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Settis: perché gli italiani sono diventati


nemici dell’arte
La lunga storia delle leggi di tutela, nate nella Penisola ancor prima dell’Unità. Oggi non
bastano più per arginare il disastro

Malgrado si sia data le leggi migliori del mondo, oggi l’Italia maltratta l’arte: è
stranamente diventata un Paese ignorante e regredito dove prevalgono l’incultura e
l’indifferenza verso la devastazione del paesaggio e dell’ambiente. È dunque
necessario che sia il mondo a difendere il patrimonio artistico e naturale dell’Italia?

In Europa e nel mondo si moltiplica oggi il dibattito sul ruolo che deve giocare il
patrimonio culturale nella società del futuro. La questione del patrimonio è
particolarmente presente nell’agenda culturale e politica in Italia in ragione della cieca
politica di drastici tagli al budget per la cultura, della privatizzazione del patrimonio
culturale e dell’alleggerimento degli enti pubblici di tutela che caratterizza l’attuale
Governo. Io credo comunque che l’osservatorio italiano su questo tema abbia una
grande importanza, anche fuori dall’Italia, in ragione della convergenza di tre
caratteristiche storiche: l’altissima densità del patrimonio in situ in Italia, il suo intimo
legame con il paesaggio e infine perché è in Italia (per la precisione negli Stati
precedenti all’unificazione politica del Paese) che le più antiche regole di salvaguardia
del patrimonio hanno visto la luce.

Intendiamoci sulla definizione più aggiornata di patrimonio


Le domande più frequenti sul patrimonio concernono la sua definizione, la sua
importanza, l’utilizzo (o gli utilizzi) che ne vogliamo fare, la sua proprietà e i suoi costi di
conservazione. La definizione di «patrimonio culturale» si è gradualmente ampliata e
ha reso ancora più complessa la sua conservazione; e ciò, oltre alla sua importanza
nella società contemporanea dominata dalla retorica della globalizzazione e
dall’ossessione del presente, è continuamente messo in discussione in nome dei
«valori» del mercato. La funzione del patrimonio culturale oscilla in continuo tra quella
di deposito passivo della memoria storica e dell’identità culturale e quella, opposta, di
potente stimolo per la creatività del presente e la costruzione del futuro. In relazione a
questi temi, si solleva spesso un interrogativo sulla proprietà del patrimonio culturale,
sballottata di continuo tra la sfera pubblica e la sfera privata; in questo interrogativo i
linguaggi del diritto, dell’etica e della storia si mescolano inestricabilmente. Infine, la
questione dei costi per la conservazione e la salvaguardia del patrimonio culturale è
spesso trattata oggi separandola da quella della sua funzione. Si dà inoltre per
scontato che il patrimonio culturale è un fardello che pesa sul budget dello Stato e non
che possa divenire una riserva di energia per i cittadini e per le Nazioni.
Gli uomini politici e gli economisti affrontano spesso queste questioni riferendosi
esclusivamente alla prospettiva presente, ai problemi della spesa pubblica e della
libera concorrenza di mercato. Non è tuttavia meno legittimo rivendicare il ruolo della
storia. La storia può dimostrare come il patrimonio culturale non sia un inutile fardello
che ci trasciniamo da secoli in mancanza di nozioni economiche e politiche, ma come
al contrario partecipi alla cosciente elaborazione di una strategia sociale destinata a
formare e rafforzare l’identità culturale, i legami di solidarietà, il senso di appartenenza
che sono condizioni necessarie di ogni società strutturata e, come riconoscono gli
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economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di
produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro
della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere
storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle
società.

Le risibili e false stime del nostro patrimonio


Accenneremo ora all’Italia di oggi per tornare in seguito a quella di ieri. Vorrei
cominciare con qualche citazione: 1. «Secondo le stime dell’Unesco, l’Italia possiede
tra il 60 e il 70% del patrimonio culturale mondiale» (rapporto Eurispes 2006). 2. «Il
72% del patrimonio culturale europeo si trova in Italia e almeno il 50% del patrimonio
mondiale è situato nel nostro Paese» (Silvio Berlusconi, conferenza stampa a Londra,
10 settembre 2008). 3. Secondo un ministro siciliano, «È situato in Italia il 60% del
patrimonio culturale mondiale, il 60% del quale in Magna Grecia e il 60% di
quest’ultimo in Sicilia»; ma secondo un consigliere regionale toscano, «L’Italia possiede
da sola il 60% del patrimonio culturale dell’umanità, il 50% del quale si concentra in
Toscana»; secondo un collaboratore del sindaco di Roma, «l’Urbe detiene dal 30 al
40% del patrimonio culturale del mondo». Sommando tutte queste cifre risulta che
l’Italia da sola supererebbe di gran lunga il 100% del patrimonio culturale del pianeta.
Evidentemente questi «dati dell’Unesco» non esistono e le cifre periodicamente
improvvisate sono forse un sintomo dell’orgoglio nazionale, ma sicuramente di
irresponsabile superficialità.
L’Italia è tuttavia un Paese molto importante in materia di patrimonio culturale. Il suo
ruolo centrale non risiede però nella quantità ma piuttosto nella qualità del suo
patrimonio e soprattutto in tre fattori diversi che sono l’armonia secolare tra le città e il
paesaggio, la forte presenza nel territorio del patrimonio e dei valori ambientali e l’uso
continuo in situ di chiese, palazzi, statue e quadri. In Italia, i musei non contengono che
una piccola porzione del patrimonio artistico che è sparpagliato nelle città e nelle
campagne. In questo insieme che è il frutto di un accumulo plurisecolare di ricchezza e
civiltà, il totale è superiore alla somma degli addendi. Esiste tuttavia un quarto fattore
non meno importante, è il «modello Italia» della cultura e della conservazione del
patrimonio.

