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R. Non è andato proprio così. Un giorno trovai un basso elettrico in una soffitta. Sembrerà strano ma non ero
felice, perché una volta aperta la custodia avrei preferito trovare una chitarra elettrica. Nel gruppettino che
avevo messo in piedi, avevo imposto di suonare il basso a un amico che aveva solo una chitarra con le corde
di nylon. Visto che questo aveva parecchie difficoltà e dovevo continuamente spiegargli come si usava, a
forza di «aspetta, ti faccio vedere io… aspetta, ti faccio vedere io…» mi son ritrovato a suonare il basso.
R. Jaco è il bassista che più mi ha spronato a migliorare. Tiravo giù dai dischi le sue frasi, le sue linee. Per
poterle suonare però bisognava essere tecnicamente molto preparati, altrimenti non avevi chances. Era
stimolante. Poi ho scoperto anche altre cose.
Lui è stato per il basso ciò che Jimi Hendrix è stato per la chitarra. Prima di lui nessuno suonava così. Una
specie di messia, o di marziano. Era anche un grande compositore, basta ascoltare Three wiev of a secret.
È unico, tant’è che lo “Jachismo”, come lo chiamo io, può diventare una malattia.
Visto che ha influenzato intere generazioni di bassisti, puoi trovare sempre chi prova a suonare come lui.
Magari bassisti che stanno accompagnando qualche canzoncina e col basso fretless (senza tasti), iniziano a
combinarne di tutti i colori. Fa sorridere, ma ci sono passato anch’io.
D. Era unico anche nella sua “pazzia” e nei suoi atteggiamenti sul palco…
R. Di lui amo anche questo approccio. Spesso i jazzisti si portano dietro una cappa di seriosità assolutamente
immotivata. Quell’incupimento che sembra voler dire «stiamo suonando cose che neanche vi
immaginate…». E dire che se si guardano i concerti jazz nell’America di un po’ di anni fa si vede il pubblico
in visibilio e i musicisti sul palco che scherzano e si divertono.
Ho letto che Jaco spargeva il borotalco sul palco per fare gli arrivi in scivolata e la trovo una cosa bellissima.
D. Come sono cambiati i Weather Report con l’ingresso di Jaco Pastorius nel 1976?
R. Quando è entrato lui il sound è cambiato. Collaborava con Zawinul anche in maniera conflittuale, ma si
interessava dei vari aspetti del disco: dagli arrangiamenti al suono.
Questo non deve togliere a Zawinul il fatto di essere stato un uomo che ha avuto alcune visioni musicali
prima di chiunque altro, che hanno anticipato tantissime cose che sono andate avanti parecchi anni dopo.
L’album “I sing the body eletric” del 1972 fa l’effetto di “Arancia meccanica” nel mondo cinema. Ci sento le
radici di tutto l’acid jazz che è venuta dopo.
Per non parlare delle influenze etniche che adesso sono più che una moda, quasi un obbligo.
Nel pezzo Badia da “Tale Spinnin'” (1975) c’è già tutto questo. Trent’anni dopo sembra che se non fai il
pezzo etnico sei uno sfigato e ti propinano queste cose, dal valore artistico di un Buddha Bar, anche nella
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