storia urbana
Politecnico di Torino
Un paese di centri storici: urbanistica e identità locali
negli anni cinquantasessanta
(pubblicato su “Rassegna di architeẍura e urbanistica”, 136, 2012, pp. 92‑100)
1.
Nel 1942, José Luis Sert pubblica Can Our Cities Survive?, l’opera che, in piena guerra, introduce
il Nord America e le sue ciẍà al dibaẍito dei CIAM. Il volume contiene una delle più note
versioni a stampa della dichiarazione di princìpi uscita dai dibaẍiti del congresso del 1933 –
quella che, con una formulazione sintetica ed efficace, Le Corbusier ribaẍezzerà qualche tempo
dopo la “Carta d’Atene”. Il testo è riprodoẍo integralmente in appendice, in inglese, con il
titolo The Town‑Planning Chart, Fourth C.I.A.M. Congress, Athens, 1933. Questa versione della
carta è articolata in oẍo sezioni, delle quali due introduẍive, una conclusiva e quaẍro dedicate
all’illustrazione delle “quaẍro funzioni della ciẍà” (dwelling, recreation, work, transportation).
Una sezione, la seẍima, è dedicata alle parti di ciẍà di interesse storico. Si intitola Buildings and
districts of historical interest. È questa l’unica parte del testo sulla cui validità e applicabilità
generale il volume e il suo autore sembrano nutrire qualche riserva. A insistere sulla sua
inclusione sarebbe stato, si dice, un gruppo specifico all’interno dei CIAM. Una nota, posta in
corrispondenza del titolo del paragrafo, avverte il leẍore nordamericano che
Section 7 of this chart has been omiẍed from the general text because it applies only to certain cities. It
was introduced by the Italian delegates, who had to deal with these problems frequently[1].
Un quarto di secolo dopo, nel 1966, Giovanni Astengo pubblica nell’Enciclopedia Universale
dell’Arte una voce Urbanistica che è il risultato di un lungo e meticoloso sforzo di
documentazione e di sintesi e vuole proporsi come un punto di riferimento per il dibaẍito
nazionale, nel duplice confronto con la tradizione e la più avanzata pratica internazionale. La
voce di Astengo si regge su un soẍile equilibrio tra la molteplicità di riferimenti inseriti nel
testo e il ricco apparato illustrativo raccolto nelle tavole, che assume talvolta una forte
autonomia rispeẍo alla parte scriẍa. Muovendo da alcune definizioni di ciẍà e di urbanistica,
l’autore propone ai leẍori un ampio excursus storico, che conduce fino alle sperimentazioni
urbanistiche del primo Novecento, trovando apparentemente un culmine e un punto di svolta
nel piano di Amsterdam del 1935. La voce si conclude con una sezione intitolata Problemi
specifici, che viene articolata a sua volta in cinque paragrafi: a) Quartieri residenziali, b) Centri
storici e rinnovamento urbano, c) Il traffico veicolare, d) Zone industriali aẍrezzate, e) Aẍrezzature per
il tempo libero. Non è difficile ritrovare in quest’elenco l’articolazione delle quaẍro funzioni
principali che erano state definite dalla Carta d’Atene, con in più, al punto b), la questione del1/13
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principali che erano state definite dalla Carta d’Atene, con in più, al punto b), la questione del
rinnovamento e della conservazione di quelli che Astengo, facendo ricorso a un’espressione
diversa da quella che aveva proposto Sert, chiama “centri storici”. La questione della
conservazione dei centri storici non ha, per Astengo, una connotazione nazionale o geografica:
si traẍa piuẍosto, viene deẍo, di un’esigenza legata alla “cultura moderna” e alla “roẍura” che
questa ha consumato rispeẍo a ciò che l’ha preceduta[2].
Esiste una specificità o una precocità italiana, nel ventesimo secolo, per quanto riguarda
l’approccio al problema delle ciẍà storiche? I due testi ora citati portano in primo piano la
domanda e propongono due possibili strategie di risposta, una che tende a sfumare la portata
universale del tema per farne una questione di pertinenza specifica o regionale, una che al
contrario tende a negare l’italianità del tema e a farne una questione essenziale di ogni dibaẍito
sull’architeẍura moderna, supportando questa visione con una nutrita serie di esempi europei.
Sullo sfondo, vi è il dibaẍito internazionale sulla “continuità” tra le esperienze del secondo
dopoguerra e quelle del “movimento moderno”, di cui la Carta d’Atene sembra rappresentare
un punto di sintesi obbligato. Siamo, con tuẍa evidenza, di fronte a domande che toccano da
vicino la questione di un possibile rapporto tra la cultura urbanistica italiana del secondo
Novecento e la questione dell’identità nazionale. Un problema storiografico scivoloso e
interessante, da cui gli storici si sono finora tenuti prudentemente alla larga.
2.
Nel 1968, in Teorie e storia dell’architeẍura, Manfredo Tafuri liquida con una celebre baẍuta
l’aẍitudine mostrata dagli architeẍi italiani del secondo dopoguerra nei confronti della ciẍà
storica. Il testo giunge al problema muovendo da una discussione delle posizioni di Le
Corbusier (Urbanisme, 1925) e Frank Lloyd Wright (An Organic Architecture, 1945) sulle
testimonianze storiche delle ciẍà: posizioni radicali, riassunte da Tafuri nell’alternativa tra la
“distruzione radicale” e l’“imbalsamazione museografica” e che, si dice, possono apparire
singolari a “chi vive la polemica quotidiana contro l’aẍentato della civiltà dei consumi alle
preesistenze urbane e territoriali”. Tuẍavia, rispeẍo al dibaẍito italiano, le due posizioni
appaiono a Tafuri “di una consequenzialità ferrea”, poiché hanno il merito di rendere
evidente, leggibile a tuẍi e a tuẍi i livelli nella fruizione quotidiana della ciẍà, che l’opposizione fra storia
e architeẍura moderna può rientrare, proprio come scontro fra diverse «struẍure», nell’universo di
discorso codificato dalle nuove tecniche di comunicazione visiva. Quando la cultura architeẍonica
italiana degli anni cinquanta ha ripreso in mano il problema dei centri storici, non si è allacciata
direẍamente al grande filone del movimento moderno, ma con la scusa di introdurre nuove valenze, ha
voltato le spalle alla Carta d’Atene, e ha ripreso in mano il Giovannoni: processo tanto più grave in
quanto non compiuto con la chiara coscienza di ciò che si andava postulando[3].
