituali di
mummificazione – è perché il suo compito consiste
nell’accompagnare da un vecchio stato di coscienza ad uno nuovo,
verso una vera e propria rinascita interiore.

In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento


caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore,
produce molto frutto.53

Prendere coscienza di Anubi significa compiere consapevolmente


la scelta di intraprendere il Cammino, per volgere finalmente il
proprio sguardo dall’esterno verso l’interno. Laddove una simile
decisione non viene compiuta, le attrazioni caotiche del mondo
continuano a giocare con le proprie illusioni in un circuito vizioso
dal quale non vi è reale via di uscita; ed è in un tale stato di
incoscienza che Anubi rimane in attesa nel buio nelle vesti di
GUARDIANO DELLA SOGLIA.

La consapevolezza del proprio destino

Concentrando l’attenzione sull’immagine della bilancia (figura


36) si può scorgere come poco sopra la testa del protagonista si
impone come una spada di Damocle una sorta di mattone nero dal
volto umano. È il dio shay, in geroglifico

53
Vangelo (Gv 12,24).

168
impersonificazione del DESTINO individuale cui ognuno di noi è
inesorabilmente legato.
Occorre però anche in questo caso compiere lo sforzo di superare
il dualismo bene-male per non interpretare il fato come
un’ingiustizia o una punizione divina, nonostante la raffigurazione
simbolica lo ponga volontariamente in una posizione minacciosa nei
confronti del giudicato.
Shay equivale a tutti gli effetti al concetto orientale di KARMA o
a quello occidentale di SEMINA E RACCOLTA; una vera e propria
legge di causa-effetto cui risponde inevitabilmente ogni passo
compiuto nella vita. Non esiste dunque al suo interno distinzione di
positivo e negativo più di quanto non si possa definire negativa o
positiva la legge di gravità, ma sono solo i nostri giudizi e significati
ad interpretarla in un senso piuttosto che un altro.
Possiamo considerare, per esempio, il più condiviso consenso
comune per il quale la fortuna sia direttamente collegata ad
un’ampia disponibilità economica. Eppure è sotto gli occhi di tutti
che esistono persone estremamente ricche e famose profondamente
insoddisfatte e disperate, mentre altre persone particolarmente
povere sono invece piene di vitalità e gratitudine verso la vita.
La legge del karma incombe sul capo fino a quando il nostro
sguardo, la nostra attenzione, rimane rivolta sul piano orizzontale
della vita, totalmente concentrata sugli eventi esterni, interpretandoli
quindi sulla base di casualità fortuite o accidentali. Solo un
capovolgimento di prospettiva in grado di accogliere gli stessi eventi
come il riflesso di una realtà interiore ancora incompresa, permetterà
di accettare le circostanze presentate dal karma come un vero e
proprio insegnamento, un’occasione unica ed irripetibile per mettere
in luce parti di sé nascoste ed impensate.
Diviene inoltre indispensabile considerare come il destino non sia
propriamente qualcosa di inesorabile. Per quanto paradossale possa
sembrare, comprendere il proprio karma equivale anche ad andare al
di là di esso.

169
Simbolicamente quanto graficamente, all’interno del microcosmo
umano (figura 32) coesistono differenti personalità, desideri,
significati, azioni, parole e pensieri strettamente connessi tra loro.
Tutto ciò dà vita ad un sistema psichico ed organico che si muove
nella vita seguendo precisissimi binari prestabiliti dalla sua stessa
organizzazione interna, ricreando intorno a sé condizioni esistenziali
ad essa speculari secondo il principio ermetico così in alto, così in
basso.

Figura 39 – Il microcosmo dal punto di vista astrologico.

170
La parola stessa micro-cosmo si contrappone analogicamente a
quella di macro-cosmo, evidenziando implicitamente come i due
sistemi siano l’uno lo specchio dell’altro. Tale è il motivo per cui
anche nella tradizione astrologica l’essere umano viene
rappresentato con i segni zodiacali impressi interiormente nel corpo
ed in corrispondenza esteriore con quelli universali (figura 39), dove
nello spazio racchiuso nell’involucro individuale compare una
moltitudine caotica di piccole nuvole scure, gli elementi karmici non
ancora manifestati che si riflettono in tendenze automatiche ed
innate.
La vera funzione di un TEMA NATALE astrologico è proprio
quella di rivelare le peculiarità impresse nel microcosmo, offrendo
nel qui ed ora l’occasione di prenderne coscienza per divenirne
liberi e non più vittime inconsapevoli.
I saggi egizi ben conoscevano la condizione in cui ogni essere
umano si trova, per nulla dissimile da quella di un burattino mosso
da fili invisibili, e hanno racchiuso nel simbolo dell’ankh il fine
esistenziale cui ambire, il superamento delle proprie costrizioni
astrologiche. Attualmente nota come CHIAVE DELLA VITA, in
geroglifico

evoca la possibilità di divenire effettivamente PADRONI DEL


PROPRIO DESTINO, capaci di scegliere e di muoversi
consapevolmente; ecco perché in quasi tutte le statue e raffigurazioni
gli dei, faraoni od iniziati, stringono in mano l’ankh.
Questo semplice simbolo – oltre a veicolare i significati connessi
all’immagine della croce – apre le porte a molteplici piani di lettura.
Prima di tutto può essere interpretato figurativamente come un
laccio di sandalo, ossia ciò che consente ai piedi di camminare
agilmente sul loro cammino, ma può anche essere tradotto
letteralmente come OROSCOPO, in qualità di nodo che ricorda
come la vita del singolo essere umano sia legata alla vita delle stelle.
La sua immagine ricorda inoltre la forma degli specchi rituali
associati ad Hathor: nel proprio oroscopo, così come nella vita

171
quotidiana, si può infatti scorgere il riflesso di se stessi, come
realmente siamo, non come pensiamo di essere.
È proprio grazie ad un percorso di riconoscimento, di
smascheramento di tutti quegli aspetti con i quali spesso ci
identifichiamo, che passo dopo passo verrà posto ordine e chiarezza
nel microcosmo, fino a ristabilire il giusto equilibrio e la giusta
stabilità interiore, fissando l’ankh in perfetta armonia nel ren (figura
40), e aprendo finalmente il portale nel centro del proprio essere, là
dove Khepry – la ROSA DEL CUORE – potrà finalmente sbocciare.

Figura 40 – L’ankh ristabilita al centro del microcosmo.

Il contrappeso

Procediamo ora con l’esaminare il tipo di unità di misura


utilizzato nella bilancia (figura 36): da un lato abbiamo il cuore e

172
dall’altro una piuma, simbolo della dea MAAT (figura 41), in egizio
maat e in geroglifico

che significa letteralmente ORDINE, VERITÀ o GIUSTIZIA, e


che simboleggia appunto l’equilibrio cosmico emanato da Ra. Maat
è la saggezza del mondo, la SAPIENZA DIVINA, il trionfo
definitivo della vita sulla morte. Essa contraddistingue il campo di
coscienza spirituale più elevato cui si può attingere, il traguardo di
ogni vero cammino interiore, quel BENE ASSOLUTO che emerge
oltre i concetti di bene e male relativi.

Figura 41 – La dea Maat.

173
Nell’antico Egitto il ruolo del faraone era proprio quello di essere
il suo principale tutore e la sua vivente manifestazione agli occhi del
popolo. Tutta la sua condotta era tesa ad offrire Maat alla vita in
ogni gesto quotidiano (simbolicamente espresso nella figura 42), sia
pubblicamente che intimamente.
Vivere Maat, in Maat e di Maat, non significa farne filosofia né
tantomeno ostentare sorprendenti poteri in grado di affascinare le
altre persone; significa invece riconoscere i disegni di una volontà
superiore e ricercare con gioia di muoversi in armonia con essi.
Una tale condizione interiore non lascia spazio a secondi fini
egoistici e nemmeno a personali concezioni di giustizia. Si narra a
tal proposito nella tradizione sufi di un allievo che ambiva ad entrare
in possesso della più alta conoscenza divina, che gli avrebbe aperto
le porte ad ogni sorta di potere spirituale.

“Devi assolutamente insegnarmi il sacro nome segreto di


Allah”, disse un novizio al maestro sufi. “Non mi pare che sei
pronto”, disse l’altro, “ma ti metterò ugualmente alla prova.
Domattina all’alba recati alla porta principale della città e
riferiscimi ciò di cui sarai testimone”. Il novizio ubbidì e il
giorno dopo, nel luogo indicato, vide un energumeno
maltrattare un povero vecchio. “Quest’uomo è fortissimo”,
pensò, “se lo affrontassi, avrei la peggio”. La sera stessa, il
giovane narrò l’evento al suo maestro nei minimi dettagli. E,
con tono di rimprovero, aggiunse: “Se oggi avessi saputo il
nome segreto, quell’omaccione se la sarebbe passata male!”
Il maestro ascoltava in silenzio, senza replicare. Allora il
giovane sbottò, e disse: “Cosa c’è? Perché non parli? Non
pensi che abbia diritto a conoscere quel nome?” “Proprio no”,
rispose il sufi, “in effetti, mio irruento amico, il vecchio
maltrattato non era altro che il mio maestro. Cioè l’uomo che
mi rivelò, molto tempo fa, il sacro nome segreto di Allah”.54

Questa storia estremamente suggestiva non necessita di


commenti, ma impone silenziosamente a ciascuno di noi una sincera
riflessione su quanto la propria vita possa essere ancora
spiritualmente fragile.

54
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.