I primi al mondo a darci delle leggi


Molto prima dell’unificazione del Paese, gli Stati italiani sono stati i primi al mondo a
dotarsi di regole e istituzioni pubbliche in questo campo. L’Italia è stata la prima a
integrare la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nei principi fondamentali
della sua Costituzione. La consistenza e la qualità del patrimonio da un lato, la cultura
italiana della salvaguardia dall’altro sono le due facce della stessa medaglia. Le regole
in merito alla conservazione non avrebbero visto la luce del giorno senza un senso
civico risvegliato dalla densità del patrimonio culturale e la presenza di quest’ultimo non
sarebbe mai stata così durevole se non fosse stata garantita da regole nel corso dei
secoli. Che debbano esistere delle regolamentazioni pubbliche dei principi di tutela non
è affatto dimostrato e, in effetti, la maggior parte dei Paesi non ne hanno avute per
molto tempo. Nel XX secolo e in particolare all’inizio della seconda guerra mondiale, le
leggi di tutela del patrimonio si sono moltiplicate in diversi Paesi (ad esempio in
America Latina, in Africa e in Asia) seguendo modelli importati dall’Europa, ma i modelli
europei si sono sviluppati a loro volta prendendo esempio dall’Italia.
Il concetto di patrimonio culturale si è formato a partire dall’idea di patrimonio nazionale
elaborato in Francia tra la Rivoluzione e la Restaurazione allo scopo di utilizzare il
patrimonio per definire la Nazione come un’unità culturale e giuridica. L’enorme bottino
di opere d’arte messo insieme dall’esercito francese e trasportato a Parigi ha quindi
dato luogo ad appassionati dibattiti. Questa razzia trovava la sua giustificazione
nell’idea (ispirata da Winckelmann) che le arti non si sviluppino se non in un regime di
libertà. È questa la ragione per cui la Francia postrivoluzionaria, in quanto patria della
libertà, era di diritto la patria dell’arte.
Secondo il ministro degli Interni François de Neufchâteau (1794), «i grandi artisti del
passato non lavoravano per i re o i papi» ma per i cittadini, perché questi creatori
«prevedevano i destini dei popoli». «…mani famosi, divini genii (…) Sì: era per la
Francia che partorivate i vostri capolavori. Alla fine quindi essi hanno trovato la loro
destinazione», Parigi. In Italia questa gigantesca razzia venne vissuta come una
violenza, ma la reazione più severa e coerente è venuta dalla stessa Francia. Nelle
sue Lettres au général Miranda sur le préjudice qu’occasionneraient aux Art set à la
Science le déplacement des monuments de l’art de l’Italie, le démembrement de ses
écoles et le spoliation de ses écoles, galeries, musées (1796), Quatremère de
Quincy sostenne che strappare le opere d’arte dal contesto per il quale erano state
create era un crimine contro la memoria storica: un Raffaello uscito dal suo contesto
non esprime niente, non è una reliquia (come un frammento della Santa Croce) che
può comunicare «le virtù legate all’insieme». Le stesse posizioni furono molto presto
difese in una petizione indirizzata al Direttorio e firmata da 50 artisti, tra i quali David.
Quatremère focalizzava la sua attenzione su Roma e ricordava, a questo fine, le
antiche regole di tutela dei papi in vigore dal XV secolo. È così che a partire dalla
Francia si è diffuso in tutta Europa un grande dibattito culturale e politico, di cui l’Italia
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era il centro generatore.


