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gennaio 2011] - http://www.ospiteingrato.org/Interventi_Interviste/Talamo.html

Roberto Talamo
Intellettuali e vittime
Rappresentazioni umanitarie e crisi della pietà

Occorrono degli intellettuali per creare la teoria del sistema,

insegnarla e giustificarla agli stessi occhi delle vittime

PAUL RICŒUR

1. Premessa

Nel gennaio del 1898, scienziati, uomini politici, scrittori, artisti, filosofi, avvocati, architetti,
ingegneri, uomini e donne dalle occupazioni e posizioni sociali estremamente diverse tra loro, che non
avrebbero avuto molte occasioni di cooperare nel corso delle rispettive attività professionali, si
riunirono intorno al nome di intellettuali, firmando un manifesto in favore di una “vittima”, Alfred
Dreyfus1. L’autocoscienza degli intellettuali nel moderno ha il suo atto di nascita simbolico nella
comune difesa di un innocente condannato ingiustamente.

Oggi, al contrario, mentre è in atto una trasformazione radicale delle relazioni tra vittime e
società, tanto da poter parlare di un ambiguo «ordine mondiale della compassione» 2, davanti a una
moltiplicazione delle vittime, dovuta anche alla neutralizzazione politica di queste (non più “oppressi”,
“proletari”, “colonizzati”, ma “pure” vittime), i modelli di rappresentazione intellettuale sembrano
incapaci di competere con le forme di descrizione e “appropriazione” della sofferenza messe in atto, in
un intreccio non sempre facile da sciogliere, da governi, media e Ong.

Si cercherà di mostrare come la rappresentazione umanitaria abbia sostituito quella intellettuale


appropriandosi dei due modelli tradizionali di rappresentazione dei “dannati della terra”: parlare in nome
o parlare in favore delle vittime. In entrambe le disposizioni, che l’umanitario assume in sé, c’è il rischio
di negare sostanzialmente l’identità del rappresentato.

1 Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 32.
2 Cfr. C. Eliacheff – D. Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, Ponte alle Grazie, Milano 2008, p. 172
Il bisogno di riconoscimento delle vittime, non soltanto nel ruolo di “pura” vittima, ma come
identità e biografia reale, può essere attinto da un terzo modello di rappresentazione intellettuale, che
proverò qui a formalizzare attraverso un percorso in un complesso arcipelago fatto di testi poetici,
sociologici e filosofici. Partendo da un’enunciazione poetica di un io lirico, contenuta in una poesia di
Franco Fortini, cercherò di costruire una variazione di scala che permetta di pensare alcuni aspetti
generali della figura dell’intellettuale nel presente.

2. La rappresentazione umanitaria: paradigma del dubbio e crisi della pietà

L’attuale dispositivo umanitario di rappresentazione delle vittime è stato analizzato e messo in


questione ponendo al centro dell’interrogazione la categoria del dubbio: «siamo certi di quello che
vediamo quando guardiamo una vittima ?»3. Parlare oggi di rappresentazione delle vittime comporta
infatti una riflessione su una realtà commista di rivelazione delle vittime e insieme di denuncia di una
propaganda mediatica che, strumentalizzandole, le occulta. L’umanitario gestisce la visibilità e insieme la
leggibilità della miseria: per entrare nella prospettiva umanitaria, per accedere allo statuto di vittima,
l’essere umano deve essere spogliato, del tutto o in parte, della sua biografia e di precisi riferimenti
socio-culturali e politici, attraverso un ambiguo «riconoscimento stigmatizzante»4, un riconoscimento
che poggia sui codici culturali di coloro ai quali sono destinate queste rappresentazioni. Secondo
Boltanski, i singoli casi devono diventare oggetto di un trattamento paradossale. Da una parte si deve
farne risaltare la singolarità, in modo da dare corpo alla sofferenza, dall’altro, per accedere al discorso
umanitario, i soggetti devono perdere realtà, identità e biografia, per trasformarsi in “pure” vittime:

Devono dunque essere, allo stesso tempo, ipersingolarizzati tramite l’accumulazione dei dettagli di sofferenza e
sottoqualificati: è lui, ma potrebbe essere chiunque altro; è quel bambino che ci strappa le lacrime, ma qualunque altro
bambino andrebbe altrettanto bene al caso. Per ciascuno degli infelici convocati, si accalca una folla di sostituti 5.

