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ROBERTO ZARETTI

Una curva in fondo alla strada

Sapevo non sarebbe arrivato. Come non era arrivato l’anno


precedente e quello prima ancora.
La curva in fondo alla strada era muta da giorni. Del resto, anche
in estate, non è che di auto ne passassero molte.
Sapevo bene che chiunque avesse deciso di avventurarsi in quel
mare di neve avrebbe dovuto farlo a piedi. E che avrebbe impiegato
ore per arrivare.
Ma ci speravo. Si, accidenti, erano anni che ci speravo.
Cominciavo già i primi di dicembre a guardare quella curva e a
sperarci.
Durante la bella stagione la sua assenza si faceva sentire, ma le
corse nei campi, le vacanze, la raccolta delle mele e dell’uva
riuscivano a impedirti di pensare. Ma a Natale, no.
Per le feste, mamma e papà si davano un gran da fare a
comprare doni, addobbare la casa, mandare gli auguri a zia
Clotilde e zio Gianni, che vivono in America. Poi preparavano la
tavola con le candele e la tovaglia rossa, invitavano nonna Adele,
stappavano lo spumante e auguravano a tutti un felice Natale.
Ma non era mai un felice Natale. Non lo era per nessuno. Non lo
era da anni.
Certo, la vigilia si telefonava, si scrivevano i biglietti da
appiccicare al regalo che mamma e papà gli avrebbero portato il
giorno dopo. E nel pomeriggio del venticinque, finito di mangiare
la torta, partivano per Milano e lo andavano a trovare. Ma io
restavo a casa. “Non è posto per bambini”, diceva papà. “Quando
sarai grande”.
Avevo parlato a Timmy di questo problema, ma non sembrava
importargli più di tanto. Pur avendo solo dodici anni, so bene che
un gatto non può venire a dirti “quanto mi dispiace” o “vedrai che
tornerà”. Per il semplice fatto che i gatti non sanno parlare.
Però, ascoltano. E comprendono.

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Mamma piangeva. Lo faceva di nascosto, ma sapevo che lo
faceva. A volte, sentivo lei e papà parlare sottovoce, per non
farsi sentire. E ogni volta finiva che piangeva.
No, non sarebbe arrivato. A osservare bene, giù alla curva, si
intuivano alcune impronte. Qualcuno era passato di recente. Ma
andavano nella direzione opposta, verso il paese, E poi, la neve
che continuava a cadere ormai da due giorni, le avrebbe cancellate
nel giro di qualche ora. Avrei dovuto aspettarne di nuove.
Quando ero più piccolo, ricordo che domandavo spesso di lui. E
ogni volta ricevevo una risposta diversa. Mamma diceva che era in
America da zia Clotilde. Nonna raccontava che era ammalato e che
doveva curarsi. Papà cercava di convincermi che aveva trovato un
lavoro lontano e che per questo non riusciva a venire.
Nessuno voleva dirmi come stavano davvero le cose. Come se un
bambino di sette anni non fosse in grado di capire.
E c’era un’altra cosa strana: nessuno pronunciava mai quella
parola.
Se ne parlava la televisione, allora si cambiava canale. Se davano
un film sull’argomento, allora papà diceva che non c’era nulla di
bello e si giocava alle carte.
Lo facevo di nascosto. Quando restavo a casa da solo, oppure
mi portavano da zio Gianni che è sordo, seguivo tutti i
documentari sull’argomento. Anche i telegiornali, volevo sentire.
A mamma dicevo di aver guardato i cartoni animati tutto il
pomeriggio. Figurarsi. Credo di non averne mai visto uno in tutta
la vita.
Ciò che mi aveva fatto più male era il fatto di averlo saputo
a scuola. Nessuno me lo aveva detto prima. Pensavo davvero che
Renzo fosse in America, o in un paese lontano.
“Tuo fratello è un drogato. Tuo fratello è un delinquente. Tuo
fratello sta in galera, non l’hai ancora capito?”
Di notte piangevo. Non ci volevo credere. Mi chiedevo per quale
ragione fossero tutti così cattivi. Poi, un giorno, trovai il
coraggio di chiederlo a mamma.
«Chi ti ha detto una cosa del genere?»
«I miei compagni di classe.»