In tutti gli Stati italiani preunitari esistevano regole di conservazione del patrimonio
molto simili tra di loro e con influenze reciproche. Percorreremo brevemente una storia
che si svolge tra Firenze, Roma e Napoli tra il 1725 e il 1755. Intorno al 1725, a
Firenze, appariva ormai evidente che la dinastia dei Medici volgeva al termine e che le
potenze europee avrebbero attribuito il Granducato di Toscana a una nuova dinastia.
Per paura che il nuovo Granduca esportasse i tesori artistici dei Medici, nel 1728 venne
fondata un’istituzione per la pubblicazione delle collezioni del Granducato che diede
alle stampe i 12 volumi del Museum Florentinum a partire dal 1731. Neri Corsini,
divenuto in seguito cardinale, faceva parte del novero dei promotori dell’iniziativa e,
quando la Toscana venne attribuita a Francesco Stefano di Lorena, fu l’ispiratore del
«patto di famiglia» tra il nuovo granduca e l’ultima dei Medici, Anna Maria Luisa (1737),
in virtù del quale le collezioni dei Medici sarebbero dovute restare per sempre a Firenze
come in effetti poi avvenne.
Spostiamoci ora a Roma. Nel 1728, il cardinale Alessandro Albani, nipote del papa
Clemente XI, vendette al re di Polonia Augusto II trenta delle più belle statue della
sua collezione (oggi a Dresda). I regolamenti pontifici vietavano l’esportazione di
antichità, ma il cardinale camerlengo che avrebbe dovuto farli rispettare era allora
Annibale Albani, fratello di Alessandro che non impedì questa vendita. Eppure, nel
1733, quando Alessandro Albani cercò di vendere la sua seconda collezione in
Inghilterra, questa venne bloccata e le sculture furono acquistate dal nuovo papa
Clemente XII, che in questa occasione fondò il Museo Capitolino, primo museo
pubblico d’Europa (1734). Il nuovo papa era un Corsini di Firenze e l’ispiratore di
questa iniziativa era suo nipote il cardinale Neri Corsini, lo stesso che si era battuto per
il mantenimento dei tesori artistici dei Medici a Firenze.
Passiamo ora a un’altra capitale italiana: Napoli. Il re Carlo di Borbone, allora
diciottenne, inaugurò una nuova era del regno ridivenuto indipendente dopo secoli di
dominazione spagnola. Iniziò gli scavi a Ercolano (a partire dal 1738) e a Pompei (a
partire dal 1748) che portarono in luce una massa enorme di nuove antichità. È in
questo contesto che apparve la legislazione napoletana sulla tutela del patrimonio
(1755), il cui punto di partenza era il «profondo disappunto» del re per le esportazioni di
antichità e che riprendeva la legge pontificia del 1733. Da lì nacquero i volumi
delle Antichità di Ercolano esposte e il Real Museo Borbonico. L’idea della
conservazione degli oggetti d’arte nel contesto del loro luogo d’origine, idea delle più
«italiane», si affermò così anche a Napoli. In effetti, quando Carlo III divenne re di
Spagna (1759), egli non promulgò nessuna misura di protezione. Il «profondo
disappunto» espresso per la mancanza di salvaguardia delle opere d’arte a Napoli
scomparve quindi a Madrid? No. In un caso come nell’altro, il sovrano non elaborava
personalmente le leggi, ma esprimeva la cultura civica e giuridica del posto.
L’emulazione tra Stati presuppone una profonda sintonia culturale che appartiene a un
fondo comune di valori civici e morali. In effetti, la storia delle regole di tutela del
patrimonio negli antichi Stati italiani comincia ben prima dell’Unità e prosegue fino a
oggi.
Domandiamoci allora perché esista una tale continuità. A Roma, leggi molto organiche
vengono emanate da Pio VII nel 1802 e nel 1819 (poco dopo la razzie di opere d’arte
perpetuata dall’esercito francese e poco dopo il ritorno in patria delle opere
saccheggiate). Il Commissario pontificio per le antichità Carlo Fea si rifece alle regole
dei papi del passato, a cominciare da Martino V (1425), Pio II (1462) e Leone X (1515)
e stabilì una continuità con i principi del diritto romano imperiale, in particolare
rintracciando nella Roma antica le origini del concetto di publica utilitas così spesso
evocato nella legislazione dei pontefici.
Le regole degli altri Stati italiani erano molto simili, da Venezia a Lucca, da Parma a
Modena e a Milano. Dovunque si prendeva l’iniziativa di redigere il catalogo delle opere
d’arte (innanzi tutto a Venezia nel 1773) e di creare istituzioni di sorveglianza come il
Generale Ispettore delle Arti di Venezia (1773) o la Regia Custodia delle Antichità di
Sicilia (1778). Ma perché gli antichi Stati italiani agivano in questo modo emulandosi gli
uni con gli altri, quando nulla li obbligava a farlo?

Perché gli Stati italiani davano tanta importanza alle proprie opere d’arte
L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a
partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i
monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione
emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata.
Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162)
sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della
Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare
così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno
attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal
fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che
governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento,
essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei
senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza,
abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas.
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L’unanimità con la quale gli Stati preunitari si sono dotati di regole di tutela è stata (così
come l’uso della lingua italiana dalle Alpi alla Sicilia) un autentico linguaggio comune
nutrito di uno stesso senso della «bellezza» e dell’«ornamento» delle città e di
un’identica tensione nel trasmettere i valori da una generazione all’altra, anche per il
tramite di appositi magistrati come gli Ufficiali dell’Ornato (ente per l’abbellimento), attivi
a Siena dal 1403. Queste regole trovavano il loro fondamento giuridico nella nozione di
publica utilitas che, come ho già spiegato, risaliva al diritto romano. Per esempio, la
Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava
espressamente l’assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati
nell’edificazione. È su questo principio che si è esplicitamente fondato l’editto del 1733
che legava le collezioni di antichità a Roma, come le leggi che l’hanno seguito, a Roma
come a Napoli e altrove.