174
Figura 42 – Il faraone intento ad offrire Maat alla vita, a Dio.

Maat è dunque la coscienza emanata incessantemente da Dio, e


ne rappresenta al tempo stesso anche il nutrimento. Secondo i saggi
egizi la vera felicità di una persona o di un popolo è
indissolubilmente legata alla ricerca e alla pratica di Maat; essa è il
fine di ogni culto divino, il potenziale equilibrio esistente tra
l’universo e il mondo, tra il macrocosmo e il microcosmo.
Nella scena della pesatura compaiono due espressioni di questa
dea (anche se non sempre presenti a livello figurativo): la MAAT
INDIVIDUALE con la piuma che controbilancia il cuore e la
MAAT UNIVERSALE che assiste al giudizio da un’altra posizione
lontano dalla bilancia. Mentre quest’ultima è l’essenza stessa della
divinità che tutto pervade, la prima ne rappresenta una particolare ed
intima espressione propria di ogni microcosmo, così come differenti
componenti di uno stesso puzzle costituiscono piccole ma
fondamentali parti di un tutto.
Tale è il motivo per cui non potranno mai esistere indicazioni
prestabilite e definitive per regolare la condotta di ciascun essere

175
umano, dato che di fronte ad una stessa situazione vi potranno essere
molteplici possibilità di azione e, per quanto differenti, ciascuna
impeccabile per quel particolare tipo di microcosmo. Ma è altresì
importante considerare che prendere coscienza della propria Maat
individuale equivale ad aprire anche un canale diretto con la Maat
universale, tanto da non poterle più realmente scindere.
Il Cammino di Maat cerca di risvegliare nell’essere umano la sua
reale facoltà di libera scelta. Mentre il microcosmo risentirà sempre
dell’inclinazione degli astri, esiste la possibilità di rimanerne in un
certo senso neutrali e distaccati, non facendosi turbare da esse ma
trascendendole seguendo le direttive del proprio cuore.
Tale pratica consiste nell’operare ogni giorno affinché siano
perseverate nella vita intorno a sé la coesione, la bellezza e
l’armonia. Ma per fare questo è necessario prendere coscienza di
quelle forze caotiche che lottano per mantenere l’essere umano in
uno stato di sonno e confusione.
L’opposto dell’espressione divina Maat è yspet, in geroglifico

traducibile come DISORDINE, INGIUSTIZIA o MENZOGNA.


Il ruolo principale della civiltà egizia, espresso principalmente
attraverso il compito del faraone, è quello di porre Maat al posto del
CAOS. Vivere secondo la Regola di Maat significa amare i propri
simili, condividere ciò che si possiede con loro, donarsi
completamente ad essi, sostenere ed insegnare ai più deboli ed
imparare con umiltà dai più saggi.
In qualità di bene assoluto, Maat emerge là dove si riesce a
superare ogni relativismo e dualismo, là dove svanisce
l’IGNORANZA, in egizio kem e in geroglifico

a tutti gli effetti considerata come l’unico vero MALE


ASSOLUTO, fonte di ogni sofferenza e schiavitù.

176
Questo termine simboleggia il luogo segreto di ogni generazione,
centro oscuro e nascosto che ospita il potere creativo senza poterlo
però vedere e conoscere, in attesa che esso si possa manifestare
apertamente. Il terzo geroglifico raffigura le braccia in un gesto di
negazione ed impotenza, rivelando così un'altra possibile traduzione
della parola, ossia DISTRUGGERE, nuocere, essere secco, arido;
tutte condizioni cui l’ignoranza conduce.
Ma il suo effetto più deleterio per l’essere umano è ciò che viene
considerato dagli egizi come il peggiore male che può insinuarsi
nell’animo di un individuo, in grado di corroderlo poco a poco fino
ad annullarne ogni vera energia vitale, ogni spiraglio di luce. Si
tratta dell’AVIDITÀ, in egizio aun-yb e in geroglifico

che significa letteralmente RAPACITÀ DI CUORE, una continua


tensione che spinge a voler inglobare il più possibile per sé, non
tanto per poter godere di ciò che viene acquisito, ma per l’insaziabile
desiderio di accumulare sempre di più, anche a scapito delle persone
circostanti. L’avido è infatti totalmente insensibile alle necessità
altrui e il suo cuore si riduce in breve tempo a sterile contenitore di
illusioni, sopprimendo ogni barlume di consapevolezza superiore.

Il verdetto della bilancia

Diviene forse ora più semplice comprendere il significato del


soppesare il cuore con la piuma di Maat. Come abbiamo potuto
osservare nei capitoli precedenti, il cuore è l’unico “strumento” a
nostra disposizione in grado di aprirci le porte verso un reale
risveglio spirituale. Ma occorre conoscere in profondità il modo in
cui esso funziona e si esprime.
Abitudinariamente ciascuno di noi tende a far riferimento al
concetto di cuore per motivare o giustificare una miriade di pensieri,
parole ed azioni, siano pur essi di natura prettamente egoica. Non
sarà certo un atteggiamento buonista a certificare l’esistenza di
sentimenti reali e sinceri; conquistare la stima e l’apprezzamento di

177
mille persone non modificherà di una sola virgola la propria reale
condizione interiore.
Nel tentativo di fare chiarezza accorre in aiuto il simbolismo
adottato dai saggi egizi (figura 31), dove il cuore è rappresentato da
un vaso, una coppa, in altre parole un contenitore. In esso vengono
così posti per legge naturale ogni azione, parola e pensiero,
seguendo un ordine di importanza pari a quello appena riportato.
La condizione umana è caratterizzata da una costante immersione
nei pensieri discorsivi, da rivisitazioni del passato e da
prefigurazioni del futuro, da preoccupazioni, paure, idee,
interpretazioni delle proprie azioni e relative giustificazioni o
colpevolizzazioni. Insomma, non è molto difficile comprendere il
motivo per cui tutte le dottrine spirituali incitano al risveglio, a
vivere realmente il presente, ad aprire gli occhi.

Il brahmana Dona vide il Buddha seduto sotto un albero e fu


tanto colpito dall’aura consapevole e serena che emanava,
nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese: “Sei
per caso un dio?” “No, brahmana, non sono un dio.” “Allora
sei un angelo?” “No davvero, brahmana.” “Allora sei uno
spirito?” “No, non sono uno spirito.” “E allora, che cosa sei?”
“Io sono sveglio”.55

Il primo passo da compiere sulla strada della consapevolezza


(come accennato in un capitolo precedente) è riconducibile all’arte
della CONSTATAZIONE, il cui termine in egizio, maa, si riallaccia
proprio al nome della dea Maat, evidenziandosi come passaggio
fondamentale per raggiungere la completezza di un tale stato di
coscienza.
Come si potrebbe infatti realizzare una piena conoscenza di se
stessi e della vita senza prima riuscire a prendere atto del proprio
modo di porsi in relazione con gli altri e con il mondo? Come poter
vedere la realtà senza riconoscere prima i propri molteplici filtri
percettivi?
In altre parole, prima di poter ascoltare il proprio cuore, occorre
conoscerlo, e per poterlo conoscere occorre volgere ad esso la
propria attenzione, sbirciando con obiettività al suo interno per

55
Anguttara Nikaya, Il Libro dei Quattro (Dona Sutta).

178
vedere quali azioni, parole e pensieri siano in esso contenuti. Un tale
lavoro, per quanto apparentemente semplice e banale, portato a
livello pratico manifesta non poche difficoltà, date le forti resistenze
cui il proprio orgoglio si trova costretto ad affrontare. Si tratta infatti
di una vera opera di smascheramento di tutte quelle fasulle immagini
di noi stessi, capace di mettere in luce ogni dissonanza tra ciò che
pensiamo e ciò che diciamo, tra ciò che diciamo e come agiamo.
Arduo è il Cammino di Maat, alla portata di tutti ma non per tutti,
esso ci pone di fronte a quel vuoto esistenziale insostenibile ed
insaziabile delle mille distrazioni del mondo. Eppure non vi sono
scappatoie: la consapevolezza necessita di essere coltivata per mezzo
di continue osservazioni, perché solo un tale processo conduce alla
formazione di un preciso organo interiore denominato TESTIMONE
INTERIORE, in egizio tekh e in geroglifico

che significa PENDOLO e che può essere definito sia


simbolicamente che figurativamente come un piccolo seme, più
precisamente come il CENTRO DEL CUORE.
È il filo a piombo che ritroviamo appeso nella bilancia,
monitorato con la mano da Anubi (figura 36). La sua funzione è
quella di offrire costantemente all’individuo un resoconto chiaro ed
onesto della condizione vitale in cui si trova, al di là delle idee
illusorie e delle giustificazioni mentali, suggerendo inoltre – qualora
si abbia il coraggio e la voglia di dargli ascolto – le azioni da
perseguire per equilibrare il più possibile il peso del cuore con la
piuma di Maat.
La voce del Testimone Interiore è la voce della coscienza, la voce
di Horus, il Grillo Parlante che con fatica cerca di farsi sentire per
ricordare a Pinocchio la strada da percorrere, per ricordargli lo stato
di coscienza in cui si trova, per ricordargli quali agguati fuorvianti
possono nascondersi dietro le seduzioni del mondo.
Il concetto di RICORDARE è infatti riconosciuto dai cabalisti
come espressione di una necessità fondamentale, una parola chiave
che compare ben 125 volte all’interno della Torah.

179
Ogni ricercatore subisce fortemente la tentazione di perdersi nei
particolari, di interpretare ciò che percepisce o di studiare in base a
opinioni emotive o pregiudizi personali, e di considerare assurdo ciò
che momentaneamente gli è inaccessibile. È difficile voltare le spalle
al pensiero razionale, al senso utilitaristico, alla dialettica orgogliosa;
esse confondono la realtà sventolando ipocritamente bandiere
idealistiche o impugnando la logica, là dove il cuore vedrebbe
lucidamente e senza interferenze. Ma una visione di questo tipo
potrebbe apparire cinica se non compresa a fondo.
Un cuore puro non è mosso da sentimenti pietisti o romantici,
così come le sue scelte non si basano sui principi relativi di bene e
male. Egli sa perfettamente quanto dietro a questi due aspetti si
nascondano spesso desideri di ottenere vantaggio e piacere personale
(il bene) contro desideri di allontanare da sé ciò che risulta
svantaggioso e spiacevole (il male).
La caratteristica del cuore è proprio quella di discernere con una
chiarezza ed onestà disarmanti ogni significato illusorio che la mente
e le emozioni tendono ad associare a qualsiasi atto, senza farsi
destabilizzare né corrompere da nulla. Ecco perché il termine che
contraddistingue il cuore nella tradizione indiana è anahata, in
sanscrito

traducibile come NON COLPITO, stabile in ogni situazione in


quanto neutrale alle influenze caotiche dell’esistenza; significato del
tutto analogo all’appellativo associato all’iniziato nel Manuale per la
Vita, ossia COLUI DAL CUORE IMMOBILE.
Porre il proprio punto di vista all’interno del cuore, equivale a
superare una prospettiva di giudizio sia verso gli altri che verso se
stessi, in virtù di un’attenzione meticolosa sulla propria condotta,
l’unica vera artefice del destino.
Ciò conduce inevitabilmente a sviluppare un forte senso di
RESPONSABILITÀ verso le conseguenze future delle proprie
azioni, non attraverso una forzatura od un’auto-imposizione, bensì
grazie alla presa di coscienza diretta, sul campo quotidiano, di ciò
che realmente rappresentano e causano determinati comportamenti.

