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Sabra e Shatila, un viaggio che dà voce ai

rifugiati palestinesi
- Stefania Limiti, 14.09.2019

37 anni dopo. Come ogni anno il Comitato per non dimenticare fondato dal giornalista del
manifesto Stefano Chiarini e animato da Maurizio Musolino torna in Libano per una settimana di
solidarietà con i rifugiati, sempre più minacciati dal tentativo di cancellazione del diritto al ritorno
portato avanti da Israele e Stati uniti

Lo status di profugo è una terribile realtà del nostro tempo che l’Occidente tenta come può di
gettare sotto il tappeto (ma rispunta con la forza drammatica da ogni barcone avvistato in mare). I
palestinesi, invece, conoscono molto bene la condizione di rifugiato da ben 71 anni, cioè da quando
furono cacciati dalle loro case per fare posto al nascente stato ebraico.

Oggi sono circa cinque milioni in giro per il mondo, tra essi oltre 500mila vivono nel piccolo stato
libanese.

Qui nel settembre 1982 l’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon, con la fattiva
collaborazione delle milizie falangiste (cristiane-maronite) provò ad applicare la «soluzione finale»:
lo sterminio. Questo fu il senso del massacro realizzato con estrema efferatezza nei due poverissimi
campi profughi di Sabra e Shatila, alla periferia sud della capitale Beirut.

Come i lettori di questo giornale ben sanno, ogni anno, da quando diciotto anni fa iniziò Stefano
Chiarini e poi con lui Maurizio Musolino, il Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, con una
delegazione di attivisti provenienti da diverse esperienze, si reca in Libano per partecipare agli
eventi e alle manifestazioni organizzate per ricordare le vittime di allora e quelle di oggi.

Nel campo di Mar Elias con una foto di Stefano Chiarini

Già, perché chi allora morì ammazzato barbaramente – gambe spezzate, pance delle donne incinte
aperte, corpi di bambini ingiuriati: leggete Quattro ore a Shatila di Jean Genet – non ha mai avuto
giustizia e chi vive oggi da eterno rifugiato viene umiliato dalle politiche di Israele e il suo principale
sponsor statunitense: da qualche tempo, infatti, i governi di questi due paesi si stanno esercitando al
tiro al piccione contro l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa esclusivamente dei
rifugiati palestinesi e che è simbolo del diritto al ritorno.
Vorrebbero semplicemente chiuderla, per impacchettare anche i suoi assistiti – sempre più
palestinesi vivono con i soli aiuti delle Nazioni unite.

Per ricordare il massacro di trentasette anni fa, tragico simbolo della sofferenza e della resistenza
palestinese, e per portare solidarietà agli uomini e alle donne che vivono nei campi rifugiati libanesi,
anche quest’anno una folta delegazione del Comitato, dal 14 al 21 settembre, si unirà a quelle di
altri paesi: per una intera settimana circa 85 persone provenienti da tutto il mondo visiteranno le
case dei rifugiati, incontreranno le autorità politiche e istituzionali, faranno sentire la loro voce a
fianco di quella parte di società dimenticata e che alcuni vorrebbero cancellare dalla storia.

La vita nei campi è sempre stata molto dura ma un tempo c’era l’Organizzazione per la liberazione
della Palestina di Yasser Arafat che era in grado di far fronte alle necessità di base offrendo anche
una organizzazione della vita al loro interno e una prospettiva a chi è costretto a vivere ospite non
gradito, senza diritti, cittadino di serie b – i palestinesi non hanno mai chiesto la naturalizzazione ma
il ritorno nella loro terra.

Poi, nel corso negli anni, le cose si sono via via sempre più complicate a causa della crisi economica
mondiale, che ha avuto effetti terribili sulle fasce più povere, e a causa delle guerre che hanno
aggiunto profughi ai profughi.

La presenza di una delegazione internazionale così ampia, che viaggia da nord a sud del paese,
portando ovunque le ragioni della propria azione politica, rappresenta un momento di solidarietà e
vitalità per i palestinesi che da troppi anni dicono al momento, inascoltati: noi siamo un popolo, non
una somma di individui, vogliamo dignità e una patria.

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