I piemontesi difendevano la proprietà privata


Il principio «d’utilità pubblica» del patrimonio culturale è un elemento forte di continuità
nella storia nazionale d’Italia. Tuttavia, dopo la costituzione del Regno d’Italia (1859-60
con la successiva annessione di Roma nel 1870), ci è voluto molto tempo per arrivare a
una legge unitaria di tutela. Lo Stato promotore dell’unità italiana era il Regno di
Sardegna che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Savoia, dove la tradizione di
tutela del patrimonio era molto debole e lo Statuto concesso dal re Carlo Alberto nel
1848 affermava l’inviolabilità della proprietà privata, cioè esattamente il contrario che
negli Stati Pontifici e nel Regno di Napoli. Da qui sono nati conflitti protrattisi per
decenni nel Parlamento nazionale mentre la capitale si spostava da Torino a Firenze e
poi a Roma. Si è dovuto attendere il 1902 per arrivare a una prima legge, seppure
molto debole, che è stata rimpiazzata nel 1909 da una migliore. L’argomento che
faceva abortire le numerose proposte di legge era sempre lo stesso. Era il primato del
bene pubblico sugli interessi privati che suscitava strenue resistenze da parte dei
grandi proprietari terrieri fortemente rappresentati in Senato (allora nominato dal re).
Negli anni 1907-1908 ci fu un’importante mobilitazione pubblica che alla fine portò alla
legge del 1909, intesa in continuità diretta alle regole di certi Stati preunitari, in
particolare di Roma e Napoli.
La legge del 1909 sancì il primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata per tutti
«i beni mobili e immobili dotati di interesse storico, archeologico, paleontologico e
artistico» vietando la loro alienazione quando fossero di proprietà pubblica e
incaricando della loro sorveglianza e conservazione il Ministero della Pubblica
Istruzione. I beni rilevanti di proprietà privata non erano oggetto di una tutela completa
a meno che presentassero un «interesse importante»: in questo caso si procedeva a
una misura di notifica e la loro esportazione era vietata. In caso di vendita, lo Stato
disponeva di un diritto di prelazione. Le scoperte archeologiche vennero dichiarate
proprietà dello Stato e la loro esportazione vietata. La versione originale della legge
conteneva anche altri principi approvati dalla Camera ma non dal Senato, fra cui
l’azione popolare che si riferiva all’actio popularis del diritto romano. Questa doveva
dare a ogni cittadino la facoltà di «far valere i diritti di competenza dello Stato», cioè di
reclamare il rispetto delle regole di tutela per difendere il bene pubblico. Era insomma
una sorta di class action destinata (secondo la relazione alla Camera) ad «avere
un’opinione pubblica forte, ben costituita, ben diretta e ausiliaria dello Stato nella
conservazione del patrimonio artistico». Ma questo principio non venne adottato né
allora né successivamente.

La proprietà fondiaria contro la tutela del paesaggio


Nel testo approvato dalla Camera, la legge contemplava anche la tutela del paesaggio,
che fu annullata dal Senato in cui sedevano numerosi rappresentanti dell’aristocrazia e
della grande proprietà fondiaria. All’epoca si parlava ormai spesso di tutela del
paesaggio in Italia, anche sotto l’influenza di altre esperienze, tra le quali ebbe grande
riscontro in Italia la legge francese Beauquier (1906) e il movimento per la protezione
della natura sviluppatosi negli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Sotto
la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-1909) si era svolta la più vasta campagna
della storia nell’ambito della tutela dell’ambiente naturale e si era concretizzata
attraverso la creazione di 6 parchi nazionali, 18 monumenti nazionali, 51 riserve
ornitologiche federali e 150 foreste nazionali. Roosevelt si era esplicitamente ispirato a
un principio già formulato da Gifford Pinchot (primo capo del servizio forestale degli
Stati Uniti): «conservare significa creare il massimo vantaggio possibile per il maggior
numero possibile (di cittadini) il più a lungo possibile». Egli commentò anche: «il criterio
del maggior numero possibile deve applicarsi a tutto il corso dei tempi e, in questo
ambito, noi che viviamo oggi non rappresentiamo che una frazione insignificante. Noi
abbiamo il dovere di rispettare l’insieme degli uomini, soprattutto le generazioni non
ancora nate. Dobbiamo dunque impedire che una minoranza senza principi distrugga
un patrimonio che appartiene alle generazioni a venire. Il movimento per la
conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali è per la sua stessa essenza
democratico nello spirito, nelle finalità e nel metodo». Tra i pionieri della difesa
dell’ambiente è annoverato George Perkins Marsh, primo ambasciatore americano in
Italia per vent’anni (1861-82), che vi ha scritto il suo libro L’Uomo e la natura o la
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geografia fisica modificata dall’azione umana (1864), immediatamente tradotto in


Italiano.
La protezione della natura come obbligo morale nei confronti delle generazioni future e
il forte legame tra la salvaguardia della natura e l’identità nazionale non solo sono state
caratteristiche della difesa dell’ambiente in America ma anche di analoghi movimenti in
Europa (per esempio in Francia, in Germania e nel Regno Unito). John Ruskin si è
mostrato particolarmente eloquente nel contesto inglese. Secondo lui, il paesaggio
deve essere protetto in quanto fonte di esperienze etiche ed estetiche forti, non
soltanto sul piano individuale ma per la collettività dei cittadini. Il paesaggio riflette e
determina l’ordine morale e per questo è un luogo chiave per la responsabilità sociale.
Di fronte ad esso, le istanze sociali e politiche sono obbligate a misurarsi con i valori
della natura, della bellezza e della memoria e non possono rinunciarvi senza tradire se
stesse. Le teorie di Ruskin sono state diffuse in Francia da Robert de la Sizeranne in
un libro (Ruskin et la religion de la beauté, 1897) che ha avuto grande successo in
Italia. Da questo è tratta la frase che, spesso attribuita a Ruskin, diventerà lo slogan
della protezione della natura in Italia: «Il paesaggio è il volto amato della patria».
Tuttavia, il paesaggio italiano non è solo natura. Esso è stato modellato nel corso dei
secoli da una forte presenza umana. È un paesaggio intriso di storia e rappresentato
dagli scrittori e dai pittori italiani e stranieri e, a sua volta, si è modellato con il tempo
sulle poesie, i quadri e gli affreschi. In Italia, una sensibilità diversa e complementare si
è quindi immediatamente aggiunta all’ispirazione naturalista. Essa ha assimilato il
paesaggio alle opere d’arte sfruttando le categorie concettuali e descrittive della
«veduta» che si può applicare tanto a un quadro o a un angolo di paesaggio come lo si
può osservare da una finestra (in direzione della campagna) o da una collina (in
direzione della città). Secondo il Viaggio in Italia di Goethe, le architetture inserite nel
paesaggio italiano sono «una seconda natura destinata alla pubblica utilità» o «che
opera a fini civili».

