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Malgrado si sia data le leggi migliori del mondo, oggi l’Italia maltratta l’arte: è
stranamente diventata un Paese ignorante e regredito dove prevalgono l’incultura e
l’indifferenza verso la devastazione del paesaggio e dell’ambiente. È dunque
necessario che sia il mondo a difendere il patrimonio artistico e naturale dell’Italia?
In Europa e nel mondo si moltiplica oggi il dibattito sul ruolo che deve giocare il
patrimonio culturale nella società del futuro. La questione del patrimonio è
particolarmente presente nell’agenda culturale e politica in Italia in ragione della cieca
politica di drastici tagli al budget per la cultura, della privatizzazione del patrimonio
culturale e dell’alleggerimento degli enti pubblici di tutela che caratterizza l’attuale
Governo. Io credo comunque che l’osservatorio italiano su questo tema abbia una
grande importanza, anche fuori dall’Italia, in ragione della convergenza di tre
caratteristiche storiche: l’altissima densità del patrimonio in situ in Italia, il suo intimo
legame con il paesaggio e infine perché è in Italia (per la precisione negli Stati
precedenti all’unificazione politica del Paese) che le più antiche regole di salvaguardia
del patrimonio hanno visto la luce.
economisti con sempre maggiore chiarezza, sono anche un fattore non trascurabile di
produttività. Se vogliamo comprendere i problemi del presente e del futuro col metro
della storia secolare della conservazione, è quindi indispensabile comprendere
storicamente le ragioni ultime della nozione di patrimonio e della sua funzione nelle
società.
Perché gli Stati italiani davano tanta importanza alle proprie opere d’arte
L’origine di questa cultura civica e giuridica si deve, credo, alle città italiane che, a
partire dal XII secolo, elaborarono un potente concetto di cittadinanza secondo il quale i
monumenti di ogni città costituivano un principio di identità civica e di identificazione
emotiva che corrispondeva all’idea stessa del far parte di una comunità ben governata.
Mi limiterò a citare due documenti. 1) La delibera della municipalità di Roma (1162)
sulla Colonna Traiana, in virtù della quale, «per salvaguardare l’onore pubblico della
Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare
così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno
attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal
fisco». 2) Gli Statuti della municipalità di Siena (1309) in virtù dei quali colui «che
governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento,
essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei
senesi». In centinaia di documenti come questo leggiamo gli stessi principi: bellezza,
abbellimento (decorum), dignità, onore pubblico, bene comune o publica utilitas.
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L’unanimità con la quale gli Stati preunitari si sono dotati di regole di tutela è stata (così
come l’uso della lingua italiana dalle Alpi alla Sicilia) un autentico linguaggio comune
nutrito di uno stesso senso della «bellezza» e dell’«ornamento» delle città e di
un’identica tensione nel trasmettere i valori da una generazione all’altra, anche per il
tramite di appositi magistrati come gli Ufficiali dell’Ornato (ente per l’abbellimento), attivi
a Siena dal 1403. Queste regole trovavano il loro fondamento giuridico nella nozione di
publica utilitas che, come ho già spiegato, risaliva al diritto romano. Per esempio, la
Costituzione apostolica Quae publice utilia ac decora di Gregorio XIII (1574) affermava
espressamente l’assoluta priorità del bene pubblico sugli interessi privati
nell’edificazione. È su questo principio che si è esplicitamente fondato l’editto del 1733
che legava le collezioni di antichità a Roma, come le leggi che l’hanno seguito, a Roma
come a Napoli e altrove.
viceré di Sicilia Bartolomeo Corsini, nipote di Clemente XII, il papa cui dobbiamo
importantissime regole di tutela (1733) e la creazione del Museo Capitolino, come
abbiamo visto. Il viceré Corsini era anche fratello del cardinale Neri Corsini, l’ispiratore
del Museum Florentinum e del «patto di famiglia» Medici-Lorena (1737) che ha
assicurato il mantenimento perpetuo delle collezioni dei Medici a Firenze.
Le due leggi Bottai, approvate in dittico nel giugno del 1939 a qualche settimana di
distanza l’una dall’altra, erano così poco fasciste che dopo la guerra e la catastrofica
caduta del fascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza ne ha iscritto il nucleo
originario tra i principi fondamentali dello Stato nella Costituzione della Repubblica.
L’articolo 9 della Costituzione (entrata in vigore il 1° gennaio 1948) enuncia: «La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L’Assemblea Costituente
giunse a questa formulazione dopo lunghi dibattiti e undici differenti formulazioni. I
rappresentanti di tutti i partiti contribuirono al testo finale, in particolare il comunista
Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. Nella Costituzione italiana, fa parte
dei «principi fondamentali dello Stato» e si lega a una sapiente struttura di valori, in
particolare «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), i «doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), i limiti imposti alla proprietà
individuale «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a
tutti» (art. 42). E inoltre, la Corte Costituzionale ha ugualmente riconosciuto come
valore costituzionale la tutela dell’ambiente (non espressamente menzionata nel testo)
facendola derivare dalla convergenza della tutela del paesaggio (art. 9) e il diritto alla
salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art.32).
Insomma, l’articolo 9 della Costituzione italiana è la sintesi di un processo secolare che
ha due caratteristiche principali: la priorità dell’interesse pubblico sulla proprietà privata
e lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e la tutela del paesaggio. Si è
trattato in effetti di una «costituzionalizzazione» delle leggi di tutela del 1939 come
attestato dai dibattiti dell’Assemblea Costituente. Dire che «La Repubblica protegge il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» non è una dichiarazione
d’intenti, ma piuttosto la descrizione di un sistema normativo e istituzionale già in atto.
