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DI ME COSA NE SAI

Negli ultimi anni sono spariti milioni di spettatori. Inchiesta su un grande mistero
italiano.

Parafrasando il refrain di un vecchio e celebre motivo della fine degli anni Settanta
potremmo riassumere gran parte del senso di questo notevole lavoro documentario
filmico scandendo sul flusso della musica le seguenti parole: “Video killed the
(Italian) cinema stars” perché, se è vero che la cinematografia nostrana ha subito i
pesanti colpi assestati dalla potente macchina spettacolar – hollywoodiana, non si può
tacere che in questo inarrestabile declino abbia giocato l’affermazione progressiva
dell’emittenza televisiva privata. Anzi... Nonostante le apparenze la radio gode ancora
di ottima salute. Secondo Valerio Jalongo – già autore de “Sulla mia pelle” – potrebbe
esistere qualche nesso fra queste forze, come vedremo più avanti…

L’opera è soprattutto un atto d’amore, il riconoscimento del notevole e prezioso ruolo


svolto dalla generazione ormai scomparsa di produttori italiani – dai più “piccoli” ai
colossi riconosciuti – nella nostra industria culturale, spettacolare ed audiovisiva. Il
nostro è, infatti, il nipote di Silvio Clementelli, produttore noto per pellicole
“commerciali” fra cui l’arcinoto “Malizia” del regista Salvatore Samperi, da poco
scomparso… Fa, quindi, una certa sensazione scoprire che in luogo delle numerose
ma fiorenti piccole case di produzione cinematografica sorgano studi televisivi.
Lo schiaffo più doloroso, tuttavia, lo spettatore lo riceve di fronte alle immagini di
una gioventù inebetita, ignorante e senza talento in attesa dei provini per gli “Amici”
della De Filippi in Costanzo. Alla precisa domanda dell’intervistatore ad alcune
ragazze su chi fosse Federico Fellini le risposte sono state semplicemente disarmanti.
Eppure non sono trascorsi molti lustri dalla scomparsa di quello che è considerato dai
più esperti in materia di celluloide come il più grande regista cinematografico italiano
di tutti i tempi e uno dei più universalmente ammirati nella storia del cinema
mondiale. Giustamente Jalongo ci rammenta come, prima di altri illustri e blasonati
colleghi, il “director” riminese avesse compreso le insidie di una televisione
commerciale che, con i suoi stacchi pubblicitari, sviliva (e ancora svilisce) l’opera
creativa di un artista. Cercando di difendere la dignità estetica delle sue opere dalla
invadenza degli spot della televisione commerciale che già a quel tempo – e si parla
dei “ruggenti” anni Ottanta – era sinonimo di egemonia berlusconiana, Fellini
prendeva sostanzialmente anche le parti dei suoi meno “agguerriti” colleghi.

Pare che dopo la prima proiezione presso il cinema Mexico di Milano il nostro
Jalongo abbia rivelato che per Fellini il Cavalier Silvio Berlusconi era semplicemente
il “gangster”. Non si conosce la fonte di questa curiosa notiziola che, se confermata,
ci fornirebbe l’ulteriore prova di come la mancanza di scrupoli di Sua Emittenza –
attuale e discusso Capo di Governo – non fosse totalmente ignota ed estranea agli
ambienti dello spettacolo. In ogni caso Fellini condusse contro il Cavaliere una
battaglia legale forse persa in partenza… Nell’ultima parte della sua vita e della sua
carriera cinematografica ricca di riconoscimenti internazionali, Fellini si fece più cupo
e pessimista. Il rumoroso, vitale e grottesco circo che accompagnava le sue pellicole
era improvvisamente diventato malinconico e “lunare”. “Ginger e Fred”, ad esempio,
era chiaramente una caustica satira che puntava il dito sulla società dei media e sulla
televisione italiana allora divisa fra la RAI che risentiva sempre più l’impronta
craxiana – il Presidente della RAI era un certo Enrico Manca, craxiano di ferro il cui
nome compare nella lista conosciuta della loggia P2 – e la TV dell’emergente e
rampante Berlusconi. Insomma gli albori dell’era dei “nani e della ballerine” che
ormai hanno invaso lo spazio virtuale e reale imponendosi in una società che si è
ormai “spettacolarizzata” nel senso più deteriore del termine. Insomma anche questo è
stato Federico Fellini…

Basterebbe questo pugno di ragioni per consigliare la visione di questo documentario


ai giovani e ai giovanissimi per quanto consentito da una distribuzione
inevitabilmente e prevedibilmente scarsa sul territorio. Personalmente mi ha
incuriosito il manifesto della pellicola con quelle mani ingabbiate ed intrappolate
nello schermo di una televisione del tipo che circolava circa trent’anni fa e la frase di
lancio che accostava la decadenza della cinematografia nazionale ai “misteri d’Italia”.
Affermazione tutt’altro che impegnativa ed esagerata perché, chi è abbastanza
documentato o ha abbastanza anni sulle spalle da aver assistito alle cronache ed agli
eventi di quaranta e cinquant’anni fa, sa benissimo che il cinema italiano costituiva la
seconda grande industria di celluloide del pianeta senza temere la concorrenza
danarosa e già allora spietata degli americani. Cinecittà era una seconda Hollywood,
una sorta di Mecca degli amanti del cinema. Oggi sembra quasi incredibile solo
pensarlo, ma nel passato il cinema rappresentava forse la voce più importante della
nostra industria culturale e dello spettacolo realizzando fatturati da capogiro. I nostri
film erano invidiati da tutti potendo contare su maestri ed autentici inventori di nuovi
linguaggi come Fellini o Antonioni, sugli immortali mostri sacri del neorealismo
come De Sica (padre ovviamente!), Rossellini e Visconti e più avanti su una nuova
generazione fervida generazione di autori come Bellocchio, Bertolucci e Pasolini per
citare solo i più famosi e anche scandalosi. Naturalmente tale industria doveva molto
al cosiddetto cinema popolare grazie al quale probabilemente molti capolavori non
avrebbero potuto essere concretamente realizzati. Penso all’invenzione della
“commedia all’italiana” che, grazie a un gruppo affiatato e divertito di registi, mirabili
attori e sceneggiatori, ha saputo raccontare smarrimenti, nevrosi e vizi di un paese in
costante movimento e cambiamento sia pure nel suo antico e non scalfibile retaggio
culturale senza indulgere sul riso “grasso e facile”, ma non solo… Rispettando la sua
tradizione artistica e creativa il paese ha partorito genietti e meticolosi artigiani che si
sono cimentati in generi come il western, il poliziesco e l’horror con notevoli risultati.
Il valore di ottimi tecnici come Freda e Bava – di cui, infatti, si sono giovati maestri
più quotati – è ormai internazionalmente riconosciuto mentre Sergio Leone ha
sicuramente contribuito a rinnovare un genere come quello western, appannaggio dei
soli americani, nella sua ultima fase “aurea”. Mi perdonerà il lettore per la solita
digressione ma vorrei che fosse chiaro quanto peso e quanto contasse per noi italiani –
dal punto di vista culturale, morale, intellettuale, economico, ecc… - l’industria di
celluloide per la quale avremmo avuto più di un motivo per essere orgogliosi e per la
quale, fuori dai nostri confini, eravamo ammirati, invidiati e, pure vezzeggiati. Poi,
come vedremo, sono arrivati i terribili anni Settanta…

La scomparsa di una meraviglia del genere non può non essere trattata alla stregua di
un “mistero”, l’ennesimo “mistero d’Italia” e sappiamo benissimo come ogni
“mistero” – in Italia – altro non è che un delitto su cui investigare per fare emergere
moventi e per scoprire il colpevole e – più spesso – i colpevoli. Come persona
interessata ai “misteri” della nostra storia ma anche come discreto amante del cinema
– buono ma anche meno buono – ho deciso quindi di visionare il documentario di
Valerio Jalongo nell’unica sala milanese disponibile, il cinema Mexico celebre per
aver contribuito qui in Italia a rendere cult un piccolo gioiello musicale underground
come il “The Rocky Horror Picture Show” con una giovanissima Sarandon.
Periodicamente l’esercente Sancassani fa proiettare il “The Rocky” per la gioia di fan
incalliti che si vestono, cantano e ballano come i protagonisti sullo schermo. Il
Mexico, però, è molto altro…
Cinema d’essai e piccolo luogo di resistenza all’invasione americanizzante,
hollywoodianizante e berlusconizzante delle multisale ha tenuto in cartellone per circa
un anno e mezzo il piccolo capolavoro d’esordio di Giorgio Diritti “Il vento fa il suo
giro”.

