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Negli ultimi anni sono spariti milioni di spettatori. Inchiesta su un grande mistero
italiano.
Parafrasando il refrain di un vecchio e celebre motivo della fine degli anni Settanta
potremmo riassumere gran parte del senso di questo notevole lavoro documentario
filmico scandendo sul flusso della musica le seguenti parole: “Video killed the
(Italian) cinema stars” perché, se è vero che la cinematografia nostrana ha subito i
pesanti colpi assestati dalla potente macchina spettacolar – hollywoodiana, non si può
tacere che in questo inarrestabile declino abbia giocato l’affermazione progressiva
dell’emittenza televisiva privata. Anzi... Nonostante le apparenze la radio gode ancora
di ottima salute. Secondo Valerio Jalongo – già autore de “Sulla mia pelle” – potrebbe
esistere qualche nesso fra queste forze, come vedremo più avanti…
Pare che dopo la prima proiezione presso il cinema Mexico di Milano il nostro
Jalongo abbia rivelato che per Fellini il Cavalier Silvio Berlusconi era semplicemente
il “gangster”. Non si conosce la fonte di questa curiosa notiziola che, se confermata,
ci fornirebbe l’ulteriore prova di come la mancanza di scrupoli di Sua Emittenza –
attuale e discusso Capo di Governo – non fosse totalmente ignota ed estranea agli
ambienti dello spettacolo. In ogni caso Fellini condusse contro il Cavaliere una
battaglia legale forse persa in partenza… Nell’ultima parte della sua vita e della sua
carriera cinematografica ricca di riconoscimenti internazionali, Fellini si fece più cupo
e pessimista. Il rumoroso, vitale e grottesco circo che accompagnava le sue pellicole
era improvvisamente diventato malinconico e “lunare”. “Ginger e Fred”, ad esempio,
era chiaramente una caustica satira che puntava il dito sulla società dei media e sulla
televisione italiana allora divisa fra la RAI che risentiva sempre più l’impronta
craxiana – il Presidente della RAI era un certo Enrico Manca, craxiano di ferro il cui
nome compare nella lista conosciuta della loggia P2 – e la TV dell’emergente e
rampante Berlusconi. Insomma gli albori dell’era dei “nani e della ballerine” che
ormai hanno invaso lo spazio virtuale e reale imponendosi in una società che si è
ormai “spettacolarizzata” nel senso più deteriore del termine. Insomma anche questo è
stato Federico Fellini…
La scomparsa di una meraviglia del genere non può non essere trattata alla stregua di
un “mistero”, l’ennesimo “mistero d’Italia” e sappiamo benissimo come ogni
“mistero” – in Italia – altro non è che un delitto su cui investigare per fare emergere
moventi e per scoprire il colpevole e – più spesso – i colpevoli. Come persona
interessata ai “misteri” della nostra storia ma anche come discreto amante del cinema
– buono ma anche meno buono – ho deciso quindi di visionare il documentario di
Valerio Jalongo nell’unica sala milanese disponibile, il cinema Mexico celebre per
aver contribuito qui in Italia a rendere cult un piccolo gioiello musicale underground
come il “The Rocky Horror Picture Show” con una giovanissima Sarandon.
Periodicamente l’esercente Sancassani fa proiettare il “The Rocky” per la gioia di fan
incalliti che si vestono, cantano e ballano come i protagonisti sullo schermo. Il
Mexico, però, è molto altro…
Cinema d’essai e piccolo luogo di resistenza all’invasione americanizzante,
hollywoodianizante e berlusconizzante delle multisale ha tenuto in cartellone per circa
un anno e mezzo il piccolo capolavoro d’esordio di Giorgio Diritti “Il vento fa il suo
giro”.
Sancassani dimostra tutto il suo coraggio anche concedendo – unico a Milano – la sala
per la proiezione di un documentario senz’altro scomodo come quello di Jalongo. In
effetti, avendo il sottoscritto assistito anche alla proiezione del più noto “Videocracy”
e azzardando un confronto fra i due docu-film, l’impressione che ne ho ricavato è che
tutto sommato, malgrado la promessa di illustrare gli ultimi trent’anni di storia della
televisione italiana, l’opera di Erik Gandini si sia limitata a fotografare l’esistente in
maniera piuttosto scontata e con un labile tentativo di approfondimento. I reality, le
vicende e le vicissitudini di personaggi come Lele Mora e Corona in qualche modo
essi stessi saltimbanchi del circo berlusconiano, la base sostanzialmente impolitica e
apolitica del consenso al Cavaliere, molto mediatica e televisiva, invece… Si tratta di
elementi, eventi, circostanze ormai note ai più – naturalmente fra coloro che hanno
tempo, voglia e volontà di informarsi – mentre non si aggiunge una virgola circa le
radici della nostra deriva culturale, morale ed intellettuale. Videocrazia è termine già
usato e abusato ripetutamente anche in sede analitica per designare questo
coinvolgimento apparente, illusorio e manipolatorio della massa nei meccanismi dello
spettacolo televisivo. “Videocracy” ha potuto godere dell’indiretta pubblicità offerta
dalla censura targata RAI del relativo trailer generando aspettative che, per quanto mi
riguarda, sono state deluse. Alla fine l’”antiberlusconismo” di Jalongo risulta molto
più saldo di quello di Gandini lasciando in ombra gli aspetti più politici del Cavaliere
ed affrontando piuttosto di petto, invece, quelli (sotto)culturali. In definitiva la visione
de “Di me cosa ne sai” completa ed integra ampiamente quella di “Videocracy”.