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«Non gli devi credere. Renzo non è in prigione. È ammalato. Ma
si sta curando in una comunità, e presto tornerà a casa.»
«Che cos’è una comunità?»
«È una grande famiglia, dove vengono curati i ragazzi che
hanno i problemi di Renzo».
«Quali problemi?»
«Ha una malattia con il nome difficile. Ma guarirà.»
Col tempo, avevo imparato che la malattia con il nome difficile si
chiamava eroina. Sapevo pure delle siringhe e dell’angoscia che ti
prende quando l’effetto della droga è passato. Davano un programma
in televisione, tutti i lunedì. Ne sapevo più di mamma e papà
messi insieme, probabilmente. Ma non osavo dirglielo. Forse un
giorno lo avrei fatto.

A una settimana dal Natale, l’ultimo giorno di scuola litigai con


il Ceretti. Era il più cattivo di tutti. Per colpa sua, in classe
ero “il drogato”. Diceva che Renzo stava in prigione perché
condannato all’ergastolo. E che sarebbe finito sulla sedia
elettrica.
Così, pur essendo più grosso di me, quel giorno gli diedi una
sberla. Fortuna volle che la maestra se ne accorgesse per tempo e
intervenisse prima che il Ceretti potesse reagire.
Andai a casa e raccontai tutto a nonna. Mi raccomandai tanto che
non lo dicesse a mamma, ma lei lo fece ugualmente.
«Giuseppe, che hai fatto a scuola?»
«Nulla, mamma. Le solite cose. Mi prendono in giro.»
«Per via di Renzo?» Era stata la preside a dirglielo.
«No, che c’entra. Mi ha detto che sono uno stupido e gli ho
dato una sberla.»
«Non voglio che fai a botte in classe!» Si avvicinò, si piegò
sulle ginocchia e mi accarezzò i capelli. «Hai pensato a cosa vuoi
per Natale? No, aspetta, Non me lo dire. Quest’anno avrai il
regalo più bello del mondo. Un regalo che hai sempre sognato.
Indovina un po’....»
La guardai, meravigliato. Non c’era nulla che desiderassi in
maniera particolare. Vivendo praticamente da figlio unico, avevo

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sempre potuto avere tutto ciò che un bambino può desiderare. Un
cavallo, forse. Ma mica me ne potevano incartare uno per Natale.
In estate, probabilmente. Chissà. Papà me lo aveva promesso, fossi
stato promosso.
«Non saprei..... È un cavallo?»
«Giuseppe....Un cavallo in pieno inverno? No. Di più. Molto di
più.» Mi prese il viso tra le mani. «Chiudi gli occhi. Esprimi un
desiderio. Qual è la cosa che più desideri al mondo?»
Non dovetti pensarci poi molto.
«Che Renzo torni a casa per Natale.»
Vidi il suo volto illuminarsi.
«Sai cosa fa papà, domattina? Lo sai?»
«No. Cosa fa?»
Mi diede un bacio in fronte, poi si alzò.
«Tesoro mio, preparati. Domani papà va a Milano a prendere
Renzo!»
Non ci volli credere. Era troppo bello per essere vero. Ero
convinto fosse una di quelle cose che si dicono per Natale, giusto
per far contenti i bambini che sognano un giocattolo che non
potranno avere.
«Non ci credo» ribattei, deciso. Mamma tornò a piegarsi sulle
ginocchia.
«Domani Renzo torna a casa. Davvero. Te lo prometto. E passerà
il Natale con noi.»
«Me lo prometti davvero?»
«Davvero.»
Urlai di gioia e corsi a raccontarlo a Timmy.

Babbo non sarebbe tornato prima di sera. L’auto era inutilizzabile


per via della neve. Così, avrebbe dovuto andare a piedi fino alla
fermata della corriera, giù nel piano, arrivare in stazione a
Domodossola e prendere il treno per Milano. La stessa cosa al
ritorno.
Mamma era indaffarata in parrocchia, in quel periodo, per via del
presepe. Prima di uscire, si raccomandò di non stare con il naso
appiccicato alla finestra, perché tanto papà e Renzo non sarebbero