Sancassani dimostra tutto il suo coraggio anche concedendo – unico a Milano – la sala
per la proiezione di un documentario senz’altro scomodo come quello di Jalongo. In
effetti, avendo il sottoscritto assistito anche alla proiezione del più noto “Videocracy”
e azzardando un confronto fra i due docu-film, l’impressione che ne ho ricavato è che
tutto sommato, malgrado la promessa di illustrare gli ultimi trent’anni di storia della
televisione italiana, l’opera di Erik Gandini si sia limitata a fotografare l’esistente in
maniera piuttosto scontata e con un labile tentativo di approfondimento. I reality, le
vicende e le vicissitudini di personaggi come Lele Mora e Corona in qualche modo
essi stessi saltimbanchi del circo berlusconiano, la base sostanzialmente impolitica e
apolitica del consenso al Cavaliere, molto mediatica e televisiva, invece… Si tratta di
elementi, eventi, circostanze ormai note ai più – naturalmente fra coloro che hanno
tempo, voglia e volontà di informarsi – mentre non si aggiunge una virgola circa le
radici della nostra deriva culturale, morale ed intellettuale. Videocrazia è termine già
usato e abusato ripetutamente anche in sede analitica per designare questo
coinvolgimento apparente, illusorio e manipolatorio della massa nei meccanismi dello
spettacolo televisivo. “Videocracy” ha potuto godere dell’indiretta pubblicità offerta
dalla censura targata RAI del relativo trailer generando aspettative che, per quanto mi
riguarda, sono state deluse. Alla fine l’”antiberlusconismo” di Jalongo risulta molto
più saldo di quello di Gandini lasciando in ombra gli aspetti più politici del Cavaliere
ed affrontando piuttosto di petto, invece, quelli (sotto)culturali. In definitiva la visione
de “Di me cosa ne sai” completa ed integra ampiamente quella di “Videocracy”.

“Di me cosa ne sai” nasce soprattutto per portare alla luce l’esperienza del movimento
di autori Ring creato per fronteggiare la situazione di “eterna crisi” del cinema
italiano. In sintesi lo sviluppo di questo documentario procede su tre binari differenti.
Il primo accompagna il povero regista Felice Farina nel suo tentativo quasi decennale
di fare uscire e distribuire un suo film proprio per mostrarci quanto oggi sia arduo fare
cinema. Il secondo viaggia a ritroso nel tempo per illustrare come è stato possibile
smantellare sostanzialmente l’industria cinematografica italiana. Il terzo, infine,
assume la prospettiva presente anche intervistando addetti ai lavori e famosi registi di
caratura internazionale. L’esordio, citando i versi di Pasolini e inserendo le immagini
dell’atroce “Salò” dello stesso, è indubbiamente efficace e di forte impatto. Il poeta
friulano comprese in tempi non sospetti la deriva edonistica e consumistica della
società postmoderna, i guasti della società dello spettacolo e la conseguente
decadenza morale che avrebbe condotto ad una mentalità esclusivamente
appropriativa e ad una violenza sempre più gratuita nel nostro paese. Gli anni del
terrorismo sono dietro l’angolo ma non solo… Il riferimento pasoliniano ai processi di
deculturazione italiana viene consapevolmente agganciato alla demolizione
dell’industria cinematografica nostrana che di quella tendenza sarebbe parte o
declinazione da non trascurare. È noto poi come Pasolini detestasse la televisione,
quella che era ancora la TV in bianco e nero monopolizzata dalla RAI le cui cure
pubblicitarie erano state affidate alle ingenue mani di Carosello. L’intellettuale, il
poeta, lo scrittore e regista friulano esagerava o, più semplicemente, considerata la sua
sensibilità e l’intuito fuori dal comune, aveva semplicemente “visto prima”,
anticipato? Quel che è certo è che i fatti si sono incaricati di dare ragione a Pasolini su
molte delle cose che scriveva o rappresentava…

Ma , secondo l’autore, quali sono state le modalità con cui l’industria cinematografica
italiana è stata azzerata? Dovendo prestare attenzione all’aspetto più genuinamente
produttivo, distributivo, in sostanza economico, della questione Jalongo ha
“registrato” le preziose affermazioni dello storico, anziano produttore Aurelio De
Laurentiis – oggi anche presidente del Napoli Calcio – il quale è recentemente tornato
dagli USA dopo una trentennale permanenza in quel paese ed alterne fortune. Nel
secondo Dopoguerra, come conseguenza della vittoria degli angloamericani, si è
assistito ad un’invasione fuori controllo delle pellicole d’Oltreoceano senza che
potessero essere approntate le necessarie tutele da parte della nostra giovane
Repubblica appena nata e ancora troppo fragile. In qualche modo gli americani hanno
sempre guardato al nostro paese come ad una terra di conquista sia pure con mezzi
economici (e culturali). Nel 1949 un’imponente manifestazione degli addetti ai lavori
del cinema – fra gli altri nelle immagini sono riconoscibili la grandissima Anna
Magnani e Vittorio De Sica – si rivolse al governo perché prendesse provvedimenti
utili a contenere l’invasione cinematografica a stelle e strisce e a rilanciare le pellicole
nazionali. De Laurentiis è sferzante e netto nei suoi giudizi sui politici italiani: tutti
costoro - dai democristiani ovviamente fino agli stessi comunisti i quali si sono
sempre fatti un vanto di sostenere la cultura nazionale nelle sue varie forme –
avrebbero detestato il cinema italiano perché generalmente critico nei confronti dei
politici. Basterebbe citare quel cinema di impegno civile e politico che ha fatto la
fortuna dei Rosi, dei Petri ma anche di un autore più “popolare” come Damiano
Damiani più recentemente noto come regista della serie TV sulla mafia di successo
“La Piovra”. Si comprende come già in queste affermazioni risieda una parte delle
cause che hanno concorso a determinare il declino del cinema italiano. Tuttavia il
produttore napoletano riconosce all’allora giovanissimo Giulio Andreotti, già ministro
e navigato uomo politico democristiano, lungimiranza, apertura e un’ottima
prospettiva assunta per quel che riguarda il problema mosso nella citata
manifestazione di registi, attori, sceneggiatori, ecc… Nel 1950 si fece promotore di
una legge che consentiva alle coproduzioni di usufruire degli incentivi statali e ciò
aprì le porte dell’Italia e di Cinecittà a inglesi, tedeschi, spagnoli e, soprattutto,
americani interessati a sfruttare le locations italiane. Cinecittà divenne meta dei divi
più gettonati di Hollywood e, grazie anche alla disponibilità italiana vennero girati
kolossal a sfondo storico soprattutto in coproduzione con gli americani. Si pensi solo
a “Quo vadis” o a “La Bibbia”. Il resto è noto: i successivi venti anni furono gli anni
d’oro del cinema italiano che giunse a concorrere alla pari con il colosso
hollywoodiano. Poi arrivarono i maledetti, terribili anni Settanta…

Nel 1972 la legge Andreotti venne soppiantata dalla nuova normativa promossa da un
socialista, tale Corona – l’omonimia con il “paparazzo” che ha riempito le cronache
odierne è casuale e curiosa – in base alla quale avrebbero potuto accedere ai
finanziamenti pubblici solo le pellicole ad intera produzione italiana. È l’inizio della
fine perché erano proprio i capitali affluiti in Italia grazie alle coproduzioni che il
cinema italiano aveva potuto prosperare ed essere ammirato nel mondo. Con qualche
malizia Jalongo introduce immagini dell’astro nascente del PSI, quel Bettino Craxi
che ha avviato la stagione del rampantismo e dello yuppismo più spregiudicati
accogliendo sotto la sua alla protettiva imprenditori emergenti come Silvio
Berlusconi.

A metà degli anni Settanta, nell’arco di appena tre anni, i tre maggiori produttori
italiani lasceranno il paese per approdare ai più floridi lidi statunitensi. Secondo De
Laurentiis fare cinema in Italia era diventato impossibile. I coniugi Ponti – Loren, con
ottime entrature ed amicizie in ambito hollywoodiano, abbandonano l’Italia per
sopravvenute questioni fiscali. Mi pare di ricordare che a suo tempo si sospettò la
celebre coppia di aver chiesto aiuto a personaggi legati alla famigerata banda della
Magliana per dirimere tali controversie. Più complicata la vicenda di Alberto
Grimaldi, proprietario della PEA cinematografica e produttore di pellicole scandalose
come il celebre “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Nel 1975 Grimaldi
aveva in cantiere ben quattro importantissime produzioni tutte destinate a far
discutere: “Casanova” di Federico Fellini; il citato “Salò” di Pierpaolo Pasolini;
“Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi – tratto da Sciascia e fortemente polemico nei
confronti del Compromesso Storico -; “Novecento” di Bernardo Bertolucci –
produzione quest’ultima assai impegnativa anche per la presenza di un folto e
formidabile cast internazionale. Cominciano i guai… Il documentario cita l’episodio
del furto delle “pizze” dell’opera di Pasolini e il relativo tentativo di ricatto ed
estorsione. Questa circostanza verrà ricordata anni dopo dal regista, sceneggiatore e
collaboratore di Pasolini Sergio Citti poco prima della sua morte. Proprio in quel
frangente il 2 novembre 1975 verrà assassinato lo scandaloso poeta friulano quasi
certamente vittima di un complotto i cui contorni hanno cominciato ad emergere solo
recentemente. Per anni lo stesso Grimaldi vivrà nel terrore di essere rapito con la sua
famiglia, mentre la magistratura si accanì sulle sue opere come “Ultimo tango” e
“Salò”. Anche lui lascerà l’Italia per gli USA e “Novecento”- da molti ritenuto opera
di propaganda comunista – verrà finanziato da due celebri major americane. Sono
anni difficili, anni convulsi per il paese che attraversa un’escalation di inusitata
violenza stragista, terrorista, criminale e “diffusa”, ma ci sono anche gli interessi, le
lotte per il potere e le “guerre di mercato”. De Laurentiis ipotizza che la legge Corona
– che assestò il primo pesante colpo all’industria cinematografica italiana – venne
concepita per venire incontro ai desiderata degli americani. Evidentemente
Hollywood non poteva accettare la concorrenza italiana e si regolò di conseguenza…
Si tratta di dichiarazioni provenienti da una fonte che ben conosce non solo gli
ambienti dei produttori e dei distributori italiani ma anche il potente sistema delle
major hollywoodiane. Ciò è molto interessante anche per poter analizzare ed
“investigare” sugli eventi successivi compreso il “trasferimento” di De Laurentiis,
Ponti e Grimaldi in America.
Non dimentichiamo che quelli sono anche gli anni di una paura diffusa fra certi settori
dell’”alta borghesia” imprenditoriale e della classe dirigente nei confronti del
Compromesso Storico fra democristiani e comunisti, paura che, nella maniera più
immediata, si concretizza con la fuga di ingenti capitali all’estero.
Dal punto di vista della distribuzione e della produzione cinematografica i rubinetti
dei finanziamenti cominciano a chiudersi con il conseguente calo dei fatturati…