Per concludere questa rapida sintesi della riflessione contemporanea sul problema della
rappresentazione umanitaria, si può affermare, con Mesnard, che, da un punto di vista politico,
l’umanitario è un soggetto collettivo che prende la parola in nome o a favore delle vittime, definendole,
in termini apolitici, come “deboli”, “esclusi”, “senza”. La vittima, in questo modo, è quindi vittima
anche perché condannata a non veder riconosciuto nessuno statuto politico al proprio lamento6.

3 P. Mesnard, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza, Ombre corte, Verona 2004. Questo libro
sarà al centro della ricostruzione del problema nella prima parte di questo paragrafo.
4 Ivi, p. 94.
5 L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 18.
6 Su questa definizione in termini politici della vittima cfr. P. Ricœur, Certitudes et incertitudes de la révolution chinoise, in Id.,

Lectures I, Seuil, Paris 1991, pp. 334-335.


La “crisi della pietà” (Boltanski), ingenerata da riflessioni di questo tipo, non può che chiederci
di sviluppare e di pensare di più un siffatto “paradigma del dubbio”: siamo certi di quello che vediamo
quando guardiamo una vittima ?

3. Rappresentazione umanitaria e rappresentazione intellettuale

Abbiamo visto come la rappresentazione umanitaria delle vittime sottragga identità ai suoi
oggetti, nel momento in cui li rende riconoscibili parlando a loro nome o in loro favore. La posizione di
chi parla in nome o in favore delle vittime non è una “scoperta” dell’umanitario. Il meccanismo di
svelamento-leggibilità-appropriazione di chi soffre, la pretesa di parlare in nome, cioè al posto, delle
vittime è l’atteggiamento dell’intellettuale tradizionale, che si sente investito da un mandato universale.
Ma l’intellettuale, «se pretende di essere il custode dell’universale […] ricade nella vecchia illusione della
borghesia che si vuole classe universale»7.

La seconda declinazione dello stesso modello (parlare in favore delle vittime) è invece
l’atteggiamento tipico dell’intellettuale engagé, oltre a essere, come abbiamo visto per l’affaire Dreyfus, la
più antica forma di autocoscienza intellettuale nel moderno. Boltanski descrive questo atteggiamento
nei termini di una “topica della denuncia”8. Chi osserva da lontano un infelice che soffre può indignarsi: a
partire dalla pietà il suo sentimento impotente può trasformarsi in un’azione attraverso l’arma della
collera, che simula l’impegno in atti. La collera, atto a distanza, non può che attualizzarsi nella parola di
accusa, che però non si rivolge e non si interessa più alla vittima, ma al persecutore. Il problema
principale di una topica della denuncia non è l’identità della vittima, ma il riconoscimento del
persecutore da accusare:

Nella topica della denuncia l’attenzione dello spettatore non si sofferma sull’infelice. Si sposta dal posto dell’infelice
che suscita la pietà a quello del persecutore che viene accusato. È innanzi tutto verso il persecutore che si orienta
l’indignazione9.

Nel momento in cui si riconosce una genesi di natura “intellettuale” ai modelli umanitari, non si
tratta naturalmente di rivendicare per gli intellettuali dei paradigmi da ritenere “indebitamente” sottratti
dall’umanitario. Tanto più che questi modelli sono responsabili di quel riconoscimento stigmatizzante
di cui abbiamo parlato. Si deve, al contrario, cercare una diversa via nel rapporto tra intellettuali e
vittime che tenga conto e parta da ciò che abbiamo definito come “paradigma del dubbio”.