A interessare in questo passo non è solo il traẍamento riservato a Giovannoni, soẍoposto a una
diminutio che, per il tramite di un semplice articolo determinativo, trasforma un riferimento
comune a molti architeẍi italiani del secondo dopoguerra in una sorta di breviario dai
contenuti vagamente provinciali[4], ma anche il soẍile e forse crudele anacronismo con cui
Tafuri fa ricorso all’espressione “centri storici” per evocare non le questioni ritenute importanti
da urbanisti come Astengo ma un dibaẍito architeẍonico degli anni cinquanta i cui
protagonisti usavano volentieri parole diverse. Il riferimento è a Rogers, alle “preesistenze
ambientali” e a quella polemica sul “neoliberty” cui sono dedicate, nel volume, le pagine
immediatamente successive, che propongono di leggere l’episodio non come legato a una
specificità italiana ma come un epifenomeno di una “tendenza a tornare ad una concezione
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specificità italiana ma come un epifenomeno di una “tendenza a tornare ad una concezione
sacrale, artigianale, storicistica, dell’architeẍura” che sarebbe “un fenomeno ricorrente nella
storia del movimento moderno”[5].
Si può ampliare lo sguardo e soẍolineare come le storie dell’architeẍura italiana del secondo
dopoguerra abbiano finora mostrato, per una serie di ragioni che meriterebbero di essere
discusse più a fondo, una spiccata tendenza ad affrontare le questioni dell’identità e del
rapporto con la storia passando aẍraverso l’analisi di una serie di causes célèbres architeẍoniche,
dal Tiburtino a Spine Bianche, o seguendo il progressivo emergere, nel corso degli anni
cinquanta e sessanta, della questione tipologica[6]: mentre meno aẍenzione è stata dedicata alle
ragioni che portano gli architeẍi che più spesso in quel periodo si definiscono “urbanisti” a
misurarsi da vicino con l’elaborazione o la rielaborazione di immagini legate a una
rappresentazione dell’identità della nazione e delle piccole patrie che la compongono.
3.
“Centri storici”, l’espressione che compare negli scriẍi di Astengo e di Tafuri, è, alla fine degli
anni sessanta, un’espressione relativamente giovane. È entrata nei dibaẍiti italiani sul territorio
e sulla tutela verso la fine del decennio precedente e sembra rappresentare un neologismo
promeẍente. Uno sguardo ai cataloghi delle biblioteche nazionali può restituire un primo
panorama: nessuna monografia con l’espressione “centro storico” nel titolo sembra essere stata
pubblicata in Italia fino al 1958. Diventano 24 tra il 1958 e il 1965, 95 tra il 1966 e il 1970, 129 tra
il 1971 e il 1975, per crescere ancora (cinquanta titoli/anno) fino alla fine del secolo[7]. Se per
tuẍi gli anni cinquanta il dibaẍito italiano sulle ciẍà storiche si appoggia a una pluralità di
termini eterogenei e parzialmente sovrapposti, alcuni dei quali già radicati nel dibaẍito di
inizio secolo (ambiente antico, ciẍà antica, nuclei storici, e appunto preesistenze ambientali)[8],
l’espressione “centri storici” si propone fin dalle sue prime apparizioni come una nozione
potenzialmente unificante.
Cosa sono i centri storici? L’espressione deve probabilmente parte della propria fortuna alla
propria capacità di dire, o soẍintendere, cose diverse. Centri storici sono le piccole ciẍà italiane
come Assisi, Gubbio, Orvieto, Siena, San Gimignano, Urbino, ed è in questa accezione che la
nozione fa la propria prima comparsa, nella variante “centri storico‑artistici”[9]: piccoli centri
di formazione medievale, spesso situati in Italia centrale (è tra Toscana, Umbria e Marche che si
collocano alcuni degli esempi oggeẍo di aẍenzione più precoce), che sembrano condensare
alcuni dei caraẍeri originali della cultura urbana italiana nel momento di un suo possibile
apogeo. Centri storici, al tempo stesso, sono le parti più centrali, fortemente connotate proprio
dalle preesistenze storiche, di ciẍà come Genova (la prima grande ciẍà italiana, nel 1958, a
usare la parola “centro storico” per intitolare uno studio sulla conservazione della parte più
antica dell’agglomerato)[10], Bologna, Venezia, Milano, Firenze, Ferrara. L’espressione “centri
storici” fa dunque riferimento al tempo stesso a un policentrismo urbano di matrice antica e a
una crescita metropolitana di cui si cominciano a intravedere i caraẍeri[11]. Per quanto riferiti a
situazioni non sempre comparabili (piccole ciẍà in declino economico e demografico, grandi
ciẍà in rapido sviluppo), questi diversi usi convivono streẍamente nella storia del termine, a
testimonianza del faẍo che uno dei suoi fuochi tematici consiste in una riflessione su diversi
aspeẍi dell’eredità storica della rete urbana del paese.
“L’Italia è un paese di centri storici”, scriverà nel 1976 Mario Fazio nell’apertura del suo
volume I centri storici italiani[12], e l’affermazione esprime, con un’immagine sintetica, l’idea
che l’identità italiana possa essere ricondoẍa alla somma o all’articolazione delle sue identità
locali, che sia la pluralità di storie radicate nei territori a fare lo spessore e la complessità
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locali, che sia la pluralità di storie radicate nei territori a fare lo spessore e la complessità
culturale della nazione. La difesa dei centri storici e il movimento per la tutela del patrimonio
urbano negli anni cinquanta‑sessanta rappresentano un riconoscimento, e al tempo stesso una
reinvenzione, di queste identità.
4.