Mi perdonerà ancora il lettore se, commentando il docu-film di Jalongo, innesterò


personali riflessioni, ma il discorso portato avanti dall’autore, soffermandosi peraltro
giustamente sul versante meramente cinematografico, richiede che debba essere
completato allargando un pochino la prospettiva del quadro. Dalla visione del film si
ricava quasi immediatamente che fra l’egemonico strapotere hollywoodiano e la
progressiva affermazione dell’impero televisivo e mediatico berlusconiano qualche
rapporto vi deve pur essere. Anche per questo motivo avrebbe giovato di più ad una
discussione storica un’impostazione diversa di “Videocracy”, spietata ma risaputa
fotografia del presente sociale, mediatico e televisivo italiano. A questo proposito
vorrei fare un salto indietro nel passato, anzi… nessun salto perché, semplicemente, ci
limiteremo a tornare agli anni in cui il nostro cinema cominciava ad attraversare la sua
stagione più difficile.

Sarà forse un caso, ma gli anni della legge Corona sul cinema e l’esodo dei maggiori
produttori cinematografici italiani coincidono con la normativa che cominciò a
spezzare il monopolio televisivo della RAI. Inizialmente si concesse alle piccole
emittenti televisive (ma anche radiofoniche. Chi non ricorda fra i cinquantenni la
stagione delle “radio libere”) di trasmettere localmente, ma nel successivo deserto
legislativo e nella giungla del mercato dei canali televisivi commerciali prosperò quel
soggetto più spregiudicato e privo di scrupoli che oggi tutti ben conoscono.
Dapprincipio furono forse in pochi a prevedere quegli sviluppi, tuttavia è utile dare
un’occhiata a quei soggetti che si precipitarono immediatamente nell’avventuroso
mondo delle emittenti commerciali. Si pensi solo a Tele Malta degli editori Rizzoli,
gli stessi che assecondarono l’assalto piduista al Corriere della Sera con il concorso
del banchiere piduista Roberto Calvi, quello che, per intenderci, è stato “impiccato”
sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra; a Tele Torino su cui si stagliava l’ombra
dell’aristocratico piduista e golpista “bianco” Edgardo Sogno, “eroe” della resistenza
“antifascista” ed “anticomunista” con intensi contatti americani ed inglesi; e ancora
alla storica Antenna 3 cofondata dal presentatore Enzo Tortora a quei tempi
simpatizzante della destra prima delle note avventure giudiziarie che lo hanno anche
avvicinato ai radicali di Pannella. Sarà forse un caso… In quegli anni le prime
emittenti televisive locali avevano budget e palinsesti modesti: piccoli spettacoli di
intrattenimento, vecchi film, giochi per ragazzi, quiz, spogliarelli notturni, ecc…
Sicuramente determinate forze politiche ed economiche compresero più e meglio
delle sinistre le potenzialità del mezzo dal punto di vista culturale e furono altrettanto
leste a cogliere il senso della cultura “popolare” o “bassa”. Prigioniera di un certo
snobismo culturale ed intellettuale – almeno fra le generazioni non più giovani – la
sinistra egemonizzata dal PCI, troppo occupata nei suoi distinguo fra cultura “alta” e
subcultura, si mosse con estremo ritardo, mentre le nuove destre – di marca
“postfascista” e neoconservatrice – si giovarono delle possibilità offerte dai nuovi
media, dallo spettacolo e dall’intrattenimento “popolari” oltre che della centralità dei
meccanismi pubblicitari. Questo discorso può essere esteso oltre i nostri confini:
alfiere del nuovo neoliberismo e neoconservatorismo anglosassone non fu forse l’ex
star di Hollywood e delatore ai tempi del maccartismo Ronald Reagan che, fra l’altro,
incoraggiò il successo della propagandistica serie dei film di “Rambo”? Quanto vi sia
poco di casuale in queste tendenze è dimostrato proprio da quell’ormai celebre e
citatissimo Piano di Rinascita Democratica della loggia P2 controllata dall’ineffabile
Venerabile Gelli al centro di mille trame e mille misteri italiani. Accanto all’obiettivo
di condizionare pesantemente l’informazione della carta stampata, Gelli & c. si
proponevano di “dissolvere la RAI TV – evidentemente ritenuta troppo sbilanciata a
sinistra (corsivo mio) – in nome della libertà di antenna”. Alla luce di tali intenti non
stupisce l’interesse nei confronti della televisione privata e commerciale da parte degli
iscritti alla P2 compreso il Cavalier Silvio Berlusconi ed è poi curioso notare come
analoga attenzione nei confronti dell’informazione e dei “nuovi” media domestici è
prestata dalla Trilateral di Rockfeller e soci, l’organismo messo in piedi da noti
finanzieri, politici, diplomatici banchieri, imprenditori e dipendenti eccellenti delle
multinazionali per diffondere il Verbo neoliberista. Tutto ciò odora molto di
manipolazione tenuto conto delle note diffidenze nei confronti della democrazia e
della partecipazione da parte dei soggetti summenzionati. Per converso fra gli
intellettuali di “sinistra” Pasolini fu tra i pochissimi ad assumere una visione olistica e
a capire la portata della cultura intesa nella sua interezza, senza trascurare gli aspetti
sub culturali fino a quelli rientranti nell’ambito dell’incultura e della deculturazione.

Dai fermenti giovanili del Settantasette al cosiddetto Riflusso, quel ripiegamento nel
privato che si è letteralmente “mangiato il politico” il passo è veramente breve e la
nuova televisione commerciale ha assunto un indubbio ruolo in tutto questo. “Video
killed the cinema stars”: inizia l’emorragia di spettatori dalle sale cinematografiche
favorita progressivamente anche dal mercato dell’home video che introduce il cinema
fra le mura domestiche. La nuova televisione a colori, ritenuta da molti come
l’autentico spartiacque del mutamento culturale ed antropologico italiano, attira e, a
non pochi, piace… Fra tante avventure catodiche di breve respiro, solo quella del
giovane Cavalier Silvio Berlusconi, buon pupillo di Gelli, resiste: divenuto presto
padrone incontrastato della concessioni pubblicitarie, il nostro si concentra anche
sulla programmazione cinematografica in televisione facendo incetta di pacchetti di
film come quelli del magazzino della Titanus di Goffredo Lombardi. Responsabile di
questa linea era allora il giovane Freccero che una ventina d’anni dopo si sarebbe
occupato della programmazione del canale Italia Uno, l’emittente giovanile
dell’impero berlusconiano Mediaset. Fino ad allora la televisione nazionale – anche a
causa delle limitare possibilità offerte dal “bianco e nero” – non aveva dato molto
spazio alla trasmissione di pellicole cinematografiche, ma da un giorno all’altro gli
schermi vengono letteralmente invasi da film anche piuttosto recenti. Sarebbe inutile
ribadire quanto ciò abbia contribuito alla diserzione degli spettatori dai cinema. Più
comodo, senz’altro meno faticoso assistere seduti in poltrona ad una proiezione…

Nel frattempo, in un contesto da selvaggio west mediatico, il Cavaliere diventa


proprietario di ben tre reti televisive (Canale 5 , Italia Uno e Retequattro) imponendo
il suo monopolio sulla TV commerciale grazie – come ebbe a dire l’editore Rusconi –
alle “disponibilità illimitate”. Sulla televisione Berlusconi edifica un impero
dell’industria mediatica, dello spettacolo e dell’intrattenimento da autentico one man
showman quale è sempre stato… Non semplicemente tycoon… Televisione, editoria,
musica, cinema, calcio, radio, ecc… Una corte circondata da uomini spettacolo come
taluni scrittori e giornalisti, presentatori ed anchorman televisivi, showmen, cantanti,
registi, attori, calciatori, deejay, vallette, veline, ecc… Il tutto condito da una
spruzzatina di malizia e piccoli pruriti sessuali piuttosto caserecci piuttosto in linea
con taluni dettami di certo cinema piuttosto in voga negli anni Settanta. Fra gli attori
principali del “riflusso italiano”, Berlusconi contribuì a popolarizzare i “nani e le
ballerine” della scuderia di Craxi, un altro protagonista della società del riflusso (e
dello spettacolo). Prima ancora del Cavaliere con Forza Italia, fu proprio Bettino
Craxi ad accarezzare l’idea di trasformare il PSI nel partito della “gente dello
spettacolo” probabilmente influenzato dall’amico. Naturalmente Berlusconi non
trascurò – dal suo punto di vista di “imprenditore” – l’industria cinematografica – e
divenne socio dei Cecchi Gori – nei magnifici e rampanti anni Ottanta i maggiori
produttori distributori cinematografici italiani specializzati soprattutto nelle
“commedie all’italiana” interpretate dai comici più popolari di quel periodo e
proprietari della Fiorentina, discreto avversario del meraviglioso Milan berlusconiano
in serie A – nella Penta Cinematografica. La consueta spregiudicatezza premiò il
Cavaliere che, con gli anni, impose il quasi monopolio nella produzione e nella
distribuzione cinematografica condividendolo, con l’acquisto della storica Medusa, –
caso strano! – con la RAI. Il duopolio televisivo ormai sancito dalla famigerata legge
del ministro repubblicano Mammì ma concertata soprattutto da Craxi ed Andreotti, si
riflette sul cinema con le prevedibili conseguenze. Alla costosa realizzazione di film
per il grande schermo si preferiscono – e non può essere diversamente – le fiction
televisive spesso di pessima fattura.
Nel frattempo i format e i palinsesti della RAI TV cominciano ad assomigliare sempre
più a quelli Mediaset mentre all’orizzonte si affaccia Sky, il nuovo concorrente
riconducibile al tycoon australiano Rupert Murdoch, uno degli uomini più potenti,
influenti e ricchi del pianeta, ancora una volta di simpatie neoconservatrici.