180
Molte consuetudini del giorno d’oggi hanno perso quel reale
significato che tradizionalmente veniva loro assegnato. Pensiamo
alla leggerezza con cui spesso parliamo di altre persone in loro
assenza – il più delle volte per metterle in cattiva luce – senza
considerare l’ampia portata di un comportamento del genere: la
nostra limitatissima e distorta idea della persona in questione diverrà
a tutti gli effetti una malattia psichica infettiva che ruoterà intorno
alla sfera del malcapitato per portare nella sua vita delle inevitabili
conseguenze. Non per esagerazione secondo la tradizione ebraica la
maldicenza è da sempre considerata una colpa superiore a quella
dell’omicidio.

Chiamata a sé la folla, disse loro: “Ascoltate e intendete: non


quello che entra nella bocca contamina l’uomo; ma è quello
che esce dalla bocca, che contamina l’uomo!”56

Per equilibrare il suo peso con la piuma di Maat, il cuore deve


alleggerirsi di ogni fardello egoico, e l’unica tecnica a disposizione
per monitorare questa condizione è quella di constatare con estrema
sincerità ogni comportamento e ogni parola, inequivocabili
conseguenze del personale stato di coscienza. Al di là dei giudizi
morali, l’INDAGINE DI SÉ viene tramandata da millenni come la
chiave di volta per un sicuro viaggio sul Cammino.
Passo dopo passo, il cuore si ripulirà dalle vecchie scorie
sedimentate nel tempo per riacquistare le sue originarie
caratteristiche di limpido contenitore, finalmente in grado di
accogliere l’acqua vitale dall’inesauribile Sorgente per riversarla
intorno a sé.
Una tale condizione rende l’individuo – o meglio il suo cuore –
un essere PURO, in egizio uab, geroglificamente esprimibile in due
modi differenti, da mettersi in relazione alla fase del processo e al
suo completamento; nel primo caso

56
Vangelo (Mt 15,10).

181
contraddistingue la tensione verso la purezza, dove l’intento
dell’individuo è ormai saldo nella sua ricerca ma ancora ostacolato
dalle molteplici difficoltà presenti sul Cammino, simboleggiate
dall’alternanza della dualità (la gamba) e dall’idea dei conflitti
interiori che ancora rendono confusa la naturale percezione ed
espressione dell’Essenza (il corno che incrocia l’acqua che sgorga
dalla brocca). Mentre il secondo caso

delinea il raggiungimento definitivo della purezza, la liberazione


interiore da ogni apporto estraneo e la piena consapevolezza di sé
come singola cellula di un tutto. Per questo motivo il cuore viene
rappresentato come un vaso, il cui obiettivo è quello di svuotarsi di
tutte le personalità egoistiche e caotiche per divenire un CANALE
DELLA DIVINITÀ, espressione della sua volontà. Il cuore
dell’iniziato diverrà allora a tutti gli effetti un SANTO GRAAL,
dove l’energia divina viene convogliata e riversata nelle giuste dosi
per tutti coloro che ne avvertono la sete.
Il cuore porta quindi in sé il doppio principio attivo-passivo:
canalizzatore del volere divino e suo esecutore. Ed ecco svelato il
significato simbolico dei due segni espressi sulla raffigurazione del
cuore (figura 31) dove un seme lunare – in alto e capovolto –
contraddistingue la caratteristica ricettiva, mentre un uovo o seme
solare – in basso – ne delinea la vitale predisposizione a convertire
creativamente ciò che inizialmente è stato assorbito; un armonioso
susseguirsi di assimilazione ed offerta secondo il principio espresso
dal Cristo:

Io comunico i miei misteri a coloro che sono degni dei miei


misteri. Ciò che fa la tua destra, la tua sinistra lo deve
ignorare.57

Possiamo forse ora comprendere quanto sia ampio il campo di


studio di sé, e quanto sia necessaria una lenta purificazione prima di
poter realmente accogliere il sublime ospite tanto ambito: il ba che,

57
Vangelo (Tm 62; Mt 6,3).

182
impassibile ma attento, rimane ad osservare la pesatura del cuore in
attesa che le condizioni del suo tempio divengano ideali per la salita
al trono.

La forza attrattiva delle illusioni

Laddove il cuore si purifica ponendosi al servizio della volontà


divina, il suo equilibrio con la piuma di Maat sarà perfetto e
costantemente mantenuto; a lui si apriranno le porte per accedere ad
un ordine di vita superiore.
Condotto dalla forza cristica – impersonificata da Horus (figura
37) – l’animo giungerà fino alla soglia del Tribunale di Osiride
(figura 38) per essere innalzato oltre il mondo dialettico e
squarciarne così il velo delle illusioni, rappresentate simbolicamente
dagli ASSESSORI DI OSIRIDE posti seduti in sequenza sopra la
scena della pesatura (figura 36); in altre parole essi sono le leggi
regolatrici del manifesto che agiscono all’oscuro della coscienza
ordinaria.
Il cuore di colui che invece non si è assunto le responsabilità del
proprio agire e del proprio destino, accontentandosi di una vita
tranquilla e mediocre senza mai volgersi verso la Luce, risulterà
troppo pesante e non gli verrà concesso di passare oltre la pesatura.
In tal caso sarà inghiottito da AMMIT (figura 37), in egizio ammut e
in geroglifico

conosciuta come la DIVORATRICE, composta dalla testa di


coccodrillo, tronco di leone e parte posteriore di ippopotamo, tre
aspetti della natura che attraggono ed assimilano le energie di
propria spettanza. Rappresenta il TEMPO e la corruzione fisica
ciclicamente contenuta in esso.
Raffigurata spesso in attesa del risultato della pesatura del cuore,
lo divora ogni volta che la piuma di Maat non riesce ad essere
bilanciata. Ammit è infatti colei che inghiotte e riassorbe tutto ciò
che nell’individuo non è stato unificato; simboleggia l’AVIDITÀ

183
DELLE ENERGIE MATERIALI, il caos delle passioni e dei
desideri in cui si dissolvono i costituenti di un essere umano non
sublimati e spiritualizzati.
Troviamo nella Ruota della Vita buddista (figura 23) un analogo
simbolismo rappresentato nel cerchio interno (figura 43), dove
compaiono un gallo, un serpente e un cinghiale che si rincorrono
ciclicamente, indicando rispettivamente i deleteri difetti mentali
dell’avido attaccamento, dell’ira e dell’ignoranza, fonte di ogni sorta
di sofferenza.

Figura 43 – I tre difetti mentali secondo il buddismo.

Per utilizzare un altro tipo di linguaggio, si potrebbe affermare


che nel caso in cui il peso del cuore coincide con quello della piuma,
verrà aperto l’accesso al PARADISO. Viceversa, più la condotta si
allontana dalla volontà divina, più Ammit sarà propensa ad ingoiare
il cuore fino a farlo scendere nelle profondità delle sue viscere

184
disperdendolo nelle energie caotiche del mondo materiale,
l’INFERNO.
È però altresì importante comprendere come questi due luoghi
siano in realtà stati coscienziali, e come l’inferno non corrisponda ad
una condizione definitiva e priva di possibilità di riscatto, tutt’altro!
Esso dovrebbe essere più propriamente considerato come un
PURGATORIO nel quale è comunque sempre offerta la possibilità
di compiere le opportune esperienze per comprendere appieno i
disegni della Grande Opera.
Una toccante storia zen affronta in maniera estremamente
esplicativa il tema del paradiso e dell’inferno.

Un soldato di nome Nobushige andò da Hakuin (noto


maestro zen) e gli chiese: “Ci sono davvero un paradiso e un
inferno?” “Chi sei tu?” indagò Hakuin. “Sono un samurai”,
rispose il guerriero. “Tu, un soldato!” esclamò Hakuin, “che
razza di sovrano vorrebbe averti come guardia? Hai la faccia
di un mendicante.” Nobushige divenne così furioso che fece
per estrarre la spada, ma Hakuin esclamò: “Così hai una
spada! La tua arma probabilmente non è abbastanza affilata
per tagliarmi la testa.” Mentre Nobushige sfilava la sua
spada, Hakuin commentò: “Qui si aprono le porte
dell’inferno!” A queste parole il samurai, percependo
l’insegnamento del maestro, rinfoderò la spada e s’inchinò.
“Qui si aprono le porte del paradiso”, disse Hakuin.58

Quando un individuo non riesce a comprendere l’insegnamento


insito in un’esperienza e si lascia trascinare ciecamente dalle sue
tendenze istintuali, ricade nella ciclicità di se stesso, perpetuando
inconsapevolmente il proprio destino. Ma la vita, prima o poi, gli
riproporrà un’esperienza analoga in modo che egli abbia
nuovamente la possibilità di soppesare il suo cuore: tale è
l’inesauribile funzione di Ammit, e cioè ricondurre instancabilmente
l’essere umano di fronte a se stesso.
Ciò che all’inizio appare come una minacciosa forza malefica,
potrebbe rivelarsi al termine del viaggio come una fondamentale
caratteristica liberatrice. Non dimentichiamo infatti che il nome di

58
Nyogen Senzaki e Paul reps (a cura di), 101 Storie Zen, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1996.

185
colui che riconosciamo come il principe degli inferi, LUCIFERO,
dal latino luciferus, significa letteralmente PORTATORE DI LUCE.