7 J. P. Sartre, Difesa dell’intellettuale, Teoria, Roma-Napoli 1992, pp. 88-89. Il volume raccoglie tre conferenze tenute da
Sartre in Giappone nel 1965 e pubblicate per la prima volta in Francia nel 1972.
8 L. Boltanski, cit., pp. 91-120.
9 Ivi, pp. 102-103.
4. Due poesie sul dubbio: Brecht e Fortini, allegoria e figura

Oggetto di questo paragrafo, in apparenza una divagazione, in realtà un tentativo di “soluzione


poetica” (Ricœur) di una difficoltà teorica, saranno due testi letterari, che hanno come tema il dubbio:
Colui che dubita di Bertolt Brecht e Sonetto dei sette cinesi di Franco Fortini10. Condurremo un’analisi in
parallelo, perché il Sonetto riprende esplicitamente il testo brechtiano, ma ci soffermeremo soprattutto
sulla differenza tra i due componimenti, perché è in questa differenza che è riposto un senso
importante anche per il discorso che stiamo conducendo. Riportiamo integralmente le due liriche:

Bertolt Brecht

Colui che dubita

Sempre, ogni volta che


ci pareva di aver trovato la risposta a un problema,
uno di noi scioglieva, sulla parete, il nastro dell'antico
rotolo cinese sì che svolgesse e
visibile apparisse l'Uomo Seduto che 5
tanto dubitava.
Io, ci diceva,
sono Colui che dubita. Dubito che
sia riuscito il lavoro che v'ha inghiottiti i giorni.
Che, quel che avete detto, se detto peggio valga tuttavia 10
per qualcuno.
Che lo abbiate detto bene e che forse un po' troppo
vi siate, alla verità di quanto avete detto, affidati.
Che sia ambiguo: per ogni possibile errore
vostra sarebbe la colpa. Può anche essere troppo univoco 15
e allontanar dalle cose la contraddizione; non è troppo univoco?
Allora quel che dite è inutilizzabile. Le cose vostre sono
inanimate, allora.
Siete realmente nel corso degli eventi? Compresi con tutto
quel che diviene? Siete ancora in divenire, voi? Chi siete? A chi 20
parlate? A chi serve quel che state dicendo?
E, fra parentesi:
vi lascia sobri? Si può leggerlo di mattina?
È anche congiunto al presente? Le tesi
davanti a voi enunciate son messe a profitto o almeno con- 25
futate? Tutto
è documentabile?
Per esperienza? Di chi?
Ma prima di tutto
e sempre, e ancora prima d'ogni cosa: come si agisce 30
se si crede a quel che dite? Prima di tutto: come si agisce?

Pensierosi noi si considerava con curiosità


l'uomo Turchino dubitare dal quadro, ci si guardava e
da capo si ricominciava.

10 B. Brecht, Colui che dubita, in Id., Poesie e canzoni, Einaudi, Torino 1961, pp. 200-201 (la traduzione è dello stesso Fortini)

e F. Fortini, Sonetto dei sette cinesi, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 1067. La poesia di Fortini è datata
1975. D’ora in avanti indicheremo con C la poesia di Brecht e con S quella di Fortini, seguite dai numeri dei versi.
Franco Fortini

Sonetto dei sette cinesi

Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire


che alla parete della stanza aveva appeso
l´Uomo Del Dubbio, una stampa cinese.
L´immagine chiedeva: come agire ?

Ho una foto alla parete. Vent´anni fa 5


nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io

so che non sono vissuti per me.


Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto 10
più candide parole o atti più credibili.

A loro chiedo aiuto perché siano visibili


contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.

È la prima quartina del Sonetto a congiungere in modo esplicito i due testi: Fortini cita
espressamente autore («il poeta di Augsburg»: S, 1) e contenuto essenziale del testo brechtiano,
indicando in modo quasi didascalico il suo riferimento. Il «nastro dell’antico rotolo cinese» (C, 3-4) e il
«quadro» (C, 33) diventano «una stampa cinese» (S, 3) e «l’immagine» (S, 4). Le diverse espressioni come
«L’Uomo Seduto che tanto dubitava» (C, 5-6), «Colui che dubita» (C, 8), «l’uomo Turchino» (C, 33)
sono ricondotte al sintetico «l’Uomo del Dubbio» (S, 3). La principale domanda del testo di Brecht
(«come si agisce ?»: C, 31) diventa «come agire ?» (S, 4).

Elenchiamo due ulteriori analogie (significative per il fatto che il traduttore del testo tedesco è
lo stesso Fortini): il «visibile» (C, 5) della prima poesia trova eco nel «visibili» (S, 12) della seconda.
«Contraddizione» (C, 16) è ripetuto al plurale: «contraddizioni» (S, 13).