Questo sunto della nostra storia “mediatica” non è presente nel documentario di
Jalongo che, invece, concede ampio spazio alla contesa fra il regista Fellini e
Berlusconi sulla questione delle interruzioni pubblicitarie durante la trasmissione di
film in televisione, ma la connessione fra il declino dell’industria cinematografica e
l’inarrestabile affermazione della televisione commerciale e “pubblicitaria”
berlusconiana non è solamente suggerita… Anzi il regista si mostra convinto dello
stretto rapporto fra lo strapotere delle major americane ed hollywoodiane in Italia e
l’egemonia della televisione berlusconiana… Nello stesso pugno di anni la legge
Corona, le trasferte americane più o meno indotte dei De Laurentiis, dei Ponti, dei
Grimaldi, la progressiva occupazione dell’etere di canali patrocinati da determinati
settori economici e politici, ecc… Sorgono domande spontanee – quantomeno a me:
gli americani e Hollywood hanno ugualmente condizionato il socialista Corona per
arginare la concorrenza italiana e hanno avuto qualche ruolo nelle vicende che hanno
coinvolto De Laurentiis e gli altri? Al contempo potrebbero realmente aver foraggiato
l’impero televisivo berlusconiano per boicottare il nostro cinema? Domande che
rimandano al vecchio leit motiv, l’antico adagio: quale è l’origine delle fortune
berlusconiane da Milano 2 alla televisione? Quali sono stati – e forse sono tuttora – i
rubinetti dell’impero Mediaset/Fininvest/Publitalia/Edilnord?

Domande non facili a cui dovranno essere fornite risposte complesse che non possono
esaurirsi nella riproposizione stantia del mito dell”uomo che si è fatto da solo”.
Qualche raggio di luce filtra fra le nuvole e possiamo intravedere i colori di quei
capitali… Le banche sindoniane e quelle a conduzione socialista e craxiana, la loggia
P2, Cosa Nostra siciliana, ecc… “Di me cosa ne sai” suggerisce l’intervento di altri
soggetti: quelle potentissime major hollywoodiane che hanno imposto il loro dominio
incontrastato sulla cinematografia mondiale. Non possiamo escludere a priori
l’intervento di quelle lobbies che molto investono sulla macchina spettacolare
hollywoodiana, probabilmente e prevalentemente italoamericane (leggi mafie
italoamericane) ed ebraiche, con l’aggiunta magari di potenti organizzazioni settarie
sul modello di Scientology la quale ha esercitato ed esercita un forte ascendente su
alcune delle più note star e attori di Hollywood come Tom Cruise – da alcuni
considerato addirittura il vero capo – e John Travolta. Domande che ancora attendono
risposte… Domande attinenti all’ennesimo “mistero italiano”… Chi e perché ha
ucciso il cinema italiano ?
Forse, ma non bisogna farsi eccessive e soverchie illusioni, qualche risposta verrà
dall’inchiesta giudiziaria sulla compravendita dei diritti cinematografici americani da
parte della Mediaset…

Da uno sguardo pasoliniano cambia il paesaggio…

Il paesaggio del mutamento antropologico del popolo italiano…

Sullo sfondo di questo quadro piuttosto desolante l’apertura di centri commerciali,


grandi megasupermercati dell’audiovisivo come i Blockbuster, i multiplex, le
multisale cinematografiche, ecc…

Quel panorama si divide fra il dominio globale e globalizzante del cinema a stelle e
strisce e quella televisione berlusconiana molto casereccia, becera e provinciale che
ha invaso la casa di ogni famiglia italiana, volente o nolente…

All’inesorabile calo di spettatori nei cinema si accompagna la progressiva


affermazione delle pellicole statunitensi “più o meno hollywoodiane” a scapito di
quelle italiane.
Basterebbe dare una scorsa alle classifiche degli incassi delle stagioni
cinematografiche di venti, trenta e quarant’anni fa per prendere atto di questa
tendenza che pare inarrestabile.
In passato le preferenze del pubblico italiano si sono indirizzate sui prodotti della
nostra cinematografia piuttosto che sulla concorrenza hollywoodiana e dovrebbe fare
male – a chi ha occhi, orecchie e cervello per intendere – constatare che nelle stagioni
più recenti quasi esclusivamente le “squisitezze” dei vari De Sica e Boldi sono state in
grado di reggere all’ondata del cinema mainstream del cinema americano. Non
lamentiamoci troppo, però… Dagli USA approda in Italia ogni scarto di magazzino
possibile e anche ai limiti della inguardabilità, specie se di tratta di pellicole del
recente filone “demenziale” (o demente?). Intanto chiudono le piccole case
cinematografiche del nostro paese e si moltiplicano gli studi televisivi.

“Video killed the cinema stars”…

Jalongo affronta senza reticenze il tema della “colonizzazione dell’immaginario”


effettuata dagli americani attraverso il cinema hollywoodiano interpellando anche
registi stranieri di caratura internazionale quali il tedesco Wenders e l’inglese Ken
Loach. La suddetta operazione culturale “deculturalizzante” ha una portata globale nel
suo tentativo di annullare la concorrenza di tutte le cinematografie straniere – italiana,
francese, inglese, spagnola, tedesca, ecc… non importa – a vantaggio e profitto della
“American way of life”. Potessimo almeno godere della visione di opere di ottima o
pregevole fattura! Invece, secondo la logica american – hollywoodiana, i film
vengono realizzati secondo una logica puramente industriale e standardizzata,
impacchettati e venduti come una qualsiasi merce. Siamo alla mercificazione e alla
reificazione del processo artistico e creativo che, anche e soprattutto grazie agli
incredibili investimenti e spese di produzione, non può non generare povertà di
contenuti, miseria estetica e cattivo gusto imperante nelle sue molteplici e gratuite
forma (certa rappresentazione del sesso e della violenza, i dettagli raccapriccianti,
l’effettismo e il sensazionalismo, la volgarità e il turpiloquio a piene mani, ecc…).
Strumento principe della colonizzazione dell’immaginario attuata dal sistema
hollywoodiano è la multisala ove sono generalmente concentrate le pellicole
d’oltreoceano. Non stupisce che questi “luoghi”, questi nuovi templi dello “spettacolo
mercificato” appartengano perlopiù alle major hollywoodiane, a questi colossi che si
sono ormai imposti come onnipresenti multinazionali dell’audiovisivo. E, altrettanto,
non stupisce l’analogo ruolo ricoperto dalla Medusa, la casa di distribuzione e
produzione cinematografica berlusconiana, anch’essa proprietaria di multisale colme
e ribollenti di proiezioni di film americani. In gioco è il controllo della cultura e
dell’immaginario e, accanto ad essa, il monopolio dei mercati dell’audiovisivo. In
tutto e per tutto gli americani partono avvantaggiati: a differenza degli altri paesi
l’industria hollywoodiana può fabbricare i suoi sogni con il sostegno delle
Ambasciate nei vari paesi. Molto attive nella “promozione culturale americana”, le
varie sedi diplomatiche hanno aperto sezioni che si dedicano in maniera pressoché
esclusiva alla promozione dei propri prodotti filmici.
A queste autentiche invasioni “culturali” gli altri paesi, come la Francia, cercano di
resistere come possono… Ormai lontana dal suo glorioso passato di celluloide, l’Italia
mostra invece tutta la sua fragilità non potendo andare oltre una legge che ancora una
volta finisce per subordinare il sostegno e la rinascita del cinema ai consueti criteri
clientelari. Tuttavia avevamo già appreso in precedenza lo scarso amore dei politici
per il cinema e nulla può più ormai sorprenderci.

Dominio incontrastato di Hollywood, berlusconismo imperante nello spettacolo e


nella cultura prima ancora che nella politica, diffidenza di politici, scarsi investimenti,
ecc… Sono ipotesi sufficienti a spiegare il tracollo del cinema italiano? Oppure anche
gli addetti ai lavori - produttori, registi, sceneggiatori, attori in taluni casi – portano il
peso di qualche responsabilità. L’autore è sufficientemente onesto e accorto da non
schivare la questione affidandola soprattutto alle parole di Paolo Sorrentino, il regista
del “Divo”, il quale riconosce una diffusa mancanza di coraggio negli autori italiani,
quasi un’incapacità di raccontare le storie di questo paese.

