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gennaio 2011] - http://www.ospiteingrato.org/Interventi_Interviste/Talamo.html
Roberto Talamo
Intellettuali e vittime
Rappresentazioni umanitarie e crisi della pietà
PAUL RICŒUR
1. Premessa
Nel gennaio del 1898, scienziati, uomini politici, scrittori, artisti, filosofi, avvocati, architetti,
ingegneri, uomini e donne dalle occupazioni e posizioni sociali estremamente diverse tra loro, che non
avrebbero avuto molte occasioni di cooperare nel corso delle rispettive attività professionali, si
riunirono intorno al nome di intellettuali, firmando un manifesto in favore di una “vittima”, Alfred
Dreyfus1. L’autocoscienza degli intellettuali nel moderno ha il suo atto di nascita simbolico nella
comune difesa di un innocente condannato ingiustamente.
Oggi, al contrario, mentre è in atto una trasformazione radicale delle relazioni tra vittime e
società, tanto da poter parlare di un ambiguo «ordine mondiale della compassione» 2, davanti a una
moltiplicazione delle vittime, dovuta anche alla neutralizzazione politica di queste (non più “oppressi”,
“proletari”, “colonizzati”, ma “pure” vittime), i modelli di rappresentazione intellettuale sembrano
incapaci di competere con le forme di descrizione e “appropriazione” della sofferenza messe in atto, in
un intreccio non sempre facile da sciogliere, da governi, media e Ong.
1 Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 32.
2 Cfr. C. Eliacheff – D. Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, Ponte alle Grazie, Milano 2008, p. 172
Il bisogno di riconoscimento delle vittime, non soltanto nel ruolo di “pura” vittima, ma come
identità e biografia reale, può essere attinto da un terzo modello di rappresentazione intellettuale, che
proverò qui a formalizzare attraverso un percorso in un complesso arcipelago fatto di testi poetici,
sociologici e filosofici. Partendo da un’enunciazione poetica di un io lirico, contenuta in una poesia di
Franco Fortini, cercherò di costruire una variazione di scala che permetta di pensare alcuni aspetti
generali della figura dell’intellettuale nel presente.
Devono dunque essere, allo stesso tempo, ipersingolarizzati tramite l’accumulazione dei dettagli di sofferenza e
sottoqualificati: è lui, ma potrebbe essere chiunque altro; è quel bambino che ci strappa le lacrime, ma qualunque altro
bambino andrebbe altrettanto bene al caso. Per ciascuno degli infelici convocati, si accalca una folla di sostituti 5.
Per concludere questa rapida sintesi della riflessione contemporanea sul problema della
rappresentazione umanitaria, si può affermare, con Mesnard, che, da un punto di vista politico,
l’umanitario è un soggetto collettivo che prende la parola in nome o a favore delle vittime, definendole,
in termini apolitici, come “deboli”, “esclusi”, “senza”. La vittima, in questo modo, è quindi vittima
anche perché condannata a non veder riconosciuto nessuno statuto politico al proprio lamento6.
3 P. Mesnard, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza, Ombre corte, Verona 2004. Questo libro
sarà al centro della ricostruzione del problema nella prima parte di questo paragrafo.
4 Ivi, p. 94.
5 L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 18.
6 Su questa definizione in termini politici della vittima cfr. P. Ricœur, Certitudes et incertitudes de la révolution chinoise, in Id.,
Abbiamo visto come la rappresentazione umanitaria delle vittime sottragga identità ai suoi
oggetti, nel momento in cui li rende riconoscibili parlando a loro nome o in loro favore. La posizione di
chi parla in nome o in favore delle vittime non è una “scoperta” dell’umanitario. Il meccanismo di
svelamento-leggibilità-appropriazione di chi soffre, la pretesa di parlare in nome, cioè al posto, delle
vittime è l’atteggiamento dell’intellettuale tradizionale, che si sente investito da un mandato universale.
Ma l’intellettuale, «se pretende di essere il custode dell’universale […] ricade nella vecchia illusione della
borghesia che si vuole classe universale»7.
