Sei sulla pagina 1di 26

Felice Cesarino

A Gobekli Tepe la più antica forma di


scrittura della storia dell’umanità
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

G obekli Tepe (‘la collina panciuta’) sorge su un’altura artificiale nell’Anato-


lia sud-orientale (Turchia), nei pressi della città di Sanliurfa dove, secondo
la tradizione locale, sarebbe nato Abramo. Lo straordinario sito, scoperto nel
1994 da Klaus Schmidt, che dirigeva gli scavi promossi dall’Istituto Archeo-
logico Germanico (DAI), possiede peculiarità di cui non sembra siano state
intese tutte le implicazioni. Ma, forse, dietro la cautela del mondo scientifico,
si cela il disagio nei confronti di una scoperta che scompagina tutte le nostre
conoscenze su una certa fase della storia dell’umanità. Nell’era della tecnolo-
gia, del computer e delle rassicuranti certezze che hanno segnato la scomparsa
del mito e della fantasia, una storia come questa ci coglie impreparati. Ma,al
contempo, ci affascina e ci turba.
Un saggio dello Schmidt (2007), Costruirono i primi templi, risulta illuminante
su questo eccezionale ritrovamento. Un libro di notevole spessore scientifico,
dalla prosa accattivante. Per ammissione dello stesso Autore, il sito ha rivelato
la più antica forma di architettura sacrale: “qui siamo difronte ad un luogo
sacro dell’età della pietra”. Noi non intendiamo soffermarci sulle caratteristi-
che del sito e dei suoi monumenti, quanto piuttosto analizzarne taluni aspetti
particolari. Gobekli Tepe, ‘insediamento di montagna’, il cui livello più antico
è stato datato al 9600 a.C. circa, non presenta i caratteri di un insediamento sta-
bile, ovvero “non era un insediamento dell’età della pietra come tutti gli altri”.
Il centro, all’inizio dell’VIII millennio a.C., venne abbandonato dai suoi fre-
quentatori, che ricoprirono accuratamente tutte le strutture esistenti. Un occul-
tamento che sarebbe durato sino ai nostri giorni.

Fig. 48 Veduta parziale dell’area di scavo

Ma chi erano gli abitanti di Gobekli, da dove venivano, e dove si trasfe-


rirono insieme alla loro cultura? A questi interrogativi non è stata trovata
ancora una risposta soddisfacente. La data di prima occupazione del sito è

173
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

identica, in una misura che a noi appare sospetta, a quella che marca la fine
del Dryas III, la fase climatica (arida e fredda) che aveva messo in crisi le
popolazioni costiere del Levante, costringendole a spostarsi in altre terre. In
merito alle sedi di successiva occupazione, nel Cap.10 avanziamo qualche
ipotesi. Per ora, ci limiteremo ad osservare che quella di Gobekli era una
comunità protoanatolica, con una lingua propria non indoeuropea. “In Ana-
tolia ci sono state lingue e popoli non i.ei., e non collegabili con altra lingua
nota...” (Carruba, 2009). Non sono state rinvenute strutture di tipo abitativo;
ma, nei limitrofi ‘insediamenti di valle’ (Nevali Cori, Gurkutepe), resti di
abitazioni testimoniano di abitudini stanziali (i primi villaggi) in genti che
sostanzialmente restavano ancora dei cacciatori-raccoglitori. L’assenza di
sepolture o di un qualsivoglia contesto funerario, farebbe escludere una fre-
quentazione del sito di Gobekli a carattere stabile, suggerendo una utilizza-
zione a scopo cultuale. Il ritrovamento di resti scheletrici umani, con l’ausilio
della genetica, sarebbe stato, comunque, determinante per l’individuazione
dell’etnia locale.
Non conosciamo, in Anatolia nè altrove, nulla di simile intorno al 10.000 a.C.
Questa cultura precede di oltre 4000 anni quella europea, conosciuta come ‘ci-
viltà danubiana’, e di 6000 quella sumera e quella egizia. E la ‘cultura natufia-
na’, apparsa nel Levante (dalla Siria fino alla Giordania), non risulta altrettanto
evoluta, se non per quanto attiene a particolari pratiche agricole (raccolta di
cereali selvatici) e creative (statuine in pietra e in terracotta). Gobekli Tepe
anticipa di vari millenni alcune conquiste sinora attribuite a culture molto più
recenti: l’architettura monumentale, un probabile sistema comunicativo di
tipo grafico, una particolare concezione mistica, a chiara connotazione teo-
gonico-cosmogonica (che costituirà - a nostro avviso - la base per la religio-
sità mesopotamica), un’organizzazione sociale sicuramente più avanzata di
quanto la condizione di cacciatori-raccoglitori dei suoi artefici non lascerebbe
supporre. Riteniamo, pertanto, che l’affiorare improvviso di una tale cultura
fra le impervie regioni dell’Anatolia sud-orientale, che oltretutto non era stata
ancora attinta dalla ‘rivoluzione neolitica’, sia un fenomeno d’importazione,
ancora tutto da chiarire.
L’abbandono del sito, intorno all’8.000 a.C., secondo lo Schmidt (ma non solo)
sarebbe da collegare con l’avvento dell’agricoltura, e con l’opportunità di con-
dizioni diverse di vita che questa offriva. “Con l’affermarsi della nuova econo-
mia e del nuovo modo di abitare, gli uomini abbandonarono il vecchio luogo
di culto (...) e si trasferirono nei promettenti insediamenti nelle immediate vi-
cinanze, e divennero agricoltori” (Schmidt, op. cit.).
Pur logica, comunque, questa ricostruzione non ci convince molto. Appare,
infatti, improbabile che la ‘rivoluzione neolitica’ abbia soffocato le istanze mi-
stiche di questa popolazione anatolica. Istanze che avevano generato un fe-