Nel 1954 viene emanato un decreto interministeriale che fissa l’elenco dei primi cento comuni
che, a norma dell’art. 8 della legge urbanistica del 1942, sono tenuti a promuovere un piano
regolatore generale. Il numero, a suo modo simbolico, può evocare le “cento ciẍà” rese
proverbiali dall’Inno a Garibaldi di Luigi Mercantini e Alessio Olivieri (1858). Tuẍavia l’elenco,
redaẍo a conclusione di un dibaẍito serrato, si presta poco a essere leẍo secondo una chiave
streẍamente identitaria. Esso rifleẍe piuẍosto una visione amministrativa dell’urbanistica, che
spinge a includere nella prima selezione quasi tuẍi i capoluoghi di provincia, oltre ad alcune
località di villeggiatura di cui i piani sono chiamati ad accompagnare lo sviluppo[13]. È una
lista che si colloca dunque su un piano lievemente diverso rispeẍo alle selezioni operate da
serie celebri come Le cento ciẍà d’Italia di Sonzogno (pubblicata tra il 1887 e il 1902 e poi, come
Le cento ciẍà d’Italia illustrate, tra il 1924 e il 1929), o da guide turistico‑artistiche come le guide
Baedeker, Michelin o del Touring Club Italiano. L’elenco del 1954 non rimane isolato: al primo
decreto ne seguono altri seẍe, che nel volgere di pochi anni portano complessivamente a 781 il
numero della ciẍà italiane obbligate alla redazione di un PRG.
La seconda metà degli anni cinquanta rappresenta per l’urbanistica italiana, dopo la fase della
ricostruzione, il momento in cui sembra che gli strumenti urbanistici ordinari previsti dalla
legge del 1942 possano finalmente diffondersi sul territorio in modo capillare[14]. Gli elenchi
ministeriali mostrano come questo processo si svolga all’insegna di un rapporto dialeẍico tra
centralismo statale e autonomie municipali che è cruciale per la storia amministrativa italiana,
anche nel secondo dopoguerra[15]. In gioco è l’esito del processo di ridefinizione delle
competenze dei comuni italiani avviato dopo la forte riduzione dei margini di autonomia che
aveva segnato gli anni del fascismo. L’urbanistica è uno dei principali campi in cui sembra
possibile operare un rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni locali ma al
tempo stesso è un campo che più di altri sembra richiedere un impulso forte da parte del
centro e un controllo serrato dei processi. Un caso da manuale di centralismo imperfeẍo, ben
rappresentato dalle parole formulate qualche anno prima da un personaggio non certo
sospeẍabile di scarso interesse per la questione delle autonomie locali come Virgilio Testa:
È una politica assai difficile quella che deve essere instaurata nel campo urbanistico, politica alla quale,
diciamolo francamente, le nostre amministrazioni municipali sono scarsamente preparate e che abbisogna
perciò di una guida sicura, alla quale appoggiarsi […][16].
In questi anni di verifica della capacità di penetrazione dell’urbanistica e del ruolo che essa
potrà svolgere nella trasformazione del paese, il rapporto tra competenze dei comuni e
competenze dello Stato nella gestione del territorio è uno dei problemi più rilevanti che il
dibaẍito sui centri storici contribuisce a portare in primo piano. Identità amministrativa e
identità culturale non sono traẍate come questioni separate ma vengono spesso presentate
come intrecciate in modo streẍo. Nella discussione sulle ciẍà storiche sembra misurarsi anche
la capacità delle comunità locali di cogliere il senso delle trasformazioni e di orientarne lo
sviluppo: una competenza che sembra poter rinviare a una cultura della gestione urbana che in
Italia ha radici lontane.
5.
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5.
Per cogliere queste mediazioni tra centro e periferia occorre calarsi sul campo e osservarle nel
loro prodursi quotidiano, nel tentativo da parte degli urbanisti di confrontarsi con la ciẍà
esistente e di cogliere le specificità delle sfide che un ambiente urbano stratificato nei secoli
sembra porre. Nulla incarna meglio questo processo dell’esperienza compiuta da Giovanni
Astengo ad Assisi, a partire dal 1955, per la redazione di quello che, pubblicato su
“Urbanistica” nel 1958, aspira fin dalle sue prime formulazioni a presentarsi non tanto come un
piano per un “centro storico” quanto come una possibile lezione di metodo per l’urbanistica
italiana. E questo nonostante il piano venga respinto dal consiglio comunale poco dopo la sua
adozione, traducendosi in una cocente sconfiẍa professionale dove si possono misurare le
distanze tra le aspeẍative del planner e quelle di una società locale[17].
Oẍenuto l’incarico all’indomani del decreto del 1954 (il primo della sua carriera per un piano
regolatore generale), Astengo affronta la questione di Assisi con un’aẍitudine quasi
antropologica. Si trasferisce ad Assisi per periodi di tempo consistenti e coinvolge diversi
collaboratori in un survey, dal tono vagamente geddesiano, che riguarda al tempo stesso le
forme del costruito, le forme della società e dell’economia, i rapporti tra ciẍà e paesaggio
agricolo[18]. La piccola dimensione del luogo, la portata modesta delle trasformazioni in corso
favoriscono l’impressione di poter conoscere tuẍo: tuẍe le famiglie, tuẍi i professionisti, tuẍe le
architeẍure, tuẍi i capi di bestiame. L’osservazione ravvicinata contribuisce a portare in primo
piano quella che Astengo percepisce come l’arretratezza delle culture e dell’economia di Assisi,
e in questo senso, pur nelle differenze metodologiche, l’indagine può ricordare quella condoẍa
a Chiaromonte da un altro celebre participant observer di quegli anni: Edward C. Banfield[19].
Il rapporto tra organismi dello stato, tecnici, amministratori è uno dei nodi intorno a cui ruota
l’esperienza di Assisi. Astengo pensa il piano, in primo luogo, come un aẍo normativo dell’ente
locale, massima espressione del ruolo che questo deve svolgere nel controllo e nella
programmazione del territorio[20]. Uno dei terreni su cui questa scommessa si scontra è la
capacità degli amministratori e dei funzionari di essere all’altezza del compito cui vengono
chiamati. L’urbanista chiede fin dalle prime seẍimane di entrare a far parte della commissione
edilizia, in modo da poter seguire le discussioni dei progeẍi e valutare il livello dei
professionisti assisani. Chiede all’amministrazione di abbonarsi a una serie di riviste di
architeẍura europee, da The Architectural Review a Byggmästaren architektur, perché queste siano
a disposizione dei progeẍisti e degli uffici tecnici[21]. Questa scommessa – fin dall’inizio
permeata di sceẍicismo – si rovescia nel suo opposto quando le crescenti difficoltà del piano
fanno emergere un diverso aẍeggiamento dell’amministrazione rispeẍo al documento che essa
stessa aveva commissionato. Torna allora in campo la dimensione nazionale, con richieste da
parte dell’urbanista nei confronti del ministero perché intervenga direẍamente a favore del
piano, tentativi di sfruẍare le reti del partito socialista, tentativi di mobilitare l’opinione
pubblica nella convinzione che solo la pressione dall’esterno possa spingere nella giusta
direzione una società locale che corre il rischio di autodistruggere il proprio territorio[22].