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arrivati che in serata. Cercai di darle ascolto, ma in realtà alle
due del pomeriggio già stavo a scrutare la strada.
Avevo pregato tutta la notte. Avevo chiesto a Gesù che fosse vero,
che mamma non si fosse inventata quella storia solo per
consolarmi.
Quante volte avevo odiato quella curva. La odiavo praticamente
da quando, sei anni prima, aveva inghiottito Renzo. Faceva sparire
papà, quando andava al lavoro. E mamma, quando andava in
parrocchia o alla bottega, giù in paese. E ogni volta mi domandavo
se li avrei rivisti. Quando ci passavo per andare a scuola lo
facevo di corsa, per evitare che potesse far sparire anche me.
Ma ora mi avrebbe reso Renzo. Tra un’ora, due, dieci. Non potevo
saperlo. Promisi a me stesso che l’avrei perdonata, avesse
restituito mio fratello.
Rimasi incollato al vetro per ore. Verso le tre, per un attimo
sembrò smettere di nevicare. Poi ricominciò.
Alle quattro sbucò un cane randagio, dall’andatura incerta. Fece
qualche passo, poi tornò indietro e sparì un’altra volta.
Mamma sbucò in fondo alla strada che già iniziava a far buio.
Cercai di nascondermi, per evitare che mi vedesse alla finestra.
Ma lei sapeva bene che stavo lì.
«Giuseppe, è inutile che stai incollato a quella finestra. Non
arriveranno prima delle otto. Vai in camera tua, che prendi
freddo.»
Ma la mia camera guarda verso la montagna, mica verso la strada.
Non avrei sopportato l’attesa.
«Mamma, ti prego. Fammi restare.»
Alle cinque si accese il lampione che illuminava la curva.
Chiunque passasse sotto la luce della lampada avrebbe riflesso la
propria immagine nella neve. Come un fantasma.
Arrivarono le sette. Poi le otto. Poi le nove. Giurai a me stesso
che avrei maledetto quella curva per tutta la vita, non avesse
fatto comparire Renzo.
Un quarto alle dieci, due ombre gialle si stagliarono nitidamente
sotto la luce artificiale del lampione. Sentì il cuore salire in

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gola. Cercai di vedere meglio. Potevano essere papà e Renzo. Ma
anche due persone qualunque. Ne viveva di gente, in frazione.
Mi avvicinai al vetro. Sempre di più. Per un attimo ebbi
l’impressione di poterlo attraversare. Aprì la finestra.
«Giuseppe! Sei matto? Chiudi quella finestra. Vuoi prenderti
una......»
«Mamma.... sono loro. È Renzo. È Renzo, vero? Si è lui. Sono
sicuro.»
Mamma si avvicinò alla finestra, guardò un istante, poi portò le
mani sul volto e scoppiò in lacrime.
Non attesi la risposta. Mi precipitai per le scale, aprì la porta
e mi misi a correre nella neve. Con le pantofole ai piedi e il
pigiama indosso, il gelo penetrava nelle ossa ogni passo di più.
Sentivo mamma che urlava. Strillava di polmoniti, bronchiti e non
so che altro. Ma neppure tutte le polmoniti del mondo mi avrebbero
potuto fermare.
«Renzo, Renzo» urlai.
Una delle due ombre cominciò a correre. Ci incontrammo esattamente
a metà strada. Credo restammo abbracciati per almeno dieci minuti.
Fu papà a staccarci e a portarci a casa.

Il giorno di Natale, mamma portò tutti a Messa. Prima della


funzione passammo a vedere il presepe che aveva preparato insieme
alle altre donne del posto. Non credo di averne mai veduto uno più
bello. O forse era la gioia che provavo, a farmelo apparire così.
Ero felice. Come non lo ero mai stato. Pure mamma e papà lo erano.
E pure nonna. Anche Renzo, credo.
Eppure, nell’aria si percepiva qualcosa di strano. Pensai si
trattasse solo di una mia sensazione, e sorvolai sulla questione.
«Renzo, non la prenderai più quella roba, vero?» gli chiesi
quella sera, infilandomi nel suo letto.
«No, Giuseppe. Non la prenderò più.»
«Me lo prometti?»
«Te lo prometto. Ma a una condizione.»
«Quale?»