“Di me cosa ne sai” nasce soprattutto per portare alla luce l’esperienza del movimento
di autori Ring creato per fronteggiare la situazione di “eterna crisi” del cinema
italiano. In sintesi lo sviluppo di questo documentario procede su tre binari differenti.
Il primo accompagna il povero regista Felice Farina nel suo tentativo quasi decennale
di fare uscire e distribuire un suo film proprio per mostrarci quanto oggi sia arduo fare
cinema. Il secondo viaggia a ritroso nel tempo per illustrare come è stato possibile
smantellare sostanzialmente l’industria cinematografica italiana. Il terzo, infine,
assume la prospettiva presente anche intervistando addetti ai lavori e famosi registi di
caratura internazionale. L’esordio, citando i versi di Pasolini e inserendo le immagini
dell’atroce “Salò” dello stesso, è indubbiamente efficace e di forte impatto. Il poeta
friulano comprese in tempi non sospetti la deriva edonistica e consumistica della
società postmoderna, i guasti della società dello spettacolo e la conseguente
decadenza morale che avrebbe condotto ad una mentalità esclusivamente
appropriativa e ad una violenza sempre più gratuita nel nostro paese. Gli anni del
terrorismo sono dietro l’angolo ma non solo… Il riferimento pasoliniano ai processi di
deculturazione italiana viene consapevolmente agganciato alla demolizione
dell’industria cinematografica nostrana che di quella tendenza sarebbe parte o
declinazione da non trascurare. È noto poi come Pasolini detestasse la televisione,
quella che era ancora la TV in bianco e nero monopolizzata dalla RAI le cui cure
pubblicitarie erano state affidate alle ingenue mani di Carosello. L’intellettuale, il
poeta, lo scrittore e regista friulano esagerava o, più semplicemente, considerata la sua
sensibilità e l’intuito fuori dal comune, aveva semplicemente “visto prima”,
anticipato? Quel che è certo è che i fatti si sono incaricati di dare ragione a Pasolini su
molte delle cose che scriveva o rappresentava…
Ma , secondo l’autore, quali sono state le modalità con cui l’industria cinematografica
italiana è stata azzerata? Dovendo prestare attenzione all’aspetto più genuinamente
produttivo, distributivo, in sostanza economico, della questione Jalongo ha
“registrato” le preziose affermazioni dello storico, anziano produttore Aurelio De
Laurentiis – oggi anche presidente del Napoli Calcio – il quale è recentemente tornato
dagli USA dopo una trentennale permanenza in quel paese ed alterne fortune. Nel
secondo Dopoguerra, come conseguenza della vittoria degli angloamericani, si è
assistito ad un’invasione fuori controllo delle pellicole d’Oltreoceano senza che
potessero essere approntate le necessarie tutele da parte della nostra giovane
Repubblica appena nata e ancora troppo fragile. In qualche modo gli americani hanno
sempre guardato al nostro paese come ad una terra di conquista sia pure con mezzi
economici (e culturali). Nel 1949 un’imponente manifestazione degli addetti ai lavori
del cinema – fra gli altri nelle immagini sono riconoscibili la grandissima Anna
Magnani e Vittorio De Sica – si rivolse al governo perché prendesse provvedimenti
utili a contenere l’invasione cinematografica a stelle e strisce e a rilanciare le pellicole
nazionali. De Laurentiis è sferzante e netto nei suoi giudizi sui politici italiani: tutti
costoro - dai democristiani ovviamente fino agli stessi comunisti i quali si sono
sempre fatti un vanto di sostenere la cultura nazionale nelle sue varie forme –
avrebbero detestato il cinema italiano perché generalmente critico nei confronti dei
politici. Basterebbe citare quel cinema di impegno civile e politico che ha fatto la
fortuna dei Rosi, dei Petri ma anche di un autore più “popolare” come Damiano
Damiani più recentemente noto come regista della serie TV sulla mafia di successo
“La Piovra”. Si comprende come già in queste affermazioni risieda una parte delle
cause che hanno concorso a determinare il declino del cinema italiano. Tuttavia il
produttore napoletano riconosce all’allora giovanissimo Giulio Andreotti, già ministro
e navigato uomo politico democristiano, lungimiranza, apertura e un’ottima
prospettiva assunta per quel che riguarda il problema mosso nella citata
manifestazione di registi, attori, sceneggiatori, ecc… Nel 1950 si fece promotore di
una legge che consentiva alle coproduzioni di usufruire degli incentivi statali e ciò
aprì le porte dell’Italia e di Cinecittà a inglesi, tedeschi, spagnoli e, soprattutto,