Una simile dialeẍica tra dimensione locale e sovralocale è all’opera anche nei tentativi di
cogliere e rappresentare l’identità di Assisi di cui il piano porta traccia. Astengo (ma si traẍa di
una considerazione quasi generalizzabile per la migliore urbanistica italiana di quegli anni)[23]
pensa alla ciẍà che si trova di fronte come a un organismo che può essere studiato con metodi
scientifici di vario tipo ma che è anche caraẍerizzato da un’individualità che resta irriducibile5/13
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scientifici di vario tipo ma che è anche caraẍerizzato da un’individualità che resta irriducibile
alle generalizzazioni. Il primo compito del progeẍista consiste nel saper cogliere questa unicità
del luogo per trasferirla nei documenti di piano.
La rappresentazione della ciẍà storica che viene proposta dal piano di Assisi è interessante
perché fa ricorso a una pluralità di strumenti per tentare di avvicinarsi in qualche modo a quel
nocciolo di identità locale la cui comprensione sembra demandata, in ultima analisi, a
un’intuizione da parte del planner. L’osservazione è in parte condoẍa aẍraverso la fotografia –
nelle visuali da lontano e da vicino, d’insieme e di deẍaglio, a colori e in bianco e nero. Gli
archivi recano traccia delle molte campagne commissionate dall’architeẍo e della sua
instancabile ricerca di diversi approcci a una comprensione visiva dell’insieme e dei
deẍagli[24]. L’analisi fa ampio ricorso (come del resto accadeva spesso sulle pagine di
“Urbanistica”) a fotografie manipolate e colorate che costruiscono rappresentazioni per
contrasto, opponendo gli aspeẍi giudicati autentici del centro storico alle manomissioni più
recenti, o agli episodi di restauro “in stile”. Lo stesso accade per la cartografia storica e, in parte
più piccola, per le fonti archivistiche: una ricerca, quest’ultima, che prende le mosse da una
rileẍura aẍenta degli statuti medievali, punto di partenza di ogni possibile storia civica. Alcune
di queste operazioni rimandano a tecniche di osservazione e rappresentazione diffuse in
ambito europeo: il townscape, tema cui sarà dedicato l’anno successivo il convegno Inu di Lecce,
o una leẍura delle ciẍà storiche aẍraverso schemi e diagrammi influenzata da alcune
esperienze francesi[25]. Ma nel complesso, quando si traẍa di analizzare ciò che caraẍerizza la
ciẍà storica vi è un quid che sembra potersi cogliere solo immergendosi nella memorialistica
locale, alla ricerca delle tracce della permanenza di diverse tradizioni, nel caso di Assisi quella
comunale e quella francescana.
Si può in parte generalizzare quest’osservazione. Uno degli aspeẍi più interessanti della storia
dell’approccio urbanistico alla questione dei centri storici sta nella diffusa convinzione che
ragionare su questi centri significhi affrontare un nucleo irrinunciabile di identità radicato in
un contesto, che sembra però al tempo stesso avere bisogno dell’urbanista, figura esterna al
contesto, per farsi riconoscere. Tecnici che sono portatori di un sapere transnazionale e che
appartengono a reti intelleẍuali, professionali, accademiche, di partito che superano di molto la
scala della singola ciẍà si ritrovano a lavorare al progeẍo di una reinvenzione delle ragioni del
senso di appartenenza di una comunità specifica. Il lavoro intelleẍuale intorno all’analisi
dell’identità dei centri storici è il risultato di un gioco di rappresentazioni e scambi che avviene
su più scale.
6.
Una delle questioni ricorrenti nel dibaẍito sui centri storici degli anni cinquanta‑sessanta è
rappresentata, come è noto, dalla separazione tra istituzioni preposte alla tutela del territorio e
istituzioni preposte alla sua pianificazione. Secondo le parole usate da Roberto Pane in una
discussione del 1958,
non si può assolutamente separare la tutela del patrimonio artistico dal piano regolatore. La tutela del
patrimonio artistico deve fondarsi sulla urbanistica in quanto siamo oggi passati dal conceẍo della tutela
del monumento a quello della tutela dell’ambiente[26].
L’articolazione delle competenze sul territorio fissate dalle due leggi di tutela del 1939 e dalla
legge urbanistica del 1942 è una delle eredità più visibili lasciate dal fascismo al sistema
amministrativo italiano e diventa oggeẍo di critica in tuẍi i più importanti convegni sul tema
della seconda metà degli anni cinquanta: quello di Italia Nostra su La difesa del patrimonio
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della seconda metà degli anni cinquanta: quello di Italia Nostra su La difesa del patrimonio
storico, artistico e naturale della nazione (1956), quello dell’Inu di Lucca su Difesa e valorizzazione
del paesaggio urbano e rurale (1957), quello dell’Ancsa di Gubbio su Salvaguardia e risanamento dei
centri storico‑artistici (1960)[27]. Il senso delle proposte formulate in queste occasioni sta
nell’immaginare un diverso tipo di integrazione tra competenze di tutela e competenze
urbanistiche, portando le prime almeno in parte all’interno delle seconde. Una linea che
sembra implicare una ridefinizione delle competenze delle burocrazie statali della
conservazione a favore di un più forte ruolo delle municipalità e, in prospeẍiva, delle regioni,
nonché di un riequilibrio dei ruoli tra diversi ministeri. In questo senso, uno dei punti di
interesse nella fondazione dell’Associazione nazionale centri storico‑artistici (Ancsa) in
occasione del convegno del 1960 starebbe nel faẍo che nell’associazione sono presenti come
membri fondatori, oltre a rappresentanti dell’Inu e di Italia Nostra, oẍo comuni e un certo
numero di parlamentari[28]. Nato soẍo il segno dell’associazionismo colto e professionale,
delle campagne di stampa condoẍe su “Il Mondo”, della pressione sui poteri pubblici da parte
di un’élite in primo luogo intelleẍuale, il movimento per la tutela del territorio sembra poter
trovare in quest’occasione una sponda istituzionale.
