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Istituto per l’Analisi dello Stato Sociale

Questo numero della rivista L’Arco di Giano prova ad


immaginare in che modo la pedagogia medica possa aiu-
tare a comprendere ed a gestire i cambiamenti più signi-
ficativi del contesto culturale in cui viviamo, concentran-
dosi soprattutto su quelli che stanno gradatamente mo-
dificando il paradigma della medicina.

Alla Medical Education sembra affidato il triplice compi-

Medical Education: luci ed ombre


to di accogliere e comprendere il cambiamento, di aiu-
tare a gestirlo nel modo più soddisfacente possibile, a
livello personale e sociale, e di implementare salute e
benessere, ancora una volta sia a livello personale che
sociale, attraverso una progressiva capacità di assimila-
zione e di reazione.
Gli obiettivi di Medical Humanities sono tornati ad occu-

Poste Italiane S.P.A. Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB- Roma
pare un tempo e uno spazio importanti nel piano di for-
mazione del medico, senza nulla togliere al rigore della
formazione scientifica, ma evitando che questa diventi
l’unico asse portante dell’intera struttura formativa.
È necessario che il medico, proprio per essere miglior
medico, torni ad essere anche doctor philosophiae, come
è accaduto per molti secoli. Non può sottrarsi alle eter-
ne domande che dietro il concetto di salute e malattia, di
vita e di morte, pongono anche interrogativi sul bene e
Medical
sul male, sul vero e sul falso. Sono domande che hanno
assunto sfumature nuove col passare degli anni, presen- Education:
luci ed ombre
tano collocazioni epistemologiche complesse e richiedono
un orizzonte sempre più vasto del sapere universitario,
un ritorno al valore e al significato del senso stesso
dell’Universitas.

ISSN 1721-0178 e 18,00 i.i. I.A.S.S.


La riabilitazione della coscienza
tra soggettività e soggettivismo.
Note sul significato di
“agire in scienza e coscienza”
DI ELENA COLOMBETTI

Riassunto
Nel codice deontologico i medici sono spesso sollecitati ad agire in scienza e coscienza
ed è importante non disgiungere l’una dall’altra. La coscienza esprime il primato del
soggetto e sottolinea l’indipendenza del suo giudizio, ma va sempre posta in relazione
con una conoscenza reale dei fatti e della realtà nel suo complesso. Il riconoscimento
del primato del soggetto mette in luce che la scelta di cosa fare è sempre riconsegnata
alla libertà, e quindi alla responsabilità, di chi è chiamato ad agire. Il testo analizza i
diversi modelli etico-antropologici oggi diffusi, per mettere in evidenza come la libertà
di coscienza sia conseguenza del vincolo morale che il giudizio di coscienza comporta
per chi lo formula, però questa valutazione non ha come punto di riferimento il
soggetto, ma la realtà. Per questo implica un fondamentale atteggiamento di apertura
alla verità per cui, comprendendo la realtà circostante, si comprende anche se stessi
come soggetti reali.

Parole chiave
Coscienza, Autonomia, Libertà, Soggettività, Soggettivismo.

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Ci sono formule che resistono al mutare della storia e dei costumi e che
assumono, nei confronti di una comunità, quasi una valenza identitaria. A volte,
però, questa sopravvivenza si dà perdendo le radici che davano senso e contenuto
alla formula stessa, le cui parole costituivano un sintetico e familiare richiamo ad
un quadro ricco e complesso, e finiscono con l’assumere un significato profonda-
mente diverso da quello originario. Altre volte ancora, invece, le formule vengono
abbandonate perché considerate icona di un sistema superato, rifiutato se non,
addirittura, osteggiato. Le parole “agire in scienza e coscienza” sembrano poter
essere rubricate tra entrambi i gruppi di espressioni: hanno assunto un senso
nuovo o sono guardate con sospetto e diffidenza.
Se partiamo da quest’ultima sorte toccata all’agire in scienza e coscienza, non
sarà difficile accorgersi che la formula appare a molti largamente superata. Il rife-
rimento alla coscienza, infatti, sembra esprimere l’adeguamento a codici eterono-
mi ed estranei all’arte medica, estraneità a cui anche lo stesso giuramento di
Ippocrate pare essere ricondotto.
L’uso – e forse a volte l’abuso - del termine coscienza sembra infatti creare
una sorta di dipendenza e subordinazione dell’agire del medico rispetto a norme,
regole e principi impostigli dall’esterno ed eredi di una pretesa di oggettività ed
universalità ormai percepita come inaccettabile. La valutazione della situazione
alla luce di norme e principi appare, insomma, come lesiva della sua autonomia.
Non sarebbe la coscienza, dunque, a dover regolare l’agire, ma una più o
meno esplicitamente dichiarata adesione ad un modello contrattualistico in cui è
l’accordo a sancire la giustezza, la legittimità e addirittura la doverosità dell’atto. A
prima vista questo approccio pare garantire il rispetto dei soggetti coinvolti, po-
nendo in posizione centrale e fondante la volontà. Per usare le parole di uno dei
più noti teorizzatori di questa posizione, il problema morale va formulato nei
termini di «chi è d’accordo con chi per fare che cosa»1 . Vale la pena però notare che
il richiamo al ruolo valutativo della coscienza, in questo modo, è solo apparente-
mente eluso, perché lo stesso accordo, richiedendo l’assenso dei contraenti, pre-
suppone sempre da parte loro una valutazione che sfocia, appunto, nell’adesione
alla materia di volta in volta oggetto dell’intesa. Benché il criterio valutativo adot-
tato da ciascuno possa differire, il giudizio è comunque necessario, pena l’insensa-
tezza dell’atto. Anche solo questa breve osservazione ci mostra che il frettoloso
pensionamento della coscienza va rimesso in discussione e che il tema richiede un
più sereno approfondimento.