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«Che tu prometta a me di non caderci mai. Di non pensare mai,
nemmeno per un minuto, che sarebbe bello provare. Che saresti in
grado di farlo una volta sola e poi di lasciar perdere. Vedi, il
problema è che, se provi una volta, una volta sola, non puoi più
tirarti indietro. Lo vorresti fare. Ti accorgi di quanto stai
male. Ti accorgi che stai rovinando la tua vita e quella di chi ti
sta vicino. Ma non riesci a smettere. Proprio non riesci.
Promettimi che non ti lascerai fregare...»
«Te lo prometto.»
«Un’altra cosa, Giuseppe. Vorrei te la ricordassi, in modo da
non commettere l’errore che ha fatto quello stupido di tuo
fratello.»
Lo guardai. Sembrava sul punto di rivelare un grande segreto.
«Di che si tratta?» domandai, curioso.
«Prima o poi, qualcuno ti dirà che se non provi non sei un
uomo. Che non hai coraggio. Che sei un verme. Forse i tuoi amici
non ti parleranno più, se ti rifiuterai di farlo. Forse non
verranno più a cercarti. Non gli credere. Ricordatelo: non gli
credere mai! Un vero uomo non si fa tentare dalla droga, per il
semplice fatto che ne può fare a meno.»
«E una donna?»
«Pure.»
Erano tutte cose che già conoscevo. Le avevo imparate grazie alla
televisione. Ma una cosa è sentirle in televisione, l’altra è
farsele raccontare da chi le ha vissute sulla propria pelle.

A gennaio tornai a scuola. E mi accorsi subito che qualcosa non


andava.
Nessuno mi prendeva più in giro. Nessuno mi chiamava più “il
drogato”. Però, mi evitavano. Tutti. Anche Francesco, il mio
compagno di banco. Un giorno glielo chiesi.
«Perché non mi parli più? E perché nessuno mi saluta? Che ho
fatto?»
«I miei non vogliono che ci vediamo. Mi hanno detto di non
rivolgerti la parola.»
«E perché mai?»

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«Dicono che siete una famiglia cattiva.»
In quel momento capì molte cose. I pianti di mia madre, che non
riuscivo a spiegarmi, visto che Renzo era tornato a casa.
L’indifferenza della gente, che non mi salutava più quando la
incontravo per strada. Il fatto che mamma e papà non uscissero più
di casa, se non la domenica per andare in chiesa.
«Mamma, perché ce l’hanno con noi?» domandai una sera, a
tavola.
«Nessuno ce l’ha con noi. Che stai dicendo?»
«Si, invece. A scuola nessuno vuole stare in banco con me. E
la maestra mi ha messo in fondo all’aula, da solo. Non ci voglio
stare, da solo. Non mi piace.»
«Verrò a parlarci. Non ci pensare.»
«Anche i Ceretti non parlano più. L’altro giorno papà ha
salutato il signor Luigi, e quello ha fatto finta di niente. Per
quale motivo?»
«Non ci pensare. La gente ha tanti problemi. A volte non ha
voglia di salutare.»
Nei giorni a seguire, successero delle cose ancor più strane.
Qualcuno strappò la nostra cassetta postale dal palo a cui stava
fissata. Un altro giorno, papà trovò la nostra pianta di mele
segata.
Una brutta sera, successe una cosa terribile: Timmy non tornò più.
Mamma passò ore a chiamarlo, in veranda. Io rimasi sveglio una
notte intera ad aspettarlo. Ma lui non tornò più. E persi l’unico
vero amico rimasto.

Alle porte della primavera presi un grande spavento.


Di ritorno da scuola, seppi da nonna che Renzo era stato portato
via dai carabinieri.
C’era stato un furto in una casa del paese. I ladri erano entrati
smontando una serratura molto complicata. Un lavoro da esperti, si
diceva. Qualcuno aveva fatto il nome di Renzo. E così, siccome
tanti anni prima lui era stato arrestato per aver rubato in una
casa, i carabinieri erano venuti a cercarlo.

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Quel pomeriggio, ripresi posto alla finestra. Sapevo che non
poteva essere stato Renzo a rubare in quella casa, e quindi ero
certo che sarebbe tornato prima di sera. Ma anche quella volta,
come aveva fatto per anni, la curva tacque.
Pensando a quel periodo, ricordo le numerose telefonate di papà:
all’avvocato, ai signori che avevano subito il furto, ai
carabinieri.
Il giorno dopo, a scuola, notai subito di stare al centro
dell’attenzione. Durante la ricreazione, il Ceretti andò alla
lavagna e scrisse “il fratello di Giuseppe Sartori è un ladro”.
«Mio fratello non è un ladro!» urlai. Saltai sul banco e poi
verso la lavagna. Cercai di rifilargli un pugno sul muso. Ma
quello era almeno due volte più grosso. Mi diede uno spintone e mi
mandò a sbattere contro la parete. Picchiai pure la testa, tant’è
che cominciò a uscire sangue.
La maestra, spaventata, mi portò in infermeria, poi chiamò mamma
che venne a prendermi.
«Non ci voglio più venire a scuola» dissi, piangendo.
Mi misero un grosso cerotto e tornammo a casa. Almeno per quel
giorno, avrei saltato la lezione.
La macchina di papà spuntò dalla curva che cominciava a far
sera. Erano passati due giorni da quando i carabinieri avevano
portato Renzo a Verbania, e finalmente avevano deciso di
rilasciarlo. In attesa che si facesse il processo.
Prima ancora che entrasse nel cancello, già stavo in fondo alle
scale per poterlo abbracciare.