americani interessati a sfruttare le locations italiane. Cinecittà divenne meta dei divi
più gettonati di Hollywood e, grazie anche alla disponibilità italiana vennero girati
kolossal a sfondo storico soprattutto in coproduzione con gli americani. Si pensi solo
a “Quo vadis” o a “La Bibbia”. Il resto è noto: i successivi venti anni furono gli anni
d’oro del cinema italiano che giunse a concorrere alla pari con il colosso
hollywoodiano. Poi arrivarono i maledetti, terribili anni Settanta…
Nel 1972 la legge Andreotti venne soppiantata dalla nuova normativa promossa da un
socialista, tale Corona – l’omonimia con il “paparazzo” che ha riempito le cronache
odierne è casuale e curiosa – in base alla quale avrebbero potuto accedere ai
finanziamenti pubblici solo le pellicole ad intera produzione italiana. È l’inizio della
fine perché erano proprio i capitali affluiti in Italia grazie alle coproduzioni che il
cinema italiano aveva potuto prosperare ed essere ammirato nel mondo. Con qualche
malizia Jalongo introduce immagini dell’astro nascente del PSI, quel Bettino Craxi
che ha avviato la stagione del rampantismo e dello yuppismo più spregiudicati
accogliendo sotto la sua alla protettiva imprenditori emergenti come Silvio
Berlusconi.
A metà degli anni Settanta, nell’arco di appena tre anni, i tre maggiori produttori
italiani lasceranno il paese per approdare ai più floridi lidi statunitensi. Secondo De
Laurentiis fare cinema in Italia era diventato impossibile. I coniugi Ponti – Loren, con
ottime entrature ed amicizie in ambito hollywoodiano, abbandonano l’Italia per
sopravvenute questioni fiscali. Mi pare di ricordare che a suo tempo si sospettò la
celebre coppia di aver chiesto aiuto a personaggi legati alla famigerata banda della
Magliana per dirimere tali controversie. Più complicata la vicenda di Alberto
Grimaldi, proprietario della PEA cinematografica e produttore di pellicole scandalose
come il celebre “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Nel 1975 Grimaldi
aveva in cantiere ben quattro importantissime produzioni tutte destinate a far
discutere: “Casanova” di Federico Fellini; il citato “Salò” di Pierpaolo Pasolini;
“Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi – tratto da Sciascia e fortemente polemico nei
confronti del Compromesso Storico -; “Novecento” di Bernardo Bertolucci –
produzione quest’ultima assai impegnativa anche per la presenza di un folto e
formidabile cast internazionale. Cominciano i guai… Il documentario cita l’episodio
del furto delle “pizze” dell’opera di Pasolini e il relativo tentativo di ricatto ed
estorsione. Questa circostanza verrà ricordata anni dopo dal regista, sceneggiatore e
collaboratore di Pasolini Sergio Citti poco prima della sua morte. Proprio in quel
frangente il 2 novembre 1975 verrà assassinato lo scandaloso poeta friulano quasi
certamente vittima di un complotto i cui contorni hanno cominciato ad emergere solo
recentemente. Per anni lo stesso Grimaldi vivrà nel terrore di essere rapito con la sua
famiglia, mentre la magistratura si accanì sulle sue opere come “Ultimo tango” e
“Salò”. Anche lui lascerà l’Italia per gli USA e “Novecento”- da molti ritenuto opera
di propaganda comunista – verrà finanziato da due celebri major americane. Sono
anni difficili, anni convulsi per il paese che attraversa un’escalation di inusitata
violenza stragista, terrorista, criminale e “diffusa”, ma ci sono anche gli interessi, le
lotte per il potere e le “guerre di mercato”. De Laurentiis ipotizza che la legge Corona
– che assestò il primo pesante colpo all’industria cinematografica italiana – venne
concepita per venire incontro ai desiderata degli americani. Evidentemente
Hollywood non poteva accettare la concorrenza italiana e si regolò di conseguenza…
Si tratta di dichiarazioni provenienti da una fonte che ben conosce non solo gli
ambienti dei produttori e dei distributori italiani ma anche il potente sistema delle
major hollywoodiane. Ciò è molto interessante anche per poter analizzare ed
“investigare” sugli eventi successivi compreso il “trasferimento” di De Laurentiis,
Ponti e Grimaldi in America.
Non dimentichiamo che quelli sono anche gli anni di una paura diffusa fra certi settori
dell’”alta borghesia” imprenditoriale e della classe dirigente nei confronti del
Compromesso Storico fra democristiani e comunisti, paura che, nella maniera più
immediata, si concretizza con la fuga di ingenti capitali all’estero.
