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Risorgimento italiano

Pubblicato il 26 gennaio 2015 di Alberto Soave


Quaderno 15 (II)
§ (59)

〈I〉. La funzione del Piemonte nel Risorgimento italiano è quella di una «classe dirigente»,
In realtà non si tratta del fatto che in tutto il territorio della penisola esistessero nuclei di
classe dirigente omogenea la cui irresistibile tendenza a unificarsi abbia determinato la
formazione del nuovo Stato italiano. Questi nuclei esistevano, indubbiamente, ma la loro
tendenza a unirsi era molto problematica, e ciò che più conta, essi, ognuno nel suo ambito,
non erano «dirigenti». Il dirigente presuppone il «diretto», e chi era diretto da questi
nuclei? Questi nuclei non volevano «dirigere» nessuno, cioè non volevano accordare i loro
interessi e aspirazioni con gli interessi ed aspirazioni di altri gruppi. Volevano «dominare»
non «dirigere», e ancora: volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone,
cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte e quindi la funzione della
monarchia. Il Piemonte ebbe pertanto una funzione che può, per certi aspetti, essere
paragonata a quella del partito, cioè del personale dirigente di un gruppo sociale (e si parlò
sempre infatti di «partito piemontese»); con la determinazione che si trattava di uno Stato,
con un esercito, una diplomazia ecc.

Questo fatto è della massima importanza per il concetto di «rivoluzione passiva»: che cioè
non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno Stato, sia pure limitato
come potenza, sia il «dirigente» del gruppo che esso dovrebbe essere dirigente e possa
porre a disposizione di questo un esercito e una forza politico-diplomatica. Si può
riferirsi a quella che è stata chiamata la funzione del «Piemonte» nel linguaggio politico-
storico internazionale. La Serbia prima della guerra si atteggiava a «Piemonte» dei Balcani.
(Del resto la Francia, dopo il 1789 e per molti anni, fino al colpo di Stato di Luigi
Napoleone fu, in questo senso, il Piemonte dell’Europa). Che la Serbia non sia riuscita
come è riuscito il Piemonte è dovuto al fatto che nel dopoguerra si è avuto un risveglio
politico di contadini quale non esisteva dopo il 1848. Se si studia da vicino ciò che avviene
nel regno Jugoslavo, si vede che in esso le forze «serbiste» o favorevoli all’egemonia serba,
sono le forze contrarie alla riforma agraria. Troviamo un blocco rurale-
intellettuale antiserno, e le forze conservatrici favorevoli alla Serbia sia in Croazia che
nelle altre regioni non serbe. Anche in questo caso non esistono nuclei locali «dirigenti»,
ma diretti dalla forza serba, mentre le forze sovvertitrici non hanno, come funzione sociale,
una grande importanza. Per chi osserva superficialmente le cose serbe, sarebbe da
domandare cosa sarebbe avvenuto se il così detto brigantaggio che si ebbe nel napoletano e
in Sicilia dal ’60 al ’70 si fosse avuto dopo il 1919. Indubbiamente il fenomeno è lo stesso,
ma il peso sociale e l’esperienza politica delle masse contadine è ben diverso dopo il 1919,
da quelli che erano dopo il 1848.

L’importante è di approfondire il significato che ha una funzione tipo «Piemonte» nelle


rivoluzioni passive, cioè il fatto che uno Stato si sostituisce ai gruppi sociali locali nel
dirigere una lotta di rinnovamento. È uno dei casi in cui si ha la funzione di «dominio» e
non di «dirigenza» in questi gruppi: dittatura senza egemonia. L’egemonia sarà di una
parte del gruppo sociale sull’intiero gruppo, non di questo su altre forze per potenziare il
movimento, radicalizzarlo ecc. sul modello «giacobino».
II. Studi rivolti a cogliere le analogie tra il periodo successivo alla caduta di Napoleone e
quello successivo alla guerra del ’14-18. Le analogie sono viste sotto due punti di vista; a
divisione territoriale e quella, più vistosa e superficiale, del tentativo di dare una
organizzazione giuridica stabile ai rapporti internazionali (Santa Alleanza e Società delle
Nazioni). Pare invece che il tratto più importante da studiare sia quello che si è detto della
«rivoluzione passiva», problema che non appare vistosamente perché manca un
parallelismo esteriore alla Francia del 1789-1815, E tuttavia tutti riconoscono che la guerra
del ’14-18 rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che
molecolarmente si accumulavano prima del 1914 hanno appunto fatto «mucchio»,
modificando la struttura generale del processo precedente: basta pensare all’importanza
che ha assunto il fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi
problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo,
organizzazione industriale, democrazia, liberalismo, ecc.), ma che obbiettivamente riflette
il fatto che una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc. ecc.