La Carta di Gubbio, redaẍa a conclusione del convegno del 1960, invoca la predisposizione di
“piani di risanamento conservativo, come speciali piani particolareggiati di iniziativa
comunale, soggeẍi ad efficace controllo a scala regionale e nazionale, con snella procedura di
approvazione e di aẍuazione”. Alla fine del 1960, una proposta analoga è incorporata nella
stesura del Codice dell’urbanistica, la proposta di riforma della legge urbanistica avanzata
dall’Inu[29]. La richiesta di un inventario dei centri storici, ricorrente in questi documenti,
evoca la necessità di una programmazione più ampia degli interventi a livello nazionale. La
questione dei centri storici, almeno all’inizio degli anni sessanta e prima del fallimento della
proposta Sullo, tende così a legarsi a un’ipotesi più generale di riforma e integrazione degli
strumenti urbanistici ereditati dalla legge del 1942, e questo nel momento in cui la diffusione
sul territorio di quegli strumenti, di cui per buona parte degli anni cinquanta si è lamentata la
scarsa applicazione, comincia ad apparire consistente.
7.
Nelle pratiche della seconda metà degli anni sessanta, superata la stagione dei grandi tentativi
di riforma, si trovano interpretazioni più pragmatiche della nozione di “centro storico”,
orientate verso una declinazione operativa del conceẍo e qualche tentativo di precisarne i
contenuti tecnici. Sono pratiche che si appoggiano in molti casi a una nozione di delimitazione
del centro storico, che viene del resto accolta, alla fine degli anni sessanta, in alcuni testi di
legge: il decreto sugli standard urbanistici del 1968 prevede (o sembra prevedere) una divisione
della ciẍà in “zone territoriali omogenee”, la prima delle quali, indicata come zona A, coincide
con “le parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono caraẍere storico,
artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi, comprese le aree circostanti,
che possono considerarsi parte integrante, per tali caraẍeristiche, degli agglomerati stessi”[30].
Il criterio di individuazione dei centri storici aẍraverso un’operazione di perimetrazione non
sarà mai oggeẍo di consenso unanime da parte della cultura architeẍonica e urbanistica ed è
anzi soẍoposto in più occasioni a critiche serrate, da quella celebre formulata da Giuseppe
Samonà in L’urbanistica e l’avvenire della ciẍà negli Stati europei (1959) a quella altreẍanto celebre
avanzata da Ludovico Quaroni nella sua voce Urbanistica (1969)[31]. È interessante tuẍavia che
alcune delle esperienze di pianificazione dei centri storici più saldamente legate a questa
interpretazione siano anche quelle in cui più forte è il tentativo di fare un uso pubblico del
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interpretazione siano anche quelle in cui più forte è il tentativo di fare un uso pubblico del
conceẍo di centro storico, visto come un possibile nucleo o deposito di identità colleẍive.
L’emblema di una simile aẍitudine è il piano per il centro storico di Bologna del 1969, un
documento che rappresenta per molti aspeẍi il culmine di un patrimonio di riflessioni ed
esperienze sulla ciẍà storica accumulato nel corso del decennio precedente e che per altri versi
ne prepara la crisi[32].
La legiẍimazione dell’identificazione del centro storico aẍraverso l’individuazione di un
perimetro si costruisce, a Bologna, intorno alla metà degli anni sessanta. Nella relazione per lo
“studio di seẍore” sul centro storico del 1965 Leonardo Benevolo riprende alcuni degli
argomenti formulati da Cederna e Manieri Elia nella loro relazione introduẍiva per
Gubbio[33], in particolare quello relativo alla fraẍura ormai insanabile che la “rivoluzione
industriale” avrebbe introdoẍo tra ciẍà moderna e ciẍà antica e alla necessità di considerare
quest’ultima come un organismo unitario, distinto dalle trasformazioni successive.
Risulta impossibile […] conservare gli antichi centri se vi si accumulano tuẍe le funzioni proprie del
centro di una ciẍà moderna; alcune di queste funzioni esigono una circolazione e una cornice edilizia
assolutamente eterogenee ai vecchi centri, quindi se vi restano inserite producono una congestione
intollerabile dell’antica rete viaria e una spinta irresistibile alla manomissione dei vecchi edifici; d’altra
parte gli ostacoli esistenti impediscono un libero e moderno sviluppo di tali funzioni nell’ambito della
vecchia ciẍà. Occorre invece che le funzioni direzionali proprie di una ciẍà moderna siano
opportunamente selezionate e che i quartieri antichi diventino una parte del centro direzionale della ciẍà
moderna, ospitando alcune funzioni direzionali […] compatibili con il suo tessuto edilizio[34].
Così facendo, Benevolo contribuisce a tradurre nella terminologia dello zoning funzionalista
un’impostazione del problema della ciẍà storica che aẍraversava la riflessione italiana almeno
dall’inizio del secolo[35]. Il lavoro del gruppo da lui direẍo per lo studio di seẍore sul centro
storico è parallelo a quello condoẍo da Carlo Aymonino e Pierluigi Giordani (sempre su
incarico della giunta bolognese) sui centri direzionali[36]; poco più tardi, mutati alcuni di
questi protagonisti, l’approvazione del piano per il centro storico del 1969 è a sua volta quasi
simultanea a quella del progeẍo Tange per il Fiera District. La questione della ciẍà storica è
considerata parte di un’organizzazione dell’area metropolitana dove diversi luoghi sono
portatori di diversi tipi di centralità[37].
La scelta di definire il centro storico aẍraverso una delimitazione non porta necessariamente
vantaggi dal punto di vista della conservazione. Le analisi del piano del 1969 operano
numerose distinzioni all’interno del limite coincidente con l’anello dei viali, finendo di faẍo per
considerare il centro come un organismo non del tuẍo unitario e alcune sue parti come per
nulla degne di tutela. Ma immaginare che esista un patrimonio di memorie colleẍive
prevalentemente concentrato in una zona della ciẍà rende possibile meẍere in aẍo strategie di
persuasione pubblica di grande efficacia, che si traducono in un vero esercizio di identity
building, forse più importante del piano stesso. “Una ciẍà antica per una società nuova”, lo
slogan che funge da soẍotitolo alla mostra Bologna centro storico organizzata nel 1970 per
presentare alla ciẍadinanza il piano, rende evidente che la posta in gioco consiste in primo
luogo nella ridefinizione di un immaginario. Più che le tavole di piano, a spiccare, nella mostra
del 1970, sono gli scaẍi del cosiddeẍo “rilievo fotografico” commissionato a Paolo Monti. Una
campagna fotografica che insiste su aspeẍi della ciẍà storica che non sempre il piano aveva
considerato centrali e che propone della ciẍà – fotografata senza automobili e lasciando fuori
dal campo visivo molti segni disturbanti della modernità – un’immagine al tempo stesso
nostalgica e utopica. Queste fotografie continueranno a veicolare la nozione di cosa il centro
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nostalgica e utopica. Queste fotografie continueranno a veicolare la nozione di cosa il centro
storico sia (o possa essere) anche quando, negli anni successivi, le strategie di conservazione
promosse dal Comune obbediranno a un diverso ordine di priorità[38].