Coscienza e libertà
Il codice deontologico dei medici, anche nella sua ultima versione approva-

1
Si veda H.T.Engelhardt, The foundation of Christian Bioethics, Swets & Zeitlinger, Lisse 2000, cit. p.135
(trad.nostra).

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ta nel 2006, utilizza più volte l’espressione in “scienza e coscienza”2 , così come
del resto la formula del giuramento professionale attualmente proferito al
conseguimento del titolo di dottore in medicina3 . Ma quale ne è il senso?
Il richiamo alla coscienza assume spesso una sfumatura, o se vogliamo una
prospettiva, del primato del soggetto o, ancora meglio, del pensiero soggettivo.
Se da un lato questo sottolinea l’irrinunciabile indipendenza di giudizio del me-
dico, dall’altro, se assolutizzata, veicola un significato di coscienza intesa non
come atto cognitivo, dipendente dunque da una conoscenza di una realtà non
posta ma trovata, ma della coscienza come atto volitivo, come atto di scelta di
una visione privata del mondo. Una visione (Weltanschaung) che, essendo non
solo del soggetto, ma altresì soggettiva, risulta in sé non suscettibile di alcun
confronto e critica razionale.
Il riconoscimento del primato del soggetto ha il pregio di mettere in luce
che la scelta di che cosa fare è sempre riconsegnata alla libertà, e quindi alla
responsabilità, di chi è chiamato ad agire. Non sono il contesto, la legge, le pres-
sioni ambientali o le usanze che determinano l’azione, perché in ultima analisi è
sempre il soggetto agente, nel caso che stiamo esaminando il medico o l’opera-
tore sanitario, che si autodetermina a seguire una legge civile o a contrastarla,
ad accettare una pressione o a farvi resistenza, ad adeguarsi o non adeguarsi al
contesto, affrontando ogni volta anche le conseguenze delle proprie azioni. La
libertà è sempre nelle mani di chi deve agire, è ineludibile, e pertanto richiede
una costante valutazione dei contenuti. Come dice Schiller, «L’uomo è creato
libero, è libero, foss’anche nato in catene»4 . Il nocciolo teorico è però un altro
e richiede di comprendere se questa centralità ineludibile del soggetto agente sia
anche una priorità fondante. Proviamo ad andare per gradi.
Il richiamo alla coscienza si pone come la concretizzazione della libertà,
come la restituzione della sovranità dell’individuo all’individuo stesso. Ma pro-
prio qui si impone una chiarificazione concettuale: che cosa intendiamo per
coscienza? E quale è il ruolo del soggetto in questa liberazione? La coscienza
come espressione della sovranità dell’individuo protegge dall’intrusione dell’au-
torità, il cui fondamento, qualunque ne sia l’espressione, è profondamente mes-
so in discussione. Ma proprio il concetto di sovranità appare problematico. So-
vrano, infatti, è un potere che non riceve da altri la propria autorità; proprio
questo richiede una sorta di assolutezza che, però, non appartiene al singolo, la
cui azione si svolge nello spazio comune dell’intersoggettività umana. Come un

2
Codice deontologico dei medici, art.13, 22, 35, 44
3
«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo,
giuro: (…) di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e
secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle
giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione. »
4
F.Schiller, Le parole della fede, in F.Schiller «Poesie filosofiche», trad. a cura di G.Pinna, Ed. Feltrinelli,
Milano 2005, cit. p. 91.

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popolo è sovrano nei confini del territorio nazionale, così si potrebbe eventual-
mente ragionare sulla sovranità dell’individuo, per così dire, nel territorio della
sua persona. Ma la libertà non si gioca nella sola interiorità: dà forma ad un agire
che si dà nel mondo modificandolo, intrecciandosi con altri soggetti ed altre
libertà5 .
Si potrebbe allora ridimensionare il ruolo della coscienza facendone espres-
sione, più modestamente, non della sovranità, ma, appunto, della libertà. Ma pro-
prio qui si pone un interrogativo la cui risposta cambia totalmente la prospetti-
va di analisi. Occorre infatti intendere se la coscienza è espressione della libertà
perché mette in gioco il soggetto sottraendo il suo agire a determinazioni a lui
estranee, o perché la coscienza stessa è libera, in altre parole, perché la coscien-
za stessa si autodetermina. Potremmo riformulare il problema anche in questi
termini: la coscienza è effettivamente un atto conoscitivo o volitivo?
Dobbiamo certamente riuscire a rispondere a questa domanda, ma innan-
zitutto dobbiamo prendere atto che l’idea della coscienza come intrinsecamen-
te libera –tanto che solo a malincuore rinunciamo all’idea della sovranità del
soggetto- risponde ad una percezione nei cui confronti ogni teorizzazione ap-
pare prima facie debole. Inoltre, aspetto affatto secondario, questa idea esprime
anche la percezione, vera, che il soggetto non può abdicare a codificazioni im-
personali la guida del proprio agire, pena la perdita di se stesso. Quando questo
avviene, infatti, l’uomo rinuncia al pensiero -a quell’intimo dialogo con se stesso
che costituisce una delle cifre dell’umano- e all’azione ad esso coerente, che
proprio perché coerente esprime la sua integrità morale.
Quando il pensiero viene a mancare, e l’azione è frutto dell’adeguazione
agli standard mutevoli dell’ambiente, l’uomo è capace di compiere qualsiasi cosa,
è pronto, per usare nuovamente un’espressione della Arendt, a trasformare il
male più radicale nella routine di un atto banale. «Il peggior male non è dunque
il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici,
questo male non conosce limiti. Proprio per questo, il male può raggiungere
vertici impensabili, macchiando il mondo intero.»6 D’altro canto, l’importanza
della coscienza non consiste neanche nella consacrazione dell’assoluta normati-
vità della soggettività: non si tratta infatti di un indistinto e individualistico “sen-