Dal punto di vista della distribuzione e della produzione cinematografica i rubinetti
dei finanziamenti cominciano a chiudersi con il conseguente calo dei fatturati…
Sarà forse un caso, ma gli anni della legge Corona sul cinema e l’esodo dei maggiori
produttori cinematografici italiani coincidono con la normativa che cominciò a
spezzare il monopolio televisivo della RAI. Inizialmente si concesse alle piccole
emittenti televisive (ma anche radiofoniche. Chi non ricorda fra i cinquantenni la
stagione delle “radio libere”) di trasmettere localmente, ma nel successivo deserto
legislativo e nella giungla del mercato dei canali televisivi commerciali prosperò quel
soggetto più spregiudicato e privo di scrupoli che oggi tutti ben conoscono.
Dapprincipio furono forse in pochi a prevedere quegli sviluppi, tuttavia è utile dare
un’occhiata a quei soggetti che si precipitarono immediatamente nell’avventuroso
mondo delle emittenti commerciali. Si pensi solo a Tele Malta degli editori Rizzoli,
gli stessi che assecondarono l’assalto piduista al Corriere della Sera con il concorso
del banchiere piduista Roberto Calvi, quello che, per intenderci, è stato “impiccato”
sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra; a Tele Torino su cui si stagliava l’ombra
dell’aristocratico piduista e golpista “bianco” Edgardo Sogno, “eroe” della resistenza
“antifascista” ed “anticomunista” con intensi contatti americani ed inglesi; e ancora
alla storica Antenna 3 cofondata dal presentatore Enzo Tortora a quei tempi
simpatizzante della destra prima delle note avventure giudiziarie che lo hanno anche
avvicinato ai radicali di Pannella. Sarà forse un caso… In quegli anni le prime
emittenti televisive locali avevano budget e palinsesti modesti: piccoli spettacoli di
intrattenimento, vecchi film, giochi per ragazzi, quiz, spogliarelli notturni, ecc…
Sicuramente determinate forze politiche ed economiche compresero più e meglio
delle sinistre le potenzialità del mezzo dal punto di vista culturale e furono altrettanto
leste a cogliere il senso della cultura “popolare” o “bassa”. Prigioniera di un certo
snobismo culturale ed intellettuale – almeno fra le generazioni non più giovani – la
sinistra egemonizzata dal PCI, troppo occupata nei suoi distinguo fra cultura “alta” e
subcultura, si mosse con estremo ritardo, mentre le nuove destre – di marca
“postfascista” e neoconservatrice – si giovarono delle possibilità offerte dai nuovi
media, dallo spettacolo e dall’intrattenimento “popolari” oltre che della centralità dei
meccanismi pubblicitari. Questo discorso può essere esteso oltre i nostri confini:
alfiere del nuovo neoliberismo e neoconservatorismo anglosassone non fu forse l’ex
star di Hollywood e delatore ai tempi del maccartismo Ronald Reagan che, fra l’altro,
incoraggiò il successo della propagandistica serie dei film di “Rambo”? Quanto vi sia
poco di casuale in queste tendenze è dimostrato proprio da quell’ormai celebre e
citatissimo Piano di Rinascita Democratica della loggia P2 controllata dall’ineffabile
Venerabile Gelli al centro di mille trame e mille misteri italiani. Accanto all’obiettivo
di condizionare pesantemente l’informazione della carta stampata, Gelli & c. si
proponevano di “dissolvere la RAI TV – evidentemente ritenuta troppo sbilanciata a
sinistra (corsivo mio) – in nome della libertà di antenna”. Alla luce di tali intenti non
stupisce l’interesse nei confronti della televisione privata e commerciale da parte degli
iscritti alla P2 compreso il Cavalier Silvio Berlusconi ed è poi curioso notare come
analoga attenzione nei confronti dell’informazione e dei “nuovi” media domestici è
prestata dalla Trilateral di Rockfeller e soci, l’organismo messo in piedi da noti
finanzieri, politici, diplomatici banchieri, imprenditori e dipendenti eccellenti delle
multinazionali per diffondere il Verbo neoliberista. Tutto ciò odora molto di
manipolazione tenuto conto delle note diffidenze nei confronti della democrazia e
della partecipazione da parte dei soggetti summenzionati. Per converso fra gli
intellettuali di “sinistra” Pasolini fu tra i pochissimi ad assumere una visione olistica e
a capire la portata della cultura intesa nella sua interezza, senza trascurare gli aspetti
sub culturali fino a quelli rientranti nell’ambito dell’incultura e della deculturazione.