Penuria di talento, scarso coraggio, incapacità di rappresentare la “realtà…


In questo contesto non si può non sentire la mancanza e la nostalgia dei Fellini, degli
Antonioni, dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini, dei Pasolini e, ancora,
dell’impegno dei Rosi e dei Petri, per citare solo alcuni celebri nomi… Un tempo film
come “Il Divo” e “Gomorra” non erano merce poi così rara.
È comunque certo che non si può ridurre la questione al mero dato economico o a
quello, pure connesso, del controllo della (sub)cultura di una nazione.

In conclusione i limiti di “Di me che ne sai” risiedono probabilmente soprattutto nel


mezzo scelto per affrontare il tema, il “mistero italiano” sottaciuto. Nonostante la tesi
l’opera di Jalongo è efficace soprattutto nell’avanzare talune scomode domande
piuttosto che nell’approfondimento delle tesi. La forma del documentario
cinematografico “a tesi” – e il discorso vale in questo caso come in quello di
“Videocracy” e perfino in quelli dei docu-film di Michael Moore – finisce per
“ingabbiare” l’intero percorso analitico ed investigativo. A mio giudizio la scrittura
rimane la forma più adatta per “narrare” magari la storia della “cultura” nell’Italia
repubblicana attraverso l’evoluzione - o involuzione a seconda dei punti di vista – nel
complesso dei vari settori dell’industria mediatica, dello spettacolo,
dell’intrattenimento e dell’audiovisivo e il ruolo di queste ultime nella trasformazione
postmoderna del nostro paese. Si potrebbe magari abbinare un volume di
approfondimento ad un documentario filmico. Ciò non sminuisce, tuttavia, il valore
complessivo dell’opera che, secondo il sottoscritto, meriterebbe di essere proiettato
nelle scuole italiane, ma noi non abitiamo in un paese normale… Noi attraversiamo
quell’universo vagamente “concentrazionario” – un campo di concentramento soft - di
cui parlava Pasolini anche se non abbiamo abbastanza coraggio per ammetterlo
pubblicamente. In qualunque modo si voglia ribaltare e girate il tema si è costretti
sempre a tornare alle parole e alle immagini concepite dal poeta friulano.

Il “mistero” dell’assassinio del cinema italiano non può essere svelato, ma noi
sappiamo…

Intuiamo i nomi dei mandanti e degli esecutori, ma non abbiamo le prove…

Dobbiamo accontentarci – al momento – di quella Verità che non può essere espressa
e che attende, come e soprattutto in altri casi, di essere pronunciata…

Torniamo ancora una volta a quei giovani che ignoravano l’esistenza, la storia e il
ruolo di un grande regista come Fellini, chiudiamo gli occhi e pensiamo per una volta
ancora a questo paese in cui il virtuale ha letteralmente divorato il reale, in cui il
reality ha preso il posto della realtà, in cui il voto più importante è quello del “Grande
Fratello” e l’Italia che conta quella “vippara” dei presentatori ed anchor man
televisivi, dei cantanti, degli attori, dei calciatori, delle veline, delle pornostar, ecc…
Nel preciso istante in cui “immaginiamo” un paese del genere, un mondo che ha
sganciato da sé ogni residuo di realtà, cominceremmo anche ad attendere con ansia
che qualcuno “racconti” quel paese, qualcuno che recuperi la realtà.

Scopriremmo che, se nulla sappiamo del glorioso cinema del nostro passato,
ugualmente conosciamo del nostro presente e della nostra contemporaneità…

Sempre in attesa di un autore, un regista o un filmaker che abbia la forza, il talento e il


coraggio di “scrivere il romanzo italiano”, sia pure in forma di immagini…

“Di me cosa ne sai”: visione vivamente consigliata e, se verrà pubblicato il DVD, non
lasciatevi sfuggire l’occasione…

THAT’S ENTERTAINMENT!

Parafrasando Carlo Lucarelli, giallista e presentatore di “Blu Notte”, potrebbe essere


la scena di un film.

Interno: la suite di un prestigioso hotel di New York, l’Hotel Pierre in cui si ritrovano,
come per gradevole abitudine, tre grandi amici, tre uomini molto diversi fra loro ma
accomunati da alcuni aspetti della propria biografia e della propria esistenza certo non
secondari rispetto alla storia che stiamo per raccontare…

Innanzitutto non sono persone normali, comuni mortali che conducono una vita
normale contrassegnata dai quei problemi ordinari, familiari e di lavoro, che assillano
abitualmente pure i cosiddetti ceti medi…

I tre non sono semplicemente ricchi. Sono ricchissimi, vivono nel lusso e nell’agio
incondizionati, perché sono tre uomini ricchissimi e potenti…
In secondo luogo i tre si rispettano, si ammirano e si piacciono nonostante le diversità
caratteriali perché si sono “fatti da soli”. Nessuno dei tre è rampollo viziato di qualche
grande dinastia industriale o finanziaria. Sono determinati, intraprendenti, affamati…

Il primo è un ebreo austriaco naturalizzato americano. Il suo nome è Charles Bludhorn


e negli anni Quaranta, in pieno conflitto mondiale e nel contesto di crescente e
dilagante persecuzione nazista degli ebrei, si recherà negli USA ove farà della Gulf &
Western uno dei grandi colossi dell’industria americana. Per intendersi Bludhorn è un
tipetto che può trattare alla pari con i Rockefeller che, peraltro, frequenta con una
certa assiduità. Nel 1966 rileva la Paramount, marchio storico dell’industria
cinematografica hollywoodiana entrando in quel vasto e potente circuito che
comprende altri “giganti” dello spettacolo e del divertimento come la Time Warner, la
Metro Goldwyn Mayer, la 20th Century Fox – che diventerà un fiore all’occhiello per
il potentissimo tycoon australiano Rupert Murdoch – e la Walt Disney.

Il secondo è il più importante dei produttori cinematografici italiani, quel Dino De


Laurentiis che, inizialmente in società con Carlo Ponti, noto anche come marito
dell’attrice Sofia Loren, contribuì finanziariamente alla realizzazione dei film che
consacrarono Federico Fellini come regista ed artista riconosciuto internazionalmente
e pluripremiato con gli Oscar. De Laurentiis conosce bene gli americani, i grandi
magnati dell’industria hollywoodiana per aver prodotto assieme a loro costosi
kolossal come “Guerra e pace” di King Vidor” e “La Bibbia” di John Huston grazie
anche ai finanziamenti statali concessi dalla Legge Andreotti. Nel momento, però, in
cui ha luogo il suddetto incontro, De Laurentiis non naviga in acque particolarmente
buone: la nuova legge sul cinema non concede più contributi statali per le
coproduzioni e il nostro è costretto a lasciare l’Italia per gli USA, ma su tutta questa
vicenda torneremo…

Il terzo personaggio è probabilmente il più inquietante: si tratta del noto e famigerato


banchiere ed avvocato siciliano in rapporti con Cosa Nostra siciliana ed
italoamericana e con la loggia Propaganda 2 Michele Sindona la cui attività sarà
oggetto di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che sarà praticamente rimossa
e sostituita da quella sulla loggia “gelliana”. Piduista, riciclatore del denaro sporco
mafioso frutto dei traffici di droga, finanziatore di attività legate alla “strategia della
tensione” come quelle dell’organizzazione paramilitare filoNATO “Rosa dei Venti”,
riconducibile probabilmente alla rete STAY BEHIND, è però personalità potente,
temuta e rispettata nella comunità degli affari a cui appartiene nel momento in cui ha
luogo l’amichevole incontro fra i tre uomini. Ha finanziato le correnti democristiane
di Andreotti e Fanfani e contribuirà in maniera cospicua a finanziare la campagna
antidivorzista (e fanfaniana) prima dello storico referendum. Lo stesso Presidente del
Consiglio Giulio Andreotti lo elogerà come “salvatore della lira”.

Punto di riferimento di quelle lobbies italoamericane a cui si rivolgerà anche il


Venerabile Maestro della P2, Sindona gode anche di ottime relazioni con importanti
personaggi dell’amministrazione Nixon come il segretario del Tesoro David Kennedy.
È riuscito ad acquisire una delle più importanti banche americane, la Franklin e risulta
fra i proprietari degli studios della Paramount dell’amico Charlie Bludhorn e del
Watergate di Washington, il palazzo in cui inizierà l’omonimo scandalo che
travolgerà Richard Nixon e (alcuni) uomini del Presidente. Anche all’amico Bludhorn
ha offerto i suoi buoni uffici quando era in difficoltà tramite complesse operazioni
finanziarie e introducendo il sodale negli ambienti del Vaticano nei quali don Michele
è di casa. È, infatti, il consulente finanziario di papa Paolo VI e ha allacciato stretti
rapporti finanziari con il direttore dello IOR, la “banca vaticana”, Paul Marcinkus e
con il presidente piduista del Banco Ambrosiano Roberto Calvi che i piduisti Gelli e
Ortolani utilizzeranno per finanziare la scalata della Rizzoli al “Corriere della Sera”.
Don Michele è probabilmente l’inventore di quelle intricatissime “scatole cinesi”
della finanza che sono vere e proprie truffe. Quando l’Amministrazione Nixon verrà
colpita mortalmente dallo scandalo Watergate – e qui non interessa comunque
affrontare la questione di chi, eventualmente pilotò e si giovò d’esso – anche le
fortune di don Michele cominceranno a declinare… Il crack della Banca Privata
Italiana trascinerà anche la Franklin e per Sindona cominceranno le vicissitudini
giudiziarie. Se molti volteranno le spalle al finanziere siculo, don Michele potrà
contare su altre amicizie… Secondo il giornalista “scandalista” e piduista Mino
Pecorelli – che verrà freddato a colpi di pistola da probabili emissari della banda della
Magliana – la massoneria ha favorito la fuga negli USA del bancarottiere. Per
impedirne la successiva estradizione si muoveranno molti amici spesso riferibili ai
circoli piduisti al fine di evitare la celebrazione di un processo in Italia, inevitabile
“frutto di una persecuzione comunista”.