La legge del 1920 voluta da Benedetto Croce


La tutela del paesaggio in Italia si è innestata sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile
e politico che aveva dato luce alle regole di tutela del patrimonio. Con la crescita
dell’industrializzazione (più lenta che nel nord Europa), i pericoli per il paesaggio
italiano sono cresciuti e il movimento di protezione della natura si è sviluppato. Ha dato
vita ad associazioni e movimenti di opinione e, nel 1905, a una regolamentazione ad
hoc per la salvaguardia della pineta di Ravenna. Tuttavia, la prima legge organica è
stata elaborata nel 1920 da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione.
Nella sua relazione al Senato, Croce si appella ai precedenti americani ed europei e
allude a ciò che è e resta il «doppio cuore» del problema, cioè da un lato la relazione
tra natura e cultura (in Italia tra città e campagne), e dall’altro l’equilibrio tra interesse
pubblico e proprietà privata. Un «grandissimo interesse morale e artistico legittima
l’intervento dello Stato», scrive Croce, perché il paesaggio «non è nient’altro che la
rappresentazione materiale e visibile della patria».
Le misure di tutela rappresentano, è vero, una limitazione dei diritti della proprietà
privata, ma si tratta, dice Croce, di una servitù di pubblica utilità, assolutamente
necessaria. Sarebbe ugualmente inammissibile «sfigurare un monumento o fare
oltraggio a un bel paesaggio, entrambi destinati al godimento di tutti». Si riallaccia qui
al tema della publica utilitas e richiama il diritto romano. Nel corso dei dibattiti alla
Camera, furono evocate le servitù di veduta (servitus prospectus) previste nel diritto
romano, per esempio per Costantinopoli.