Mi accorsi ben presto che la gente del paese aveva emesso una
sentenza ben prima che il tribunale emettesse la propria.
Renzo era stato giudicato colpevole e condannato all’isolamento.
Quando attraversava il paese, di ritorno dai prati dove si faceva
il fieno, le persiane delle case si chiudevano improvvisamente. La
gente cambiava strada, se lo incontrava. Le donne stringevano
forte la borsa sotto il braccio. Gli uomini abbassavano la visiera
del cappello, per non salutare.

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Renzo faceva finta di niente, ma si vedeva che soffriva. Aveva
provato a cercare un lavoro, ma nessuno era disposto a fidarsi di
lui. Un tale Vivenzi, un vecchio che viveva al margine del bosco
con un paio di mucche e una decina di conigli, cercava da tempo
qualcuno che desse una mano per spazzare la cascina e fare la
legna. Nessuno si era presentato, perché sono lavori pesanti.
Renzo lo aveva fatto. E il vecchio aveva accettato.
Neanche due giorni dopo gli disse di andare via, nonostante si
vedesse bene che era contento del lavoro fatto.
Sapemmo poi che qualcuno aveva minacciato di ammazzargli i
conigli, avesse continuato a dare lavoro a quello che chiamavano
“il delinquente”.
L’atteggiamento della gente non cambiò neppure quando gli
autori del furto vennero scoperti. Si trattava di due balordi,
pescati poco tempo dopo a rubare in una casa utilizzando la
tecnica di smontare le serrature.
Con il passare del tempo imparammo a convivere con questi
pregiudizi. Non credo che la gente lo facesse per cattiveria. La
questione era che di droga si parlava, talvolta anche a scuola, ma
tutti lo consideravano un problema della grande città. Sapere che
era già arrivato in paese faceva paura. Così, ognuno cercava di
difendere la propria famiglia reagendo in quel modo.
In fin dei conti, ciò che importava davvero era poter stare
insieme. Mamma, papà, nonna, Renzo e io.
Certo, mamma aveva smesso di frequentare la parrocchia per non
sentire i pettegolezzi delle comari, che iniziavano a bisbigliare
ogni volta che la vedevano arrivare. Pure papà non andava più a
giocare alle carte, il sabato sera.
Così, ce ne stavamo tutti insieme a guardare la televisione o a
parlare. A volte, si cantava. Altre, nonna cominciava a raccontare
della guerra e dei partigiani. Papà allora andava a dormire,
perché quelle storie le conosceva bene e lo annoiavano. Io,
invece, sarei rimasto alzato tutta la notte ad ascoltarle.

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Quell’anno la neve arrivò prima del solito. Già a metà novembre,
un manto bianco spesso quasi mezzo metro cambiò i colori delle
cose uniformando il paesaggio in un’unica tonalità bianca.
E andò avanti così per giorni, al punto che, i primi di dicembre,
il sindaco emise un’ordinanza di chiusura delle scuole.
Credo sia stato uno dei periodi più belli della mia vita.
Insieme a Renzo si andava a correre con la slitta, si facevano
pupazzi, si combatteva a palle di neve. In quei momenti,
l’ostilità del paese era come se non esistesse. Ero forse l’unico
bambino a non avere amici, a non poter giocare a pallone con gli
altri, a non essere chiamato per le feste di compleanno. Però
c’era Renzo con me. E lui valeva più di tutti gli altri messi
insieme.
Ciò che sulle prime era parsa una gradita sorpresa, con il
passare delle settimane cominciò a diventare un problema.
La grande massa di neve impediva alle auto di circolare, ma pure
la corriera, giù in pianura, era spesso bloccata. Così, papà non
poteva andare al lavoro.
Spesso gli uomini del paese si trovavano a casa dell’uno o
dell’altro per liberare una stalla, per riparare un tetto crollato
o per aiutare un anziano in difficoltà. Anche papà ci andava, pur
se nessuno veniva mai a chiamarlo.
Nevicò talmente tanto che dovetti rinunciare a fare l’albero di
Natale sul pino che tutti gli anni addobbavamo con le palline
luminose. Così, mamma comprò un piccolo alberello da tenere in
casa, vicino al camino. Non era proprio la stessa cosa, ma per
quell’anno avrei cercato di accontentarmi.