I differenti piani di esistenza

Abbiamo potuto brevemente considerare come il paradiso,


l’inferno e il purgatorio non sono aleatorie regioni situate in chissà
quale sfera esistenziale oltre la morte fisica, ma sono piuttosto degli
stati di coscienza nei quali viviamo nel qui ed ora.
Ripercorrendo infatti il viaggio dantesco nei recessi della nostra
interiorità, possiamo ritrovare in esso precisi simbolismi che
rispecchiano una realtà costantemente presente, seppur
comunemente celata dall’orientamento della nostra attenzione verso
l’esterno.
Per quanto, secondo la sapienza egizia, non esista dunque reale
differenza tra ciò che un individuo si trova a vivere in questo mondo
e ciò che incontrerà nel misterioso aldilà, vengono comunque
delineati dei luoghi transfisici adibiti ad accogliere i singoli
microcosmi secondo una precisa legge di affinità selettiva che si
impone tra stati ed esseri della medesima natura coscienziale; in altre
parole, il simile attira il simile.
Queste regioni nel loro insieme costituiscono ciò che viene
denominata DUAT, in geroglifico

la cui radice trae origine dal momento di passaggio tra il giorno e


la notte, considerata a tutti gli effetti come il regno
dell’OLTRETOMBA.
È la fase che conduce verso un DIVENIRE o verso un
RITORNO. Si potrebbe quindi affermare che esistono due duat: la
prima è lo stato in cui si trova colui che si avvia verso una nuova
genesi spirituale, la seconda è invece lo stato in cui si trova chi è
uscito dall’esistenza terrestre ma attende di rientrarvi, ancora
vincolato dalle forze attrattive del mondo.

186
Il regno della duat, dal punto di vista interiore, non è
sostanzialmente differente dal mondo in cui stiamo vivendo ora. In
entrambi i casi coesistono tutte le possibilità di attingere alla Luce o
di rimanere incatenati all’oscurità, nonostante le condizioni vitali
siano per natura fisico-energetica ovviamente differenti.
L’ordine di esistenza dialettico in cui l’essere umano si trova
ciclicamente incatenato include al suo interno sia la sfera materiale,
il campo di vita terrena, sia la sfera RIFLETTRICE, il processo di
passaggio tra la morte di una personalità e la vivificazione di quella
successiva. La duat che conduce al ritorno è a tutti gli effetti uno
specchio – un riflesso appunto – del luogo in cui ora ci troviamo.
Ecco perché nella rappresentazione simbolica viene espressa
all’interno della Creazione come la sua controparte capovolta
(evidenziata con il cerchio nella figura 44). Entrambe le sfere
esistenziali hanno dunque una durata temporanea, ritrovando solo al
centro di esse – nel sole sorretto da Khepry – il nucleo immutabile
ed eterno.
Nell’approfondire più dettagliatamente le regioni della duat
riflettrice, si può osservare come esse siano simbolicamente ben
caratterizzate e distinte le une dalle altre, affinché ciascuno possa
riconoscere in se stesso la relativa affinità e dunque il proprio grado
di liberazione.
I saggi egizi evocavano tali ambienti interiori tramite
raffigurazioni di ambienti naturali, offrendo in tal modo immagini
familiari agli esseri umani nel tentativo di far comprendere concetti
astratti incomunicabili in altri modi. Ad esempio, le rappresentazioni
di laghi o corsi d’acqua esprimono l’idea di galleggiare sopra di essi
nell’attesa di ulteriori trasformazioni, così come le isole esprimono
la stabilizzazione di certi stati, oppure come i campi paludosi nei
quali è sempre possibile ricercare il giusto nutrimento per far
germogliare ed emergere come un loto la propria Essenza.
Una di queste regioni è seket yaru, in geroglifico

traducibile come l’OASI DEI GIUNCHI ACQUATICI, in un


certo senso paragonabile all’inferno. Allo stesso modo in cui i

187
miraggi del deserto, pur sembrando reali, non sono altro che
immagini fittizie, proiezioni della propria mente, così anche le scene
presenti nell’oasi dei giunchi sono illusorie.

Figura 44 – La Duat, l'aldilà per gli egizi.

188
Per comprendere meglio questa sfera esistenziale occorre
delineare un nuovo aspetto dell’essere umano, giacché i suoi abitanti
sono esseri comunemente conosciuti con il nome di FANTASMI, in
egizio shut o khaibit e in geroglifico

il cui significato si può racchiudere nella parola OMBRA, un


vero e proprio corpo interiore raffigurato come una siluette scura in
piedi o sdraiata (figura 45).
Khaibit è l’organo emozionale che conserva l’immagine e
l’impronta della vita psichica. Possiede delle proprietà che il corpo
fisico non possiede in quanto composto di una sostanza più sottile
che non risente delle stesse leggi; per tale motivo può vagare nello
spazio senza sostegni e può attraversare qualsiasi ostacolo fisico.
Eppure, gli stati spirituali sono inaccessibili all’ombra tanto quanto i
muri lo sono al corpo. Anche il tempo assume con essa una relazione
molto differente da quella comunemente concepita dall’intelligenza
razionale.
In colui che non ha mai perseguito nessuna reale ricerca interiore,
il ka personale è ridotto all’insieme dei ka inferiori, che
assumeranno già in vita le sembianze dell’ombra fino a proseguire
l’esistenza con ancor maggiore intensità dopo la morte fisica, e
potendo sopravvivere anche centinaia d’anni in una forma del genere
(il fantasma), ma destinata anch’essa a dissolversi nuovamente nel
caos.
Il fine ultimo del Manuale per la Vita, la fuoriuscita verso la luce
del giorno, consiste proprio nella liberazione dall’ossessione degli
elementi che soffocano la coscienza con l’ombra dell’ignoranza.
L’ombra è infatti la proiezione di un oggetto illuminato, quindi
quando la Luce s’incarna nella sostanza, la sostanza si oppone ad
essa generando un corpo che costituisce proprio il khaibit.
Ogni ostacolo presente sul Cammino, ogni conflitto interiore,
altro non è che una lotta per la supremazia che vede schierate da un
lato l’ombra e dall’altro l’impulso divino originario. Ma laddove
l’iniziato riuscirà a non fare oscurare la propria coscienza, il khaibit
stesso si arrenderà e parteciperà al processo evolutivo in modo

189
marginale e non più tirannico, limitandosi unicamente alle sue
affinità terrestri.

Figura 45 – Il khaibit, l’ombra.

Diviene allora più comprensibile il significato sotteso al


simbolismo dell’oasi dei giunchi acquatici, nella quale gli esseri
umani continuano a sopravvivere per mezzo della loro ombra, non
avendo ancora esaurito le attrazioni verso le lusinghe della vita
terrena.
Continuando a subire i miraggi di ciò che è stata la loro esistenza
fisica, si troveranno qui alle prese con le insidie delle forze ostili che
vogliono impedire loro di passare ad uno stato di libertà superiore.
Anche nell’altro mondo infatti, come nel nostro, gli individui schiavi

190
dell’ego, dominati dalle tendenze tiranniche del proprio ka inferiore,
fanno di tutto per moltiplicare e tenere legati a sé i propri compagni
di schiavitù.
Esiste poi un’altra località all’interno del regno della duat, ossia
il seket hotep, in geroglifico

che significa OASI DI PACE, il primo soggiorno verso la


beatitudine, in altre parole il paradiso. In essa si attende l’ora di
ritornare sulla terra per compiere le ultime esperienze che
consentiranno di unirsi al proprio ba. In tale attesa si rigenera
all’interno del microcosmo un nucleo maggiormente predisposto ad
accogliere la Luce, consentendo di incarnarsi nella vita successiva
con una coscienza superiore a quella precedente.
Una terza ed ultima regione, inserendosi ad un livello intermedio
tra l’oasi dei giunchi acquatici e l’oasi di pace, è il yu neserser, in
geroglifico

traducibile come ISOLA DELLE FIAMME, a tutti gli effetti un


purgatorio. Si potrebbe definire come il luogo in cui la coscienza
dell’individuo ha raggiunto una velata consapevolezza della sua
condizione interiore e del suo fine, ed in esso consuma ed estingue
più velocemente i suoi desideri istintivi fino ad imparare a non
vincolare più ad essi il proprio Cammino. Ecco il motivo per cui il
nome richiama l’idea del fuoco, l’elemento distruttore ma
rigeneratore allo stesso tempo.

191
192
Il nuovo Egitto

Attraverso le ere

Molte tradizioni hanno da sempre suddiviso la storia del mondo e


della civiltà umana sulla base di particolari aspetti astrologici e
relative influenze di carattere fisico, psicologico e spirituale. Queste
suddivisioni prendono appunto il nome di ERE ASTROLOGICHE o
EONI, fondandosi sul principio di correlazione tra eventi terrestri ed
eventi celesti.
Ogni era viene chiamata con il nome del segno zodiacale
all’interno del quale è situata la posizione del sole all’equinozio di
primavera, ed ha una durata media di 2140 anni circa, nonostante
tale periodo possa variare per una moltitudine di ragioni legate sia al
tipo di simbolismo adottato, sia alla mutevolezza della posizione
delle costellazioni nel corso dei millenni dovuta alla precessione
degli equinozi.
Se durante l’anno la sequenza zodiacale segue una certa
progressione, le ere astrologiche seguono l’ordine inverso. Tali
considerazioni permettono un’interessante lettura interpretativa dei
testi tradizionali.
Per esempio, all’interno della narrazione biblica si può osservare
come Mosè sembri rappresentare un nuovo impulso spirituale che
inaugura la transizione, ossia pesach, che significa appunto
PASSAGGIO, tra l’era del Toro – collocata all’incirca tra il 4300
a.C. e il 2150 a.C. – e l’era dell’Ariete – tra il 2151 a.C. e l’anno 0.
Proprio nella discesa dal monte Sinai, Mosè vede il suo popolo
adorare un vitello e si infuria spronando la gente a seguire il nuovo
flusso spirituale, il nuovo dio rivelatosi al popolo di Israele.
Nella stessa epoca troviamo delle analogie in Egitto, dove il culto
principale era fino a quel momento dedicato all’animale sacro di
Ptah (figura 26), il toro appunto, e la maggior parte delle opere
artistiche erano ad esso dedicate (figura 46).

193
Figura 46 – Il toro sacro a Ptah.

La fine dell’era del Toro coincide dunque con l’avvento dell’era


dell’Ariete, animale sacro al dio AMON (figura 47), in egizio Ymen
e in geroglifico

traducibile come IL NASCOSTO o DAL NOME MISTERIOSO,


richiamando un concetto analogo all’impronunciabile tetragramma
divino nella tradizione ebraica.
Egli è allo stesso tempo asilo e conforto dell’essere umano più
debole in tutte le avversità che la vita gli pone. Non per altro uno dei
suoi appellativi più utilizzati è COLUI CHE TRAE IN SALVO,
evocando anche in questo caso una probabile assonanza con l’esodo
biblico.
L’ariete che lo simboleggia è stato a lungo tempo utilizzato come
principale tema artistico nelle opere sacre; ancora oggi non passa
certo inosservato il viale delle sfingi nel tempio di Luxor (figura 48).