Le due leggi «fasciste» di Bottai del 1939


La legge Croce venne approvata pochi mesi prima dell’avvento del fascismo, nel 1922.
Per diciassette anni, il regime di Mussolini non modificò nulle delle regole di tutela ma,
nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai intraprese una riforma organica ed elaborò due
leggi parallele per la tutela del patrimonio e la tutela del paesaggio. Queste leggi,
seppure emanate sotto un governo fascista, non avevano niente di particolarmente
«fascista». Esse presentavano al contrario una redazione più precisa e completa della
regolamentazione dell’Italia liberale, la legge Rava del 1909 e la legge Croce del 1920-
22. In materia di paesaggio, Bottai impose il principio della «servitù di godimento
pubblico» esplicitamente ripresa da Croce. In materia di patrimonio, la legge si ispirava
al primato dell’interesse pubblico sulla proprietà privata. Durante la fase di elaborazione
delle leggi, Bottai si avvalse della migliore intellighenzia italiana, in particolare di
Roberto Longhi, Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e del grande giurista Santi Romano.
Le due leggi del 1939, che è impossibile descrivere nel dettaglio in questa sede, sono
state elaborate come dittico e hanno stabilito che la tutela del paesaggio e la tutela del
patrimonio storico, archeologico e artistico erano le due facce della stessa medaglia,
conclusione in corrispondenza perfetta con la tradizione civile e giuridica secolare degli
italiani. Possiamo anche risalire alle origini molto antiche di questo strettissimo legame
nei sistemi giuridici italiani, e ritornare indietro almeno fino all’ordinanza del Patrimonio
reale di Sicilia del 21 agosto 1745 che impose congiuntamente la conservazione delle
antichità di Taormina e del bosco di Carpineto sul monte di Mascali come del
«castagno dei cento cavalli» (oggi nel parco dell’Etna). L’autore di questa misura era il
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viceré di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa cui dobbiamo
importantissime regole di tutela (1733) e la creazione del Museo Capitolino, come
abbiamo visto. Il viceré Corsini era anche fratello del cardinale Neri Corsini, l’ispiratore
del Museum Florentinum e del «patto di famiglia» Medici-Lorena (1737) che ha
assicurato il mantenimento perpetuo delle collezioni dei Medici a Firenze.
Le due leggi Bottai, approvate in dittico nel giugno del 1939 a qualche settimana di
distanza l’una dall’altra, erano così poco fasciste che dopo la guerra e la catastrofica
caduta del fascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza ne ha iscritto il nucleo
originario tra i principi fondamentali dello Stato nella Costituzione della Repubblica.
L’articolo 9 della Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) enuncia: «La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’Assemblea Costituente
giunse a questa formulazione dopo lunghi dibattiti e undici differenti formulazioni. I
rappresentanti di tutti i partiti contribuirono al testo finale, in particolare il comunista
Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. Nella Costituzione italiana, fa parte
dei «principi fondamentali dello Stato» e si lega a una sapiente struttura di valori, in
particolare «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), i «doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), i limiti imposti alla proprietà
individuale «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a
tutti» (art. 42). E inoltre, la Corte Costituzionale ha ugualmente riconosciuto come
valore costituzionale la tutela dell’ambiente (non espressamente menzionata nel testo)
facendola derivare dalla convergenza della tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla
salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione italiana è la sintesi di un processo secolare che
ha due caratteristiche principali: la priorità dell’interesse pubblico sulla proprietà privata
e lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e la tutela del paesaggio. Si è
trattato in effetti di una «costituzionalizzazione» delle leggi di tutela del 1939 come
attestato dai dibattiti dell’Assemblea Costituente. Dire che «La Repubblica protegge il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» non è una dichiarazione
d’intenti, ma piuttosto la descrizione di un sistema normativo e istituzionale già in atto.
Da un alto le regole (le due leggi Bottai del 1939) e dall’altro le istituzioni (il sistema
delle Soprintendenze territoriali divise per competenze e incaricate concretamente di
una missione di sorveglianza e tutela). La perfetta continuità tra le leggi dell’Italia
liberale, le due leggi approvate dal governo fascista e infine l’articolo 9 della
Costituzione della Repubblica non sorprenderà se non quelli che ragionano per
etichette e appartenenze senza entrare nella complessità della storia delle idee. Ancora
più sorprendente sarà per essi l’evidente continuità tra le regole di tutela degli Stati
italiani dell’ancien régime (come Roma o Napoli) e la cultura del patrimonio e della
conservazione diffusa in Europa dopo la rivoluzione francese. Non si trattava quindi di
«restaurazione» delle regole più antiche, ma di una nuova riflessione sui linguaggi e le
regole dell’ancien régime alla luce di idee direttrici nuove come quelle di nazione, di
sovranità popolare e di cittadinanza, che gli avvenimenti della rivoluzione francese
avevano cambiato per sempre fornendo contenuti inediti alla nozione di «bene
comune» e incarnandolo anche nei monumenti.
Una breve citazione dei Principi della filosofia e del diritto di Hegel (1821) lo dimostra
bene: «I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, cioè più esattamente, come nel
caso delle opere d’arte in generale quando esse sono utilizzate, i monumenti pubblici
hanno valore di fini viventi e autonomi fin tanto che sono abitati dall’anima della
memoria e dell’onore. Quando quest’anima li ha lasciati, al contrario, essi diventano in
questo senso, per la nazione, delle proprietà private, anonime e accidentali, come le
opere d’arte greche ed egiziane in Turchia». In questo testo molto denso, si riconosce
la nobile concezione del patrimonio nazionale che abbiamo visto nascere con
Quatremère. I due poli convergenti di «memoria» e «onore» con la loro forte carica
etica ritornano alla collettività dei cittadini ma presuppongono la forma dello Stato e
richiedono una piena armonia tra etica e politica. Se «l’anima della memoria e
dell’onore» scompare dall’orizzonte della vita e della storia, si produce una perdita
radicale di significato. Questo evento, secondo Hegel, si era prodotto in Turchia, cioè
nell’Impero Ottomano, per le antichità greche e egiziane.
Dagli statuti dei Comuni italiani del Medioevo alle leggi degli Stati preunitari e dell’Italia
unificata fino alla Costituzione della Repubblica si disegna il percorso della cultura della
tutela del patrimonio in Italia, un percorso unico per la sua lunga durata oltre che per la
sua coerenza. Che i principi della tutela debbano essere iscritti nella Costituzione di un
Paese moderno non è affatto evidente, e ancora oggi assai raro. L’articolo 9 della
Costituzione italiana non ha avuto che due precedenti: la Costituzione della Repubblica
di Weimar (1919) e quella della Repubblica Spagnola (1931), che fu peraltro di
brevissima durata. In nessuno di questi due casi, comunque, la tutela del patrimonio
faceva parte dei principi fondamentali dello Stato. A tutt’oggi, pochi Stati hanno dato a
questo principio un rango costituzionale. In Europa, è uno dei principi fondamentali
della Costituzione maltese e portoghese e ricopre forme diverse in altri Paesi, dalla
Polonia alla Grecia ma anche nel continente americano, per esempio in Costa Rica e in
Brasile.
Ho finora raccontato una storia «in crescendo», dalle regole sparse di qualche città nel
Medioevo alla Costituzione di uno Stato moderno; e potrei benissimo proseguire
ancora aggiungendo delle leggi e delle regole più recenti, in particolare la creazione del
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02/09/2020 https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2012/10/114543.html

ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e
del Paesaggio (2004, modificato nel 2006 e 2008) alla cui redazione ho partecipato e
che ha modificato le leggi del 1939 conservandone tuttavia la la sostanza e lo spirito.