Molti piduisti, molti viscerali “anticomunisti” fra gli amici di don Michele… Si
distinguono l’immancabile Licio Gelli in qualità di “uomo d’affari anticomunista”;
l’ex appartenente ai servizi segreti inglesi ed effettivo durante il conflitto mondiale
John McCaffery, successivamente socio in affari di don Michele; l’italoamericano
Philip Guarino, personaggio legato alle lobbies italoamericane (leggi mafia) - buon
amico, oltre che di Sindona, di Gelli e dell’ex direttore del SID Vito Miceli, anch’egli
piduista e, secondo quanto riferito da “pentiti di mafia”, affiliato a Cosa Nostra – e
che diventerà il presidente del comitato elettorale del Partito Repubblicano per
l’elezione dell’ex attore e divo hollywoodiano Ronald Reagan alla carica dei
Presidente USA; il “golpista bianco”, filoamericano, filo inglese, accanitamente
piduista ed anticomunista Edgardo Sogno; il piduista Procuratore della Repubblica di
Roma Carmelo Spaguolo; la signora della finanza italiana Anna Bolchini Bonomi,
ecc… Fra i legali al servizio di don Michele si segnala un altro piduista, il
democristiano di destra Massimo De Carolis, già leader della Maggioranza Silenziosa.

Un ambiguo soccorso verrà tentato anche dal solito Andreotti…

Intanto, per tutta la seconda metà degli anni Settanta, don Michele si agita, ricatta e
manovra e, in aggiunta, può far valere la sua reputazione di convinto assertore del
liberismo e del libero mercato e di sincero “anticomunista”… Nei confronti del socio
e fratello di loggia Calvi – con il quale condividerà il tragico destino – scatena il
provocatore Luigi Cavallo, il socio di Sogno nelle manovre “golpiste”. In quel
periodo il bancarottiere discusse probabilmente anche con l’allora capo militare della
NATO, ammiraglio Haig, massone, già uomo di punta dell’amministrazione Nixon e,
per qualche tempo, anche di quella di Reagan e “mente pensante” dei circoli
kissingeriani, neoconservatori e dei falchi repubblicani radunati intorno al CSIS
(Centro di Studi Strategici di Georgetown), sulla possibilità di un “golpe”
secessionista in Sicilia. In quel periodo gli americani intendevano procedere
all’installazione di missili Cruise nella basse di Comiso in Sicilia. Segue il misterioso
e mai del tutto chiarito falso rapimento di don Michele con il concorso di uomini di
Cosa Nostra siciliana ed italoamericana con tutto il corollario di ricatti e minacce
legati alla famosa lista dei 500, gli esportatori di valuta all’estero che si sono serviti
degli uffici di don Michele. Qualche tempo prima il bancarottiere siciliano aveva
provveduto a regolare i conti con il caparbio liquidatore della Banca Privata Giorgio
Ambrosoli, fieramente contrario ad ogni tentativo di salvataggio delle banche
sindoniane a spese dei contribuenti italiani, facendolo assassinare da un killer
italoamericano.

Come giustamente rileva la relazione di minoranza della Commissione Sindona,


nell’oscura vicenda del falso rapimento del banchiere siculo emerge un complesso e
mai del tutto chiarito intreccio di azioni ed interessi fra Cosa Nostra siciliana, Cosa
Nostra italoamericana, loggia P2 e massoneria “deviata” italoamericana, lobbies
capeggiate da anticomunisti, falchi repubblicani e oscuri personaggi italoamericani.
Per don Michele, però, non ci sarà nulla da fare: tornerà negli USA e verrà presto
estradato e processato in Italia per il delitto Ambrosoli. Il “suicidio” del bancarottiere
non troverà mai spiegazione… Da un appunto sequestrato al “faccendiere” Francesco
Pazienza, giovane massone e capo occulto di quel SuperSISMI piduista implicato in
delicate vicende come il “Billygate” – le manovre per favorire l’elezione di Reagan
danneggiando il democratico Carter - i depistaggi della strage alla stazione di
Bologna, le trattative per liberare Ciro Cirillo con il concorso del boss camorrista
Cutolo e la morte del banchiere piduista Calvi - pupillo del neoconservatore Michael
Ledeen, già uomo del think tank CSIS, fra coloro che avrebbero tratto vantaggio dalla
morte di Sindona si conterebbero soprattutto Andreotti, il Vaticano e gli americani…
A giudicare dall’avventurosa biografia di don Michele la lista dovrebbe essere molto
lunga e non dovrebbe trascurare quella comunità degli affari che aveva accolto in
grembo l’avvocato di Patti magari giovandosi del suo “talento”.

Prima di morire Sindona realizzò un’intervista con lo scrittore e giornalista americano


Nick Tosches riversata poi nel volume “Il Mistero Sindona”, all’epoca piuttosto
censurato in certe sue parti e oggi riproposto integralmente da ALET. Il giudizio di
Sindona sul mondo della grande impresa e finanza è veramente impietoso per cui non
dovrebbe sorprendere che, all’epoca, potesse sussistere un’impressionante
cointeressenza nell’eliminazione del bancarottiere. Come riportato testualmente: “Alle
origini della maggior parte dei patrimoni delle più rispettabili famiglie del mondo – i
Rothschild, i Warburg, gli Agnelli, i Pirelli, i Rockefeller, i Kennedy – ci sono svariati
guadagni illegali e relativi mancati pagamenti delle imposte. Con il passare degli anni
il denaro è divenuto pulito e ha permesso loro di entrare a far parte dell’establishment
mondiale (…)”. Provenendo da un vero esperto in materia – e probabilmente
consulente di alcune delle famiglie citate – queste parole acquistano particolare
significato ed è intuibile come molti segreti di cui è stato depositario Sindona siano
rimasti tali.

Quando il libro venne pubblicato in Italia per la prima volta da un editore craxiano,
venne censurato un passaggio in cui Sindona citava a Tosches come esempio di
riciclaggio di capitali sporchi di Cosa Nostra una piccola banca di Milano, la Rasini in
cui lavorava il padre del futuro potente tycoon e più volte presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi. D’altronde la solida amicizia fra Berlusconi e il segretario del PSI
Craxi non è mai stata un segreto per nessuno.
Nel suo volume “L’orgia del potere” (edizioni Dedalo) lo sfegatato giornalista
antiberlusconiano Mario Guarino dedica parecchio spazio al ruolo del sistema
finanziario mafioso sindoniano nell’edificazione dell’impero mediatico e del mattone
dell’imprenditore dello spettacolo Berlusconi.
In tutta la vicenda e biografia del banchiere di Patti molti sono i lati oscuri in attesa di
essere illuminati.
Una piccola curiosità, invece, sul rampante e dinamico Francesco Pazienza, che forse
avrebbe dovuto essere destinato a divenire l’erede del potere di Licio Gelli. Ai tempi
era fidanzato proprio con Marina De Laurentiis, la nipote del produttore
cinematografico Dino, amico di Sindona.
Ottima fonte di informazioni, dunque…

È, quindi, estremamente riduttivo trattare la figura di Michele Sindona solamente alla


stregua di riciclatore dei proventi criminali di Cosa Nostra siciliana e quella
italoamericana – ammesso poi che si tratti di due organizzazioni differenti – o di
massone ed eminente esponente della P2. L’amicizia con l’uomo d’affari ed
imprenditore ebreoaustroamericano Charlie Bludhorn ha solide basi finanziarie che
non risparmieranno a quest’ultimo qualche fastidio, mentre il buon don Michele
frequenta e cena spesso con l’amico De Laurentiis e la sua illustrissima consorte, la
quotata attrice Silvana Mangano, nota per aver interpretato storiche del cinema
italiano e per la passione nutrita nei suoi confronti – ma a quanto pare non ricambiata
– dall’attore e comico romano Alberto Sordi.
L’estrema confidenza fra i tre è confermato proprio da Tosches che descrisse il citato
incontro fra Bludhorn, Sindona e De Laurentiis. Si scherza, si ride, ma forse neanche
troppo…
Argomento principe: il grande successo de “Il padrino” diretto da Francis Ford
Coppola e prodotto dalla Paramount di Bludhorn.

Don Michele non nasconde una certa irritazione nei confronti della pellicola, rea di
diffondere fra i magistrati statunitensi l’idea che dietro ogni picciotto si celi un
padrino, un boss e alimentando pregiudizi nei confronti dei (pregiudicati) italiani ed
italoamericani. Non che abbia tutti i torti, ma l’atteggiamento di Sindona dà in certa
misura l’idea della mafiosità di questo personaggio. Don Michele imputa a Bludhorn
la responsabilità della produzione e della realizzazione della celeberrima pellicola
sulla saga di una famiglia mafiosa italoamericana, ma dalla conversazione a tre
emerge anche come una buona parte del merito dell’ideazione del progetto spetti allo
stesso De Laurentiis.