Quaderno 15 (II)

§ (56)

Sulla rivoluzione passiva. Protagonisti i «fatti» per così dire e non gli «uomini individuali».
Come sotto un determinato involucro politico necessariamente si modificano i rapporti
sociali fondamentali e nuove forze effettive politiche sorgono e si sviluppano, che
influiscono indirettamente, con la pressione lenta ma incoercibile, sulle forze ufficiali che
esse stesse si modificano senza accorgersene o quasi.
Gramsci nel suo autorevole e lucido saggio intitolato, appunto, “Sul risorgimento”
definisce la spedizione dei Mille una “radunata rivoluzionaria” che fu resa solo
possibile per due motivi. Primo: Garibaldi s’innestava nelle forze statali
piemontesi. Secondo: le imbarcazioni dello stesso Garibaldi vennero protette dalla
flotta inglese che consentì lo sbarco di Marsala e la presa di Palermo, sterilizzando
la flotta borbonica.

Gramsci, in buona sostanza, nel suo autorevole saggio sul risorgimento, non
faceva altro che delegittimare la “gloriosa” spedizione garibaldina evidenziando
che non fu altro che una grande mistificazione storica. E fu con questa radunata
rivoluzionaria – che Gramsci chiama “rivoluzione passiva” o, meglio ancora,
“rivoluzione-restaurazione” – che trionfò la logica gattopardiana che tutto avvenne
perché nulla cambiasse. Una “rivoluzione-restaurazione” che fa dire allo scrittore e
all’uomo politico sardo che, nel suo contesto, il popolo ebbe un ruolo molto
marginale, anzi subalterno, così che il risorgimento si caratterizzò come
“conquista regia” e non come movimento popolare, perché appunto mancava al
popolo una coscienza nazionale.

In questo vuoto di coscienza nazionale e nella estraneità del popolo al moto


unitario fu così possibile ai moderati cavourriani dirigere il processo di
unificazione e modellarlo  ai propri fini e ai propri interessi in chiave
antimeridionalista e a tutela degli interessi del Nord, cosa che dura sino ai nostri
giorni, con la creazione di un nuovo Stato che di questi fini e di questi interessi ne
fu portatore. Con la “ rivoluzione-restaurazione” il Piemonte assume una funzione
di “dominio” e non di dirigenza reale e democratica di un processo di
rinnovamento che in effetti non ci fu. Si passò, nelle regioni meridionali,
dall’assolutismo paternalistico borbonico al costituzionalismo repressivo
piemontese. “Dittatura senza egemonia”, opportunamente la definisce ancora
Gramsci, che fece pagare al Sud e alla Sicilia, sotto tutti i punti di vista –
repressivi ed economici – il prezzo più alto. E a proposito delle repressioni  e degli
eccidi operati dai piemontesi nel Mezzogiorno subito dopo l’Unità d’Italia – eccidi
passati impropriamente alla storia sotto il nome di lotta al brigantaggio, mentre in
effetti si trattò di una vera e propri guerra civile, di lotta partigiana e contadina –
ancora una volta  Gramsci, nel 1920, in un suo puntuale articolo su “Ordine
Nuovo” così ebbe a scrivere: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha
messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole squartando, fucilando e
seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare
chiamandoli briganti”.
Per questo crediamo che, per una obiettiva rivisitazione storica degli avvenimenti,
dei vizi d’origine e delle cause di debolezza che portarono a una mal digerita e mai
metabolizzata Unità d’Italia sia oggi più che mai opportuna un’attenta rilettura
degli scritti di  Gramsci e di tanti altri autori su tale argomento, perché al di là di
celebrazioni retoriche e trionfalistiche, per rispetto della verità storica siano
consentiti a ognuno di noi e ad alcuni storici significativi e doverosi momenti di
riflessione. In tal senso vanno riletti gli scritti di tanti storici ed economisti quali 
tra gli altri Giorgio De Sivo, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Carlo
Alianello, Nicola Zitara, Gigi Di Fiore, Lucy Riall, Michele Topa, Lorenzo Del
Boca e Pino Aprile. Scrittori che, nel corso del tempo, arrivando ai nostri giorni, si
sono cimentati nel ricostruire, in un processo di  revisionismo storico quelle verità
che purtroppo ci sono state per lungo tempo negate dagli storici di regime.

Ripercorrere la storia attraverso queste riletture e ribadire, a differenza da quanto


propinatoci dalle storiografie e dalle iconografie risorgimentali ufficiali, che il
processo unitario si è realizzato sulla pelle e con il contributo delle genti del Sud,
che Garibaldi non è stato un eroe, che Vittorio Emanuele II non fu affatto il re
galantuomo riportato enfaticamente sui libri di storia e che i piemontesi non
furono tanto liberatori quanto conquistatori e massacratori delle popolazioni del
Sud. E che la “questione  meridionale” è sorta con l’occupazione “manu militari”
del Mezzogiorno d’Italia. Contro questa cultura storica negazionista serve un atto
di verità. Oggi bisogna rendere giustizia alle popolazioni meridionali e alla Sicilia
che al processo unitario hanno sempre dato il proprio peculiare contributo.
Crediamo sia opportuno per questo e su questi argomenti  aprire, a partire da ora,
una puntuale  riflessione ed un approfondito  dibattito su temi storici che, da
sempre, ci sono stati negati dalla storiografia ufficiale e scolastica, al fine di
ripercorrere la vera storia della nostra terra e, se ce ne sarà data l’occasione, ‘La
Voce di New’, nel prosieguo potrà essere una buona palestra storico- culturale di
discussione.

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