Ma dopo, e contro, le leggi inizia la distruzione massiccia


Devo tuttavia concludere con un tono completamente diverso, dichiarando senza mezzi
termini che questo complesso sistema di tutela (il più vecchio e probabilmente ancora
oggi sulla carta tra i migliori al mondo) funziona oggi sempre meno bene. La distruzione
del paesaggio è sempre più drammatica. Basta ricordare che in 15 anni, dal 1990 al
2005, il 17% della campagna italiana si è ricoperta di nuove costruzioni, che ogni anno
vengono edificati oltre 250 milioni di metri cubi e che la crescita della superficie
abitativa dovuta alle nuove costruzioni è quaranta volte superiore alla modestissima
crescita demografica (0,4%). L’armonico rapporto città-campagna costruito nei secoli
sta cedendo terreno a un urban sprawl (distribuzione urbana) incontrollato che ospita
ormai quasi un quarto della popolazione e delle attività produttive. L’antica forma urbis
sta esplodendo e la sua espansione indefinita non annulla soltanto la periferia ma
anche il centro. Nel nuovo paesaggio di periferia, lo spazio residuo tra le
agglomerazioni perde il suo carattere di filtro e assume quello di terra di nessuno,
mentre la terra delle campagne, coperta di cemento, perde per sempre le funzioni
ecologiche che esercitava. Un territorio eccezionalmente fragile, soggetto a frane,
inondazioni e terremoti è sempre più lasciato a se stesso e, mentre iniziano immensi
lavori pubblici (per esempio il ponte sullo Stretto di Messina) non si fa quasi nulla per
consolidare le zone più esposte ai rischi. Mentre le leggi di tutela restano in vigore e
addirittura si migliorano un poco nel tempo, vengono concesse periodicamente
deroghe, eccezioni o anche condoni in modo tale che quanti hanno commesso un
delitto distruggendo un angolo di paesaggio possano fare ammenda pagando una
piccola multa allo Stato o alle municipalità. Dato che questi condoni vengono accordati
periodicamente (soprattutto dai Governi di destra), tutti sanno di potere violare
impunemente la legge e che basterà attendere qualche anno per mettersi in regola
pagando un’ammenda.
In materia di tutela del patrimonio culturale, si registra una profonda crisi di risorse
umane e finanziarie. Da molti anni non si assume più personale e i funzionari di
Soprintendenza hanno ormai in media 55 anni, cioè sono destinati ad andare in
pensione entro cinque o dieci anni al massimo. Nel 2008 il Governo Berlusconi ha
ridotto il budget del Ministero dei Beni culturali di circa un miliardo e mezzo di euro
rendendo così praticamente impossibile qualsiasi intervento, anche i restauri urgenti
divenuti indispensabili (come dopo il crollo della volta della Domus Aurea di Nerone). A
fronte di queste carenze si sta affacciando l’idea di privatizzare il patrimonio culturale o
di vendere una parte dei monumenti con il pretesto di adottare il «modello americano»
di cui tutti parlano ma che nessuno conosce veramente. Nel frattempo il peso
crescente della Lega Nord, partito nato con il progetto di realizzare la secessione delle
regioni del Nord dal resto d’Italia, accresce la probabilità di una riforma costituzionale di
orientamento «federalista» il cui enorme costo per i cittadini nessuno si preoccupa di
misurare.
Per tracciare i confini di questa crisi bisogna almeno sommariamente richiamare un
terzo punto. L’assenza di leggi non figura tra le ragioni della continua distruzione del
paesaggio e del patrimonio. In questo campo esiste, al contrario, una sorta di
accanimento terapeutico che origina un numero di leggi troppo elevato che è la ragione
per cui è difficile osservarle tanto più che esse si sono spesso sedimentate nel tempo
in maniera incoerente creando un labirinto di conflitti di competenze, in particolare tra lo
Stato e le Regioni. Citerei a questo proposito il caso più grave che è rappresentato dal
caos terminologico creato intorno alla tre parole chiave «paesaggio», «territorio» e
«ambiente».

Il caos delle tre parole chiave: paesaggio, territorio e ambiente


Il «paesaggio», secondo l’articolo 9 della Costituzione, come abbiamo visto, deve
essere posto sotto la tutela dello Stato e, in particolare, del Ministero dei Beni culturali,
ma il «territorio», secondo l’articolo 117 della Costituzione, deve essere regolamentato
e pianificato non dallo Stato centrale ma dalle Regioni e dai Comuni. Infine,
«l’ambiente» è oggetto di competenza mista e, a livello dello Stato centrale, è un altro
Ministero denominato proprio «dell’Ambiente» ad averne la responsabilità. Non si tratta
di un dibattito astratto. Se, per esempio, si deve decidere dell’opportunità di distruggere
o meno una grande pineta sulla costa tirrenica, chi dovrà prendere la decisione a
questo proposito e accordare le relative autorizzazioni? Lo Stato, la Regione, il
Comune? La legislazione è così complessa, soprattutto dopo la riforma costituzionale
del 2001, che numerosi conflitti di competenza vengono portati ogni anno davanti alla
Corte Costituzionale. Sarebbe quindi necessario porsi una domanda più radicale:
esiste un territorio senza paesaggio e senza ambiente? Un paesaggio senza territorio e
ambiente? Un ambiente senza paesaggio e senza territorio? Una revisione delle leggi
finalizzata alla riunificazione delle tre Italie del paesaggio, del territorio e dell’ambiente
è tanto difficile da realizzare quanto indispensabile.