Da un alto le regole (le due leggi Bottai del 1939) e dall’altro le istituzioni (il sistema
delle Soprintendenze territoriali divise per competenze e incaricate concretamente di
una missione di sorveglianza e tutela). La perfetta continuità tra le leggi dell’Italia
liberale, le due leggi approvate dal governo fascista e infine l’articolo 9 della
Costituzione della Repubblica non sorprenderà se non quelli che ragionano per
etichette e appartenenze senza entrare nella complessità della storia delle idee. Ancora
più sorprendente sarà per essi l’evidente continuità tra le regole di tutela degli Stati
italiani dell’ancien régime (come Roma o Napoli) e la cultura del patrimonio e della
conservazione diffusa in Europa dopo la rivoluzione francese. Non si trattava quindi di
«restaurazione» delle regole più antiche, ma di una nuova riflessione sui linguaggi e le
regole dell’ancien régime alla luce di idee direttrici nuove come quelle di nazione, di
sovranità popolare e di cittadinanza, che gli avvenimenti della rivoluzione francese
avevano cambiato per sempre fornendo contenuti inediti alla nozione di «bene
comune» e incarnandolo anche nei monumenti.
Una breve citazione dei Principi della filosofia e del diritto di Hegel (1821) lo dimostra
bene: «I monumenti pubblici sono proprietà nazionale, cioè più esattamente, come nel
caso delle opere d’arte in generale quando esse sono utilizzate, i monumenti pubblici
hanno valore di fini viventi e autonomi fin tanto che sono abitati dall’anima della
memoria e dell’onore. Quando quest’anima li ha lasciati, al contrario, essi diventano in
questo senso, per la nazione, delle proprietà private, anonime e accidentali, come le
opere d’arte greche ed egiziane in Turchia». In questo testo molto denso, si riconosce
la nobile concezione del patrimonio nazionale che abbiamo visto nascere con
Quatremère. I due poli convergenti di «memoria» e «onore» con la loro forte carica
etica ritornano alla collettività dei cittadini ma presuppongono la forma dello Stato e
richiedono una piena armonia tra etica e politica. Se «l’anima della memoria e
dell’onore» scompare dall’orizzonte della vita e della storia, si produce una perdita
radicale di significato. Questo evento, secondo Hegel, si era prodotto in Turchia, cioè
nell’Impero Ottomano, per le antichità greche e egiziane.
Dagli statuti dei Comuni italiani del Medioevo alle leggi degli Stati preunitari e dell’Italia
unificata fino alla Costituzione della Repubblica si disegna il percorso della cultura della
tutela del patrimonio in Italia, un percorso unico per la sua lunga durata oltre che per la
sua coerenza. Che i principi della tutela debbano essere iscritti nella Costituzione di un
Paese moderno non è affatto evidente, e ancora oggi assai raro. L’articolo 9 della
Costituzione italiana non ha avuto che due precedenti: la Costituzione della Repubblica
di Weimar (1919) e quella della Repubblica Spagnola (1931), che fu peraltro di
brevissima durata. In nessuno di questi due casi, comunque, la tutela del patrimonio
faceva parte dei principi fondamentali dello Stato. A tutt’oggi, pochi Stati hanno dato a
questo principio un rango costituzionale. In Europa, è uno dei principi fondamentali
della Costituzione maltese e portoghese e ricopre forme diverse in altri Paesi, dalla
Polonia alla Grecia ma anche nel continente americano, per esempio in Costa Rica e in
Brasile.
Ho finora raccontato una storia «in crescendo», dalle regole sparse di qualche città nel
Medioevo alla Costituzione di uno Stato moderno; e potrei benissimo proseguire
ancora aggiungendo delle leggi e delle regole più recenti, in particolare la creazione del
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ministero dei Beni Culturali (1975) e, più recentemente, il Codice dei Beni Culturali e
del Paesaggio (2004, modificato nel 2006 e 2008) alla cui redazione ho partecipato e
che ha modificato le leggi del 1939 conservandone tuttavia la la sostanza e lo spirito.
progressiva e forse irreversibile della lunga tradizione italiana di tutela del patrimonio e
di civiltà etica e giuridica del bene comune di cui in precedenza ho brevemente evocato
la storia. Bisogna dunque domandarsi se ogni speranza è morta o se ci sono ancora
dei rimedi da adottare. La mia non può essere che una risposta individuale di cittadino
e non di uomo politico e deve partire da due semplicissime constatazioni. In primo
luogo, nessun partito politico attivo nell’Italia di oggi, senza alcuna eccezione, ha
richiamato l’attenzione su questo tema, per esempio in occasione delle elezioni
politiche del 2008 o delle elezioni regionali del 2010. In secondo luogo, circa 20mila
associazioni di cittadini, piccole e grandi, hanno fatto la loro apparizione negli ultimi
anni promuovendo campagne di informazione e di difesa dei loro rispettivi territori.
Questo «particolarismo italiano», che sembra aggiungersi alle così numerose altre
forze di disgregazione del Paese, potrebbe avere in sé qualche caratteristica positiva,
almeno lo spero, e riconnettere il meglio delle forze politiche ufficiali all’antica cultura
delle città facendo rinascere forme di «azione popolare» o di class action come quelle
che erano state prese in considerazione al momento dell’emanazione della legge del
1909.
Testo della conferenza «La tutela del patrimonio e del paesaggio in Italia: una
lunga storia, una crisi di grande attualità» tenuta domenica 29 maggio 2012 al primo
Festival di Storia dell’Arte nel Castello di Fontainebleau
Per un approfondimento: Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La
battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Giulio Einaudi Editore, Torino 2010
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