194
Figura 47 – Il dio Amon.

Proseguendo nella successione delle epoche, in concomitanza –


non certo casuale – con la nascita di Gesù e con la graduale fine
dell’antica civiltà egizia, prende avvento l’era dei Pesci, o eone di
Osiride, che dovrebbe concludersi secondo le previsioni astrologiche
intorno al 2140.
Da tale punto di vista la figura del Cristo può essere considerata
come colei che ha guidato l’umanità attraverso l’era che sta ora per
giungere al termine. Il suo simbolo originario è il pesce (figura 49),
di cui possiamo trovarne ancora traccia nell’arte sacra egizia negli
anni successivi all’avvento del cristianesimo (figura 50), senza
dimenticare che nella mitologia di Osiride è stato proprio il pesce

195
ossirinco a preservarne l’organo genitale dopo la frammentazione,
permettendo così una rinascita a nuova vita del Cristo-Horus.

Figura 48 – Il viale con le sfingi a testa di ariete a Luxor.

Figura 49 – Il pesce, simbolo del Cristo.

La vita di Gesù ruota intorno al simbolo del pesce, i suoi amici


erano pescatori, lui stesso si definiva pescatore di uomini, sfamando
migliaia di persone con la moltiplicazione dei pesci. Da questa

196
prospettiva non possiamo non considerare le sue ultime parole in
conclusione al vangelo di Matteo:

Ed ecco: io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età
presente.59

Il termine età presente si può tradurre come eone, aeon dal testo
originale greco.

Figura 50 – Il pesce nell’arte egizia.

Qual è dunque la nuova epoca che ci attende? Quale nuovo


impulso spirituale verrà veicolato?
Secondo i piani astrologici stiamo entrando nell’era
dell’Acquario, considerato dalla sapienza egizia sotto la tutela della
dea Maat. Difficile stabilire con estrema precisione la data di
passaggio, ma è pur vero che, come l’inizio di un nuovo periodo

59
Vangelo (Mt 28,20).

197
porta con sé ancora le tracce di quello precedente, così gli anni che
volgono al termine contengono già i semi di quello futuro.
Per molte correnti tradizionali infatti – alcune basandosi su
calcoli astronomici effettuati sulla piramide di Giza – l’anno 2001
sarebbe proprio coinciso con una sorta di prima inaugurazione della
nuova epoca, un primo decisivo input di trasformazione, un punto di
non ritorno.
È opportuno inoltre considerare come molti scenari apocalittici
contenuti nei testi sacri non siano solo espressione di calamità e
catastrofi, ma anche simbolo di rinascita e presa di coscienza di
nuove realtà. La parola APOCALISSE trae infatti il suo significato
dal greco apokalypsis, letteralmente RIVELAZIONE, un concetto
estremamente lontano dalla consueta e fuorviante accezione del
termine.

L’eone di Maat

Abbiamo brevemente osservato la successione delle ultime ere


astrologiche, ma quello che ora preme veramente è comprendere la
loro risonanza nella nostra vita di tutti i giorni, in particolare in un
momento di passaggio così particolare come quello in cui ci
troviamo.
Le implicazioni macroscopiche di ogni eone sono probabilmente
molto più sottili e rivoluzionarie di quanto potremmo immaginare,
veicolate e forse anche manipolate da individui ed organizzazioni ad
un livello tale da non poterle mai precisamente tracciare e
classificare.
Uno dei problemi risiede proprio nel rischio di travisare il
messaggio spirituale in corso per rivestirlo di comodi abiti egoici ed
adattarlo ai propri interessi personali o di gruppo. La storia è
costellata di simili degenerazioni e di continui tentativi ad opera di
Inviati di ristabilire o rinnovare il messaggio universale nella sua
purezza.
Ogni impulso spirituale, la cui origine non è sempre
pubblicamente evidente come lo è stata con l’avvento di Gesù Cristo
nella civiltà occidentale, viene generalmente sintetizzato per mezzo
di un motto e di un aforisma che ne racchiudono simbolicamente

198
tutta la potenza creatrice. L’era dei Pesci che volge al termine è
contraddistinta da:

SACRIFICIO, MORTE e RESURREZIONE

che veicolava originariamente il concetto di crocifissione dei


propri aspetti relativi terreni – le diverse personalità – per permettere
una reale rinascita spirituale di quella scintilla divina portata in serbo
dal proprio cuore, nella maggior parte dei casi celata al di sotto di
illusorie e false imitazioni di natura dialettica. Tale processo è
accompagnato dall’aforisma:

FAI CIÒ CHE DEVI

che evidenzia la necessità di mettersi al servizio di un Bene


supremo per mezzo dell’obbedienza ad una figura di riferimento
esterna – come un Maestro, un Ordine o una Scuola – riconosciuti
come reali testimoni dell’Insegnamento Universale.
Osservando da questa prospettiva gli ultimi 2000 anni di storia,
non è molto difficile dedurne i molteplici risvolti di degradazione
interpretativa. Il sacrificio ha assunto il significato di sofferenza e
dolore come condizioni esistenziali necessarie per percorrere un
cammino spirituale, il concetto di morte è diventato il movente per
giustificare le guerre sante e i genocidi, mentre la resurrezione uno
stato fisico rimandato ad una imprecisata fine dei tempi.
Analogamente, lo spirito dell’aforisma è divenuto il pretesto per la
pretesa di un’obbedienza cieca e priva dello spazio per una
valutazione cosciente.
All’interno di questa era sono emersi allora diversi tentativi per
rettificare e vivificare il messaggio originario, alcuni dei quali
fungendo anche da ponte intermedio per preparare il terreno
all’avvento del periodo successivo.
Un esempio molto esplicativo e a noi più vicino in termini
spazio-temporali è la rivoluzione francese del 1789, il cui motto

LIBERTÀ, UGUAGLIANZA e FRATERNITÀ

199
corrisponde ad un messaggio spirituale introdotto alcuni anni
prima dall’opera di Alessandro conte di Cagliostro, la cui eccelsa
figura è stata nel tempo confusa – forse volutamente – con un
ciarlatano di nome Giuseppe Balsamo. Il vero Cagliostro girò invece
le diverse corti europee dell’epoca per promuovere una
trasformazione di pensiero nel tentativo di restituire maggiore
dignità all’essere umano, senza ostentare le sue doti alchemiche ma
mettendole instancabilmente al servizio delle classi più deboli,
operando guarigioni ed elargendo sostentamenti economici per i
poveri.
Stante alle testimonianze storiche, la sua vita e il suo influsso
spirituale non appaiono per nulla differenti dall’opera svolta da Gesù
circa 1800 anni prima. Il pensiero di Cagliostro influenzò
positivamente moltissime persone del suo tempo, inaugurando un
mutamento culturale, filosofico e sociale decisamente significativo.
Lui stesso – come peraltro presagì – fu l’ultima vittima
dell’inquisizione che per molti secoli dominò incontrastata in
Europa.
Ma le debolezze e le cupidigie umane sono sempre in agguato ed
anche in questo caso, a fianco di un risveglio di coscienza, il suo
messaggio di rivoluzione interiore si prestò facilmente ad essere
utilizzato come alibi per una rivoluzione di fatto anche esteriore, e
poco dopo la sua morte venne affiancato al sopracitato motto
un’appendice: nessuna libertà per i nemici della libertà. A ciascuno
dunque la facoltà di effettuare opportune riflessioni in merito.
Giungendo infine al giorno d’oggi, l’impulso spirituale veicolato
dall’eone di Maat è simboleggiato nel motto:

AMORE, VERITÀ e GIUSTIZIA

per il quale ogni definizione rischierebbe di limitarne l’immensa


portata, ma che contraddistingue certamente un cammino interiore
orientato verso la ricerca di una libertà incondizionata, da perseguirsi
per mezzo di una gioiosa offerta di sé alla vita invece che di una
sofferente rinuncia di sé; una sottile differenza di termini per un
decisivo cambiamento di prospettiva. In questo caso il processo è
contraddistinto dall’aforisma:

200
FAI CIÒ CHE SEI

che rimanda direttamente alla necessità di comprendere a fondo


tutto ciò che in realtà non siamo, senza farci prendere dall’enfasi
emotiva di identificarci con aspetti buonisti, nascondendoci ancora
una volta dietro falsi sorrisi e dolci parole di matrice spirituale.
Tale aforisma non prevede un libero sfogo alle proprie pulsioni
istintuali o desideri repressi, ma piuttosto un loro onesto
riconoscimento, per poter così toccare con mano quanto in realtà sia
radicata la nostra identificazione con essi. E rimasti soli con il
proprio vuoto interiore, non potremmo non avvertire anche la
possibilità di lasciar spazio ad un impulso creativo, una forza la cui
ricerca non potrà più essere delegata ad altri.

La comprensione dell’Amore

L’impossibilità di argomentare intorno ai tre termini costituenti il


motto della nuova era è dovuto al fatto che un reale e sincero
percorso di conoscenza non potrà mai espletarsi partendo da solide
fondamenta, da confortanti risposte ai quesiti dell’esistenza, ma
piuttosto da un’incertezza stimolante in grado di alimentare
costantemente la sete di ricerca e la disponibilità a mettersi ogni
momento in discussione.
La parola AMORE infatti, in egizio mer e in geroglifico

contraddistingue il principio universale di ATTRAZIONE che


vive dentro ognuno di noi, e solo lì può essere riscoperto e
vivificato, smascherando velo dopo velo le sottili illusioni con le
quali tendiamo ad identificarlo.
Nelle parole di Krishnamurti – forse il più grande precursore del
nuovo eone – possiamo immergerci nel torrente di un’instancabile
ricerca vitale che non lascia spazio a facili fraintendimenti.