5
Come acutamente nota Hanna Arendt, «In senso politico, l’identificazione di libertà e sovranità è
forse la conseguenza più deleteria dell’equazione operata dalla filosofia tra libertà e libero arbitrio.
Infatti il suo risultato è: o la negazione della libertà umana (nel caso si concluda che, comunque si
vogliano definire, gli uomini non sono mai sovrani), o la convinzione che la libertà di un uomo, di un
gruppo, di una struttura politica possa essere ottenuta solo a spese della libertà (cioè della sovranità)
di tutti gli altri, (…) Data la condizione dell’uomo, determinata dal fatto che sulla terra non esiste
l’uomo, bensì esistono gli uomini, libertà e sovranità sono così lontane dall’identificarsi da non poter
neppure esistere simultaneamente.» H.Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 19992, pp.218-
219.
6
H.Arendt Alcune questioni di Filosofia Morale, in “Responsabilità e giudizio”, Ed.Einuadi, Torino 2004,
cit. p.81.

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tire”, ma di un atto del pensiero. Il sentire, infatti, riconsegna subdolamente
ancora una volta ai canoni della standardizzazione, dice dell’adeguatezza ad un
contesto, è in gran parte forgiato dal clima culturale. La coscienza come sentire
permette al massimo un senso di colpa là dove l’adeguatezza viene meno, ma
senza dire di alcuna presa di posizione morale come avviene, invece, nel penti-
mento. Il pentimento è infatti frutto non di un provare, ma del pensiero che
giudica come male un atto compiuto, che ne riconosce la paternità e permette
che la volontà lo rifiuti qui ed ora con un movimento retrospettivo. La stessa
formulazione “mi sentirei in colpa se facessi così”, dice solo del sentire sogget-
tivo, non del valore oggettivo dell’atto.

Osare una coscienza vera


Centralità, ma non assolutizzazione del soggetto: che cosa significa?
La coscienza, abbiamo visto, è espressione dell’individuale di fronte all’ete-
ronomicità del contesto acriticamente assunto. Tuttavia occorre proprio inda-
gare il significato del termine espressione. È qui, infatti, che si colloca la risposta
alla domanda sulla coscienza, sul suo essere un atto conoscitivo o volitivo. Se
infatti intendiamo il termine in senso forte, dire che la coscienza esprime l’indivi-
duo significa dire non solo che il soggetto valuta, ma anche che da lui – e non
anche dalla realtà altra da lui- deriva la validità della valutazione. In parte questo
è vero, perché tra gli elementi che compongono la situazione che interpella il
giudizio, c’è lo stesso soggetto agente. Tuttavia non bisogna perdere di vista che,
in quanto giudizio di valore, la coscienza appartiene all’ambito cognitivo; di fatto,
ogni volta che diamo un giudizio assiologico pretendiamo implicitamente che sia
riconosciuto come valido, e pertanto rispettato, diversificando il giudizio di gu-
sto (questo mi piace) da quello di valore (questo è giusto). Nel primo caso è
perfettamente plausibile che, nelle stesse condizioni, a qualcun altro non piaccia
quello che noi troviamo invece bello o piacevole, mentre la giustizia o l’ingiusti-
zia, pur essendo sempre possibile l’errore di giudizio, non può essere soggetta a
variazioni di questa sorta. Qui entra dunque una parola scomoda e, per certi
versi, particolarmente fuori moda: verità. La conoscenza, pur nella sua parzialità
prospettica, richiama infatti l’apertura al reale, a un reale che il soggetto, in
prima battuta, non pone né modifica, ma semplicemente trova.
La parola verità è però gravata del sospetto di essere liberticida. E poi-
ché la libertà è la cifra dell’autocomprensione del soggetto contemporaneo, è
percepita come un attacco diretto alla propria identità. Il legame avvertito tra
libertà e identità custodisce certamente un nucleo profondo di verità. Come
scrive il poeta «libertà va cercando, ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta»7 : la
libertà ha a che fare con l’integrità del soggetto e con l’espressione di sé, con il