Era la notte di Natale. Non lo potrò mai dimenticare.


Quella che avrebbe dovuto essere la notte più bella dell’anno, si
rivelò piena di incubi, di urla, di draghi con la lingua di fuoco
e di persone malvagie. Una di queste prese a rincorrermi con un
coltello. Per quanto corressi forte, riuscì a raggiungermi e a
colpirmi. Mi svegliai bruscamente, e mi accorsi che le urla
c’erano davvero. Che la gente correva davvero. La luce della

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cucina attraversava il corridoio e si infilava sotto la fessura
della porta.
Mi precipitai di sotto. Mamma stava chiudendo il bavero della
giacca a vento di Renzo. Papà stava allacciando gli scarponi.
Nonna era in un angolo, preoccupata.
«Che state facendo?» chiesi, stropicciando gli occhi. «È già
ora di colazione?»
«Torna a dormire» intimò mamma. «È notte fonda. Papà e Renzo
devono uscire. Tu torna a dormire.»
«Come, devono uscire? Che cosa è successo?» Corsi alla
finestra e sbirciai attraverso le persiane. Sulla strada la gente
correva e urlava. Tutti in un unica direzione. Verso la curva. «Si
può sapere cosa sta succedendo?» tornai a chiedere. Fu nonna a
dirmelo.
«È caduta una valanga, su all’albergo. Stanno andando ad
aiutare quegli sventurati. Lo dicevo che la temperatura era troppo
alta, per essere dicembre. Lo dicevo.»
L’albergo! “La Stella dei Monti” era pieno di turisti, in quel
periodo. Arrivati per le vacanze di Natale. Avrebbe potuto essere
un disastro!
Feci credere a mamma che sarei andato a dormire. Sgattaiolai in
cantina, indossai gli scarponi e la giacca a vento e mi mischiai
alla gente che andava verso l’albergo.
Quando arrivai, rimasi a bocca aperta. Una parte dell’edificio era
crollata. I fari dei pompieri illuminavano la scena come fosse
giorno. Tutt’intorno, gente che piangeva, auto distrutte, maglioni
e sci sparsi sulla neve. La scuola, posta proprio di fianco, era
invece solo stata sfiorata dalla valanga. Non posso dire che la
cosa mi facesse piacere.
Vidi decine di persone scavare nella neve. Altre, spostare travi.
Altre ancora, urlare e correre senza una ragione apparente.
Si udivano pianti, urla, lamenti.
Ebbi l’impulso di scappare a casa, inorridito. Ma qualcosa mi
impedì di farlo. Restai impietrito a guardare, a sperare che fosse
solo un brutto sogno.