La seconda declinazione dello stesso modello (parlare in favore delle vittime) è invece
l’atteggiamento tipico dell’intellettuale engagé, oltre a essere, come abbiamo visto per l’affaire Dreyfus, la
più antica forma di autocoscienza intellettuale nel moderno. Boltanski descrive questo atteggiamento
nei termini di una “topica della denuncia”8. Chi osserva da lontano un infelice che soffre può indignarsi: a
partire dalla pietà il suo sentimento impotente può trasformarsi in un’azione attraverso l’arma della
collera, che simula l’impegno in atti. La collera, atto a distanza, non può che attualizzarsi nella parola di
accusa, che però non si rivolge e non si interessa più alla vittima, ma al persecutore. Il problema
principale di una topica della denuncia non è l’identità della vittima, ma il riconoscimento del
persecutore da accusare:
Nella topica della denuncia l’attenzione dello spettatore non si sofferma sull’infelice. Si sposta dal posto dell’infelice
che suscita la pietà a quello del persecutore che viene accusato. È innanzi tutto verso il persecutore che si orienta
l’indignazione9.
Nel momento in cui si riconosce una genesi di natura “intellettuale” ai modelli umanitari, non si
tratta naturalmente di rivendicare per gli intellettuali dei paradigmi da ritenere “indebitamente” sottratti
dall’umanitario. Tanto più che questi modelli sono responsabili di quel riconoscimento stigmatizzante
di cui abbiamo parlato. Si deve, al contrario, cercare una diversa via nel rapporto tra intellettuali e
vittime che tenga conto e parta da ciò che abbiamo definito come “paradigma del dubbio”.
7 J. P. Sartre, Difesa dell’intellettuale, Teoria, Roma-Napoli 1992, pp. 88-89. Il volume raccoglie tre conferenze tenute da
Sartre in Giappone nel 1965 e pubblicate per la prima volta in Francia nel 1972.
8 L. Boltanski, cit., pp. 91-120.
9 Ivi, pp. 102-103.
4. Due poesie sul dubbio: Brecht e Fortini, allegoria e figura
Bertolt Brecht
10 B. Brecht, Colui che dubita, in Id., Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1961, pp. 200-201 (la traduzione è dello stesso Fortini)
e F. Fortini, Sonetto dei sette cinesi, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 1067. La poesia di Fortini è datata
1975. D’ora in avanti indicheremo con C la poesia di Brecht e con S quella di Fortini, seguite dai numeri dei versi.
Franco Fortini
È la prima quartina del Sonetto a congiungere in modo esplicito i due testi: Fortini cita
espressamente autore («il poeta di Augsburg»: S, 1) e contenuto essenziale del testo brechtiano,
indicando in modo quasi didascalico il suo riferimento. Il «nastro dell’antico rotolo cinese» (C, 3-4) e il
«quadro» (C, 33) diventano «una stampa cinese» (S, 3) e «l’immagine» (S, 4). Le diverse espressioni come
«L’Uomo Seduto che tanto dubitava» (C, 5-6), «Colui che dubita» (C, 8), «l’uomo Turchino» (C, 33)
sono ricondotte al sintetico «l’Uomo del Dubbio» (S, 3). La principale domanda del testo di Brecht
(«come si agisce ?»: C, 31) diventa «come agire ?» (S, 4).
Elenchiamo due ulteriori analogie (significative per il fatto che il traduttore del testo tedesco è
lo stesso Fortini): il «visibile» (C, 5) della prima poesia trova eco nel «visibili» (S, 12) della seconda.
«Contraddizione» (C, 16) è ripetuto al plurale: «contraddizioni» (S, 13).
I quadri, qualora durino, durano soltanto in quanto testimonianza dell’arte di colui che li ha dipinti. Nel caso della
fotografia invece avviene qualcosa di nuovo e di singolare: nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un
11 Si tratta del viaggio realmente compiuto da Fortini in Cina vent’anni prima rispetto alla data di composizione del
La fotografia esige il nome, l’identità, la biografia di chi, pur in effigie, è ancora reale. Nel suo
diario di viaggio in Cina, Asia Maggiore, Fortini si esprime in termini affini:
La foto sottintende sempre un elemento di crudeltà e di distacco, è insomma uno dei modi più sicuri per far sì che
l’altro sia «altro» […]. Fra il gruppo di contadini o di ragazzi che si mettono in “posa” o magari sull’attenti per farsi
fotografare e il foto-reporter che li vuole “naturali”, l’incivile è quest’ultimo. Quelli vogliono essere se stessi, e lui li vuole
interpretare, ridurre a paesaggio, a impressione, a natura morta 13.