201
L’amore è l’inconoscibile. Lo si può incontrare solo quando
il conosciuto viene capito e trasceso. C’è amore solo quando
la mente è libera dal conosciuto. Per questo dobbiamo
accostarci all’amore mediante la negazione, non mediante
l’affermazione. Che cos’è l’amore per la maggior di noi? Nel
nostro amore c’è possessività, un senso di dominazione o di
sottomissione. Dal bisogno di possedere nascono la gelosia, il
timore di perdere quello che amiamo e così promulghiamo
delle leggi per difendere questo nostro senso di proprietà. È il
bisogno di possedere che scatena la gelosia e gli infiniti
conflitti che tutti noi conosciamo bene. Ma questo non è
amore. L’amore non è sentimentalismo. Sentimentalismo ed
emotività impediscono l’amore.60

Il geroglifico con il quale viene espressa la forza dell’amore


raffigura l’aratro. Quando si vuole bonificare un campo, è necessario
scavare al suo interno un canale in modo che l’acqua possa confluire
via per rendere visibile ed utilizzabile il terreno; allo stesso modo
occorre bonificare la nostra mente da tutte le false certezze
sull’amore per poterla vedere affiorare e farla così emergere nella
propria vita.
L’aratro è inoltre lo strumento impiegato nell’agricoltura per
smuovere il terreno e renderlo pronto per la semina, e per tale
motivo simboleggia il lavoro di preparazione interiore atto ad
accogliere il seme divino. Ma un intento del genere implica una
scelta di vita compiuta nella più completa lealtà e dedizione, senza le
quali ogni sforzo sarà vano, dato che ogni desiderio passato presto o
tardi riemergerà esigendo di essere soddisfatto.

Nessuno che pone la mano sull’aratro e guarda le cose che


sono dietro  adatto al regno di Dio.61

Il simbolo dell’Amore è una fonte inesauribile di significati che


ognuno di noi può riscoprire quotidianamente, ammesso che si abbia
il coraggio di accettare le verità che mano a mano potrebbero
rivelarsi.

60
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.
61
Vangelo (Lc 9,61).

202
Per esempio, un ulteriore aspetto viene meravigliosamente
evidenziato dalle lettere che compongono la parola amore in ebraico,
generalmente letta come ahavà, scritto

che, data l’inesistenza delle vocali, è anche divisibile in due


termini, eh-hav, con il significato di IO DARÒ. Come potrebbe
infatti coesistere il vero Amore senza la volontà di porsi al servizio
del prossimo incondizionatamente?
Può oltretutto essere interessante osservare come la stessa parola
egizia mer significhi anche PIRAMIDE, in questo caso espressa con
un altro segno geroglifico

traducibile anche come CANALE.


Il nome della maestosa opera architettonica che ha reso celebre
l’antico Egitto richiama dunque la forza dell’amore, anzi ne diviene
a tutti gli effetti il canale terreno attraverso cui tale energia celeste
può essere convogliata e – forse – trasmessa a colui che in essa
risiede.
Il fatto che ancora oggi le piramidi vengano considerate
monumenti tombali, non trova certamente riscontro nella sapienza
faraonica. Infatti il termine utilizzato per definire un luogo di
sepoltura, ossia la TOMBA, è per-det in egizio e in geroglifico

letteralmente DIMORA DELL’ETERNITÀ.


Le piramidi erano anche il simbolo monumentale della collina
primordiale che, secondo la mitologia, sorse dall’oceano primordiale
all’alba della Creazione. Ogni anno, quando le acque del Nilo
inondavano la valle e le terre, solo le piramidi emergevano
imponenti e le loro pareti di calcare bianco, su cui era incisa la storia

203
del mondo e dell’essere umano, riflettevano la luce solare e
diffondevano un chiarore abbagliante.
Un’altra palese distorsione storica ad esse correlata è il fatto di
ritenere che la loro costruzione sia stata effettuata ad opera di
schiavi. Diverse testimonianze dimostrano al contrario come gli
operai di quei tempi fossero tutti mastri artigiani estremamente
preparati nell’arte dell’architettura sacra, la quale non sarebbe quindi
potuta essere delegata nelle mani di persone impreparate, sfruttate o
maltrattate.
I complessi piramidali avevano una precisa funzione rituale di
iniziazione rivolta ai vivi, e il loro scopo era quello di condurre
l’individuo a contatto diretto con i neter o, meglio, con il Neter
Neteru. Ecco il motivo per cui tali costruzioni sono generalmente
accompagnate da piccoli templi di purificazione attraverso i quali
era necessario passare prima di procedere oltre.
Anche la presenza nella loro sala centrale di un SARCOFAGO,
in egizio neb-ankh e in geroglifico

traducibile come PADRONE DELLA VITA, evoca una funzione


rivolta alle persone in vita, un luogo rigeneratore in cui l’iniziato era
chiamato a compiere un processo di morte e resurrezione interiore.

L’arte di ascoltare

Giungendo gradatamente verso la fine di questo saggio, è quasi


certo che i dubbi esistenziali non abbiano ancora trovato pace. È anzi
auspicabile!
La sapienza egizia altro non offre che uno tra i tanti linguaggi
possibili per avvicinare l’essere umano a se stesso, per spronarlo a
rivolgere l’attenzione all’interno di sé. A cosa potrebbe mai servire
la saggezza di tradizioni millenarie ed il lavoro compiuto da
centinaia di sapienti prima di noi, se non ad offrire lo stimolo per
divenire capaci di osservarci silenziosamente nel mezzo della nostra

204
quotidianità, per comprendere finalmente qualcosa in più di noi
stessi?
A quale illusorio stato di consapevolezza potrebbero mai portare
anni e anni di studio esoterico se giunti di fronte ad un nostro simile
non fossimo in grado di ascoltarlo con semplicità per instaurare una
sincera relazione con lui?
Ogni disciplina, ogni sistema oracolare o divinatorio, sono stati
originariamente offerti all’essere umano con il preciso obiettivo di
condurlo oltre i limiti che lo imprigionano, anche se spesso tali
insegnamenti vengono utilizzati come nascondiglio per le proprie
insicurezze o come stratagemmi spirituali per realizzare i propri fini
egoistici. La riprova della validità di ogni percorso intrapreso non
potrà che riflettersi nella capacità di vivere pienamente e
profondamente la vita in mezzo agli altri, attraverso le difficoltà
quotidiane che costantemente mettono in gioco il proprio modo di
relazionarsi con chi ci circonda.
Chiunque di noi potrebbe col tempo raggiungere la facoltà di
materializzare oggetti o polveri, di leggere nel pensiero, di parlare
con entità sottili e conoscere a memoria tutti i testi sacri del mondo;
ma se il proprio atteggiamento verso la vita e il prossimo rimarrà
invariato – mosso da aspettative ed ambizioni – tutto sarà stato vano.
Ecco perché l’Insegnamento Universale pone l’importanza delle
discipline che lo veicolano come secondaria in relazione alla
necessità di prendere coscienza di sé nel quotidiano.
Generalmente il nostro flusso di pensieri occupa tutto, ma proprio
tutto, e non v’è spazio per nulla. Poco importa se il tema portante di
questo ininterrotto caos mentale sia di natura materiale o spirituale.
Fino a quando non saremo in grado di volgere la nostra attenzione al
mondo e a noi stessi da una prospettiva più ampia, più profonda,
allora continueremo ad essere niente o, meglio, illusi di essere tutto.
Senza rendercene conto, le paure insinuate nei recessi del nostro
animo continueranno a governarci la vita, come binari prestabiliti e
rigidi nel bel mezzo di una splendida e vastissima prateria che non
aspetta altro che essere esplorata e vissuta in tutti i suoi angoli. Gli
antichi saggi erano a conoscenza di questa condizione umana, e ben
sapevano come il fondamento su cui poggia e si mantiene in vita
l’ignoranza sia la PAURA, in egizio sened e in geroglifico

205
raffigura un volatile – un’oca pronta per la cottura – il cui
cadavere è spogliato di tutti gli elementi in movimento, a
simboleggiare come la paura blocchi completamente il corso della
vita. Tale significato diviene ancora più evidente se consideriamo
che l’immagine dell’oca viva era utilizzata per veicolare il concetto
di essere ben equipaggiati, forniti di tutto il necessario; dunque
un’oca morta e spiumata è l’INANIMAZIONE per eccellenza,
l’annichilimento degli impulsi vitali, l’immobilità esperienziale che
si contrappone alla crescita, al mutamento, alla trasformazione
alchemica.
E sono proprio le paure infatti a tenerci ancorati alle nostre
certezze, confinati in una piccola sfera vitale colma di ansie e
preoccupazioni che non lasciano quasi mai spazio ad una reale
comprensione di se stessi e degli altri. Sì, perché anche dietro le
eccessive apprensioni per familiari e amici si annidano spesso
personalissime idee ed aspettative, pur mascherate da una coltre di
pensieri altruistici.
Privi della consapevolezza di questo mal celato caos interiore,
come potremmo mai illuderci di conoscere realmente le persone con
cui ci relazioniamo quotidianamente? Come potremo mai seriamente
pensare di raggiungere un contatto con Dio?

La religione non è una fuga dai fatti; la religione è la


comprensione di quello che siete nelle vostre relazioni
quotidiane. Religione è il modo in cui parlate, è quello che
dite, è il modo in cui trattate un servitore, è il modo in cui vi
rivolgete a vostra moglie, ai vostri figli, ai vostri vicini. […]
Una mente che sfugge dalla realtà, che non si rende conto
delle sue relazioni, non troverà mai Dio.62

La capacità di ascoltare diviene allora l’unico vero requisito per


ritrovare un reale contatto con la vita in tutte le sue forme. Ma non si
tratta qui di un ascolto sterile ed abitudinario, dove ancora una volta
il velo invisibile di un flusso ininterrotto di pensieri ricopre gli occhi

62
Jiddu Krishnamurti, Il libro della vita, Aequilibrium, Milano, 1997.

206
e il cuore e stordisce inconsapevolmente la mente, bensì di un
ascolto attivo, silenziosamente presente e sinceramente aperto verso
la comprensione e la condivisione della sfera vitale altrui.
Un solo attimo di lucidità potrebbe infatti sconcertare l’assodata
convinzione di essere in grado di instaurare veritieri rapporti sociali
e familiari. Le parole altrui non vengono generalmente mai accolte
per quello che tentano di veicolare, ma vengono istantaneamente
soppesate e valutate in base a personalissimi parametri.
Così come nella Torah il concetto di ricordare è considerato una
chiave di volta, negli Insegnamenti di Ptah-Hotep assume un
medesimo valore il concetto di ascoltare:

È utile ascoltare per il figlio spirituale che apprende. Se l’atto


di ascoltare incessantemente penetra in colui che apprende,
colui che ascolta diviene colui che comprende. […] Ascoltare
è meglio di ogni cosa, così nasce l’amore perfetto. […]
Quanto all’ignorante che non ascolta, non porterà a
compimento nulla.63

L’ascolto non si limita dunque al prestare attenzione alle parole


altrui in modo aperto e scevro da pregiudizi, ma ancor prima
significa rivolgere tutta la propria sete di verità all’osservazione
meticolosa di se stessi, delle proprie azioni e dei relativi moti del
cuore e della mente. Solo ponendo chiarezza ed ordine dentro il
proprio microcosmo sarà possibile vedere con più nitidezza in quello
altrui, ed aiutarlo nel suo processo di sviluppo.