7
Dante Alighieri, Purgatorio, Canto I, 70

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perseguimento di quella che si ritiene essere una vita buona, tanto da arrivare a
sacrificare la vita stessa per la sua difesa. Ma proprio questa importanza della
libertà ci conferma il discorso della verità: l’irrinunciabilità della libertà - la difesa
della propria e il rispetto di quella altrui - non appare come l’espressione di un
gusto soggettivo, ma come qualcosa di oggettivamente vero.
La dimensione liberante della coscienza deriva proprio dal suo ancorarsi
ad un vero, al pensare e quindi al sapere in prima persona. È in fondo questo il
motto stesso dell’imperioso invito kantiano: sapere aude! Osa sapere: era que-
sta la formula dell’illuminismo con cui Kant esortava ad uscire dallo stato di
minorità, una minorità che «è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza
la guida di un altro. Imputabile a se stessa è questa minorità, se la causa di essa
non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del
coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere
aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto
dell’Illuminismo.» 8 Il richiamo al confronto in prima persona con la verità ha
però col tempo assunto un significato differente. La stessa impresa illuministica,
l’esortazione all’osadia del sapere, si è risolta in un’emancipazione da ogni forma
di autorità e di vincolo, compreso quello del reale stesso. L’aude è illimitato: osa
-sembra riproporsi l’invito-assumendoti il rischio e la responsabilità del tuo osa-
re perché non esiste più nulla che ti possa guidare o trattenere. È quello che è
stato espresso, probabilmente con insuperata radicalità, da Sartre quando affer-
ma che la libertà non è solo apertura, ma condanna, perché l’uomo rimane
comunque un problema aperto e insolubile. Non vi è alcuna realtà umana a cui
guardare, nessuna natura: solo l’esistere libero dell’uomo che forgia l’assurdità
di questa stessa esistenza libera. E poiché la libertà non è ancorata ad altro che
a se stessa, le altre libertà sono nemiche in quanto nel loro porsi delimitano la
propria, la bloccano nella fatticità dell’immanente. In questa prospettiva la co-
scienza altrui diventa un pericolo, qualcosa da cui occorre guardarsi e difender-
si. L’elusione della verità non si pone dunque come garanzia della libertà, ma
come suo pericolo mortale.
Forse per arginare tale minaccia ci si rifugia nell’accordo, nel contratto,
nella contingente convergenza tra due libertà, ma il consenso per sovrapposizione
che ne sta alla base è troppo debole e lascia strutturalmente aperta la possibilità
della violenza. Una violenza nei confronti di chi non può partecipare al gioco
dell’accordo, di chi soffre direttamente o indirettamente le conseguenze delle
decisioni altrui, del bene comune che evapora in un concetto senza senso. Se
infatti la coscienza è sottratta all’orizzonte aletico - se non c’è un’apertura al

8
I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in Scritti politici e di filosofi a della storia e del diritto
di Immanuel Kant, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, UTET, 1965, p. 141.
Non possiamo qui soffermarci, benché tema di estremo interesse, sull’utopia di una ragione autarchica
che pretenda di eliminare l’apporto di altri al suo stesso sapere e al suo stesso costituirsi.

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vero, se non è inscritta nella tensione alla conoscenza della verità sul reale -, là
dove non c’è possibilità di autodeterminazione cosciente si è in balia della co-
scienza arbitraria altrui. E questo non solo di fatto, per la reciproca e costante
interdipendenza umana, ma di diritto, perché non è più possibile un vaglio og-
gettivo della validità degli atti umani.
La considerazione della coscienza non come atto cognitivo, ma come atto
volontario, di scelta, può portare alternativamente alla radicalizzazione di uno
dei due poli dell’agire in scienza e coscienza. Da un lato la sola scienza, perdendo
di vista il criterio umano ed eliminando dunque qualsiasi criterio oggettivo che
permetta, ad esempio, di distinguere la terapia dall’accanimento terapeutico, la
sperimentazione per l’uomo dalla sperimentazione sull’uomo, la cessazione dei
trattamenti dall’abbandono terapeutico, e così via. Dall’altro la sola coscienza,
intesa appunto come volontà; il risultato è l’abbandono al mutevole arbitrio
soggettivo la cura delle persone affidate: la stessa persona potrebbe avere trat-
tamenti molto diversi a seconda del medico a cui si rivolge, e questo non per
una diversa competenza scientifica - preparazione, valore professionale, espe-
rienza, risorse a disposizione -, ma per la semplice volontà del medico, di cui
l’appropriatezza della scelta appare, così, intersoggettivamente e socialmente
inverificabile.
La colonizzazione della coscienza da parte della volontà, sottratta così al
criterio veritativo, implica l’elusione del problema del male. È, in fondo, una
riproposizione ingenua della costruzione kantiana che, nella sua prospettiva for-
malistica, cerca di salvaguardare la libertà della volontà riparandola da qualsiasi
contaminazione con i contenuti. Per Kant ogni inclinazione verso qualcosa che
non derivi dalla sola ragione pura (che è in sé pratica) fa sì che il soggetto non sia
più libero come agente. Ma in questo modo, fare il male risulta impossibile: se la
volontà è libera in quanto segue la sola ragione, per lo stesso motivo è anche
buona, mentre non seguendola cessa di essere libera e, quindi, non può essere
né buona né malvagia. La diffusa eredità kantiana, raramente messa a tema e in
ogni caso meno raffinatamente elaborata, è proprio questa: agire in coscienza
significa agire volontariamente secondo una ragione chiusa in sé stessa, che non
deve essere contaminata da alcun riferimento contenutistico; nel contesto po-
stmoderno, questo, in altre parole, significa agire secondo la propria volontà,
buona nella sua stessa forma. Il male è eluso fintanto che la volontà rimane
libera. Ma se il male è compiuto senza libertà, cessa di essere moralmente tale.
La radicalità del quesito agostiniano “unde malum?” e la schiettezza della rispo-
sta “dal libero arbitrio, dal volere dell’uomo”, è bandita: sembra mancare il co-
raggio per la sua riformulazione e, quindi, si aggira l’ostacolo rendendo il male
teoricamente impossibile, nonostante l’esperienza ne attesti l’esistenza. Vice-
versa, ricondurre la coscienza al suo aspetto cognitivo permette di assumere sia
la responsabilità del soggetto, chiamato in causa in prima persona e pertanto
realmente responsabile del proprio agire, sia la possibilità di una riconoscibilità