La foto “naturale” (ovvero costruita per sembrare tale) è un gesto di violenza, dice Fortini,
verso l’identità del soggetto che vuole affermarsi nella sua impossibilità a risolversi totalmente in arte o
natura morta. Prima di giungere a delle conclusioni, che del resto si possono già intravedere, terminiamo
la lettura del Sonetto. «Nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi» (S, 6): «mio» è un aggettivo che
apre una lunga serie di pronomi personali in coppie oppositive. «Loro. Io» (S, 8), «me» (S, 9), «loro» e
«mi» (S, 10), «loro» (S, 12), «noi» (S, 14: su quest’ultimo pronome torneremo a breve). La distanza, in
questo modo segnalata, raggiunge gli accenti di una netta separazione nei versi: «Sanno che non scrivo
per loro. Io / so che non sono vissuti per me» (S, 8-9). A questo massimo di formalizzazione della
distanza tra l’io lirico e gli operai che guardarono nell’obiettivo e ora guardano dalla foto alla parete (cfr.
S, 6-7), segue però una critica di questa stessa idea di separazione, fortemente segnalata dall’avversativa
«eppure» (S, 10). È l’identità specifica, rivendicata dagli sguardi “in posa” degli operai, che li riavvicina al
poeta: è il loro «dubbio» (S, 10), la loro diffidenza, ironia o sospensione interrogativa (cfr. S, 7) che
chiedono a chi parla e agisce “da lontano” come parlare e come agire: «Eppure il loro dubbio qualche volta
mi ha chiesto / più candide parole o atti più credibili» (S, 10-11).
Il dubbio, che muove l’individuo a riconsiderare i propri atti e le proprie parole, a domandarsi
«come agire ?», non è soltanto la contraddizione a cui invita a pensare l’immagine dipinta, ma la
presenza reale, seppure a distanza, in forma di foto, di esseri umani reali, «visibili contraddizioni e
identità fra noi» (S, 12-13). La dimensione della parola e dell’azione responsabile davanti all’altro,
riconosciuto nella sua identità, riportano l’io lirico, attraverso una variazione di scala, al livello dei
“destini generali” (per usare un’altra espressione cara a Fortini): il piano del «noi» (S, 13), che, come
abbiamo visto, chiude la serie pronominale subito prima dell’icastica conclusione: «Se un senso esiste, è
questo» (S, 14).
All’analisi semantica, per cogliere un ultimo importante senso di questa apparente digressione
nel campo poetico, affiancheremo ora un’analisi retorica di un essenziale aspetto che distingue i due
12 W. Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi,
Il dipinto dell’Uomo Turchino di Brecht e la serie di domande che pone a chi ricerca la risposta
a un problema sono un’allegoria tradizionale (o allegoria in verbis) del processo di verifica a cui ogni
intellettuale, che voglia essere “compreso nel corso degli eventi, con tutto quel che diviene”, deve
sottoporre le proprie acquisizioni. In questo tipo di procedimento retorico, rappresentazione allegorica
e significato dell’allegoria possono autonomizzarsi e svincolarsi uno dall’altro: la rappresentazione può
essere anche presa letteralmente oppure il significato, una volta raggiunto e compreso, può sganciarsi
dalla rappresentazione e cancellarla del tutto, sovrapponendosi a essa. Così, nella poesia di Brecht,
possiamo anche dimenticarci dell’Uomo seduto che tanto dubitava e ritenere invece la rigorosa
disciplina di autoverifica dei risultati raggiunti.