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Poi, me ne accorsi. C’erano altre persone, più a valle. E un altro
edificio crollato. Evidentemente, la corsa della slavina non si
era arrestata contro i muri dell’albergo, ma aveva proseguito
travolgendo una casa posta un centinaio di metri più sotto, in
direzione del centro del paese. Sapevo bene di chi era quella
casa, perché ogni volta che passavo di là facevo bene attenzione a
evitarla.
D’un tratto, sentì una voce che urlava “corriamo dai Ceretti,
qui ci pensano i pompieri. Per fortuna, non è rimasto sotto
nessuno”. In effetti, la valanga aveva distrutto solo la parte
laterale dell’albergo, nel punto dove si trovava la sala del
ristorante, deserta a quell’ora della notte. Le camere, invece,
non erano state toccate.
Nascosto dietro a un pilastro, riconobbi Renzo e papà correre
insieme agli altri. In un momento tanto drammatico, evidentemente,
la paura di stare gomito a gomito con un drogato era stata messa
da parte.
Quando tutti furono passati, presi a correre nella stessa
direzione. Non posso dire che il Ceretti mi fosse simpatico, ma mi
sarebbe comunque spiaciuto gli fosse successo qualcosa.
La scena che mi si parò davanti, credo mi resterà scolpita
nella mente fino all’ultimo dei giorni.
La casa dei Ceretti non c’era più. Solo un mucchio di rovine.
Sassi, uno sull’altro. Resti di mobili, attrezzi da lavoro,
scarpe. Degli occupanti, neppure l’ombra.
Qualcuno cominciò a scavare, ma ci si accorse ben presto che la
grossa trave centrale che sosteneva il tetto stava in bilico,
appoggiata all’unico muro rimasto intero. Avrebbe potuto crollare
da un momento all’altro e trascinare con sé quanto ancora si
reggeva in piedi.
«State zitti!» urlò un uomo. La gente smise di parlare.
Arrivarono nitidamente dei flebili lamenti. Sotto le macerie,
qualcuno era sopravvissuto. Mi ricordai di essere stato dai
Ceretti una volta, quando ancora Renzo non era tornato a casa. Le
camere da letto, come del resto gli altri locali, stavano nel
seminterrato. Al piano di sopra ci tenevano il fieno, che in

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effetti si vedeva sparpagliato tutt’intorno. Quindi, avrebbero
potuto essersi salvati.
«Dobbiamo fare in fretta, prima che venga giù tutto» urlò
qualcuno. «Se crolla quella trave, sono spacciati.»
Due uomini tornarono ad avvicinarsi alle macerie, ma nell’istante
in cui provarono a spostare un pezzo di muro, la trave scricchiolò
paurosamente.
«Mio Dio! Rischiamo di farli morire, se spostiamo qualcosa.
Non possiamo fare niente. Ci vuole una gru che sollevi quella
maledetta trave. Qualcuno chiami i pompieri!»
«Non possiamo aspettare. Ogni minuto che passa potrebbe essere
l’ultimo. Se non sono ancora morti, è perché la trave regge sulla
testa di quei poveracci quel che resta della casa. Bisogna trovare
il sistema di tirarli fuori. Subito!»
Furono i vicini di casa dei Ceretti a lanciare l’idea.
«Qualcuno potrebbe infilarsi sotto la trave e, attraverso la
botola che comunica con il piano sottostante, portare soccorso a
quegli sventurati. Può essere che, uno alla volta, si riesca a
tirarli fuori.»
La cosa avrebbe voluto dire rischiare di rimanere sotto per
sempre. E questo era ben chiaro a tutti. Tant’è che nessuno
commentò la proposta. Anzi, si cercò di ignorarla.
Alcuni uomini provarono ancora ad aprire un varco tra le macerie,
e ancora la trave minacciò di cadere.
«Vado io.»
Ci fu un silenzio generale, che si trasformò presto in brusio.
Mi si gelò il sangue nelle vene. A quel punto non riuscì più a
stare nascosto e mi precipitai verso la folla.
«Renzo, no, non lo fare, ti prego!»
Qualcuno si voltò verso di me. Cercai di scansare i presenti per
poter raggiungere mio fratello. Ma, all’improvviso, due braccia
forti mi sollevarono di peso.
«Che ci fai, qui?» chiese l’uomo. Riconobbi la voce di mio
padre. «Torna immediatamente a casa.» Si girò verso un gruppetto
fermo a discutere, poco più in là. «Qualcuno porti a casa questo
ragazzino» tornò a urlare.

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Un uomo ci venne incontro e mi prese in braccio. Cercai di
scalciare e di liberarmi, senza riuscirci. Feci solo in tempo a
vedere la sagoma di Renzo arrampicarsi sulle macerie e sparire
sotto la trave, tra lo sgomento e il silenzio dei presenti.
Persi i sensi dal dispiacere.