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intersoggettiva del bene (o del male) operato o operabile. Ed è proprio in
questo orizzonte, torniamo a dire, che si trova la liberazione del soggetto dalla
possibilità di una normativa che si proponga come eteronoma. L’obbligatorietà
morale dell’agire secondo il giudizio della propria coscienza deriva dal fatto che
il bene conosciuto è una verità pratica, si impone alla coscienza proprio per il
suo essere vero. Il giudizio di coscienza è il modo in cui in cui le esigenze del
bene umano si rendono presenti concretamente, nella situazione, al soggetto e
per questo diventa, per usare una terminologia classica, la norma prossima della
moralità personale. Come ben riassume Rodriguez Luño, «non è eludibile non
perché sia la norma suprema o più alta, ma perché è la comprensione ultima e
più prossima al soggetto della moralità dell’azione.»9 Anche se può sembrare
un’affermazione ossimorica, è proprio in questa dimensione del vincolo che si
colloca la libertà. La formulazione dell’imperativo di agire in scienza e coscienza
ha senso proprio perché la scelta può anche non seguire il giudizio espresso e,
appunto, agire contro coscienza. È nell’atto della volontà che sceglie che si compie
il passaggio tra “si deve, si dovrebbe fare così”, al “io voglio (o non voglio) fare
così”. L’imperativo risponde insomma al fatto che c’è sempre di mezzo la volon-
tà. Ma la conoscenza a cui appartiene il giudizio della coscienza, vale la pena
tornare a ripeterlo, non è un atto di volontà. Se la coscienza smette di essere
conoscenza, ogni atto diventa insensato.
Non è necessario insistere sul fatto che possiamo compiere errori, sba-
gliare nel giudizio, ma la possibilità di riconoscere un giudizio come erroneo è
data proprio dal riferimento al reale. L’aspetto cognitivo permette, quando si
assumono nuovi dati, di rettificare il proprio giudizio se è necessario farlo, così
come permette il fenomeno, esclusivamente umano, del pentimento.

Coscienza e integrità
Tutto questo rimette in gioco la categoria sopra richiamata dell’integrità: è
qui che troviamo infatti il nesso coscienza-verità-volontà, ed è spesso proprio
in ordine all’integrità che percepiamo un atto come un dovere, come un’obbli-
gazione. Se infatti non si vuole, con un escamotage fin troppo facile, trasferire la
radice dell’obbligazione ad un sistema eteronomo di premi e castighi, bisognerà
ammettere che ha qualcosa a che fare proprio con l’integrità del soggetto agen-
te. Riflettere sul significato del termine “integrità” apre una molteplicità di fron-
ti e rivela una nozione complessa, polifacetica. Hanna Arendt ne parla connet-
tendola all’orgoglio di essere, semplicemente, se stessi: «per orgoglio non inten-
do affatto “l’orgoglio di essere neri”, o ebrei, o bianchi anglosassoni ecc., ma
quel sentimento innato e naturale di identità con ciò che mi capita sin dalla
nascita. Questo orgoglio, completamente estraneo ai complessi di inferiorità o

9
A. Rodriguez Luño Etica general, Eunsa, Pamplona 20045, cit. p. 277. [trad nostra]

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superiorità, è indispensabile per l’integrità della persona e può sempre venir
meno, non a causa di persecuzioni, ma a forza di gomitate che ci spingono fuori
da un gruppo e dentro a un altro.»10 Analogamente Honneth collega l’integrità
alla dignità, il cui rispetto richiede il riconoscimento altrui e che le diverse for-
me del disprezzo ledono gravemente arrecando ferite profonde e, a volte,
mortali11 . L’integrità è insomma connessa al valore di essere se stessi e al suo
riconoscimento, da parte di altri, certamente, ma, soprattutto, in modo riflessi-
vo, da parte di sé.
Integrità ad un primo livello indica la completezza di qualcosa, il suo essere
intero, ma al tempo stesso, là dove la libertà è coinvolta, la descrizione si colora
di una valutazione assiologia, indicando così onestà, probità, dirittura morale; in
altre parole: coerenza e fedeltà nei confronti dei valori riconosciuti come veri.
L’integrità è, quindi, direttamente legata anche all’autorappresentazione della
propria identità morale: il riferimento ad essa non solo mette in luce che ciò
che si valuta come giusto e buono deve essere esplicitato e realizzato nel pro-
prio agire, ma che questo agire è osservato dalla prospettiva dell’immagine che
si ha di se stessi. Oltre all’essere giusto o sbagliato “in sé”, l’atto è visto in
relazione al chi si vuole essere, all’identità di sé che, in qualche modo, si costru-
isce attraverso quell’azione. In altre parole, non si osserva solo, ad esempio, che
mentire è sbagliato, ma che non si vuole essere un mentitore12 . Questa ricaduta
dell’azione sul soggetto agente fonda la necessità del rispetto della coscienza
altrui, rispetto che si pone come un corollario del principio di autonomia. Se
infatti si osserva l’agente in relazione ad altri, il tema dell’integrità si intreccia
con quello dell’autonomia che ne è, in qualche modo, il riflesso.
Alcuni autori circoscrivono il valore e la legittimità della difesa dell’integri-
tà all’area privata, alle azioni che non coinvolgono in alcun modo terze persone.
Parte della letteratura bioetica, ad esempio, considera la neutralità imprescindi-
bile per il rispetto dell’autonomia, teorizzando la necessità che il personale sa-
nitario non faccia in alcun modo entrare il proprio sistema di valori e le proprie
valutazioni assiologiche nella relazione medico-paziente: i medici o gli infermieri
possono avere i loro valori, ma non potrebbero agire conformemente ad essi
all’interno della loro professione che deve, invece, essere guidata da una osser-
vazione neutrale dei fatti e dei desideri dell’interlocutore.
Tale questione si muove su due livelli. Da una parte la richiesta di neutralità
indica che l’operatore sanitario non deve vincolare le sue prestazioni a valuta-
zioni assiologiche che non riguardano l’atto medico che deve compiere. Il crite-