174
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

nomeno ‘rivoluzionario’, qual è la creazione di una rete di centri di culto. Nei


siti di nuova occupazione a valle (Nevali Cori, Sefer Tepe etc) sono presenti
strutture templari pressochè identiche a quelle di Gobekli Tepe, e di più re-
cente costruzione. Risulta, pertanto, inspiegabile l’abbandono del vecchio sito,
considerato un “centro rituale”, il “santuario centrale”, il più monumentale
e - presumibilmente - il più venerato dell’intera anfizionia. Riteniamo, pertan-
to, che all’abbandono del sito sottendano cause spiccatamente materiali, quali
carestie, mutamenti climatici et similia, piuttosto che motivi di carattere ideolo-
gico-religioso. Un esodo in massa, un consistente spostamento di popolazione
ci appare più verosimile. Apprendiamo dallo Schmidt che il toponimo ‘Nevali
Cori’ può essere tradotto come ‘Valle della peste’. Veniamo, però, subito ras-
sicurati dalla precisazione che la ‘peste’ si riferisce ad un fenomeno che colpi-
sce i pomodori, una pianta introdotta in Turchia in tempi moderni. Anche se
appare alquanto strano che si siano intitolati un centro abitato e una valle col
nome di una malattia vegetale, potrebbe essere stato proprio un evento epide-
mico a mettere in crisi la popolazione locale, e a costringerla all’abbandono dei
territori inquinati.
L’area dello scavo - che è tuttora in corso e sicuramente riserverà altre sorpre-
se - è interessata da quattro piccoli ‘santuari’, connotati da enormi monoliti a
forma di T (alti da 3 ad oltre 5 metri), recanti scolpite figure in prevalenza di
animali. I ‘pilastri’ non sono delle strutture portanti (sembra che tutti gli am-
bienti fossero a cielo aperto), ma simboleggiano esseri antropomorfi. Sono,
insomma, delle enormi statue, muti attori di un teatro del sacro. L’apparato
scenografico è imponente e di forte impatto emozionale, i giganti di pietra
estremamente inquietanti. Sinora sono stati rinvenuti 50 pilastri, ma si ritiene
che ne possano venire ancora alla luce almeno 150, in altri 15-16 ‘santuari’.
Sino a pochi anni orsono, le più antiche strutture templari, intese come co-
struzioni monumentali ad uso cultuale, erano ritenute quelle di Eridu, nella
Mesopotamia meridionale (4000 a.C. circa). E i megaliti di Stonehenge sono
ancora più tardi. Le uniche strutture a T assimilabili a quelle di Gobekli (oltre
a quelle dei siti limitrofi di Nevali Cori, Karahan e SeferTepe) sono le cosid-
dette ‘taule’ di Minorca e Trepucò (Baleari), che -però- sono biliti (composti
da due monoliti sovrapposti). Affinità strutturali e stilistiche notiamo anche
con i templi megalitici di Malta. Taluni particolari, come le monumentali
aperture di accesso, ci stupiscono non poco. La ‘porta’ del tempio di Hagiar
Quim è identica, in modo sconcertante, a quella della struttura B di Gobekli
Tepe: entrambe tagliate in un solo blocco, sono dotate di un bordo a colletto,
con angoli superiori netti a 90° ed inferiori arrotondati. Sempre a Malta, sui
megaliti di Tarxien compaiono scolpiti ad altorilievo alcuni animali: una teo-
ria di stambecchi, due tori e una scrofa. E vedremo, di seguito, come questo
sia uno dei caratteri precipui dei monoliti di Gobekli.

175
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Il prof. Hubert Zeitlmair, direttore della Fondazione Maltadiscovery, data


alcune delle strutture più antiche presenti nell’isola al 10.000 a.C. circa; e le
ritiene preesistenti al Diluvio Universale, che -a suo avviso - sarebbe avve-
nuto all’incirca in quell’epoca.
Un notevole motivo di interesse del sito anatolico è rappresentato dalle fi-
gure di animali presenti sui pilastri, che disvelano un orizzonte estetico del
tutto originale. L’unico strumento diagnostico disponibile per Gobekli Tepe,
allo stato attuale delle ricerche, è di carattere cronologico. L’industria litica
abbondandemente rinvenuta, e l’esame calibrato dei carboni contenuti nella
malta dei muri dei templi, hanno consentito datazioni molto puntuali e stra-
ordinariamente remote. Per contro, l’assenza di ceramica e di reperti ossei
umani impedisce l’identificazione dell’etnia che frequentava il sito anatolico.
Ma le opere ivi realizzate, e tornate in luce dopo 10.000 anni, potrebbero for-
nire informazioni preziose. Le strutture architettoniche, e i pilastri che pure
costituiscono uno straordinario unicum, proprio per la loro unicità non con-
sentono possibili confronti con analoghe strutture. Presente solo a Gobekli e
in alcuni siti viciniori, questa tipologia non sarà mai più replicata. E questo
restringe molto il campo d’indagine. È, quindi, solo alle figure di animali e
ai petroglifi scolpiti sui pilastri, che possiamo rivolgere la nostra attenzione.
Un universo figurativo che costituisce uno dei più formidabili repertori di
animalistica su pietra sinora noti. Scolpite ad altorilievo, queste immagini
sono di una eleganza stilistica e magistero tecnico assolutamente nuovi nella
scultura preistorica. Solo i bassorilievi dell’area franco-cantabrica e le statue
di argilla dell’Ariège possono eguagliare la bellezza e la forza espressiva dei
rilievi di Gobekli. Dal disegno inaspettatamente moderno- essenziale nelle
linee- eppure generoso nella resa dei particolari queste sculture sono pervase
da una vena di poesia, da un sottile, impalpabile umore. In particolare la de-
liziosa teoria di paperette (anatre), che danzano sul basamento del pilastro
n.18, è decisamente attuale, uscita come sembra da un cartoon disneyano.
“Il motivo che ricorre più frequentemente è quello dei serpenti…ma ciò non
basta ancora per comprendere la funzione dei serpenti a Gobekli Tepe”. Così
K.Schmidt (op.cit.). Noi, invece, riteniamo che le immagini di questo retti-
le svolgessero una funzione apotropaica, di protezione, come tutti gli altri
animali raffigurati nel sito anatolico. Una funzione di carattere mistico e, se
vogliamo, magico. E, pertanto, incomprensibile per i disincantati esegeti dei
nostri giorni.