A nessun politico, senza eccezioni, interessa il patrimonio artistico


La cronaca quotidiana, che non vado certo a ripercorrere oggi, mostra insomma l’usura
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02/09/2020 https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2012/10/114543.html

progressiva e forse irreversibile della lunga tradizione italiana di tutela del patrimonio e
di civiltà etica e giuridica del bene comune di cui in precedenza ho brevemente evocato
la storia. Bisogna dunque domandarsi se ogni speranza è morta o se ci sono ancora
dei rimedi da adottare. La mia non può essere che una risposta individuale di cittadino
e non di uomo politico e deve partire da due semplicissime constatazioni. In primo
luogo, nessun partito politico attivo nell’Italia di oggi, senza alcuna eccezione, ha
richiamato l’attenzione su questo tema, per esempio in occasione delle elezioni
politiche del 2008 o delle elezioni regionali del 2010. In secondo luogo, circa 20mila
associazioni di cittadini, piccole e grandi, hanno fatto la loro apparizione negli ultimi
anni promuovendo campagne di informazione e di difesa dei loro rispettivi territori.
Questo «particolarismo italiano», che sembra aggiungersi alle così numerose altre
forze di disgregazione del Paese, potrebbe avere in sé qualche caratteristica positiva,
almeno lo spero, e riconnettere il meglio delle forze politiche ufficiali all’antica cultura
delle città facendo rinascere forme di «azione popolare» o di class action come quelle
che erano state prese in considerazione al momento dell’emanazione della legge del
1909.

Gli italiani hanno perso la coscienza


del valore del paesaggio
La crisi che viviamo è una ragione in più per riflettere, con un occhio rivolto al passato e
l’altro al futuro, sui modelli storici di conservazione del patrimonio e sul loro destino. Per
restituire all’antico modello consolidato della conservazione contestuale del paesaggio
e del patrimonio, lo smalto e lo slancio richiesti dalle circostanze e dalla nostra
responsabilità nei confronti delle generazioni future, è necessario sottomettersi a nuove
questioni e nuove tensioni. Perché la conservazione del patrimonio abbia ancora un
senso e perché il museo abbia ancora un avvenire nella città, credo che sia
assolutamente necessario saper innescare due processi culturali. Il primo, del quale ho
parlato, è la piena coscienza storico-istituzionale della funzione civile e sociale del
patrimonio nella storia d’Europa. Il secondo processo, del quale non posso che
accennare, è la piena reintegrazione della cultura della tutela del patrimonio nei grandi
sviluppi culturali dei nostri tempi.
Perché il paesaggio non sia cannibalizzato da un pugno di speculatori senza scrupoli,
esso deve divenire un luogo di coscienza di sé della società che l’ha creato e che lo sta
distruggendo (è la «produzione dello spazio» evocata da Henri Lefebvre). Come ci
bene mostrato Jean Clair nel suo recente libro L’hiver de la culture, i musei, come tutte
le istituzioni culturali, sono soggetti all’usura del tempo e potrebbero quindi ben avere,
in un prossimo futuro, la loro data di scadenza. Per non morire, il museo deve dialogare
con la città e diventare un nodo urbano che si fonde al tessuto patrimoniale, civile e
sociale della città e farsi concentrato e vetrina della sedimentazione storica e della
memoria collettiva. Definire nuove funzioni per il paesaggio e il patrimonio è un
obiettivo urgente che compete in primo luogo agli storici dell’arte come noi.
In realtà, il futuro della conservazione del patrimonio nelle nostre città si gioca innanzi
tutto nella difesa del paesaggio e dell’ambiente, nella coscienza dei valori civili e sociali
ad essi legati e non tra le mura di un museo. La scelta in effetti è la seguente: o il
nostro patrimonio nel suo insieme, nel tessuto vivente della città e del paesaggio
ridivengono un luogo di coscienza di sé del cittadino e un centro generatore di energia
per la polis, o il loro destino è perire. La responsabilità etica e professionale degli storici
dell’arte è anche di comprendere questo grave pericolo e di contribuire a evitarlo.

Poiché gli italiani non se ne occupano, ci vuole un movimento d’opinione (e di


indignazione) internazionale
Tuttavia, gli sforzi isolati non bastano, per generosi e accaniti che siano. Un più ampio
movimento di opinione che non si limiti all’Italia ma che possa farne un’opportunità di
riflessione, è necessario, anzi urgente.
La qualità del patrimonio dell’Italia e del suo paesaggio, ma anche l’antichità delle sue
tradizioni di tutela, storicamente legate a una piena coscienza e a una forte etica,
attirano sempre di più l’attenzione dei cittadini di altri Paesi (soprattutto in Europa e in
America). Un movimento di opinione come quello che auspico deve partire da
un’informazione solida ed esatta. Richiede che venga valutata la gravità dei rischi che il
paesaggio e il patrimonio d’Italia corrono oggi, ma richiede anche una piena coscienza
del valore civile, etico e giuridico delle antiche regole di tutela e della loro trasmissione
di generazione in generazione come elemento portante di continuità storica.
Per salvaguardare il prezioso patrimonio italiano e per evitare che ciò che resta del
nostro paesaggio venga distrutto, bisogna ripartire dai diritti delle generazioni future e,
su questa base, costruire (o ricostruire) un quadro istituzionale e legislativo credibile,
funzionale e efficace. Senza dubbio sarebbe straordinariamente importante a questo
riguardo che l’opinione pubblica internazionale illuminata esprimesse le proprie
preoccupazioni su questo tema.

Testo della conferenza «La tutela del patrimonio e del paesaggio in Italia: una
lunga storia, una crisi di grande attualità» tenuta domenica 29 maggio 2012 al primo
Festival di Storia dell’Arte nel Castello di Fontainebleau
Per un approfondimento: Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La
battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Giulio Einaudi Editore, Torino 2010
https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2012/10/114543.html 8/9

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