10
H.Arendt, Riflessioni su Little Roch, in “Responsabilità e giudizio”, Einaudi, Torino 2003, cit. p.167.
11
Si veda A.Honneth, “Riconoscimento e disprezzo”, Rubettino, Messina 1997.
12
Anche a questo proposito riportiamo, perché particolarmente efficace, l’osservazione di Hanna
Arendt che, commentando l’affermazione socratica che è meglio patire il male che compierlo, vede
nella condanna a vivere perpetuamente con un malfattore –se stessi- la profonda verità di questa
apparente insensatezza del filosofo ateniese.

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rio in questo senso è corretto: un medico, ad esempio, non può rifiutarsi di
curare una persona perché questa ha uno stile di vita che giudica riprovevole e
che presumibilmente, una volta guarita, continuerà ad avere, o perché è un
malvivente che poi seguiterà ad agire contrariamente alla legge morale e civile.
Se invece la marginalizzazione delle valutazioni etiche dall’agire professionale
riguarda anche l’oggetto degli atti richiesti in quanto operatore sanitario, tale
posizione viola, a volte anche gravemente, l’integrità, poiché potrebbe richiede-
re a chi è chiamato ad agire la realizzazione di atti liberi che personalmente
valuta come ingiusti. C’è chi, in questa linea, teorizza anche la scindibilità del-
l’orientamento di fondo della persona dai singoli atti, ma questo equivale a per-
dere la struttura razionale dello stesso agire che, in quanto libero, richiede
sempre una valutazione ed un assenso ad esso13 .
L’identità morale dell’uomo è inscindibilmente legata alle sue azioni libere
la cui dimensione intransitiva ridonda nel soggetto modificandolo: il rispetto
dell’autonomia decisionale, dei valori e della visione del mondo altrui è dunque,
dal punto di vista formale, il riconoscimento della sua identità, anche se tale
rispetto va comunque coniugato, dal punto di vista contenutistico, con l’accetta-
bilità sociale dell’oggetto di scelta che non può ledere l’ordine pubblico14 , requi-
sito della vita sociale, e i beni o diritti fondamentali di altre persone. Integrità
infatti, non è sinonimo di semplice coerenza, ma indica anche l’adeguazione del-
l’agente ad un piano assiologico obiettivo. Non è integro colui che, date delle
premesse valoriali soggettivamente poste, le segue a prescindere dal contenuto:
l’amministratore che si fa pagare delle tangenti da un casa farmaceutica per
favorire l’impiego di un certo farmaco è forse coerente con la sua decisione di
guadagnare il più possibile, ma è disonesto. Viceversa recupera la propria inte-
grità colui che, riconoscendo di aver agito in modo moralmente scorretto, cambia
i principi del proprio agire. Tale mutamento richiede però un movimento rifles-
sivo in cui il giudizio sulla moralità degli atti compiuti è informato (nel senso più

13
Qualora poi l’atto richiesto e considerato ingiusto sia in qualche modo legittimato dalla legge civile,
il principio di integrità richiede la possibilità formale dell’obiezione di coscienza. Negare questo
diritto ai soggetti durante l’esercizio del loro lavoro significa non considerare che, benché non sia
sempre vincolante fare tutto il bene conosciuto, non è mai lecito fare direttamente il male. Ancora
una volta alla base di tali posizioni sta l’identificazione di etico ed opzionale, in quanto implicitamente
si afferma l’impossibilità di identificare delle regole oggettive capaci di orientare l’azione umana. Non
pare accattabile neanche la tesi di chi afferma che chi non è disponibile, per motivi di coscienza, a
fornire tutte le prestazioni mediche legalmente permesse in uno stato, non dovrebbe essere ammesso
all’esercizio della medicina: la professione del medico, infatti, non consiste esclusivamente né
principalmente negli atti che possono essere rifiutati per motivi di coscienza, pertanto l’esclusione
dalla professione equivarrebbe a una inaccettabile discriminazione lesiva della libertà dei membri
della società.
14
A questo proposito è importante distinguere l’obiezione di coscienza dalla disobbedienza civile. Per
un approfondimento si veda L.Prieto Sanchís, La objeción de conciencia como forma de desobediencia
al Derecho, in “Il Diritto Ecclesiastico” 95/1984, pp. 3-34.