176
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Fig. 49 Il pilastro n.18 (foto: N.Becker ; DAI Orient-Abteilung)

177
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Una cosa è certa: queste immagini, dalla inedita cifra stilistica, rivelano una
tecnica smaliziata che viene da lontano, da un crogiuolo artistico ancora inef-
fabile. Se proprio dovessimo proporre, per Gobekli Tepe, possibili affinità
figurative, laddove le coeve (e limitrofe) ‘sculturine’ natufiane sono decisa-
mente più grossolane ed approssimative, potremmo indicare certi graffiti del
Maddaleniano francese.
Analoghe suggestioni estetiche ci suscita il famoso graffito del ‘toro di Pa-
pasidero’(Grotta del Romito), la più importante figura parietale scoperta in
Italia, coeva alle sculture di Gobekli Tepe (X millennio a.C.). Potenti imma-
gini, in cui cogliamo delle affinità stilistiche con alcuni graffiti del Messak e
del Tadrart Acacus libici. Anche se non è semplice stabilire dei confronti tra
immagini graffite e scolpite a rilievo.
Taluni esegeti interpretano queste figure come segni zodiacali, simboli delle
varie costellazioni. Ma l’ipotesi, ancorchè interessante, è tutta da dimostrare.
Una motivazione molto plausibile per queste sculture la fornisce Klaus Sch-
midt: “di certo erano un mezzo mnemotecnico per tramandare nel tempo
temi e circostanze considerati di grande importanza”. Come il Diluvio Uni-
versale?- vien fatto di chiedere. Gli animali raffigurati, per taluni, sarebbero
da collegare con il Diluvio biblico. Sulla sommità del pilastro n. 43, nella
struttura D (che presenta i più inquietanti e ‘misteriosi’ rilievi in assoluto),
sono visibili quelli che lo Schmidt definisce “tre singolari oggetti a forma di
scatola, dotati di manico”. Questi oggetti meritano sicuramente una maggio-
re attenzione: si tratta, chiaramente, di contenitori da trasporto, ovvero di
canestri, dai quali sembrano uscire alcuni animali (Fig. 50). Una stupefacente
composizione, che costituisce una fra le rarissime raffigurazioni di oggetti
nell’arte figurativa dei primordi. Una ‘scena’ che celebra, a nostro avviso, la
funzione salvifica dell’Arca, il contenitore per eccellenza. Un richiamo sim-
bolico al noto evento diluviale appare plausibile; anche se la rappresentazio-
ne (o celebrazione) di un mito non implica necessariamente una corrispon-
denza ad un evento reale.
Secondo testimonianze non più controllabili, nel 1916 una spedizione russa
sull’Ararat, voluta dallo zar Nicola II°, avrebbe individuato i resti di un enor-
me manufatto in forma di scatola. I fascicoli della relazione ufficiale, però,
sono andati distrutti durante la rivoluzione del 1917. Numerose dichiarazio-
ni di piloti e soldati, russi ed americani -che hanno visto (e talora fotogra-
fato), anche in tempi recenti, i presunti resti dell’Arca- la descrivono come
una struttura rettangolare, o ‘a forma di scatola’. Il fatto che sul monolite di
Gobekli Tepe siano raffigurati tre contenitori, invece di uno, potrebbe signi-
ficare che, già all’epoca, l’Arca si potesse presentare spezzata in tre tronconi.
Proprio come, secondo alcune testimonianze, apparirebbe attualmente. In
ogni caso, un dato è incontestabile: sul pilastro n.43 di Gobekli affiora una
scena, inquietante nella sua originalità, la cui decifrazione è affidata alla
discrezionalità dell’esegeta di turno. A noi appare come la narrazione pit-

178
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

tografica di un evento reale, piuttosto che come la celebrazione di un mito.


Sul monte Cudi, non lontano da Gobekli Tepe, nei secoli scorsi esisteva un
santuario chiamato ‘la nave del profeta Nuh’ (Noè in arabo). In questo luogo,
in un giorno d’estate, si recavano musulmani turchi, curdi e cristiani assiri
per offrire doni al profeta (cfr. G.Bell, Amurath to Amurath, 1911). Il culto
tributato a Nuh è tuttora molto diffuso in Turchia, Iran e Iraq.
La datazione della più antica occupazione di Gobekli Tepe risulta, in modo
sconcertante, speculare a quella che si evince dal racconto platonico (Crizia
e Timeo) sulla distruzione di Atlantide e sulla diaspora del suo popolo (9600
a.C.). Emilio Spedicato (op. cit.), fisico-matematico che studia anche le discon-
tinuità da catastrofi nelle epoche antiche, associa la scomparsa di Atlantide
“alla rapida fine dell’ultima glaciazione, databile a circa il 9450 a.C. La causa
di tale evento è stata certamente di origine extraterrestre, [ovvero] il passag-
gio ravvicinato di un grande corpo, secondo la tesi di chi scrive”.
Il conseguente scioglimento improvviso dei ghiacci avrebbe provocato un
rapido aumento del livello dei mari: un diluvio globale. Il ricordo di un simi-
le evento - se è questo che commemora il pilastro n.43 - doveva quindi essere
ancora vivo presso le genti di Gobekli.

Fig. 50 Particolare del pilastro 43 (foto: N. Becker: DAI Orient-Abtelung)

179
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

L’eccezionale (e inspiegabile) presenza di santuari e di raffigurazioni animali


orienterebbe verso tale ipotesi, che però mostra un punto debole: le Sacre Scrit-
ture, infatti, parlano di coppie di animali, anche domestici. Invece, quelli raffi-
gurati a Gobekli sono esclusivamente selvatici (leoni, cinghiali, volpi, serpen-
ti, volatili etc.). Nel Neolitico pre-ceramico(PPNA) del Levante l’agricoltura,
l’allevamento e la domesticazione sono appena apparsi, ma a Gobekli Tepe
sono ancora assenti. A voler essere precisi, nel bestiario di Gobekli qualche
cane - probabilmente domestico - si intravvede. Ma ciò non contrasta con il
quadro generale, perché il cane è il primo animale addomesticato dall’uomo,
almeno dal 12.000 a.C. (Cesarino, 1997). E così, il cane - oltre che un marcatore
culturale - a Gobekli si rivela anche un valido indicatore cronologico.
Ma altre sorprese, ancora più importanti -e anch’esse sfuggite allo sguardo (un
po’ annebbiato) degli esperti- ci riserva il sito anatolico. Di recente, è stata sco-
perta una serie di teste in pietra che, a nostro avviso, costituiscono le più anti-
che raffigurazioni di volti virili, laddove le immagini femminili a Gobekli Tepe
sono del tutto assenti. In prevalenza si tratta di teste isolate, la maggior parte
delle quali frammentate, e solo 9 integre. Ma fratture intenzionali all’altezza
del collo fanno ritenere che in origine fossero dei busti (testa e tronco), pro-
babilmente appartenenti a stele totemiche, di cui è stato rinvenuto anche un
esemplare completo. Molto realistiche (quasi dei moderni ‘ritratti’), ancorché
di rozza fattura, queste teste sono caratterizzate da occhiaie profonde, naso
prominente e bocca ben disegnata. Pur marcando una forte differenza con le
figure animali, molto eleganti e rifinite, i ‘ritratti’ virili di Gobekli costituiscono
un eccezionale fatto d’arte –sinora passato inosservato- e scrivono una nuova,
fondamentale pagina della statuaria antica.