Bisogna comprendere l’importanza del “Padrino” che si potrebbe paragonare a ciò


che “Via col vento” è stato negli anni Trenta e Quaranta, un’opera immortale nella
storia del cinema che praticamente tutti hanno visionato. Tratta dal bestseller del
romanziere italoamericano Mario Puzo, “Il padrino” cinematografico trasforma una
vicenda di gangster in un grande affresco familiare con tinte shakespeariane e rinnova
un genere tendenzialmente considerato di serie B e privo di ambizioni artistiche od
estetiche. Torneremo a discorrere dell’opera di Coppola più avanti dopo aver aggiunto
qualche tassello in più al mosaico. È certo, invece, che prima di produrre questo
fruttuosissimo successo la casa di produzione di Bludhorn non versava in buone acque
e che, a quanto si evince dalla conversazione del trio, De Laurentiis avrebbe
desiderato tanto produrre “Il padrino”. “Così va il mondo dello spettacolo” gli
risponde Bludhorn.

That’s entertainment, insomma…


Il 1972 è un anno molto importante nella storia del cinema italiano e non solo…
È certo l’anno del “Padrino”, appunto, grandissimo successo della cinematografia
americana in cui è presente anche molta Italia, come vedremo…
È anche l’anno della legge del socialista Corona che “chiude” i contributi alle
coproduzioni estere…
È l’anno in cui, per crescenti difficoltà economiche, il più importante produttore
italiano è costretto a chiudere i suoi studi a Cinecittà (Dinocittà), dopo Hollywood la
seconda Mecca del cinema…
In poche parole la fine di Cinecittà, dei suoi studi e del suo mito si accompagna
all’inizio della fine dell’industria cinematografica italiana, all’epoca molto ammirata e
seconda per fatturato all’onnipotente e danarosa macchina spettacolare
hollywoodiana.

Intervistato dal regista Jalongo nel docu-film “Di me cosa ne sai” Dino De Laurentiis
attribuisce direttamente ai socialisti italiani e a Corona la responsabilità di aver
piegato l’industria cinematografica italiana facendogli chiudere gli studi a Cinecittà e
costringendolo a continuare la sua attività negli USA. Di lì a poco si imporrà l’astro
nascente di Craxi che molta importanza dava ai media e allo spettacolo tanto da
accarezzare l’idea di fondare un partito di “gente dello spettacolo”, un progetto che
sarebbe stato sostanzialmente realizzato dall’amico Berlusconi con Forza Italia. È
documentato, invece, come l’attività televisiva privata e commerciale del Cavaliere
sia stata incoraggiata, tutelata e alimentata da Bettino Craxi. De Laurentiis, però, dice
qualcosa di più importante e scottante al suo interlocutore ventilando l’ipotesi che
Corona, i socialisti e, nella sostanza, i partiti di governo di allora, siano stati pagati e
foraggiati dagli americani per sbarazzarsi della scomodissima concorrenza
cinematografica italiana. Il produttore campano parla evidentemente con grande
cognizione di causa avendo lavorato con gli americani sia sul patrio suolo che
oltreoceano. Nel corso degli anni Settanta, oltre a De Laurentiis, gli altri due più
importanti produttori italiani impianteranno la loro attività negli USA. Innanzitutto
l’ex socio di De Laurentiis, Carlo Ponti costretto anche da presunte vicissitudini
fiscali sue e della moglie Sofia Loren. Gli inquirenti sospettarono a suo tempo che la
coppia si fosse rivolta a personaggi riconducibili alla banda della Magliana per la
sistemazione di quelle controversie giudiziarie.

Più complesse e inquietanti, invece, sono state le disavventure del terzo produttore del
lotto, Alberto Grimaldi, coinvolto nella realizzazione di pellicole scabrose e
coraggiose quanto perseguitate come “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci
e “Salò” di Pier Paolo Pasolini. L’aura maledetta di quest’ultima opera – autentico,
terrificante e lucido manifesto sulla “deculturazione” e la violenza della società
edonista e dei consumi – è stata rafforzata dai misteriosi ed efferati episodi che l’anno
circondata: dal furto delle “pizze” con richiesta di riscatto, all’assassinio del suo
regista ancora avvolta nell’oscurità. Quasi egli stesso un perseguitato, il produttore
Grimaldi… Le minacce e il terrore per i sequestri di persona, lo convinceranno a
lasciare il paese per gli USA ove, paradossalmente, si farà produrre “Novecento” di
Bernardo Bertolucci, ultimo vero kolossal con cast internazionale dalle forti tinte
“social comuniste”, dalla major 20th Century Fox.
Quando gli opposti si incontrano…

Intanto all’inarrestabile declino del cinema italiano corrisponde l’espansione della


televisione sul modello di quella privata e commerciale. L’austero bianco e nero della
RAI viene sostituito da i nuovi sgargianti colori mentre nella giungla dell’emittenza
privata riesce ad imporsi il monopolio berlusconiano ed il suo “modello” popolare e
volgare. È la nuova Italia postmoderna che, forse, neanche lo stesso profetico Pasolini
sarebbe giunto ad immaginare…

Facciamo ancora un salto indietro nel tempo e torniamo a quel fatidico 1972 che quasi
fa da spartiacque da un’Italia a un’altra. Ma davvero è esistita una stretta connessione
fra la legge Corona, la sostanziale chiusura di Cinecittà, l’espatrio di De Laurentiis e
degli altri produttori negli USA e l’ingerenza americana ed hollywoodiana? Come
scriverebbe Pasolini ancora una volta “Abbiamo tanti indizi, qualche certezza ma
nessuna prova concreta…”. Da intellettuali se ne può scrivere…

Il 1972 è anche l’anno di quelle elezioni politiche caratterizzate soprattutto dal buon
balzo in avanti del partito parlamentare neofascista ed anticomunista MSI sulla base
degli slogan sulla “legge ed ordine” e contro gli “opposti estremismi”
extraparlamentari. In vista di quelle elezioni l’ambasciatore americano Graham
Martin, falco repubblicano e convinto anticomunista, esponente dell’”ala destra”
dell’amministrazione Nixon in parziale contrasto con il più “moderato” Kissinger,
fece affluire cospicui finanziamenti nelle mani del direttore del SID Vito Miceli – con
il quale condivideva l’anticomunismo viscerale – per foraggiare partiti, gruppi ed
associazioni ostili al comunismo e alle sinistre. L’iniziativa ha parziale successo…
Come abbiamo visto, Miceli era anche piduista, ottimo amico sia di Gelli che di
Sindona. Implicato in vicende come il golpe Borghese, la “Rosa dei Venti”, il
SuperSID, in posizione mai totalmente chiarita, Miceli era sicuramente il tipico
esponente della destra italiana di allora e, infatti, quando sarà costretto a dimettersi dal
servizio segreto militare, sarà proprio l’MSI di Almirante a gettargli la ciambella di
salvataggio candidandolo alle successiva politiche del 1976. Ciò per rammentare
come i nomi ed i cognomi di taluni attori principali, secondari e comprimari ricorra
spesso…

Siamo, invece, sicuri che l’attivismo dell’Ambasciata americana e dell’ambasciatore


Martin con relativo e costante flusso nell’ordine dei milioni di dollari sia
esclusivamente servito per le operazioni “anticomuniste” ed antiPCI? All’interno
delle ambasciate statunitensi di tutto il mondo esiste tuttora una sezione che si occupa
della diffusione della cultura americana nel mondo – leggi egemonia. Pare che tale
sezione dedichi molte energie e risorse alla promozione, alla diffusione e alla vendita
dei prodotti cinematografici hollywoodiani. Una buona simbiosi fra gli organismi
diplomatici e la major hollywoodiane, quindi… Come si comportò tale organismo nel
frangente descritto, in quel 1972 che fu sciagurato per il cinema italiano? Davvero
non fu estraneo all’eventuale tentativo di arginare la concorrenza italiana? Non siamo
in grado di scendere nei dettagli sulla sezione “italiana” di questo organismo
dell’Ambasciata americana… Probabilmente fa capo all’USIS (United States of
Information Service), l’organo dell’Ambasciata creato per la diffusione della cultura
americana al quale un manuale delle forze speciali dell’esercito americano attribuisce
una certa importanza per le operazioni di “guerra psicologica” – leggi propaganda.
L’USIS assunse una certa notorietà per il fatto che vi avesse lavorato un giovane
Corrado Simioni, ex socialista autonomista ed anticomunista e “compagno” di Craxi e
Larini espulso poi dal partito per imprecisati motivi di “indegnità morale”.
Uomo carismatico e colto, dopo aver lavorato alla Mondadori, alla fine degli anni
Sessanta si avvicinerà all’ultrasinistra extraparlamentare capeggiando un’oscura ala
scissionista delle BR.

Fuoriuscito in Francia con i “compagni” lottarmatisti fonderà una enigmatica scuola


di lingue a Parigi denominata prima Agorà e poi Hyperion che si sospetta aver
fomentato ed alimentato l’”euroterrorismo” e BR in primis con il più che probabile
coinvolgimento nell’”affaire Moro”. I sospetti che Simioni avesse intrecciato rapporti
intensi con i servizi segreti americani e con la NATO non sono mai stati dissipati.