Dai fermenti giovanili del Settantasette al cosiddetto Riflusso, quel ripiegamento nel
privato che si è letteralmente “mangiato il politico” il passo è veramente breve e la
nuova televisione commerciale ha assunto un indubbio ruolo in tutto questo. “Video
killed the cinema stars”: inizia l’emorragia di spettatori dalle sale cinematografiche
favorita progressivamente anche dal mercato dell’home video che introduce il cinema
fra le mura domestiche. La nuova televisione a colori, ritenuta da molti come
l’autentico spartiacque del mutamento culturale ed antropologico italiano, attira e, a
non pochi, piace… Fra tante avventure catodiche di breve respiro, solo quella del
giovane Cavalier Silvio Berlusconi, buon pupillo di Gelli, resiste: divenuto presto
padrone incontrastato della concessioni pubblicitarie, il nostro si concentra anche
sulla programmazione cinematografica in televisione facendo incetta di pacchetti di
film come quelli del magazzino della Titanus di Goffredo Lombardi. Responsabile di
questa linea era allora il giovane Freccero che una ventina d’anni dopo si sarebbe
occupato della programmazione del canale Italia Uno, l’emittente giovanile
dell’impero berlusconiano Mediaset. Fino ad allora la televisione nazionale – anche a
causa delle limitare possibilità offerte dal “bianco e nero” – non aveva dato molto
spazio alla trasmissione di pellicole cinematografiche, ma da un giorno all’altro gli
schermi vengono letteralmente invasi da film anche piuttosto recenti. Sarebbe inutile
ribadire quanto ciò abbia contribuito alla diserzione degli spettatori dai cinema. Più
comodo, senz’altro meno faticoso assistere seduti in poltrona ad una proiezione…
Questo sunto della nostra storia “mediatica” non è presente nel documentario di
Jalongo che, invece, concede ampio spazio alla contesa fra il regista Fellini e
Berlusconi sulla questione delle interruzioni pubblicitarie durante la trasmissione di
film in televisione, ma la connessione fra il declino dell’industria cinematografica e
l’inarrestabile affermazione della televisione commerciale e “pubblicitaria”
berlusconiana non è solamente suggerita… Anzi il regista si mostra convinto dello
stretto rapporto fra lo strapotere delle major americane ed hollywoodiane in Italia e
l’egemonia della televisione berlusconiana… Nello stesso pugno di anni la legge
Corona, le trasferte americane più o meno indotte dei De Laurentiis, dei Ponti, dei
Grimaldi, la progressiva occupazione dell’etere di canali patrocinati da determinati
settori economici e politici, ecc… Sorgono domande spontanee – quantomeno a me:
gli americani e Hollywood hanno ugualmente condizionato il socialista Corona per
arginare la concorrenza italiana e hanno avuto qualche ruolo nelle vicende che hanno
coinvolto De Laurentiis e gli altri? Al contempo potrebbero realmente aver foraggiato
l’impero televisivo berlusconiano per boicottare il nostro cinema? Domande che
rimandano al vecchio leit motiv, l’antico adagio: quale è l’origine delle fortune
berlusconiane da Milano 2 alla televisione? Quali sono stati – e forse sono tuttora – i
rubinetti dell’impero Mediaset/Fininvest/Publitalia/Edilnord?
Domande non facili a cui dovranno essere fornite risposte complesse che non possono
esaurirsi nella riproposizione stantia del mito dell”uomo che si è fatto da solo”.
Qualche raggio di luce filtra fra le nuvole e possiamo intravedere i colori di quei
capitali… Le banche sindoniane e quelle a conduzione socialista e craxiana, la loggia
P2, Cosa Nostra siciliana, ecc… “Di me cosa ne sai” suggerisce l’intervento di altri
soggetti: quelle potentissime major hollywoodiane che hanno imposto il loro dominio
incontrastato sulla cinematografia mondiale. Non possiamo escludere a priori
l’intervento di quelle lobbies che molto investono sulla macchina spettacolare
hollywoodiana, probabilmente e prevalentemente italoamericane (leggi mafie
italoamericane) ed ebraiche, con l’aggiunta magari di potenti organizzazioni settarie
sul modello di Scientology la quale ha esercitato ed esercita un forte ascendente su
alcune delle più note star e attori di Hollywood come Tom Cruise – da alcuni
considerato addirittura il vero capo – e John Travolta. Domande che ancora attendono
risposte… Domande attinenti all’ennesimo “mistero italiano”… Chi e perché ha
ucciso il cinema italiano ?
Forse, ma non bisogna farsi eccessive e soverchie illusioni, qualche risposta verrà
dall’inchiesta giudiziaria sulla compravendita dei diritti cinematografici americani da
parte della Mediaset…
Quel panorama si divide fra il dominio globale e globalizzante del cinema a stelle e
strisce e quella televisione berlusconiana molto casereccia, becera e provinciale che
ha invaso la casa di ogni famiglia italiana, volente o nolente…
Il “mistero” dell’assassinio del cinema italiano non può essere svelato, ma noi
sappiamo…
Dobbiamo accontentarci – al momento – di quella Verità che non può essere espressa
e che attende, come e soprattutto in altri casi, di essere pronunciata…
Torniamo ancora una volta a quei giovani che ignoravano l’esistenza, la storia e il
ruolo di un grande regista come Fellini, chiudiamo gli occhi e pensiamo per una volta
ancora a questo paese in cui il virtuale ha letteralmente divorato il reale, in cui il
reality ha preso il posto della realtà, in cui il voto più importante è quello del “Grande
Fratello” e l’Italia che conta quella “vippara” dei presentatori ed anchor man
televisivi, dei cantanti, degli attori, dei calciatori, delle veline, delle pornostar, ecc…
Nel preciso istante in cui “immaginiamo” un paese del genere, un mondo che ha
sganciato da sé ogni residuo di realtà, cominceremmo anche ad attendere con ansia
che qualcuno “racconti” quel paese, qualcuno che recuperi la realtà.