Fig. 51 I più antichi ritratti virili sinora noti (Foto: DAI)

180
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Sui pilastri, ma anche su tavolette di pietra, oltre alle figure animali, compa-
iono vari segni che Schmidt definisce “astratti”, disposti talora in sequenze
lineari (orizzontali o verticali), ma per lo più isolati: il segno ad H (e la sua
variante girata di 90°), il cerchio, la mezzaluna ‘in piedi o coricata’, il ‘palo
orizzontale’. Possiamo anche concordare sulla definizione di “geroglifici ne-
olitici, nel senso di segni sacri” fornita dallo Schmidt. Dissentiamo, invece,
quando l’Autore afferma, in linea con l’opinione prevalente in ambito pa-
leolinguistico: “La scrittura non fu inventata come mezzo di comunicazio-
ne, ma come mezzo di archiviazione”. Questo forse è vero per culture più
recenti (sumera, assira etc.). Ma qui, a Gobekli Tepe, non si vogliono sigilla-
re i contenitori di derrate alimentari (come, per es., con le cretule di Arslan-
tepe, c. 3500 a.C.), ma si intende comunicare con il divino! Non c’è (ancora)
nulla da archiviare, ma si cerca un contatto con la dimensione ultraterre-
na .Siamo, forse, di fronte ad una tappa cruciale della spiritualità umana, e
non a strategie di approvvigionamento. Non è di certo in senso materialisti-
co(o in ogni caso utilitaristico) che vanno intesi i messaggi incisi sui pilastri.
Eppure lo Schmidt ammette che “nel X e nel IX millennio a.C. esisteva tra il
Tigri e l’Eufrate un sistema di simboli ampiamente conosciuto. Quali ne fos-
sero i contenuti non lo sappiamo, ma questi segni servivano all’umanità di
quell’epoca lontana come uno strumento che poteva anche fungere da archi-
vio della memoria culturale”. Salvo poi chiosare, lapidario come la materia in
esame: “a Gobekli Tepe non siamo certo in presenza di una scrittura”. E perché
mai? Il fatto stesso che questi segni siano rappresentati e replicati li qualifica
come ‘scritti’, ovvero espressi in modalità grafica: l’esigenza di comunicazione
come fondamento della scrittura . E proprio questo ci stimola, spingendoci
ad osare, laddove lo Schmidt mostra la cautela propria dello scienziato, ed
ammette onestamente l’inesplicabilità del messaggio. Ma se il messaggio non
viene compreso è perché esso costituisce una novità troppo dirompente per la
nostra approssimativa conoscenza del mondo antico.
Il punto nodale della questione è che noi ignoriamo cosa realmente gli artisti
di Gobekli intendessero comunicare con quei petroglifi. E se non compiamo
un atto di umiltà, smettendo per un momento i panni di razionalisti del XXI°
secolo, infarciti di scientismo, non potremo entrare mai in sintonia con i ‘primi
costruttori di templi’. Primo atto di contrizione: riscrivere la nota ‘favola’ (an-
cor oggi spacciata per verità indiscussa) che la scrittura sarebbe nata intorno al
3300-3200 a.C., in Mesopotamia o in Egitto. “I più antichi documenti rinviano
a quella data”, affermano i sostenitori della ‘favola’, cavalcando una logica che
fa acqua da tutte le parti. Esistono numerosissimi documenti ‘non ufficiali’
che provano l’esistenza di una forma di scrittura molto più antica. Nonostante
l’evidenza delle prove (centinaia di reperti paleo-linguistici rinvenuti in tutto
il mondo), l’establishment accademico, però, continua ad ignorare queste stra-
ordinarie - ma scomode – scoperte.
Alcuni studiosi, comunque, hanno affrontato autorevolmente il fenomeno dei
segni, graffiti e dipinti, risalenti al Paleolitico finale. Tra i pionieri, H.Breu-

181
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

il, P.Graziosi, A.Leroi Gourhan. E ancora: A.Marshak, E.Anati, E.Borzatti


Lowenstern, e i sostenitori della Danube Script M.Gimbutas e H.Haarmann.
Più di recente, S.Mithen, F.D’Errico, A.Belmonte, D.Raso, G.von Petzinger.
Sui petroglifi di Gobekli Tepe, però, una sorta di ‘sacro timore’ ha paralizzato
gli studiosi, impedendo loro di esprimersi in merito. Noi, invece, più spregiu-
dicati ed esenti da timori sacri o profani, vogliamo provarci.
Nell’edizione italiana del libro di Klaus Schmidt (aggiornata al 2011), l’Autore
chiarisce che il pilastro n.18 della struttura D (la più grande e più ricca di segni
e sculture) reca scolpite delle braccia, con le relative mani. Al di sotto di que-
ste, corre una larga cintura che fascia tutto il pilastro. Nel libro è presente una
foto che mostra chiaramente i segni scolpiti sulla cintura. Purtroppo, il testo
non si sofferma su questi caratteri. Lo faremo noi, per la prima volta, perché
riteniamo che essi costituiscano un elemento di enorme importanza. Sulla foto
sono visibili solo due lati del pilastro; ma supponiamo che, anche sull’altro
lato lungo, compaiano segni simili (v. Fig. 53).
Partendo da sinistra, la sequenza lineare delle lettere (preferiamo chiamarle
così) è la seguente:

Fig. 52

Sulla parte frontale della cintura, al di sotto delle dita, è presente una sorta di
fibbia insieme ad altre lettere, disposte nel seguente modo:

Fig. 53

182
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

La immediata riflessione che ci suggerisce la serie di segni è che essa non


costituisca una sorta di motivo decorativo (pur presente su alcuni monoliti
del sito). Infatti, la prima sequenza grafica mostra un’alternanza dei caratteri
sconcertante, almeno per i nostri criteri moderni. L’ultimo segno sulla destra
(quella C ruotata di 90°) appare, nella nostra spericolata lettura a posteriori,
come uno ‘slittamento semiotico’. E proprio questa alterazione del ritmo gra-
fico farebbe escludere un intento ornamentale. Una caratteristica ancor più
evidente nei segni ai lati della fibbia (fig. 52), disomogenei e asimmetrici (per
numero e dimensioni), e sicuramente non organici al fermaglio della cintu-
ra. E sono proprio queste enigmatiche , sconcertanti scritte che potrebbero
svelare il mistero che si cela tra i pilastri di Gobekli Tepe. Perché di scritte si
tratta, sequenze di caratteri grafici, e non motivi decorativi, o qualsivoglia
d’altro. E non sarà necessariamente un archeologo, un linguista, o uno stori-
co dell’arte a doverlo dimostrare: basterà un osservatore di buon senso!
Il segno H, che a Gobekli è il carattere più diffuso, e il più ‘marcato’ a livello
grafico, è stato da qualcuno interpretato come il simbolo della costellazio-
ne di Orione. Pur suggestiva, questa ipotesi non ci trova concordi perché
- quella di Orione - più che una H ricorda la forma di una clessidra. Queste
segnature appaiono estremamente intriganti. Nei contesti archeologici del
Paleolitico superiore (c.35.000-12.000 a.C.), non sono venuti alla luce segni
simili. Si conoscono sequenze di segni lineari (tacche), di segni a V, a X o a
zigzag, di punti o di cerchi, spirali semplici e multiple, meandri, ma nulla
che possa essere assimilato ai segni di Gobekli, tranne forse il segno C. Bi-
sognerà attendere l’inizio del Mesolitico (c. 10.000 a.C.) perché appaiano dei
caratteri di tipo nuovo. Sinora, nessun ‘addetto ai lavori’ (paletnologi, lingui-
sti, epigrafisti) si è soffermato ad analizzare i caratteri scolpiti sui pilastri di
Gobekli Tepe. E ci chiediamo se, dopo venti anni di ricerche, questo aspetto
straordinario (forse il più importante) del sito anatolico non meriti una mag-
giore attenzione da parte degli specialisti. Quelli di Gobekli Tepe sono tra i
più antichi grafemi del mondo, pseudo-lettere monumentali, icastiche, che
precorrono di vari millenni i caratteri onciali delle scritture di età posteriore.
La H, la I e la C compaiono per la prima volta raffigurate. Possibile – ci siamo
chiesti - che nessuno si sia accorto che questo è un sistema codificato di segni
con funzioni comunicative, che urla (a chiare lettere, è il caso di dire) il suo
status di legenda? E che presenta le stigmate del messaggio sacrale? Cos’altro
mai potrebbero essere, se non ‘lettere’, o caratteri grafici? Oltretutto, sono di
notevoli dimensioni (alti da 15 a 20 cm), non graffiti grossolanamente, ma
scolpiti ad altorilievo, con notevole accuratezza. Una tipologia sinora assolu-
tamente inedita. Se il carattere di formula dedicatoria è evidente, più erme-
tico appare il senso ultimo del messaggio: invocazioni di protezione rivolte
a entità sovrannaturali, espressioni della volontà divina (Tavole della Legge

183
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

ante litteram), celebrazioni di miti o di eroi, formule magiche o sciamaniche.


O qualsiasi altra cosa che rientri nella dimensione del sacro.
M.Vidale e A.M.Steiner (2012) attribuiscono a questi segni un carattere
socio-politico, piuttosto che mistico-sacrale: “Grandi sale circolari, affollate
da pilastri antropomorfi ‘tatuati’ con i simboli dei clan, mostrano come
questi ultimi competessero per il prestigio politico, costruendo ed esibendo
immagini colossali dei propri capostipiti”. Irriducibile, questa intellighenzia
materialista: appena avverte odore d’incenso, va in fibrillazione…. Scherzi a
parte, questa sarebbe anche un’ipotesi intrigante e plausibile, se non fosse
che –come afferma K.Schmidt - “questo luogo doveva essere stato un gran-
de santuario montano del Neolitico….Un’aura di soprannaturale permea il
luogo, i pilastri, e i segni stessi. L’impiego del termine hieros (sacro) appare
pienamente giustificato”. Ora, se quello è un luogo sacro, anche le ‘scritte’
in esso presenti sono di carattere sacro, dedicate a divinità, piuttosto che ai
membri di un clan.
A Gobekli sono visibili, sinora, solo 7 tipi di grafemi. Troppo pochi per parla-
re di un vero e proprio alfabeto; almeno sino a quando non arrivino a forma-
re un più consistente corpus epigrafico. Ma la circostanza che i segni presenti
sui pilastri siano solo di 7 tipi non esclude che potessero esisterne altri, non
utilizzati nei ‘santuari’ perché non funzionali alle cerimonie che lì venivano
svolte. La loro attuale scarsità numerica non inficia la straordinaria valenza
culturale che posseggono.

Fig. 54 Particolare del pilastro 18


(Foto N. Becker; DAI Orient-Abteilung)