Eppure, al di là di questi riferimenti, calchi e simmetrie, saranno le differenze ad attirare


maggiormente la nostra attenzione. Per cogliere la distanza tra i due testi dovremo naturalmente
soffermarci principalmente sul secondo. Fortini, dopo la quartina introduttiva, prende la parola, nel
quinto verso, in prima persona: «Ho una foto alla parete» (S, 5). Nella nuova situazione (individuale, a
differenza del «noi» brechtiano: C, 3 e 32), ad un’opera pittorica (quadro o stampa) si sostituisce una
foto di viaggio11. Per riflettere su questa prima importante differenza, mi affido a una considerazione di
Walter Benjamin:

I quadri, qualora durino, durano soltanto in quanto testimonianza dell’arte di colui che li ha dipinti. Nel caso della
fotografia invece avviene qualcosa di nuovo e di singolare: nella pescivendola di New Haven che guarda a terra con un

11 Si tratta del viaggio realmente compiuto da Fortini in Cina vent’anni prima rispetto alla data di composizione del

sonetto, a cui fa anche riferimento il «vent’anni fa» (S, 5).


pudore così indolente, così seducente, resta qualche cosa che non si risolve nella testimonianza dell’arte del fotografo Hill,
qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, che anche
nell’effigie è ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte12.

La fotografia esige il nome, l’identità, la biografia di chi, pur in effigie, è ancora reale. Nel suo
diario di viaggio in Cina, Asia Maggiore, Fortini si esprime in termini affini:

La foto sottintende sempre un elemento di crudeltà e di distacco, è insomma uno dei modi più sicuri per far sì che
l’altro sia «altro» […]. Fra il gruppo di contadini o di ragazzi che si mettono in “posa” o magari sull’attenti per farsi
fotografare e il foto-reporter che li vuole “naturali”, l’incivile è quest’ultimo. Quelli vogliono essere se stessi, e lui li vuole
interpretare, ridurre a paesaggio, a impressione, a natura morta 13.

La foto “naturale” (ovvero costruita per sembrare tale) è un gesto di violenza, dice Fortini,
verso l’identità del soggetto che vuole affermarsi nella sua impossibilità a risolversi totalmente in arte o
natura morta. Prima di giungere a delle conclusioni, che del resto si possono già intravedere, terminiamo
la lettura del Sonetto. «Nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi» (S, 6): «mio» è un aggettivo che
apre una lunga serie di pronomi personali in coppie oppositive. «Loro. Io» (S, 8), «me» (S, 9), «loro» e
«mi» (S, 10), «loro» (S, 12), «noi» (S, 14: su quest’ultimo pronome torneremo a breve). La distanza, in
questo modo segnalata, raggiunge gli accenti di una netta separazione nei versi: «Sanno che non scrivo
per loro. Io / so che non sono vissuti per me» (S, 8-9). A questo massimo di formalizzazione della
distanza tra l’io lirico e gli operai che guardarono nell’obiettivo e ora guardano dalla foto alla parete (cfr.
S, 6-7), segue però una critica di questa stessa idea di separazione, fortemente segnalata dall’avversativa
«eppure» (S, 10). È l’identità specifica, rivendicata dagli sguardi “in posa” degli operai, che li riavvicina al
poeta: è il loro «dubbio» (S, 10), la loro diffidenza, ironia o sospensione interrogativa (cfr. S, 7) che
chiedono a chi parla e agisce “da lontano” come parlare e come agire: «Eppure il loro dubbio qualche volta
mi ha chiesto / più candide parole o atti più credibili» (S, 10-11).

Il dubbio, che muove l’individuo a riconsiderare i propri atti e le proprie parole, a domandarsi
«come agire ?», non è soltanto la contraddizione a cui invita a pensare l’immagine dipinta, ma la
presenza reale, seppure a distanza, in forma di foto, di esseri umani reali, «visibili contraddizioni e
identità fra noi» (S, 12-13). La dimensione della parola e dell’azione responsabile davanti all’altro,
riconosciuto nella sua identità, riportano l’io lirico, attraverso una variazione di scala, al livello dei
“destini generali” (per usare un’altra espressione cara a Fortini): il piano del «noi» (S, 13), che, come
abbiamo visto, chiude la serie pronominale subito prima dell’icastica conclusione: «Se un senso esiste, è
questo» (S, 14).