Mi svegliai che il sole era già alto. Mamma doveva avermi riempito
con una delle sue tisane di erbe, che servono sia per farti
dormire che per correre al bagno.
Appena ebbi la cognizione di quanto fosse successo, presi a urlare
il nome di mio fratello. Mamma non tardò a precipitarsi in camera.
Mi diede un bacio sulla fronte.
«Buon Natale, Giuseppe.»
«Renzo! Dov’è Renzo? Dov’è?»
«Calmati. Dove vuoi che sia? È da basso che ti aspetta. Tutti
quanti stiamo aspettando solo te per aprire i regali. Lo sai che è
quasi mezzogiorno e che hai saltato la messa? Così ti toccherà
andarci stasera.»
«Davvero Renzo è giù con voi?» domandai, incredulo.
«Dove dovrebbe essere? Dai, muoviti.»
Cominciai a pensare di avere sognato. La valanga, la casa dei
Ceretti, la trave scricchiolante. Che mi fossi inventato ogni
cosa?
Quando arrivai di sotto, il camino era acceso. Sotto l’albero che
mamma aveva preparato al posto del grande pino, una montagna di
pacchi colorati attendevano i legittimi proprietari.
«Che è successo stanotte?» domandai a Renzo.
«È nato Gesù.»
«Certo. Ma è successo anche dell’altro...»
«Cosa intendi dire?»
«La valanga, la casa dei Ceretti, i pompieri....»
Si avvicinò e mi tirò i capelli.
«Se non la finisci di riempirti di dolci tutte le sere, altro
che pompieri.... Finirà che ti sogni i dinosauri!»
Lo guardai, allibito. Dunque, mi ero sognato ogni cosa? Non c’era
stata alcuna valanga?»

Una curva in fondo alla strada

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«A tavola!» urlò mamma. «Penserete dopo ai regali.»
Non riuscimmo neppure a sciogliere i tovaglioli. Qualcuno bussò
alla porta. Papà andò ad aprire.
Era il signor Casati, parente stretto dei Ceretti. Li sentì
confabulare per un paio di minuti. Poi l’uomo se ne andò.
Papà entrò in sala con due bottiglie di vino e le appoggiò alla
base dell’albero.
«Cosa sono?» domandai.
«A giudicare da ciò che si vede, sembrerebbero due bottiglie.
Penso si tratti di un regalo.»
«Un regalo? Un regalo di chi? Dei Casati? Ma se non ci parlano
neppure!»
Bussarono un’altra volta. Si ripeté la scena. Questa volta era la
signora Giuliana, che viveva in centro al paese. Ancora una volta,
babbo tornò con un regalo, che nella circostanza era una piccola
forma di formaggio.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» domandai, sconcertato. Mi
accorsi che nonna stava a sbirciare dalla finestra. Si voltò.
Scorsi un grande sorriso sul suo volto.
«Vieni a vedere» bisbigliò, facendo un cenno con la mano. Mi
precipitai.
Ciò che apparve ai miei occhi in quel momento non potrò mai
dimenticarlo. Un giorno lo racconterò ai miei figli, e poi ai
nipoti.
In mezzo alla neve, decine di persone stavano pazientemente in
fila lungo la strada. La coda, che partiva dal cancello di casa
nostra, arrivava fino alla curva e poi spariva alla vista.
Non capì immediatamente cosa stesse succedendo. Vidi Renzo alzarsi
e andare alla porta. Mi avvicinai. E finalmente tutto fu chiaro.
«Volevo chiederti scusa, Renzo, per come ti abbiamo trattato.
A nome mio e di tutta la famiglia. Volevo dirti che, d’ora in
avanti, sarai sempre il benvenuto.» Anch’egli lasciò un regalo,
probabilmente preso dalla cantina di casa all’ultimo momento.

Solo alle quattro riuscimmo a mangiare qualcosa. Pensando a tutti


gli abitanti del paese, non credo ce ne fosse uno che avesse

Una curva in fondo alla strada

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rinunciato a domandare scusa a Renzo e a complimentarsi con lui
per l’altruismo dimostrato.
Seppi poi che i Ceretti si erano salvati e stavano bene perché
Renzo era riuscito a portarli fuori uno alla volta. Neanche
mezz’ora più tardi, la casa era crollata completamente, ma la
solidarietà del paese l’avrebbe ricostruita più bella di prima.
Mio fratello aveva dovuto rischiare la vita per dimostrare
quanto valeva. E per dimostrare che un uomo può sbagliare, ma non
per questo deve essere dimenticato da tutti. Specie se ha deciso
di cambiare.

*******

Sono passati molti anni, ma ogni tanto mi fermo ancora davanti a


quella finestra, ripensando a un meraviglioso Natale trascorso a
guardare il paese sfilare lungo la strada e sparire dietro la
curva.

Una curva in fondo alla strada

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Una curva in fondo alla strada

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