Scopriremmo che, se nulla sappiamo del glorioso cinema del nostro passato,
ugualmente conosciamo del nostro presente e della nostra contemporaneità…
“Di me cosa ne sai”: visione vivamente consigliata e, se verrà pubblicato il DVD, non
lasciatevi sfuggire l’occasione…
THAT’S ENTERTAINMENT!
Interno: la suite di un prestigioso hotel di New York, l’Hotel Pierre in cui si ritrovano,
come per gradevole abitudine, tre grandi amici, tre uomini molto diversi fra loro ma
accomunati da alcuni aspetti della propria biografia e della propria esistenza certo non
secondari rispetto alla storia che stiamo per raccontare…
Innanzitutto non sono persone normali, comuni mortali che conducono una vita
normale contrassegnata dai quei problemi ordinari, familiari e di lavoro, che assillano
abitualmente pure i cosiddetti ceti medi…
I tre non sono semplicemente ricchi. Sono ricchissimi, vivono nel lusso e nell’agio
incondizionati, perché sono tre uomini ricchissimi e potenti…
In secondo luogo i tre si rispettano, si ammirano e si piacciono nonostante le diversità
caratteriali perché si sono “fatti da soli”. Nessuno dei tre è rampollo viziato di qualche
grande dinastia industriale o finanziaria. Sono determinati, intraprendenti, affamati…
Molti piduisti, molti viscerali “anticomunisti” fra gli amici di don Michele… Si
distinguono l’immancabile Licio Gelli in qualità di “uomo d’affari anticomunista”;
l’ex appartenente ai servizi segreti inglesi ed effettivo durante il conflitto mondiale
John McCaffery, successivamente socio in affari di don Michele; l’italoamericano
Philip Guarino, personaggio legato alle lobbies italoamericane (leggi mafia) - buon
amico, oltre che di Sindona, di Gelli e dell’ex direttore del SID Vito Miceli, anch’egli
piduista e, secondo quanto riferito da “pentiti di mafia”, affiliato a Cosa Nostra – e
che diventerà il presidente del comitato elettorale del Partito Repubblicano per
l’elezione dell’ex attore e divo hollywoodiano Ronald Reagan alla carica dei
Presidente USA; il “golpista bianco”, filoamericano, filo inglese, accanitamente
piduista ed anticomunista Edgardo Sogno; il piduista Procuratore della Repubblica di
Roma Carmelo Spaguolo; la signora della finanza italiana Anna Bolchini Bonomi,
ecc… Fra i legali al servizio di don Michele si segnala un altro piduista, il
democristiano di destra Massimo De Carolis, già leader della Maggioranza Silenziosa.
Intanto, per tutta la seconda metà degli anni Settanta, don Michele si agita, ricatta e
manovra e, in aggiunta, può far valere la sua reputazione di convinto assertore del
liberismo e del libero mercato e di sincero “anticomunista”… Nei confronti del socio
e fratello di loggia Calvi – con il quale condividerà il tragico destino – scatena il
provocatore Luigi Cavallo, il socio di Sogno nelle manovre “golpiste”. In quel
periodo il bancarottiere discusse probabilmente anche con l’allora capo militare della
NATO, ammiraglio Haig, massone, già uomo di punta dell’amministrazione Nixon e,
per qualche tempo, anche di quella di Reagan e “mente pensante” dei circoli
kissingeriani, neoconservatori e dei falchi repubblicani radunati intorno al CSIS
(Centro di Studi Strategici di Georgetown), sulla possibilità di un “golpe”
secessionista in Sicilia. In quel periodo gli americani intendevano procedere
all’installazione di missili Cruise nella basse di Comiso in Sicilia. Segue il misterioso
e mai del tutto chiarito falso rapimento di don Michele con il concorso di uomini di
Cosa Nostra siciliana ed italoamericana con tutto il corollario di ricatti e minacce
legati alla famosa lista dei 500, gli esportatori di valuta all’estero che si sono serviti
degli uffici di don Michele. Qualche tempo prima il bancarottiere siciliano aveva
provveduto a regolare i conti con il caparbio liquidatore della Banca Privata Giorgio
Ambrosoli, fieramente contrario ad ogni tentativo di salvataggio delle banche
sindoniane a spese dei contribuenti italiani, facendolo assassinare da un killer
italoamericano.