Tutti sotto un unico cielo

Il richiamo dell’Insegnamento Universale è più forte che mai,


nonostante si odano in modo ancora troppo confuso le voci che da
sempre ne hanno lodato lo splendore. Il filo d’oro che velatamente
ha accompagnato l’essere umano nel corso dei millenni, reclama ora
il suo riconoscimento a pieno titolo in qualità di unico vero sospiro
di amore intorno al quale si sono strutturate tutte le più disparate
religioni nel mondo.

63
Gli Insegnamenti di Ptah-Hotep (XXXIX, 534).

207
La nostra epoca ha assistito negli ultimi decenni ad un
rapidissimo ed inimmaginabile interscambio di culture, filosofie e
religioni, tale da potersi attualmente definire a tutti gli effetti come
un villaggio globale. La tecnologia nei trasporti ha favorito la
possibilità di muoversi con grande facilità all’interno del pianeta,
così come gli sviluppi in ambito informatico hanno permesso di
comunicare istantaneamente – privatamente o pubblicamente – da
qualsiasi parte ci si può trovare nel mondo.
Ma questo tipo di progresso non deve essere frainteso con
un’evoluzione di consapevolezza. Possiamo infatti constatare quanto
siano ancora ben presenti e radicati tutti i limiti e le debolezze che
contraddistinguono l’essere umano. Di guerre ed ingiustizie è pieno
il mondo, e a nulla sembra esser valso ogni sforzo e sviluppo
tecnologico in tal senso.
Osservando le condizioni di vita attuali dell’essere umano in
generale, possiamo riconoscere forse un miglioramento sul piano
della comodità ma non certamente sul piano della serenità. I
malumori esistenziali continuano ad essere ben presenti dentro
ciascuno di noi, e in alcun modo potrà aiutarci ogni sorta di
benessere o ricchezza esteriore. È proprio la negazione di questa
realtà che continua a mantenere in vita le moltitudini di conflitti in
cui ci ritroviamo, sia a livello macrocosmico che microcosmico.

La lotta che dobbiamo sostenere non deve metterci l’uno


contro l’altro, separarci in partiti e in gruppi, dividerci
secondo simpatie e antipatie, giudizi e pregiudizi, nella critica
e nell’offesa. […]. Solo quando si è totalmente occupati ad
affondare la spada nella propria anima non si trova il tempo,
né si ha voglia, di combattere e di ferire gli altri. Perché, se
sarete occupati in tal modo con voi stessi, potrete vedere il
vostro smarrimento, i vostri bisogni e le vostre debolezze, e
nascerà in voi una grande compassione per quegli altri che
devono ancora imparare a maneggiare la spada. Solo allora,
purificati dalla vostra esperienza personale, sarete capaci di
portare aiuto con il dolce sussurro della compassione.64

64
Jan van Rijckenborgh, La Gnosi nella sua manifestazione attuale, Edizioni Lectorium
Rosicrucianum, Milano, 1991.

208
Non vi è nulla di aleatorio, di teorico, di psicologico o filosofico
nel decidere di trasferire la propria attenzione dal mondo esteriore
all’universo interiore, senza far sì che una tale scelta possa divenire
una fuga dai propri doveri quotidiani, ma al contrario un modo per
comprenderli, per viverli profondamente e pienamente, in altre
parole, consapevolmente.
Una rivoluzione del genere implica una viscerale maturazione,
dove non vi sarà più spazio per infantili sensi di colpa od alibi
spirituali con cui giustificare le proprie negligenze verso i doveri del
mondo in cui si vive. Al contrario ogni aspetto esistenziale sarà
curato nei minimi dettagli, e tutto quell’immenso spazio prima
occupato da ansie, preoccupazioni ed aspettative, sarà colmato da un
sincero interesse verso la vita e i propri simili.
Il grosso problema è che non esiste cammino esente dal pericolo
di essere adattato e comodamente interpretato in base ai propri
specifici limiti e restrizioni mentali. Colui che non ha mai visto il
mare ma sogna di raggiungerlo, potrà facilmente lasciarsi abbattere
dalle avversità ed accontentarsi di contemplarne ogni tanto un
dipinto. Ma un disegno – per quanto ricco di particolari – non potrà
mai contenere al suo interno l’immensità dell’oceano.
Così è il cercatore di fronte alle diverse dottrine nate con
l’obiettivo di condurlo oltre il suo involucro egoico, fino a farlo
attingere ad una sorgente indecifrabile per il pensiero ordinario.
Eppure è proprio la mente dialettica a rimanere spesso affascinata e
quindi vincolata dalla teoria piuttosto che dalla pratica, ricadendo
nuovamente all’interno di un’altra gabbia, per quanto
apparentemente più comoda ed affascinante. Non dobbiamo mai
dimenticare che il dito che indica la luna non è la luna.

Due demoni si recarono nel mondo degli uomini, per una


ricognizione. All’improvviso, si imbatterono in un giovane
intento alla meditazione, e gli lessero nel pensiero. “È
finita!”, disse uno dei due. “Dovevamo stare più attenti. Ora
questo ragazzo ha colto una parte della Verità!” “Non
importa”, rispose l’altro, “costui fonderà una scuola o
un’istituzione, e ci penseranno i suoi discepoli a invalidarne

209
la scoperta”. Dopo una breve pausa, aggiunse: “Come vedi,
non c’è da preoccuparsi!”65

Non esiste al mondo una tradizione iniziatica migliore di un'altra,


tutt’al più possono esistere linguaggi o rappresentazioni simboliche
più vicine ad un tipo di mentalità piuttosto che un’altra, ma niente
potrà mai offrire la garanzia liberati o rimborsati! Semplicemente
perché noi siamo la garanzia, la nostra disposizione a voler sfondare
le barriere concettuali e tutti quei differenti corpus filosofici cui ci
affezioniamo e con cui molto volentieri sostituiamo altri corpus
filosofici precedenti, senza accorgerci che tutto ciò che va al di fuori
dell’esperienza di tutti i giorni è perlopiù un gioco, un passatempo
intellettuale o, peggio, misticismo fine a se stesso.
All’essere umano viene ora richiesto uno sforzo di comprensione
ulteriore, un abbattimento di tutti quei muri interiori che continuano
ancora a classificare e mettere in competizione gli insegnamenti tra
loro. La necessità di unificare deve sostituire la comodità di
separare. Ma un passo del genere implica spogliarsi dalle proprie
sicurezze psicologiche o spirituali che siano, faccia a faccia con
quello che siamo e non più con quello che pensiamo e di cui
parliamo.

Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo difficile


per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu
dica: “Chi salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce lo farà
udire perché lo mettiamo in pratica?” Non è di là dal mare,
perché tu dica: “Chi passera per noi di là dal mare e ce lo
porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?”
Invece, questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e
nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.66

Nei tempi antichi – e possiamo tranquillamente riferirci anche


solo a poche decine di anni fa – quando ogni civiltà e società era
circoscritta in determinati luoghi ed ignara o quasi dell’esistenza
delle altre, poteva forse essere più plausibile riferirsi ad
insegnamenti specifici e più adeguati per questo o quel tipo di

65
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.
66
Bibbia, Deuteronomio 30, 11-14.

210
tradizione, giacché la diversità dello stile di vita era decisamente
marcata, sia per qualità di pensiero che per struttura fisico-organica
degli individui.
Oggi una visione di questo tipo sta divenendo contraddittoria se
paragonata alla realtà che ci ritroviamo a vivere. Gli interscambi di
usi e costumi culturali e religiosi stanno ormai permeando l’intero
globo, e solo alcune sperdute tribù africane, aborigene o
amazzoniche possono forse considerarsi ancora al di fuori di questa
compenetrazione. Possiamo infatti constatare come differenti
correnti esoteriche di matrice cristiana, induista, sufi, buddista,
taoista ed altre ancora, siano presenti come focolai sparsi in tutti i
paesi del mondo.
Ora più che mai vibra nell’aria la necessità di riportare allo
scoperto quel messaggio universale che pulsa come un cuore nel
corpo di ogni insegnamento: la verità di se stessi, di come si è, dei
propri limiti e delle proprie potenzialità, di quanto sia in realtà
spenta la nostra vita ma di come esista la possibilità di
rivoluzionarla, di trasformarla in qualcosa di creativo, di
effettivamente spirituale.
Nel fare questo ognuno potrà scegliere il simbolismo che meglio
lo aggrada per “arredare” il proprio spazio interiore, che meglio gli
si confà, con cui sente maggior sintonia e grazie al quale riuscirà ad
attingere con maggior intensità a quella forza in grado di spronarlo
oltre il muro delle proprie radicate certezze e cristallizzate abitudini.
Non esiste una strada più spirituale di un’altra! Potrà solo esistere
una maggior onestà e sincerità nel modo di perseguirne gli
insegnamenti, ma ciò non potrà mai sostituirsi all’impegno
personale, alla propria umile predisposizione ad accogliere i
messaggi che si celano dietro ogni angolo nella vita. Cosicché
possono esistere perfetti cristiani, ebrei, induisti, musulmani o
buddisti senza nulla conoscere delle suddette tradizioni; o perfetti
studiosi e conoscitori di tali dottrine senza per questo viverle
minimamente.

Disse a lui Giovanni: “Maestro, abbiamo visto uno cacciare i


demoni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non
ci seguiva.” Allora Gesù disse: “Non vietateglielo, non c’è
infatti nessuno che farà un miracolo nel mio nome e potrà
subito parlar male di me. Chi infatti non è contro di noi, è per

211
noi. Chiunque infatti vi dia da bere un bicchiere d’acqua nel
mio nome perché siete di Cristo, in verità vi dico che non
perderà affatto il suo salario.67

Il sole risplende da sempre e per sempre su tutti, in qualsiasi


luogo ed indipendentemente dalle condizioni sociali, conoscenze
intellettuali o capacità fisiche. Questo è un altro fondamentale
messaggio della sapienza egizia, veicolato meravigliosamente dal
simbolismo espresso durante il regno di Akhenaton, dove i raggi
della Luce – della Gnosi – sono costantemente tesi e rivolti verso
tutti i suoi figli, pur rivelandosi solo a coloro disposti ad offrire con
gioia i propri servigi ad essa (figura 51).