L’allegoria di Fortini è di natura diversa: è quella che nel medioevo fu codificata come allegoria in
factis (o, come la definisce Auerbach, figura). L’allegoria in factis si distingue dall’allegoria in verbis per il fatto
che, in essa, fatti, entità, persone reali e storici sono interpretati come figura di altri fatti, entità, persone
altrettanto storici e reali. Se per gli esempi medioevali di questo procedimento retorico non possiamo
che rimandare ai magnifici scritti di Erich Auerbach15, come esempio moderno della “reversibilità”
integralmente storica di questo genere di allegoria, si può citare un brano di un’altra poesia di Fortini, in
cui compare esplicitamente il termine “figura”:
14 Per le distinzioni che faremo cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 20032, pp. 259-263.
15 In particolare E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 20075, pp. 176-226.
sono fin d’ora ? […]16
Nell’immagine figurale moderna e laica (quella che si slega cioè dal figuralismo medievale di
segno cristiano), il soggetto raffigurato resiste nella sua identità, storicità, concretezza biografica anche
dopo aver comunicato il suo significato “per noi”, rivendica la sua identità: «identità fra noi».
Scrive Ricœur:
Non ci si deve vergognare di essere un «intellettuale», come il Socrate di Valéry in Eupalinos, votato al rimpianto di
non aver fatto nulla con le sue mani. Credo nell’efficacia della riflessione, perché la grandezza dell’uomo sta nella dialettica
del lavoro e della parola: il dire e il fare, il significare e l’agire sono troppo mischiati perché un’opposizione durevole e
profonda possa essere istituita tra «théoria» e «praxis». La parola è il mio regno e non ne ho per nulla vergogna; o piuttosto ne
ho vergogna nella misura in cui la mia parola è partecipe della colpevolezza di una società ingiusta che sfrutta il lavoro 18.
Anche secondo Deleuze e Guattari, il sentimento di vergogna è uno dei temi più potenti della
riflessione contemporanea e l’intellettuale può uscirne pensandosi non come direttamente responsabile
delle vittime, ma responsabile (come in figura, aggiungiamo noi) di fronte alle vittime:
La vergogna d’essere uomo […] la proviamo […] anche in condizioni insignificanti, di fronte alla bassezza e alla
volgarità dell’esistenza che pervadono le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi di esistenza e di pensiero-
per-il-mercato, di fronte ai valori, agli ideali e alle opinioni della nostra epoca […]. Noi non siamo responsabili delle vittime,
ma di fronte alle vittime19.
16 F. Fortini, Reversibilità, in Id., Poesie inedite, Einaudi, Torino 19972, p. 27. Non è questa purtroppo la sede per
un’ulteriore discussione sull’importanza della figura nell’opera di Fortini. Si rimanda quindi al bel saggio di A. Reccia, Fortini e
Auerbach. Tra simbolo e allegoria: la figura come metodo, in a c. di R. Castellana, La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach,
Artemide, Roma 2009, pp. 197-205. Per l’interpretazione di Reversibilità: G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos,
Milano 2002, pp. 205-215; R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, Lecce 2007, pp. 86-88. Dello stesso Fortini, si veda anche:
F. Fortini, Un decennio di postmoderno, in Id., Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 83-87.
17 Cfr. E. Masi, Postfazione, in F. Fortini, Asia Maggiore, cit., pp. 259-268.
18 P. Ricœur, Storia e verità, Marco editore, Cosenza 1991, p. IX. Ho rivisto in alcuni punti la traduzione.
19 G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia ?, Einaudi, Torino 1996, p. 101.
Edward Said propone un analogo argomento come correttivo a un’altra “vergogna”, quella del
discorso sulla guerra e sulla pace proposto dai media internazionali:
Il miglior correttivo […] consiste nell’immaginare la persona di cui si sta parlando, in questo caso la persona sulla
cui testa cadono le bombe, mentre legge le tue parole in tua presenza 20.
Parlare davanti alle vittime vuol dire affrontare i dubbi e la complessa realtà (di denuncia e
insieme di soppressione delle identità) dell’immagine umanitaria contemporanea. Gli intellettuali
devono oggi saper trasformare queste rappresentazioni in figure reali a partire dal dubbio che generano.
Un’operazione che non cancella il dubbio, non “purifica” l’immagine, ma fa lavorare proficuamente,
per il presente, il dubbio stesso.
20 E. W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, il Saggiatore, Milano 2007, p. 163.
21 Cfr. E. Renault, Mépris social. Ethique et politique de la reconnaissance, Passant, Bègles 20042.