Quando il libro venne pubblicato in Italia per la prima volta da un editore craxiano,
venne censurato un passaggio in cui Sindona citava a Tosches come esempio di
riciclaggio di capitali sporchi di Cosa Nostra una piccola banca di Milano, la Rasini in
cui lavorava il padre del futuro potente tycoon e più volte presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi. D’altronde la solida amicizia fra Berlusconi e il segretario del PSI
Craxi non è mai stata un segreto per nessuno.
Nel suo volume “L’orgia del potere” (edizioni Dedalo) lo sfegatato giornalista
antiberlusconiano Mario Guarino dedica parecchio spazio al ruolo del sistema
finanziario mafioso sindoniano nell’edificazione dell’impero mediatico e del mattone
dell’imprenditore dello spettacolo Berlusconi.
In tutta la vicenda e biografia del banchiere di Patti molti sono i lati oscuri in attesa di
essere illuminati.
Una piccola curiosità, invece, sul rampante e dinamico Francesco Pazienza, che forse
avrebbe dovuto essere destinato a divenire l’erede del potere di Licio Gelli. Ai tempi
era fidanzato proprio con Marina De Laurentiis, la nipote del produttore
cinematografico Dino, amico di Sindona.
Ottima fonte di informazioni, dunque…
Don Michele non nasconde una certa irritazione nei confronti della pellicola, rea di
diffondere fra i magistrati statunitensi l’idea che dietro ogni picciotto si celi un
padrino, un boss e alimentando pregiudizi nei confronti dei (pregiudicati) italiani ed
italoamericani. Non che abbia tutti i torti, ma l’atteggiamento di Sindona dà in certa
misura l’idea della mafiosità di questo personaggio. Don Michele imputa a Bludhorn
la responsabilità della produzione e della realizzazione della celeberrima pellicola
sulla saga di una famiglia mafiosa italoamericana, ma dalla conversazione a tre
emerge anche come una buona parte del merito dell’ideazione del progetto spetti allo
stesso De Laurentiis.
Intervistato dal regista Jalongo nel docu-film “Di me cosa ne sai” Dino De Laurentiis
attribuisce direttamente ai socialisti italiani e a Corona la responsabilità di aver
piegato l’industria cinematografica italiana facendogli chiudere gli studi a Cinecittà e
costringendolo a continuare la sua attività negli USA. Di lì a poco si imporrà l’astro
nascente di Craxi che molta importanza dava ai media e allo spettacolo tanto da
accarezzare l’idea di fondare un partito di “gente dello spettacolo”, un progetto che
sarebbe stato sostanzialmente realizzato dall’amico Berlusconi con Forza Italia. È
documentato, invece, come l’attività televisiva privata e commerciale del Cavaliere
sia stata incoraggiata, tutelata e alimentata da Bettino Craxi. De Laurentiis, però, dice
qualcosa di più importante e scottante al suo interlocutore ventilando l’ipotesi che
Corona, i socialisti e, nella sostanza, i partiti di governo di allora, siano stati pagati e
foraggiati dagli americani per sbarazzarsi della scomodissima concorrenza
cinematografica italiana. Il produttore campano parla evidentemente con grande
cognizione di causa avendo lavorato con gli americani sia sul patrio suolo che
oltreoceano. Nel corso degli anni Settanta, oltre a De Laurentiis, gli altri due più
importanti produttori italiani impianteranno la loro attività negli USA. Innanzitutto
l’ex socio di De Laurentiis, Carlo Ponti costretto anche da presunte vicissitudini
fiscali sue e della moglie Sofia Loren. Gli inquirenti sospettarono a suo tempo che la
coppia si fosse rivolta a personaggi riconducibili alla banda della Magliana per la
sistemazione di quelle controversie giudiziarie.
Più complesse e inquietanti, invece, sono state le disavventure del terzo produttore del
lotto, Alberto Grimaldi, coinvolto nella realizzazione di pellicole scabrose e
coraggiose quanto perseguitate come “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci
e “Salò” di Pier Paolo Pasolini. L’aura maledetta di quest’ultima opera – autentico,
terrificante e lucido manifesto sulla “deculturazione” e la violenza della società
edonista e dei consumi – è stata rafforzata dai misteriosi ed efferati episodi che l’anno
circondata: dal furto delle “pizze” con richiesta di riscatto, all’assassinio del suo
regista ancora avvolta nell’oscurità. Quasi egli stesso un perseguitato, il produttore
Grimaldi… Le minacce e il terrore per i sequestri di persona, lo convinceranno a
lasciare il paese per gli USA ove, paradossalmente, si farà produrre “Novecento” di
Bernardo Bertolucci, ultimo vero kolossal con cast internazionale dalle forti tinte
“social comuniste”, dalla major 20th Century Fox.