124 L’ARCO DI GIANO autunno 2009 | numero 61


proprio di ricevere forma) dal riferimento ad una verità razionalmente raggiungi-
bile. Parlando di integrità morale occorre dunque riconoscere la centralità del
giudizio di coscienza, ma questo è retto dalla precedente centralità del concet-
to di verità.
È necessario un movimento del pensiero che porta il soggetto a costruire
in profondità la propria identità. Non a caso chi come H.Arendt all’uscita della
seconda guerra mondiale cerca di indagare razionalmente l’assurdità inconcepi-
bile –ma di fatto esperita- del male radicale, osserva che «se si tratta di un
essere pensante, radicato nei suoi pensieri e nei suoi ricordi, ci saranno limiti a
ciò che si permetterà di fare, e tali limiti non gli verranno esposti dall’esterno,
ma dal suo stesso io.»15 Il pensiero, e non la sua assenza, è premessa della fedeltà
dell’uomo a se stesso individuando e strutturando il senso della propria vita:
l’integrità, toccando la rappresentazione che si ha di sé, reclama l’ancora di un
significato delle proprie azioni e della totalità della propria esistenza.
La relazione tra coscienza, verità e identità morale è superbamente espres-
sa, anche se nel suo versante negativo, da Nietzsche: «io ho fatto questo, dice la
mia memoria. Io non posso aver fatto questo, dice il mio orgoglio e resta irremo-
vibile. Alla fine è la memoria ad arrendersi.»16 Lo sgretolarsi del soggetto si dà
proprio quando con la volontà e la propria azione si nega ciò che con l’intellet-
to si è conosciuto come vero, e poiché l’uomo non sopporta di essere scisso in
se stesso, se accetta provvisoriamente l’incoerenza, finisce col piegare l’intellet-
to e la memoria.

La crescita della coscienza


Se quanto stiamo dicendo è vero, il tema della coscienza deve trovare
spazio nelle scuole di medicina. Se, infatti, ci muoviamo nell’ambito del sapere,
questo sapere deve essere aiutato a strutturarsi. Possiamo, seppur sintetica-
mente, individuare due piani. Da un lato uno studio rigoroso, lontano dalla pas-
sionalità ideologica, delle questioni etiche e bioetiche connesse all’agire medico.
È questa una premessa indispensabile per sottrarre le valutazioni, e le conse-
guenti decisioni, all’emotivismo, alla direzione impressa dalla sovraesposizione
massmediatica di alcuni casi, o allo scientismo. La coscienza è un giudizio circo-
stanziato, non generalizzato e quindi non riportabile a esaustive e dettagliate
codificazioni date a priori. Proprio per questo non è né conoscenza generale su
ciò che è bene o male, né, propriamente, il processo discorsivo volto a com-
prendere quali siano i beni della persona umana. Tuttavia il giudizio di coscienza
hic et nunc, nella circostanza concreta, con tutte le variabili e la ricchezza della
situazione- richiede proprio questo retroterra di conoscenza e di riflessione,

15
H.Arendt, op.cit. p.86
16
F.Nietzsche, Al di là del bene e del male, §68. in F.W.Nietzsche, «Opere filosofiche» , a cura di S.Giametta,
Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino 2003, cit. p. 86, vol. II.

autunno 2009 | numero 61 L’ARCO DI GIANO 125


specialmente quando il contesto del proprio agire è particolarmente comples-
so. Si comprende allora come «senza scienza non c’è coscienza»17 , e questa
scienza deve trovare spazio nelle aule universitarie. Si tratta di una dimensione
culturale e scientifica indispensabile che deve mettere in luce la razionalità del-
l’agire umano, la sua portata etica intrinseca, il suo senso e significato, i beni in
gioco che interpellano la libertà.
Accanto a questa dimensione teorica (un sapere teorico sulla prassi), è
però indispensabile tenere presente che occorre imparare a discernere nel
concreto della situazione i beni umani, le loro esigenze, la loro gerarchia. Que-
sta capacità di giudizio, che si gioca sempre in atto, si appoggia su disposizioni del
soggetto che possono e devono essere coltivate. La complessità –che è il risvol-
to della ricchezza- della situazione non permette infatti la semplice applicazione
deduttiva di una regola a un caso, ma richiede, positivamente, di trovare l’azione
che può realizzare nella situazione concreta il massimo bene possibile18 . Faccia-
mo nostre le parole di Guardini secondo cui «la nostra vita morale s’impoversi-
ce perché diventa noiosa. Perché per lungo tempo, sotto l’influsso di un’etica
razionalistica, sotto l’influsso del formalismo kantiano e di una morale schema-
tizzata, venne concepita come semplice esecuzione di ordini. Ma non è così.
Dobbiamo accostarci una volta con orecchio intento a Platone, in cui per primo
si fece strada la coscienza del problema, per sentire tutta la passione creatrice
dell’azione morale. Nell’attività morale si tratta di render reale, umanamente
reale quello che ancora non lo è.»19 Proprio perché conoscenza pratica, para-
dossalmente questa conoscenza non è totalmente spiegabile, non lo è nel senso
di un insegnamento teorico. Sarebbe come pretendere di insegnare a qualcuno
ad arrampicare in montagna limitandosi ad illustrare teoricamente come gesti-
re le corde e come spostare il baricentro per passare da un appiglio all’altro.
Ciò che è pratico si impara praticando e la conoscenza teorica, necessaria, non
è sufficiente: occorrerà che chi si è assunto il compito di istruttore, vada con
l’amico su una parete. Ed è qui, uscendo dall’analogia, che si coglie ancora una
volta il ruolo fondamentale delle scuola di medicina: occorre mostrare facendo
che cosa vuol dire mettere la scienza al servizio dell’uomo. Non si tratta della
riproposizione retorica di una sorta di stucchevole buonismo, ma di un preciso
ruolo formativo che si appoggia sulla comprensione della dimensione cognitiva,
e non semplicemente optativa, della coscienza. Per formare autenticamente
medici ed operatori sociosanitari che sappiamo cogliere e dare risposta alle
sfide complesse a cui si preparano, occorre comprendere un ruolo indispensa-

17
A.Rodriguez Luno, Etica general, cit.p. 276.
18
La questione della coscienza si intreccia qui con quella della prudenza. Non ci è possibile approfondire
il tema in queste pagine, ma segnaliamo a tale proposito il denso testo di G. Abbà, Felicità, vita buona
e virtù. Saggio di filosofia morale, Las Editore, Roma 19952.
19
R. Guardini, La coscienza, Morcelliana, Brescia 20013, cit.p.21.