All’analisi semantica, per cogliere un ultimo importante senso di questa apparente digressione
nel campo poetico, affiancheremo ora un’analisi retorica di un essenziale aspetto che distingue i due

12 W. Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi,

Torino 20003, pp. 61-62.


13 F. Fortini, Asia Maggiore, Manifestolibri, Roma 20072, p. 133.
componimenti. L’elemento retorico a cui faccio riferimento è l’uso nelle due poesie di un diverso tipo
di allegoria14.

Il dipinto dell’Uomo Turchino di Brecht e la serie di domande che pone a chi ricerca la risposta
a un problema sono un’allegoria tradizionale (o allegoria in verbis) del processo di verifica a cui ogni
intellettuale, che voglia essere “compreso nel corso degli eventi, con tutto quel che diviene”, deve
sottoporre le proprie acquisizioni. In questo tipo di procedimento retorico, rappresentazione allegorica
e significato dell’allegoria possono autonomizzarsi e svincolarsi uno dall’altro: la rappresentazione può
essere anche presa letteralmente oppure il significato, una volta raggiunto e compreso, può sganciarsi
dalla rappresentazione e cancellarla del tutto, sovrapponendosi a essa. Così, nella poesia di Brecht,
possiamo anche dimenticarci dell’Uomo seduto che tanto dubitava e ritenere invece la rigorosa
disciplina di autoverifica dei risultati raggiunti.

L’allegoria di Fortini è di natura diversa: è quella che nel medioevo fu codificata come allegoria in
factis (o, come la definisce Auerbach, figura). L’allegoria in factis si distingue dall’allegoria in verbis per il fatto
che, in essa, fatti, entità, persone reali e storici sono interpretati come figura di altri fatti, entità, persone
altrettanto storici e reali. Se per gli esempi medioevali di questo procedimento retorico non possiamo
che rimandare ai magnifici scritti di Erich Auerbach15, come esempio moderno della “reversibilità”
integralmente storica di questo genere di allegoria, si può citare un brano di un’altra poesia di Fortini, in
cui compare esplicitamente il termine “figura”:

[…] Ma per noi, per

noi che poco da vivere ci resta,

che cosa sono l’Asia immensa, il tuono

dei popoli e i meravigliosi nomi

degli eventi, se non figure, simboli

dei desideri immutabili dolorosi ? Eppure

– si ascolti ancora – i desideri immutabili

dolorosi che mordono il cuore nei sonni

e del poco da vivere che resta

fanno strazio felice, che cosa sono

se non figure, simboli, voci,

dei popoli che furono e che in noi

14 Per le distinzioni che faremo cfr. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano 20032, pp. 259-263.
15 In particolare E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 20075, pp. 176-226.
sono fin d’ora ? […]16

Nell’immagine figurale moderna e laica (quella che si slega cioè dal figuralismo medievale di
segno cristiano), il soggetto raffigurato resiste nella sua identità, storicità, concretezza biografica anche
dopo aver comunicato il suo significato “per noi”, rivendica la sua identità: «identità fra noi».

5. Figure delle vittime: agire davanti al dubbio dell’immagine umanitaria

La stampa di Brecht e la fotografia di Fortini non rappresentano delle vittime. Ma un moderno


metodo figurale di considerare l’identità catturata in un’immagine nella sua realtà e identità fra noi è il
centro della risposta che qui si vuol dare al dubbio che l’immagine umanitaria produce nel presente.

Davanti all’ambiguità mediatica di ipersingolarizzazione e sottoqualificazione della vittima (è lui,


ma potrebbe essere chiunque altro), di fronte al dubbio posto dalle immagini della rappresentazione
umanitaria, la soluzione figurale, ricavata da Fortini, non vuol dire pretestuosa elucubrazione letteraria e
soggettiva, né mancanza di attenzione ai fenomeni reali17. Essa lega, al contrario, in maniera inscindibile
la responsabilità delle nostre parole e dei nostri atti, in quanto intellettuali, ai destini generali, al di là di
qualsiasi sentimento di impotenza negli atti o di vergogna nel prendere la parola.