Quando gli opposti si incontrano…
Facciamo ancora un salto indietro nel tempo e torniamo a quel fatidico 1972 che quasi
fa da spartiacque da un’Italia a un’altra. Ma davvero è esistita una stretta connessione
fra la legge Corona, la sostanziale chiusura di Cinecittà, l’espatrio di De Laurentiis e
degli altri produttori negli USA e l’ingerenza americana ed hollywoodiana? Come
scriverebbe Pasolini ancora una volta “Abbiamo tanti indizi, qualche certezza ma
nessuna prova concreta…”. Da intellettuali se ne può scrivere…
Il 1972 è anche l’anno di quelle elezioni politiche caratterizzate soprattutto dal buon
balzo in avanti del partito parlamentare neofascista ed anticomunista MSI sulla base
degli slogan sulla “legge ed ordine” e contro gli “opposti estremismi”
extraparlamentari. In vista di quelle elezioni l’ambasciatore americano Graham
Martin, falco repubblicano e convinto anticomunista, esponente dell’”ala destra”
dell’amministrazione Nixon in parziale contrasto con il più “moderato” Kissinger,
fece affluire cospicui finanziamenti nelle mani del direttore del SID Vito Miceli – con
il quale condivideva l’anticomunismo viscerale – per foraggiare partiti, gruppi ed
associazioni ostili al comunismo e alle sinistre. L’iniziativa ha parziale successo…
Come abbiamo visto, Miceli era anche piduista, ottimo amico sia di Gelli che di
Sindona. Implicato in vicende come il golpe Borghese, la “Rosa dei Venti”, il
SuperSID, in posizione mai totalmente chiarita, Miceli era sicuramente il tipico
esponente della destra italiana di allora e, infatti, quando sarà costretto a dimettersi dal
servizio segreto militare, sarà proprio l’MSI di Almirante a gettargli la ciambella di
salvataggio candidandolo alle successiva politiche del 1976. Ciò per rammentare
come i nomi ed i cognomi di taluni attori principali, secondari e comprimari ricorra
spesso…
A questo punto è quantomeno chiaro che nella contesa e concorrenza fra Hollywood e
la cinematografia italiana si è giocato ad armi impari e con mezzi non proprio puliti.
Costretto a vendere gli studi a Cinecittà in seguito alle legge Corona, De Laurentiis ha
bisogno di denaro ed è proprio l’amico Sindona a fare in modo che la Franklin – la
sua banca americana – gli presti un milione di dollari garantiti dalla Banca
Commerciale Italiana, vera acquirente dei suoi studi cinematografici attraverso la
società immobiliare SAINDA. Sindona interviene in puro spirito di amicizia oppure
non è disinteressato e agisce per conto terzi? Non dimentichiamoci che Sindona è,
appunto, anche amico di Bludhorn ed egli stesso coltiva interessi nella Paramount. E a
proposito delle possibili cointeressenze – grandi gruppi, lobbies, consorzi d’affari –
coinvolte nelle manovre sindoniane nell’ambito dell’editoria, dello spettacolo, della
cinematografia e della televisione si possono fare le ipotesi più disparate in aggiunta
quelle già prospettate (americani e major hollywoodiane). Fermiamoci per un attimo
alle domande…
Coloro che hanno “pagato” per la legge Corona, sono coinvolti nello smantellamento
di Cinecittà e nel prestito offerto da Sindona all’amico De Laurentiis?
Sono stati Sindona & soci – che è possibile a questo punto ritenere come
rappresentanti degli interessi di lobbies magari italoamericane ed ebreo americane
legate alle major hollywoodiane – a convincere De Laurentiis a lasciare
definitivamente il paese e ad approdare nel “Nuovo Mondo”?
Comunque si può tranquillamente affermare che negli USA De Laurentiis non sarà
più un “produttore italiano” ma entrerà nei meccanismi dell’industria cinematografica
di quel paese da vero “produttore americano” cercando di offrire i tipici prodotti
filmici – peraltro spesso costosissimi – degli USA. Una parabola comune a molti
produttori, autori, registi ed attori europei ed orientali sbarcati alla corte di Hollywood
e costretti a “snaturare” il loro lavoro. Inoltre, anche in questo caso, è spontaneo farsi
domande circa l’identità di coloro che finanziarono l’avventura americana – certo non
molto fortunata – di Dino De Laurentiis.
Ci sono buoni motivi per pensare che Dino De Laurentiis sapesse e che alla fine si
fosse “rassegnato” a lasciare l’Italia per fare il “produttore americano”. Nella grande
“comunità degli affari” certe cose vanno dove devono andare…
Così la Paramount ha vinto e con lei il sistema delle major hollywoodiane soprattutto
nelle persone di coloro che vi investivano e vi investono ingenti capitali…
In fondo proprio Bludhorn aveva risposto all’amico italiano che desiderava tanto
produrre “Il padrino” che “Così và il mondo dello spettacolo”.
A pensar male…
HS
Fonte: www.comedonchisciotte.org
12.11.2009