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«Tutti si trovano nella stessa condizione, sia coloro che

sono tormentati dall’incostanza, dall’ansia e dal continuo


mutamento dei propositi, ai quali sempre piace di più ciò
che hanno lasciato, sia quelli che marciscono tra gli
sbadigli. […] E tutto ciò si aggrava ulteriormente quando,
non riuscendo più a tollerare questa infelicità affannosa, si
rifugiano nel riposo […]; perciò, tolte le distrazioni che gli
impegni di per sé offrono a chi corre da tutte le parti, non
sopportano casa, solitudine, pareti, e mal si rassegnano a
vedersi abbandonati a se stessi. Di qui quella noia e
quell’insofferenza di sé, e l’irrequietezza dell’animo che non
trova pace in nessun posto, e la triste e angosciosa
sopportazione della propria inattività […]; di qui
l’atteggiamento di quanti detestano il proprio riposo e si
lamentano di non aver nulla da fare. […] Gli è gradita ogni
occasione di muoversi e distrarsi, e ancor più gradita a quei
pessimi soggetti che volentieri si lasciano logorare dalle
occupazioni; come certe ferite cercano le mani che
recheranno loro dolore e godono d’essere toccate […].
Quindi si intraprendono viaggi senza meta e si va errando
da una spiaggia all’altra sperimentando ora per mare ora
per terra l’instabilità sempre nemica del presente […]. Si
intraprende un viaggio dietro l’altro e si sostituisce uno
spettacolo con un altro. Come dice Lucrezio, in questo
modo ciascuno fugge continuamente se stesso. Ma a che
serve, se non ci riesce? Ciascuno sempre si segue e si
incalza da solo, compagno insopportabile di sé. Dunque
dobbiamo convincerci che non è colpa dei luoghi il male di
cui soffriamo, ma nostra: siamo incapaci di sopportare ogni
cosa, e non tolleriamo troppo a lungo la fatica né il piacere
né noi stessi né niente.»

Seneca, De tranquillitate animi, 2, 6-11; 13-15

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