126 L’ARCO DI GIANO autunno 2009 | numero 61


bile, ma sottovalutato perché difficilmente codificabile in programmi ministeriali
o in strategie didattiche. Si tratta di un compito che chi si trova direttamente a
contatto con le future generazioni di medici e infermieri in reparto, negli ambu-
latori, nel pronto soccorso – insomma, sulla parete che si vuole insegnare a
scalare- non può esimersi dall’assumere. Come segnala in un ampio studio Abbà20 ,
occorre cogliere il ruolo di causa esemplare e dispositiva di chi istruisce. Da un
lato questo richiede di strutturare delle prassi in cui si impari, facendo appunto,
ad agire in modo rispettoso del valore della persona e illustrando perché viene
indicato o richiesto quel tipo di azione, quale è il suo valore, che beni rispetta o
promuove ecc., aiutando ad assumere uno stile di lavoro, una disposizione stabi-
le a riconoscere, rispettare e perseguire i beni umani. È in tal senso che parlia-
mo di una causa dispositiva: mettere nelle condizioni di fare esperienza dando
ragioni di ciò che di quella esperienza è rilevante. Accanto a questo la causa
esemplare: l’azione, la valutazione, le scelte che chi è già professionista compie,
anche qui sapendo investire tempo per dar ragione di quali sono gli elementi rile-
vanti della situazione che sono stati presi in considerazione, quali i beni in gioco
e quale la gerarchia individuata, come si è giunti alla decisione finale.
È in questo modo che si trasmette un vero sapere, dove la coscienza è
sottratta al sequestro di una soggettività chiusa e torna ad essere apertura alla
verità del reale mettendo in gioco davvero la libertà. Si coglie allora come la
libertà di coscienza sia conseguenza del vincolo morale che il giudizio di coscienza
comporta per chi lo formula e che questa valutazione non ha come punto di
riferimento il soggetto, ma la realtà: non si tratta infatti della sicurezza soggettiva
con cui si valuta il proprio agire conformemente ad un certo modello che risulta
familiare, ma di un fondamentale atteggiamento di apertura alla verità in cui, com-
prendendo la realtà circostante, si comprende anche se stessi come agenti.

Bibliografia
Bertolino R, L’obiezione di coscienza moderna, Giappichelli, Torino 1994.
Childress F, Civil disobedience, conscientious objection and evasive noncompliance: a
framework for the analysis and assessment of illegal actions in health care, in «Journal of
Medicine and Philosophy» 10 (1985) 63-83.
Cotta S, Coscienza e obiezione di coscienza (di fronte all’antropologia filosofica), in
«Iustitia» XLV (1992).
Di Pietro ML, Casini C, Casini M, Spagnolo AG, Obiezione di coscienza in sanità.
Nuove problematiche per l’etica e per il diritto, Cantagalli, Siena 2005.
Guardini R, La coscienza, Morcelliana, Brescia 2001

20
G. AbbภFelicità, vita buona e virtù.

autunno 2009 | numero 61 L’ARCO DI GIANO 127


Istituto per l’Analisi dello Stato Sociale

Questo numero della rivista L’Arco di Giano prova ad


immaginare in che modo la pedagogia medica possa aiu-
tare a comprendere ed a gestire i cambiamenti più signi-
ficativi del contesto culturale in cui viviamo, concentran-
dosi soprattutto su quelli che stanno gradatamente mo-
dificando il paradigma della medicina.

Alla Medical Education sembra affidato il triplice compi-

Medical Education: luci ed ombre


to di accogliere e comprendere il cambiamento, di aiu-
tare a gestirlo nel modo più soddisfacente possibile, a
livello personale e sociale, e di implementare salute e
benessere, ancora una volta sia a livello personale che
sociale, attraverso una progressiva capacità di assimila-
zione e di reazione.
Gli obiettivi di Medical Humanities sono tornati ad occu-

Poste Italiane S.P.A. Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/2/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB- Roma
pare un tempo e uno spazio importanti nel piano di for-
mazione del medico, senza nulla togliere al rigore della
formazione scientifica, ma evitando che questa diventi
l’unico asse portante dell’intera struttura formativa.
È necessario che il medico, proprio per essere miglior
medico, torni ad essere anche doctor philosophiae, come
è accaduto per molti secoli. Non può sottrarsi alle eter-
ne domande che dietro il concetto di salute e malattia, di
vita e di morte, pongono anche interrogativi sul bene e
Medical
sul male, sul vero e sul falso. Sono domande che hanno
assunto sfumature nuove col passare degli anni, presen- Education:
luci ed ombre
tano collocazioni epistemologiche complesse e richiedono
un orizzonte sempre più vasto del sapere universitario,
un ritorno al valore e al significato del senso stesso
dell’Universitas.

ISSN 1721-0178 e 18,00 i.i. I.A.S.S.

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