8.
Con l’inizio degli anni seẍanta i termini del dibaẍito intorno ai problemi della conservazione
urbana conoscono un cambiamento percepibile[39]. Le questioni sociali ed economiche
tendono a occupare il primo piano della discussione e le autonomie municipali diventano un
luogo di sperimentazione – anche a partire dalla diffusione del modello rappresentato dai
PEEP bolognesi – di politiche che puntano a rafforzare il legame tra conservazione e housing, ad
affrontare la conservazione come un punto a partire dal quale discutere un “sistema dello
sviluppo economico, del diriẍo, dell’asseẍo sociale […] tale da negare, di faẍo, il recupero e
l’uso del nostro patrimonio storico‑ambientale”[40]. Prendono forma bilanci critici (o
autocritici) delle esperienze più recenti che invocano una maggiore scientificità, e al tempo
stesso una maggiore consapevolezza politica, dei discorsi e delle scelte sulla “ciẍà esistente”. Si
soẍolinea la spiccata tendenza del dibaẍito sui centri storici degli anni cinquanta e sessanta –
nonostante i ripetuti proclami in senso opposto – a sfuggire alla costruzione di un sapere
cumulativo e a una precisa definizione dei propri termini[41].
Alcuni di quei giudizi, rileẍi oggi, appaiono al tempo stesso molto lucidi e singolarmente fuori
fuoco, non fosse che per la loro incapacità di portare allo scoperto una questione che,
apparentemente espulsa dall’orizzonte disciplinare, non mancherà di ripresentarsi
puntualmente nei decenni successivi. Mai forse come nei due decenni del boom il dibaẍito
urbanistico italiano ha compiuto un tentativo di avvicinarsi, nella costruzione dei propri
strumenti, a un universo discorsivo fondamentale per la storia dell’Italia unita: quello legato
alle identità locali e al loro ruolo nello sviluppo del paese[42]. Sfida che porta molti
protagonisti a confrontarsi con tuẍa la complessità e lo spessore di sistemi di valore che
appaiono irriducibili a una tecnica o una metodologia. Questo rende alcune delle loro
esperienze contraddiẍorie e problematiche e rende al tempo stesso il loro lavoro
un’illustrazione particolarmente efficace di come le immagini dell’identità possano prendere
forma nel lavoro quotidiano, nelle reti di relazioni che si costruiscono sul territorio, nello
scontro fra rappresentazioni e culture di cui anche alcuni tecnici possono farsi portatori[43].
Filippo De Pieri
[1] José Luis Sert, Can Our Cities Survive? An ABC of Urban Problems, Their Analysis, Their
Solutions, based on the proposals formulated by the C.I.AM., International Congresses for Modern
Architecture / Congrès Internationaux d’Architecture Moderne, Cambridge, The Harvard University
Press, 1942, third printing, ibid. 1947, p. 248. La Carta è pubblicata alle pp. 246‑9, precisando che
il documento “has served as a basis for this book”. Per la complessa storia editoriale della
Carta, cfr. Paola Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica
moderna, Roma, Officina, 1998; Eric Mumford, The CIAM Discourse on Urbanism, 1928‑1960,
Cambridge, MA, The MIT Press, 2000, pp. 201‑215.
[2] Giovanni Astengo, voce Urbanistica, in Enciclopedia universale dell’Arte, Roma, Istituto per la
Collaborazione Culturale, vol. XIV, 1966, coll. 542‑642 e tavv. 167‑222.
[3] Manfredo Tafuri, Teorie e storia dell’architeẍura, Bari, Laterza, 1968, p. 73.
[4] Sulla freẍolosa cancellazione dell’eredità giovannoniana nell’Italia post‑fascista, si veda
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[4] Sulla freẍolosa cancellazione dell’eredità giovannoniana nell’Italia post‑fascista, si veda
Françoise Choay, Introduction, in Gustavo Giovannoni, L’urbanisme face aux villes anciennes, trad.
di Jean‑Marc Mandosio, Amélie Petita, Claire Tandille, Paris, Seuil, 1998, specie p. 27. Cfr.
anche Gustavo Giovannoni, Dal capitello alla ciẍà, a cura di Guido Zucconi, Milano, Jaca Book,
1997.
[5] Tafuri, Teorie e storia dell’architeẍura cit., pp. 73‑74.
[6] Due esempi significativi, per ragioni diverse, di un simile approccio sono Ezio Bonfanti,
Marco Porta, Ciẍà, museo e architeẍura. Il Gruppo BBPR nella cultura architeẍonica italiana 1932‑
1970, Firenze, Vallecchi, 1973, che ripropone tra l’altro l’uso del termine “centri storici” per
indicare il dibaẍito rogersiano sulle preesistenze ambientali (pp. 156‑7), e Jean‑Louis Cohen, La
coupure entre architectes et intellectuels, ou les enseignements de l’italophilie, Paris, École
d’architecture Paris‑Villemin (“In Extenso”), 1984.
[7] Dati dal catalogo colleẍivo del Sistema bibliotecario nazionale (SBN),
hẍp://www.sbn.it/opacsbn/opaclib, ricerca effeẍuata il 25 maggio 2011. Queste le occorrenze
totali suddivise per quinquenni: 4 (1956‑60), 20 (1961‑65), 95 (1966‑70), 129 (1971‑75), 235 (1976‑
80), 227 (1981‑85), 262 (1986‑90), 238 (1991‑95), 226 (1996‑2000), 175 (2001‑05), 154 (2006‑10).
[8] La nozione di “ambiente antico” dà il titolo al convegno internazionale sul recupero delle
ciẍà storiche organizzato da Roberto Pane presso il Centro studi della Triennale di Milano alla
fine del 1957: Aẍualità urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, Milano, Görlich/Centro
studi della Triennale di Milano, s.d. (1958). L’introduzione al convegno è poi ripubblicata dallo
stesso Pane in una raccolta di scriẍi intitolata Ciẍà antica ed edilizia nuova (Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1959).