A questo punto è quantomeno chiaro che nella contesa e concorrenza fra Hollywood e
la cinematografia italiana si è giocato ad armi impari e con mezzi non proprio puliti.
Costretto a vendere gli studi a Cinecittà in seguito alle legge Corona, De Laurentiis ha
bisogno di denaro ed è proprio l’amico Sindona a fare in modo che la Franklin – la
sua banca americana – gli presti un milione di dollari garantiti dalla Banca
Commerciale Italiana, vera acquirente dei suoi studi cinematografici attraverso la
società immobiliare SAINDA. Sindona interviene in puro spirito di amicizia oppure
non è disinteressato e agisce per conto terzi? Non dimentichiamoci che Sindona è,
appunto, anche amico di Bludhorn ed egli stesso coltiva interessi nella Paramount. E a
proposito delle possibili cointeressenze – grandi gruppi, lobbies, consorzi d’affari –
coinvolte nelle manovre sindoniane nell’ambito dell’editoria, dello spettacolo, della
cinematografia e della televisione si possono fare le ipotesi più disparate in aggiunta
quelle già prospettate (americani e major hollywoodiane). Fermiamoci per un attimo
alle domande…

Coloro che hanno “pagato” per la legge Corona, sono coinvolti nello smantellamento
di Cinecittà e nel prestito offerto da Sindona all’amico De Laurentiis?

Sono stati Sindona & soci – che è possibile a questo punto ritenere come
rappresentanti degli interessi di lobbies magari italoamericane ed ebreo americane
legate alle major hollywoodiane – a convincere De Laurentiis a lasciare
definitivamente il paese e ad approdare nel “Nuovo Mondo”?

Chi ha “assassinato” il cinema italiano?

Comunque si può tranquillamente affermare che negli USA De Laurentiis non sarà
più un “produttore italiano” ma entrerà nei meccanismi dell’industria cinematografica
di quel paese da vero “produttore americano” cercando di offrire i tipici prodotti
filmici – peraltro spesso costosissimi – degli USA. Una parabola comune a molti
produttori, autori, registi ed attori europei ed orientali sbarcati alla corte di Hollywood
e costretti a “snaturare” il loro lavoro. Inoltre, anche in questo caso, è spontaneo farsi
domande circa l’identità di coloro che finanziarono l’avventura americana – certo non
molto fortunata – di Dino De Laurentiis.

Qualche cenno alla produzione cinematografica tipicamente americana del produttore


campano:
si ricordano alcuni grandi successi o, comunque, pellicole note ai cinefili come
“Serpico” dell’esperto Sidney Lumet con l’astro nascente Al Pacino (1973); il
famigerato e reazionario ”Il giustiziere della notte” di Michael Winner con il granitico
Charles Bronson (1974); “I tre giorni del Condor”, celebre spy story diretta dal
compianto Sidney Pollack ed interpretata dal divo “liberal” Robert Redford (1975) o
il costosissimo e classico poliziesco, sorta di “Padrino” in salsa cinese, “L’anno del
dragone” di Michael Cimino, regista che legò le sue fortune soprattutto alla pellicola
“postvietnamita” “Il cacciatore”, ed interpretato da un Mickey Rourke emergente ed
in gran forma (1985). Dal punto di vista del mero “rientro economico” il maggior
successo del Dino De Laurentiis Group è stato il primo remake del classico film di
mostri “King Kong”, peraltro mediocre pellicola con una giovane Jessica Lange
(1976). Ciononostante la carriera americana ed hollywoodiana di De Laurentiis
conosce indubbiamente più clamorosi flop ed insuccessi che campioni di incassi. I
maggiori guai vengono sul versante fantascientifico e fantastico ove De Laurentiis ha
preteso di concorrere con l’accattivante immaginario delle factories di Steven
Spielberg e di George Lucas. Con i vari “Guerre stellari”, “Incontri ravvicinati del
terzo tipo, “ET” per intendersi… E sono milioni di dollari bruciati e mai recuperati,
investiti in improbabili pellicole come il terribile “Flash Gordon” che riprendeva un
celebre fumetto molto in voga negli anni Venti e Trenta o “Dune”, forse il peggior
film del visionario regista David Lynch nel quale De Laurentiis coinvolse la consorte.
Costretto al fallimento e fuori dal circuito “hollywoodiano”, il nostro ha ripreso la
consueta attività da produttore come indipendente. L’ultimo film prodotto dalla
“fabbrica” di Dino De Laurentiis è stato l’improbabile seguito del classico del
thrilling e dell’horror “Il silenzio degli innocenti” ovverosia “Hannibal” (2001) che
coinvolse nell’impresa il talentuoso regista Ridley Scott ormai però lontano dai tempi
dei felici esordi con “I duellanti”, “Alien” e, soprattutto, quel capolavoro della
fantascienza “futurista” che è “Blade Runner” tratto da Philip K. Dick.
Le doti professionali di Dino De Laurentiis sono generalmente e giustamente
riconosciute, ma, sicuramente, il nostro verrà ricordato per quanto ha fatto in Italia
piuttosto che negli USA. Chissà cosa pensa oggi di quelle antiche amicizie americane-
hollywoodiane ed italoamericane?

A questo punto vorrei fare con voi un piccolo esercizio di immaginazione, un


minuscolo sforzo di “dietrologia” da buon peccatore nel senso andreottiano del
termine…

Tre amici: da un lato Charlie Bludhorn della Paramount, dall’altra Dino De


Laurentiis, il più importante produttore cinematografico italiano…

In mezzo il banchiere Sindona e chi per lui…

La posta in gioco, una superproduzione destinata a fare un incredibile successo al


botteghino: “Il padrino”…

Perché il film in questione non è una qualsiasi pellicola, ma l’opera destinata a


cambiare il volto del cinema internazionale con quella sua originale commistione fra
antico ed innovazione, perché, oltre a rifarsi alla tradizione storica del cinema italiano
– come dichiaratamente ammesso dal regista – apre le porte alla cosiddetta “New
Hollywood”, un nuovo modo di intendere e fare cinema anche per le produzioni
mainstream affrontando temi “forti” e rappresentando in maniera esplicita la violenza.
Per quanto se ne possa discutere… Per quanto si possa discettare sulla mitizzazione
degli “uomini d’onore” che il kolossal esibisce o, al contrario, sulla successiva
diffusione di stereotipi sugli italiani come lamentato da don Michele, “Il padrino”
rimane una pietra assai preziosa nella miniera di celluloide consacrando il suo
protagonista, il leggendario e controverso Marlon Brando – il quale venne premiato
con un Oscar che rifiutò di ritirare per protesta contro il razzismo – fra le icone
indimenticate dello scorso secolo. Chi non ricorda il romanzesco e, a suo modo,
“romantico” padrino don Vito Corleone?
Eppure è innegabile come vi sia “molta Italia” nel capolavoro targato Paramount.
Come anticipato, il film è tratto dal bestseller dello scrittore italoamericano Mario
Puzo che, ovviamente, guadagnò una fortuna e campò praticamente con la rendita
della fama di autore del “Padrino”.
Italoamericano è pure il giovane regista Francis Ford Coppola che, come altri talenti
italoamericani quali Martin Scorsese e Michael Cimino, aveva mosso i primi passi
nelle produzioni indipendenti e a basso costo. Quella “fortunata” generazione era stata
allevata quasi in toto nel mondo del cinema indipendente e di “serie B” fra cui si
distingueva la factory del filmaker Roger Corman specializzato in prodotti a
bassissimo costo per i canoni “americani”. Per chi si intendesse un poco di cinema è
chiaramente percepibile nei fotogrammi del “Padrino” il cospicuo debito nei confronti
del cinema italiano e, in special modo, nella lunga sequenza iniziale che omaggia “Il
Gattopardo” e il cinema di Luchino Visconti.
L’autore della celebre colonna sonora è Nino Rota, il compositore di fiducia di
Federico Fellini.
Oltre a proiettare Marlon Brando nella leggenda – alimentata anche dal successivo
“Apocalypse Now” sempre di Coppola – “Il padrino” lancia nel firmamento delle
stelle del cinema il giovane attore italoamericano Al Pacino, così come il seguito
sempre diretto da Coppola donerà fama ad un altro mostro sacro italoamericano come
Robert De Niro.
Fra gli altri volti presenti sullo schermo sono riconoscibili attori italiani fra cui Franco
Citti, l’amico borgataro del poeta-regista Pasolini.
E fermiamoci qui…

È comprensibile, quindi, che Dino De Laurentiis, quantomeno coinvolto inizialmente


nel progetto, volesse partecipare in veste di “coproduttore”, in quella che si
prospettava come una grande coproduzione fra USA e Italia, ma gli sviluppi sono stati
diversi e la Paramount, allora in crisi, si è appropriata del “Padrino”, un grandissimo
successo sicuramente in grado di partecipare all’impulso economico di qualsiasi
industria cinematografica.

In quel 1972, come ho illustrato, un “concorso di eventi” ha condotto altrove il


cinema italiano…

Ci sono buoni motivi per pensare che Dino De Laurentiis sapesse e che alla fine si
fosse “rassegnato” a lasciare l’Italia per fare il “produttore americano”. Nella grande
“comunità degli affari” certe cose vanno dove devono andare…

Così la Paramount ha vinto e con lei il sistema delle major hollywoodiane soprattutto
nelle persone di coloro che vi investivano e vi investono ingenti capitali…

In fondo proprio Bludhorn aveva risposto all’amico italiano che desiderava tanto
produrre “Il padrino” che “Così và il mondo dello spettacolo”.

Appunto… Come si suole ricordare in America: “That’s entertainment!”


Che gran sforzo di fantasia, non è vero? Ma siamo poi tanto lontani dalla realtà del
mondo dello spettacolo?

A pensar male…

La domanda ancora attende una risposta: chi ha assassinato il cinema italiano?

La verità si annida nel contesto…

HS
Fonte: www.comedonchisciotte.org
12.11.2009

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