Scrive Ricœur:

Non ci si deve vergognare di essere un «intellettuale», come il Socrate di Valéry in Eupalinos, votato al rimpianto di
non aver fatto nulla con le sue mani. Credo nell’efficacia della riflessione, perché la grandezza dell’uomo sta nella dialettica
del lavoro e della parola: il dire e il fare, il significare e l’agire sono troppo mischiati perché un’opposizione durevole e
profonda possa essere istituita tra «théoria» e «praxis». La parola è il mio regno e non ne ho per nulla vergogna; o piuttosto ne
ho vergogna nella misura in cui la mia parola è partecipe della colpevolezza di una società ingiusta che sfrutta il lavoro 18.

Anche secondo Deleuze e Guattari, il sentimento di vergogna è uno dei temi più potenti della
riflessione contemporanea e l’intellettuale può uscirne pensandosi non come direttamente responsabile
delle vittime, ma responsabile (come in figura, aggiungiamo noi) di fronte alle vittime:

La vergogna d’essere uomo […] la proviamo […] anche in condizioni insignificanti, di fronte alla bassezza e alla
volgarità dell’esistenza che pervadono le democrazie, di fronte alla propagazione di questi modi di esistenza e di pensiero-
per-il-mercato, di fronte ai valori, agli ideali e alle opinioni della nostra epoca […]. Noi non siamo responsabili delle vittime,
ma di fronte alle vittime19.

16 F. Fortini, Reversibilità, in Id., Poesie inedite, Einaudi, Torino 19972, p. 27. Non è questa purtroppo la sede per

un’ulteriore discussione sull’importanza della figura nell’opera di Fortini. Si rimanda quindi al bel saggio di A. Reccia, Fortini e
Auerbach. Tra simbolo e allegoria: la figura come metodo, in a c. di R. Castellana, La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach,
Artemide, Roma 2009, pp. 197-205. Per l’interpretazione di Reversibilità: G. Mazzoni, Forma e solitudine, Marcos y Marcos,
Milano 2002, pp. 205-215; R. Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, Lecce 2007, pp. 86-88. Dello stesso Fortini, si veda anche:
F. Fortini, Un decennio di postmoderno, in Id., Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 83-87.
17 Cfr. E. Masi, Postfazione, in F. Fortini, Asia Maggiore, cit., pp. 259-268.
18 P. Ricœur, Storia e verità, Marco editore, Cosenza 1991, p. IX. Ho rivisto in alcuni punti la traduzione.
19 G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia ?, Einaudi, Torino 1996, p. 101.
Edward Said propone un analogo argomento come correttivo a un’altra “vergogna”, quella del
discorso sulla guerra e sulla pace proposto dai media internazionali:

Il miglior correttivo […] consiste nell’immaginare la persona di cui si sta parlando, in questo caso la persona sulla
cui testa cadono le bombe, mentre legge le tue parole in tua presenza 20.

Davanti agli attuali fenomeni di depoliticizzazione scientifica e morale della politica21,


all’intellettuale che si attardasse nei vecchi modelli di rappresentazione delle vittime non rimarrebbe che
il ruolo, marginale e subalterno, dell’esperto di una scienza etica universale (colui che parla in nome delle
vittime) o dell’ideologo moralizzatore (colui che parla in favore delle vittime). Ripoliticizzare, in termini
figurali moderni, cioè in base al riconoscimento dell’identità e della biografia delle vittime e al significato
per noi della storia e del presente delle vittime, ripoliticizzare la rappresentazione umanitaria è la sfida
dell’intellettuale che, al di là di qualsiasi impotenza o vergogna, voglia prendere posizione, prendere la
parola davanti alle vittime. Ripoliticizzare vorrà dire allora anche ristoricizzare il campo delle vittime,
raccontare una storia nella quale si possa riconoscerle e, insieme, riconoscersi.

Parlare davanti alle vittime vuol dire affrontare i dubbi e la complessa realtà (di denuncia e
insieme di soppressione delle identità) dell’immagine umanitaria contemporanea. Gli intellettuali
devono oggi saper trasformare queste rappresentazioni in figure reali a partire dal dubbio che generano.
Un’operazione che non cancella il dubbio, non “purifica” l’immagine, ma fa lavorare proficuamente,
per il presente, il dubbio stesso.

20 E. W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, il Saggiatore, Milano 2007, p. 163.
21 Cfr. E. Renault, Mépris social. Ethique et politique de la reconnaissance, Passant, Bègles 20042.

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