[9] Aldo Della Rocca, Saverio Muratori, Luigi Piccinato, Mario Ridolfi, Paolo Rossi De Paoli,
Scipione Tadolini, Enrico Tedeschi, Mario Zocca, Aspeẍi urbanistici ed edilizi della ricostruzione,
Roma, 1944‑45.
[10] Centro storico di Genova: preliminari allo studio del piano di valorizzazione, conservazione e
risanamento, Genova, Comune di Genova, 1958.
[11] La nuova dimensione della ciẍà: la ciẍà‑regione, relazioni del seminario (Stresa, 19‑21 gennaio
1962), Milano, ILSES, 1962
[12] Mario Fazio, I centri storici italiani, ricerche, documentazione fotografica e redazione
didascalie a cura degli arch. Giulio Ferrando e Carlo Rocca, Milano, Silvana Editoriale
d’Arte/Ancsa, 1976, p. 11.
[13] Approvazione del primo elenco dei Comuni obbligati a redigere il piano regolatore dei rispeẍivi
territori, d.i. 391, 11 maggio 1954, pubblicato sulla G.U. n. 120, 26 maggio 1954.
[14] Carlo Olmo, Urbanistica e società civile. Esperienza e conoscenza, 1945‑1960, Torino, Bollati
Boringhieri, 1992.
[15] Raffaele Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a cura di), Storia dello Stato italiano
dall’Unità a oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp. 125‑186.
[16] Virgilio Testa, La nuova sezione Urbanistica al Consiglio superiore dei lavori pubblici,
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[16] Virgilio Testa, La nuova sezione Urbanistica al Consiglio superiore dei lavori pubblici,
“Urbanistica”, XXI, 8 (1951), p. 56. Su Testa, cfr. Oscar Gaspari, Virgilio Testa, in Guido Melis (a
cura di), Il Consiglio di Stato nella storia d’Italia. Biografie dal 1861 al 1948, Milano, Giuffrè, 2006,
pp. 2156‑2187.
[17] Giovanni Astengo, Assisi: salvaguardia e rinascita, “Urbanistica”, XXVII, 24‑25 (1958), pp. 9‑
132.
[18] Bruno Dolceẍa, L’esperienza di Assisi, in Francesco Indovina (a cura di), La ragione del piano.
Giovanni Astengo e l’urbanistica italiana, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 103‑119; Paola Di Biagi,
Giovanni Astengo. Un metodo per dare rigore scientifico e morale all’urbanistica, in Ead., Patrizia
Gabellini (a cura di), Urbanisti italiani. Piccinato, Marconi, Samonà, Quaroni, De Carlo, Astengo,
Campos Venuti, Roma‑Bari, Laterza, 1992, pp. 395‑467.
[19] Edward C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, New York, The Free Press, 1958,
trad. it. Una comunità nel Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 1961; nuova ed. it., Le basi morali di
una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976.
[20] Diversi aspeẍi della storia del piano di Assisi portano in primo piano la concezione forte
del ruolo dell’ente pubblico difesa da Astengo e la sua non spiccata propensione a pensare il
piano come luogo di mediazione tra poteri urbani. Nessun episodio è forse più rivelatore del
curioso scambio di leẍere che ha luogo, alla fine del 1958, tra Astengo e il Ministro Generale dei
Frati Minori Conventuali, Padre Viẍorio Costantini. Alla leẍera di quest’ultimo (29 gennaio
1958) che lo invita a Roma per un colloquio e gli domanda se il suo piano intenda prendere in
considerazione “anche la zona delle immediate adiacenze della Basilica, zona che, come è noto
alla S.V., è ritornata giuridicamente con il Concordato alla S. Sede, benché non ancora
riconsegnata di faẍo”, Astengo risponde (7 gennaio 1959) informando che l’area in questione è
già stata oggeẍo di un piano particolareggiato e inviando una copia del numero di
“Urbanistica” su Assisi, dove il piano è pubblicato. IUAV, Archivio Progeẍi, Fondo Astengo,
FAS/28, Piano di Assisi 1955‑60, carteggio.
[21] Astengo a Francesco Ardizzone, sindaco di Assisi, 24 seẍembre 1956, IUAV, Archivio
Progeẍi, Fondo Astengo, FAS/28, Piano di Assisi 1955‑60, carteggio. “Le invio il promesso
elenco delle dieci riviste di architeẍura più importanti ed il cui abbonamento potrebbe
costituire il primo indispensabile inizio della biblioteca tecnica”. Le riviste sono: 1)
L’architeẍura 2) Casabella 3) Domus 4) L’architecture d’aujourd’hui 5) Techniques et
architecture 6) Architectural Review 7) Architectural Forum 8) Byggmästaren architektur 9)
Bauen und Wohnen 10) Arkkitehti Arkitekten.
[22] Marina Brunelli Astengo (a cura di), Le vicende del PRG di Assisi. Cronaca, articoli e documenti
di due anni: 1958‑59, Venezia, IUAV, 1959, daẍiloscriẍo.
[23] Giancarlo De Carlo, Urbino. La storia di una ciẍà e il piano della sua evoluzione urbanistica,
Padova, Marsilio, 1966; Filippo De Pieri, Visualizing the historic city: planners and the
representation of Italy’s built heritage. Giovanni Astengo and Giancarlo De Carlo in Assisi and Urbino,
1950s‑60s, in John Pendlebury, Erdem Erten, Peter Larkham (eds), Alternative Visions of Post‑war
Reconstruction: Creating the Modern Townscape, Abingdon, Routledge, in corso di stampa.
[24] IUAV, Archivio Progeẍi, Fondo Astengo, FOT/012, Foto Assisi, 1955‑57; FOT/015, Foto
Assisi, 1958‑61; FOT/018, Assisi negativi De Giovanni.
[25] Gaston Bardet, Il tessuto urbano: nuovi metodi di analisi e di sintesi, “Urbanistica”, XIX, 4
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[25] Gaston Bardet, Il tessuto urbano: nuovi metodi di analisi e di sintesi, “Urbanistica”, XIX, 4
(1950), pp. 20‑35; Il volto della ciẍà, VII convegno nazionale INU (Lecce, novembre 1959),
“Urbanistica”, XXIX, 32 (1960), pp. 6‑39. La sezione iniziale della relazione per il piano di Assisi
pubblicata su “Urbanistica” nel 1958 si intitola Il volto di Assisi.