Figura 51 – Il dono di Akhenaton.

67
Vangelo (Mr 9,1).

212
Non si tratta qui di offerte intese come sacrifici dolorosi od
immani sforzi contro natura, ma semplicemente di un donare se
stessi esattamente per quello che si è, secondo il principio fai ciò che
sei, oltre le maschere, le illusioni, le avidità, insomma, oltre tutto ciò
che opprime e soffoca la libertà di lasciare spazio a quell’espressione
horusiana che giace in noi. Per questo motivo i raggi divini
“ricambiano” simbolicamente i suoi figli con l’ankh (figura 52), la
chiave per divenire padroni del proprio destino ed accedere a quel
regno interiore eterno, immortale.

Figura 52 – L’offerta della vita.

A coloro, e sono rari, che amano la verità e cercano la Via –


lo yoga universale – il tempio dice: “Cerca in te stesso”. Sono
rari, infatti, coloro che vanno verso il tempio non per sapere,
ma per conoscere. Ancor più rari sono coloro che ci entrano
“con cognizione di causa”, e questi possono anche uscirne:
che cosa importa loro del tempio, quel tempio? L’unico e
vero tempio per loro è la natura, il mondo.68

68
R.A. Schwaller de Lubicz, Insegnamenti e scritti inediti, Mediterranee, Roma, 2008.

213
214
La ricerca di Ak-Yb-Ka

V.

L’ADDIO

“Ak-Yb-Ka, figlio mio, quattro anni sono trascorsi dal tuo


ingresso nel Tempio. Lo so, faticoso è stato il lavoro. Ma a quale
gioia può adesso attingere il tuo cuore? Ora non sei più solo, non lo
sei mai stato in realtà. Da qui, inizia per te un nuovo cammino per
unirti a coloro che vivono nella Luce. Al di là di ogni razza,
religione o condizione sociale, essi vivono nell’eternità per
testimoniarla, sempre tesi a rinnovare l’Insegnamento Universale.
Và, figlio mio, i Seguaci di Horus ti stanno dunque aspettando.”
Ak-Yb-Ka capì che il suo maestro lo stava per lasciare, e sapeva
anche che a nulla sarebbe valso ogni suo tentativo di convincerlo
altrimenti. Ma un’ombra di paura ed insicurezza gli pervadde la
mente, e non riuscì a trattenere alcune lacrime di tristezza.
“Padre, so che la tua saggezza va oltre la mia comprensione, ma
io temo di non essere ancora pronto a lasciare il Tempio e la tua
guida. Dove andrò? Cosa farò?”
“Hai preparato per tutto questo tempo il tuo corpo, la tua mente
e il tuo cuore affinché potessero diventare il terreno ideale su cui far
germogliare il seme dello Spirito, ora puoi vederlo e sentirlo con
discernimento. Non hai bisogno di null’altro, la vita stessa ti cullerà
e ti guiderà. Essa stessa è ora il tuo Tempio, tu stesso sei il Tempio.
Lasciati guidare dal divino Ospite che hai accolto in te, Egli non
desidera altro che servire la Luce, ma ognuno di noi deve ritrovare
la sua personale strada per completare quest’opera.
Và, figlio mio, il tuo nuovo nome da oggi in poi sarà Hem-Ba.
Formula dunque ora la tua più intima preghiera, non dimenticarla
mai più e lotta per renderla viva in ogni istante della tua vita futura.
Da oggi tu sarai nel mondo ma anche al di sopra di esso.”
Ak-Yb-Ka chiuse un attimo gli occhi per interiorizzare il suo
nuovo nome. Ne poteva sentire la vitalità e la potenza scorrere

215
attraverso il sangue. Sì, ora era realmente pronto. Si inginocchiò,
alzò le mani al cielo e lasciò parlare il suo cuore:

“Signore, che si rafforzi la nostra amicizia


e si consolidi la nostra alleanza,
che io possa camminare fiero nei giardini del mondo
forte della tua presenza nell’animo mio.

Signore, che io possa udire sempre più chiaramente


la tua voce risuonare dentro il mio cuore,
e perdona le mie debolezze,
esse mi sommergono senza che io me ne accorga.

Signore, dammi la forza di capire,


non lasciarmi straniero sui confini del mondo,
mostrami come la tua mano agisce nel muovere la vita
e donami la forza di non abbattermi
quando non ne comprendo i disegni,
fa che io possa vivere della tua Verità della tua Giustizia.

Signore, fa che la mia lingua si guardi dal discorso malvagio,


e che le mie labbra non proferiscano inganno,
lontano dalle maldicenze del mondo;
che io sia sempre umile con tutti.

Signore, aiutami a divenire un riflesso della tua luce in terra,


che gli uomini e le donne possano trovare conforto dalle mie parole,
che le mie carezze siano veicoli del tuo calore,
che il mio focolare sia rifugio per tutti i tuoi figli.

Signore, fa che io trovi la forza di comunicare


ciò che tu a volte mi permetti di vedere,
divengono infatti sterili i tuoi doni
se rimangono chiusi nel mio intimo.

Signore, apri il mio cuore all’intelligenza della tua Opera,


che io esegua la tua Volontà sotto la tua protezione,
e ogni qual volta ci sarà da combattere mi considererò già armato,

216
poiché non esiste arma più potente dell’Amore.

Così io so pregarti,
così io so amarti.”

Si alzò, aprì gli occhi, e vide che di fronte a lui non vi era più
solo il suo maestro, ma il faraone, i saggi della Scuola e i suoi
compagni. Tutti lo guardavano colmi di gioia. Hem-Ba li abbracciò
uno per uno teneramente, sussurrò infine una parola a colui che lo
aveva accompagnato fino a quel giorno, poi si girò, e si abbandonò
nell’ignoto della vita, cullato dalle onde del tempo.

217
218
Conclusione

Giungendo alla fine di questo libro si potrà avere come la


sensazione di aver perso tempo con una serie di teorie strampalate e
prive di fondamento, oppure si potrà essere entusiasti nell’idea di
aver ritrovato finalmente delle conferme a quanto già si supponeva.
Entrambe le opzioni non hanno alcun valore, oppure entrambe
potrebbero averlo qualora siano servite per riflettere o mettere in
discussione alcuni aspetti della propria vita generalmente dati per
scontati.
Il mio personale augurio è che la piccola scintilla che ciascuno di
noi porta in serbo possa accendere una fiamma, e che tale fiamma
sia lasciata ardere sempre di più fino a bruciare ogni ostacolo che si
interpone tra noi e quella sacra vitalità che alcuni chiamano Dio, altri
Gnosi, altri ancora Amore o – più semplicemente – Vita.
Questo scritto non è che un omaggio ad una delle tante splendide
voci con cui la Tradizione Universale ha cantato le sue glorie per
risvegliare i suoi figli. Laddove essa sia in grado di risuonare dentro
il lettore come un dolce richiamo verso una realtà ancora ignota ma
di cui si avverte una profonda nostalgia, il mio invito è quello di
lasciarsi pervadere per cavalcarne la corrente fino alla Sorgente. Nel
caso contrario poco importa, vi saranno altre musiche, altre danze
pronte ad accompagnare nel Cammino, a patto che il desiderio e la
volontà di perseguirlo sia sincera.

Una volta, un mercante domandò a un derviscio: “Qual è il


tipo d’uomo che, nella vita, compie lo sforzo più vano?” Il
derviscio disse: “Tu non lo conosci?” “Mi pare di sì. Non è
forse il ricco, che non riesce a godere dei propri tesori?”
“Niente affatto”, replicò il derviscio, “è colui che apprende
tutte le dottrine spirituali, senza praticarne alcuna!”69

Credo sia ora doveroso lasciare l’ultima parola ad un uomo del


nostro secolo che ha dedicato tutta la sua vita in virtù di una rinascita

69
Leonardo Vittorio Arena (a cura di), 101 Storie Sufi, Il Punto d’Incontro, Vicenza, 2003.

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spirituale dell’antica tradizione egizia, René Schwaller de Lubicz. Le
toccanti parole che seguiranno furono da lui rivolte a sua moglie
Isha poco prima di morire, e rappresentano allo stesso tempo un
omaggio in suo onore ed un monito per tutti i sinceri cercatori:

Ora vedo il suo gioco: egli è stato mio nemico per tutta la mia
vita... non lo credevo così feroce! Sapevo che egli era
l’ostacolo, ma non avevo riconosciuto tutti i suoi inganni,
tutte le forme che egli ha potuto prendere per deviarmi dal
cammino... È terrificante, Isha! Vorrei che tu potessi vederlo,
anche tu, per poter insegnare agli altri a liberarsi delle proprie
paure… Perché è lui, vedi, è lui, il Mentale, che crea la
paura… e tutti i nostri dubbi, i nostri spaventi… […]
Guarda, Isha: tu vedi come me, ora, il Reale… Vedi che è
impossibile da descrivere… impossibile da spiegare!... Ma io
te lo faccio vivere perché tu possa affermarlo, ed anche
portarvi coloro che oseranno accettare di lasciare tutto per
porsi in comunione in questo Reale…70

70
R.A. Schwaller de Lubicz, cit. in Massimo Marra, R.A. Schwaller de Lubicz. La politica,
l’esoterismo, l’egittologia, Mimesis, 2008.

220
Bibliografia

Testi sacri di riferimento:

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Bibbia Ebraica. Pentateuco e Haftaroth (a cura di Rav Dario Disegni), La


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Jacq Christian, La misteriosa sapienza dell’antico Egitto, Mondadori, Milano,


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Pabonka Rimpoche, La Liberazione nel palmo della tua mano, Chiara Luce
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Plutarco, Iside e Osiride, Adelphi, Milano, 2002.

Romano Laura, Sumarah. Il risveglio del maestro interiore, Ubaldini, Roma,


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L’autore può essere contattato al seguente indirizzo mail:
joannes.yrpekh@virgilio.it

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