[26] Terzo convegno nazionale di Italia Nostra, “Italia Nostra”, II, 10 (oẍ‑dic 1958), p. 29.
[27] Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale, aẍi del VI Congresso nazionale di
urbanistica (Lucca, 9‑11 novembre 1957), Roma, INU, 1958; Salvaguardia e risanamento dei centri
storico‑artistici, aẍi del convegno (Gubbio, 17‑19 seẍembre 1960), “Urbanistica”, XXIX, 32 (1960),
pp. 65‑92.
[28] Inviano rappresentanti al convegno i comuni di Ascoli Piceno, Bergamo, Erice, Ferrara,
Genova, Gubbio, Perugia, Venezia.
[29] Codice dell’urbanistica, “Urbanistica”, XXX, 33 (1961), pp. 3‑62.
[30] D.M. 1444/68, Standard urbanistici ed edilizi, art. 2.
[31] Giuseppe Samonà, L’urbanistica e l’avvenire della ciẍà negli Stati europei, Bari, Laterza, 1959,
pp. 293‑305; Ludovico Quaroni, voce Urbanistica, in Dizionario enciclopedico di architeẍura e
urbanistica, vol. VI, Roma, Istituto Editoriale Romano, 1969, pp. 295‑297.
[32] Filippo De Pieri, Paolo Scrivano, Representing the “historical centre” of Bologna: preservation
policies and reinvention of an urban identity, “Urban History Review/Revue d’Histoire Urbaine”,
XXXIII, 1 (2004), pp. 34‑45.
[33] Antonio Cederna, Mario Manieri Elia, Orientamenti critici sulla salvaguardia dei centri storici,
“Urbanistica”, XXIX, 32 (1960), pp. 69‑71.
[34] Leonardo Benevolo et al., Relazione dell’indagine seẍoriale sul centro storico di Bologna, quarta
stesura, Firenze, Università di Firenze, Istituto di Storia dell’Architeẍura, 21 maggio 1965,
daẍiloscriẍo, p. 5. L’incarico degli studi per il centro storico era stato inizialmente affidato a
Benevolo e Ludovico Quaroni. Il testo citato non è firmato ma può essere senz’altro aẍribuito a
Benevolo. Per la “rivoluzione industriale” come momento di roẍura, cfr. anche Leonardo
Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Bari, Laterza, 1963, che rappresenta un lavoro
fondamentale proprio per la sua capacità di dare spessore storiografico all’ipotesi
interpretativa della discontinuità ciẍà antica/ciẍà moderna.
[35] Giorgio Ciucci, Il dibaẍito sull’architeẍura e la ciẍà fasciste, in Storia dell’arte italiana, parte II, a
cura di Federico Zeri, vol. III, Il Novecento, Torino, Einaudi, 1982, pp. 263‑378, ristampato e
ampliato come Id., Gli architeẍi e il fascismo. Architeẍura e ciẍà 1922‑1944, Torino, Einaudi, 1989;
Guido Zucconi, La ciẍà contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885‑1942), Milano, Jaca
Book, 1989.
[36] Carlo Aymonino, Pierluigi Giordani, I centri direzionali: teoria e pratica. Gli esempi italiani e
stranieri. Dimensionamento e localizzazione di un centro direzionale nella ciẍà di Bologna, Bari,
Leonardo da Vinci, 1965; Giuseppe Campos Venuti, Un bolognese con accento trasteverino.
Autobiografia di un urbanista, Bologna, Pendragon, 2011, pp. 61‑69.
[37] Giuliano Gresleri, Glauco Gresleri, Francesca Talò (a cura di), Kenzo Tange e l’utopia di
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[37] Giuliano Gresleri, Glauco Gresleri, Francesca Talò (a cura di), Kenzo Tange e l’utopia di
Bologna. Bologna Nord, Centro ecumenico, Fiera District, Bologna, Bononia University Press, 2010.
[38] Bologna centro storico, catalogo della mostra (Bologna, Palazzo d’Accursio, 1970), Bologna,
Edizioni Alfa, 1970, p. 9 e passim; De Pieri, Scrivano, Representing the “historical centre” cit. A
Bologna un ripensamento dell’approccio nei confronti del problema del centro storico diverrà
evidente all’inizio degli anni seẍanta, quando l’approvazione del PEEP Centro storico (1973)
porterà in primo piano la ricerca di un più streẍo rapporto tra conservazione, politiche
fondiarie, politiche per la casa.
[39] Chiara Mazzoleni, Dalla salvaguardia del centro storico alla riqualificazione della ciẍà esistente.
Trent’anni di dibaẍito dell’Ancsa, “Archivio di studi urbani e regionali”, 40 (1991), pp. 7‑42 ;
Umberto Janin Rivolin Yoccoz, La cultura dei centri storici e i processi di trasformazione delle ciẍà
italiane: il dibaẍito urbanistico in Italia negli anni seẍanta, “Storia urbana”, XVIII, 66 (1994), pp.
169‑187.
[40] Bruno Gabrielli, Per una revisione critica del problema dei centri storici, documento
introduẍivo al seminario di Gubbio (5‑6 seẍembre 1970), in Id., Il recupero della ciẍà esistente.
Saggi 1968‑1992, Milano, Etaslibri, 1993, p. 15.
[41] Carlo Carozzi, Renato Rozzi, Centri storici, questione aperta: il caso delle Marche, Bari, De
Donato, 1971.
[42] Ilaria Porciani, Identità locale‑identità nazionale: la costruzione di una doppia appartenenza, in
Oliver Janz, Pierangelo Schiera, Hannes Siegrist (a cura di), Centralismo e federalismo tra Oẍo e
Novecento. Italia e Germania a confronto (“Annali dell’Istituto storico italo‑germanico”, 46),
Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 141‑182; Roberto Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n.
364 del 20 giugno 1909 e l’Italia gioliẍiana, Bologna, Il Mulino, 2003; Simona Troilo, La patria e la
memoria: Tutela e patrimonio culturale dell’Italia unita, Milano, Electa, 2005.
[43] Angelo Torre, Luoghi. La produzione di località in età moderna e contemporanea, Roma,
Donzelli, 2011.
Wriẍen by filippodepieri
3 maggio 2012 a 6:09 pm
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