184
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Abbiamo notato una singolare tendenza alla manipolazione dei segni da par-
te degli scribi-scultori dei templi: essi usano per lo più le stesse lettere, facendo
ruotare di 90° la H ( ), e intorno all’asse verticale la C ( ), che viene anche
rappresentata ‘coricata’ ( ). Una caratteristica che si ritrova nella scrittura
libico-sahariana. Non avendo preoccupazioni mercantilistiche, non dovendo
‘far di conto’, né catalogare e siglare le derrate, gli uomini di Gobekli non
avevano ancora inventato un sistema grafico finalizzato a queste esigenze.
La loro unica preoccupazione era quella di onorare ed invocare (o placare) la
divinità. Ed avevano scelto un modo molto efficace per farlo. Le lettere sono
grandi e visibili anche da una certa distanza. Esse tradiscono una maestria
grafica che è l’esito di un processo sicuramente molto antico, per la prima
volta documentabile.
E’ su queste scritte che occorre indagare, per sciogliere il mistero di Gobekli
Tepe. La loro corretta interpretazione potrebbe agevolare la conoscenza di
questa ineffabile élite preistorica. Solo che noi, analfabeti dell’Era spaziale,
non sappiamo leggere; e rischiamo di scambiare un’invocazione mistica per
un manifesto elettorale….
Gli uomini di Gobekli Tepe adottavano strategie di sopravvivenza di tipo
predatorio, basate sulla caccia e sulla raccolta. Non conoscevano ancora i
metalli, la ceramica, l’agricoltura, la domesticazione animale e delle piante,
l’allevamento. Eppure, costruirono i primi templi, ed elaborarono un siste-
ma complesso di comunicazione scritta. Religiosità, abilità architettonica e
scultorea, indizi di pensiero speculativo: un po’ troppo per dei rozzi caccia-
tori-raccoglitori! Qualcosa non quadra, evidentemente.
Da Cronache frammentarie del IV sec. a.C. (Beroso, Storia di Babilonia), la
cui attendibilità viene confermata da documenti cuneiformi, apprendiamo
che il gigante Sisitro (il Noè della tradizione caldea; ma sono noti almeno
altri tre Noè mesopotamici), dopo il famoso naufragio, era rimasto a vivere
in Armenia. Le genti locali, dopo averlo acclamato loro sovrano, gli attri-
buirono una natura divina, al punto da soprannominarlo ‘cielo’ (Olybama).
Simili onori tributarono alla moglie Tidèa, soprannominata ‘terra’ (Arezia).
C’è anche chi (Furci, 2000) identifica il personaggio Noè con il dio Urano,
ritenuto nella tradizione mitica greca il padre dei Titani, e anch’egli denomi-
nato ‘cielo’ (ouranòs). Una tesi che ci sembra oltremodo intrigante. Suggestio-
ni astrali, quindi, o invocazioni mistiche? Siamo consapevoli che la seconda
opzione potrebbe apparire provocatoria. Ma a noi non interessa tanto stabilire
se Noè-Sisitro-Urano fosse un personaggio reale o mitico, quanto piuttosto
accertare se fosse oggetto di culto presso le genti di Gobekli Tepe. Perché, se
queste nutrivano per lui la stessa venerazione dei limitrofi Armeni, allora le
probabilità che potessero edificare un tempio in suo onore sarebbero molto
alte. Se le strutture presenti a Gobekli Tepe sono luoghi di culto (e lo sono),

185
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

allora ogni santuario, ogni pilastro potrebbe essere stato dedicato ad una di-
vinità, ad un eroe o ad una costellazione.
Riteniamo che la pratica religiosa dei ‘costruttori di templi’ fosse fortemente
intrisa dell’elemento cosmico. Se ciò corrispondesse a verità, le nostre cono-
scenze sulle origini del sacro e della spiritualità dovrebbero essere radicalmen-
te rivedute e corrette. E Gobekli Tepe si rivelerebbe un ‘crocevia della storia
dell’umanità’ di incredibile portata. Non dovremmo meravigliarci se, a ricer-
che ultimate, il sito dovesse configurarsi come la rappresentazione in terra del
mondo celeste.
Nella cosmogonia sumera, la parola usata comunemente per ‘dio’ è ‘cielo’. E
l’accoppiamento del cielo e della terra costituisce un elemento fondamentale
della mitologia primitiva. Il binomio An-Ki, due divinità primigenie, viene
letto come ‘cielo e terra’ e simboleggia la ‘montagna cosmica’. Lo Schmidt ri-
ferisce di una ‘montagna sacra’, Du-Ku, menzionata dalle fonti sumere, sede
degli dei Anuna. E si chiede se questa non sia identificabile con Gobekli Tepe;
e gli dei Anuna con i pilastri antropomorfi di questo sito. Poi, frena: “pare,
tuttavia, ancora troppo presto poter rispondere a queste domande….l’archeo-
logia corre il rischio di valutare in modo sbagliato l’interpretabilità e la portata
delle fonti letterarie….ed il filologo corre il medesimo pericolo”.
Come dire: la prudenza della tradizione difronte al rischio della novità. Noi,
pur comprendendo gli scrupoli dello Schmidt, intendiamo procedere proprio
in quest’ultima direzione.
L’Anatolia orientale, con le sue montagne, è stata teatro di attività cultuali
molto intense e durature, sin da età preistorica: Gobekli Tepe, i monti Ara-
rat, Cudi e Du-Ku ne rendono testimonianza. Nel poema sumero Il bestiame
e il grano si legge: “Sulla Montagna del Cielo e della Terra, An diede vita agli
Anunnaki... non c’erano ancora pecore, nè capre...i piccoli chicchi, il seme del-
la montagna, non esisteva ancora”. Ovvero, non esistevano ancora le piante
e gli animali domestici. Una situazione che ricorda molto quella del sito ana-
tolico. A noi, per le sue straordinarie peculiarità, Gobekli, montagna anch’es-
sa (ad onta del toponimo Tepe )sembra meritare il titolo di ‘montagna degli
dei’, ovvero di pantheon dell’età della pietra. Un fenomeno dirompente di
carattere mistico, qui a Gobekli, potrebbe aver preceduto quello più materiale
dell’agricoltura. Una rivoluzione spirituale che precede “la rivoluzione” per
antonomasia. Chissà cosa ne penserebbe G. V. Childe…. Che una parte della
pre-historia debba essere riveduta e corretta? Che il Neolitico sia stato tenuto
a battesimo da un fenomeno di tipo religioso, piuttosto che materiale come
ci è stato sinora raccontato? Ci assale il dubbio che questo sia il reale motivo
della reticenza di un certo ambiente ufficiale nei confronti delle straordinarie
emergenze anatoliche, “per paura di perdere la tranquillità conservatrice delle
dottrine note” (Villar, op. cit.).

186
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Proviamo, ora, a decifrare il significato cosmogonico celato nella struttura D


di Gobekli Tepe. Dalla tradizione greca apprendiamo che Urano (il Cielo) e
Gea (la Terra), divinità primigenie, avevano generato 6 figli e 6 figlie, i Tita-
ni. Ora, nel complesso D, al centro dell’area compaiono due enormi pilastri,
circondati da altri dodici, di dimensioni inferiori. Questa particolare disposi-
zione ci suggerisce una inedita chiave di lettura: i 14 pilastri di questo settore
potrebbero simboleggiare Urano e Gea, attorniati dai loro 12 figli (quelli che,
nell’Olimpo greco, sono i dodici Grandi Dei). A Nevali Cori, nei pressi di
Gobekli, è stato rinvenuto un altro edificio di culto con pilastri a T, che pre-
senta anch’esso 12 pilastri perimetrali e 2 al centro dell’area. Non un caso
isolato, quindi, ma uno schema ripetuto, che connota uno sconcertante, ine-
dito modello cultuale. Millenni più tardi, nella cosmogonia sumera troviamo
numerose ‘coppie celesti’, divinità che venivano identificate con i vari pia-
neti. La coppia primeva era costituita da Apsu-Tiamat, l’ultima da An-Enki.
Questi abbinamenti cosmico-sacrali potrebbero giustificare la presenza delle
coppie di pilastri centrali in tutte le strutture sinora rinvenute a Gobekli.
Relativamente ai segni che compaiono sul pilastro n.18, ormai divenuto una
vera miniera di informazioni, avanziamo alcune proposte esegetiche. Abbia-
mo individuato, tra i grafemi della scrittura assira, un carattere cuneiforme
che ci ha notevolmente colpito:

Fig. 55

Questo grafema, quasi certamente mutuato da una scrittura più antica, vie-
ne comunemente letto come KI, sillabogramma con il significato di ‘terra’.
Il segno sulla sinistra, che nell’alfabeto ugaritico identifica la lettera C,
potrebbe costituire l’evoluzione grafica della C presente a Gobekli. La lettera
potrebbe rappresentare la ‘complicazione’ della H primitiva, la cui storia
evolutiva meriterebbe un’indagine particolare. In alcuni siti del ‘Natufiano’
e del ‘Neolitico preceramico A’ del Vicino Oriente, sono state rinvenute in-
cisioni con “disegni simili ad una scala”, che farebbero pensare ad un codice
simbolico, secondo l’opinione - illuminata, ancorchè isolata – di Steven Mi-
then (2002). Reiterando il condizionale, in conclusione, la lettera H presente
a Gobekli potrebbe essere l’ideogramma per ‘terra’, la C per ‘cielo’ o ‘Signo-
re’.

187
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Sempre sui pilastri della struttura D, il n.18 presenta in alto, come abbiamo
visto, tre segni ( H, sole, luna) e, sulla cintura, una serie di lettere (H, C, I);
l’omologo pilastro n.31 non presenta alcun segno sulla cintura, mentre in
alto reca scolpito quello che sembra un bucranio (una testa di toro). Sembra
profilarsi una netta differenziazione dei ruoli o dei generi. Una diversifica-
zione che viene ulteriormente ribadita dalle figure che adornano i basamenti
dei due pilastri. Mentre sul pilastro n.18 compare la leggiadra sequenza di
anatre danzanti, sull’altro pilastro è visibile un bassorilievo che, secondo lo
Schmidt, è “senza dubbio identificabile come un toro”. Il bucranio e il toro
erano ritenuti identificativi del dio sumero Enki; ma anche altri dei mesopo-
tamici appaiono raffigurati con siffatto aspetto.
La splendida letteratura sumera è ricca di notizie, di particolari (talora mol-
to intriganti) relativi alle varie divinità locali. Essa privilegia un linguaggio
simbolico, ma non sono rari i passi dal contenuto esplicitamente erotico.
Qualche dato relativo al panteon sumerico potrebbe servire alla nostra cau-
sa. Il dio Enki, figlio di An, è denominato ‘Signore della Terra’ (EN sovrano
+ KI terra). Sua sposa è la sorellastra Ninhursanga, detta anche Nintu o Ki
(Terra), considerata la Dea Madre che aveva ‘creato’ l’Uomo.
Gli animali scolpiti sul pilastro n.18 potrebbero contribuire al riconoscimen-
to del personaggio cui il pilastro è dedicato. In merito alle anatre visibili sul
podio del pilastro, questa scena, per la sua levità ed eleganza, ci sembra più
consona ad un personaggio femminile, ed in netto contrasto con i tori raf-
figurati sul pilastro n. 31. C’è, poi, una volpe che il personaggio misterioso
stringe al corpo con il braccio destro. Lo Schmidt evidenzia che la volpe,
nell’iconografia dell’antico Oriente, “è totalmente priva di importanza”; e,
quindi, la sua presenza a Gobekli risulta “sorprendente”. Noi pensiamo che,
proprio per questo, essa costituisca un riferimento simbolico. Il mito, infatti,
ci informa che una volpe aveva giocato un ruolo importante nella vita di
Ninhursanga: era riuscita, con uno stratagemma, a ricondurla presso Enki,
dal quale ella si era allontanata. Una coincidenza? A nostro avviso, il ‘Signo-
re della Terra’ e la Dea Madre potevano ben meritare un santuario a loro
dedicato.
Ma anche altri personaggi possedevano titoli per identificarsi con il pilastro
n.18. Il più titolato è An, ‘Signore del Cielo’, Capo supremo e padre di Enki
ed Enlil. Egli fornirebbe, a nostro avviso, per il ‘cartiglio di pietra’ sull’alto
del pilastro, una possibile chiave di lettura: T (il pilastro n.18, ovvero An)
è il ‘Signore della Terra, del Sole e della Luna’. Segni sacri, geroglifici ante
litteram, come già sostenuto dallo Schmidt. Se questa lettura è verosimile, la
sacralità dei cartigli egizi trova, a Gobekli Tepe, la sua matrice archetipica.
L’altro pilastro(n.31) potrebbe identificarsi con il dio Enki, figlio di An. En-
trambi, nella cosmogonia mesopotamica, simboleggiavano i pianeti gemelli

188
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

che portavano il loro nome (gli attuali Nettuno ed Urano).


Tentiamo, ora, una lettura (una semplice proposta non assiomatica) dei segni
presenti sulla cintura del pilastro n. 18. Il segno non è labile come la parola,
che vanisce in sul nascere. Il segno resta, ma è simbolo, nel senso che significa
qualcosa d’Altro da sè. Per questo, le interpretazioni che proponiamo sono
da considerare come semplici tentativi. Il segno I potrebbe riferirsi al dio An,
il cui identificativo numerico – nella gerarchia divina sumera - corrisponde al
numero 1, rappresentato dal segno , una sorta di cuneo verticale (Mander,
2009)). Un segno che ricorda singolarmente i pilastri a T di Gobekli, e che
compare 11 volte sul misterioso disco di Festo.
Nella sequenza CCHCH , le due C estreme sembrano ‘abbracciare’ le altre
lettere. Un aiuto insperato è giunto da Domenico Raso, al quale avevamo
chiesto lumi. La sua precisa risposta ci ha confortato: “questi segni sono
presenti anche nelle prescritture pelasgiche; la T (ovvero, i pilastri) sta per
‘Signore, sovrano’, la C per ‘cielo’, la per ‘mare’, la H per ‘regno’ (iden-
tificativo dei Popoli del Mare)” (comun.pers.). Il Raso ritiene possibile che
Gobekli Tepe costituisse una delle tappe di quelle genti pelasgiche, oggetto
delle sue ricerche (v.Cap.9); e che i pilastri a T commemorassero i loro Sovra-
ni. Probabilmente, quindi, la forma a T rappresenta il simbolo della divinità,
ovvero identifica un ‘dio’ (o un Sovrano). Molto più tardi, nelle lingue semi-
tiche e in quella greca, questa T diverrà il carattere alfabetico tau. Sempre sul
pilastro n.18 (senza dubbio il più interessante fra quelli sinora rinvenuti), in
alto appena sotto la ‘testa’, compare un enigmatico cartiglio di pietra:

Fig 56

il solito simbolo ad H, che lo Schmidt vede sdoppiato in due elementi che si


fronteggiano, “forse due persone o due animali”, e, al di sotto, un cerchio e
una ‘mezzaluna coricata’. Questi due ultimi segni, come proposto da K.Sch-
midt, possono verosimilmente interpretarsi come ‘sole’ e ‘luna’. Ma questo

189
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

non agevola la comprensione del contesto.


Ma, forse, siamo cascati in una trappola: stiamo tentando di interpretare per-
sonaggi e situazioni di circa 12.000 anni orsono, assimilandoli a fatti e per-
sonaggi più attuali di migliaia di anni. Ci auguriamo solo che queste nostre
note non costituiscano “un inventario di malintesi”, come A. Leroi-Gourhan
ebbe, ingiustamente, a definire un suo famoso saggio (Le religioni della prei-
storia). Dovremmo, come avverte opportunamente lo Schmidt, partire in-
vece da Gobekli Tepe e dai suoi sconcertanti reperti; per scoprire, così, che
tutta la successiva cosmogonia, le religioni, i sistemi di scrittura, dai Sumeri
al mondo greco-romano, hanno goduto dello straordinario lascito di un mi-
sterioso popolo dell’Anatolia, di cui ignoriamo ancora il nome. La pratica di
incidere segni singoli e di allinearli secondo precise sequenze, come a Go-
bekli Tepe, diverrà una tradizione dell’Europa sud-orientale neolitica. E nei
santuari della civiltà danubiana segni scritti risulteranno funzionali alle ce-
rimonie, a mo’ di invocazioni. E, fra i segni della Danube Script, sono presenti
anche quelli dei santuari anatolici.
E’ una grande lezione quella che ci viene dalle montagne dell’Alta Mesopo-
tamia, ed insieme una grande umiliazione per la nostra cultura, che deve ri-
spondere di questo enorme gap temporale: 6ooo anni di civiltà non possono
svanire nel nulla, per poi riapparire improvvisamente fra Egitto e Mesopo-
tamia.
Ritornando ai nostri …siderei amici, lo Schmidt, nel suo libro, sostiene che
i personaggi dei pilastri centrali sono entrambi di sesso maschile. In prece-
denza, aveva anche considerato possibile (solo ipotizzato) una dualità ma-
schio-femmina. In verità, il suo ripensamento appare plausibile: gli scavi più
recenti hanno rivelato, su entrambi i pilastri in oggetto, l’immagine di un
perizoma. A noi, però, sembra anche possibile che un uomo e una donna
del Neolitico (o un dio e una dea) potessero indossare indumenti paritetici.
D’altronde, ‘perizoma’ equivale a ‘copri-sesso’; e quindi, per la par condicio...
Ma ecco lo Schmidt obiettare, categorico: “i portatori di cintura del Neoliti-
co dell’Asia Minore...sono determinabili come di sesso maschile”. A questo
punto - anche perché la questione verte …..sul sesso degli angeli - sospen-
diamo la discussione. Lo Schmidt, al riguardo, accenna ad un binomio che
definisce “forse una coppia di gemelli”. Ma questo non farebbe che compli-
care le cose. Ipotizziamo pure che i personaggi dei due piloni centrali possa-
no raffigurare i Gemelli. Nella tradizione mitologica, i Gemelli sono descrit-
ti come esseri bisessuati,androgini, ma anche maschio e femmina, come in
Egitto. In ogni caso, a Gobekli Tepe essi appaiono troppo distanziati fra di
loro: dovrebbero, a nostro avviso, presentarsi quasi abbracciati, come nella
H del succitato cartiglio di pietra. Contro questa ipotesi, cospirano anche i
simboli grafici presenti sui due pilastri, che - a livello logico - dovrebbero
essere identici, mentre invece sono molto diversi. E, cosa ancora più distur-
bante, il ruolo dei 12 pilastri più piccoli risulterebbe inesplicabile. A prescin-

190
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

dere, comunque, dall’identità dei ‘titolari’ dei pilastri ( “divinità, antenati o


altre entità”,come ipotizza lo Schmidt; Re pelasgi secondo il Raso; Urano e la
sua…titanica famiglia, secondo chi scrive), a Gobekli Tepe siamo di fronte ad
un sistema ideologico molto sofisticato e precoce, di cui ancora ci sfuggono
i nessi essenziali.
Lo Schmidt, nelle conclusioni, è molto più cauto di noi: “Il carattere di muta
pietra...ci impedirà per sempre di sapere se a Gobekli Tepe il numen si fosse
già trasformato in nomen”.(*)
Ma qui sospendiamo la nostra spericolata incursione fra le ‘alte sfere celesti’,
sicuramente perfettibile, fors’anche emendabile, basata com’ è sull’osserva-
zione indiretta (non dal vivo) di materiale documentario non sempre di fa-
cile leggibilità (foto,filmati TV e immagini da Internet). Per lo stesso motivo,
le trasposizioni grafiche inserite in questo saggio, in assenza di un modello
reale, possono risultare imprecise.
Ritornando su questa terra, in una Tavola comparativa degli alfabeti tifinagh
e sahariano antico abbiamo constatato la presenza degli stessi segni scolpiti
sui pilastri di Gobekli Tepe.

Fig. 57

*Parole, queste, che oggi suonano tristemente profetiche: apprendiamo, durante la stesura di
queste note, della prematura scomparsa del prof. K. Schmidt, avvenuta nel luglio 2014. Il suo
straordinario lavoro gli garantirà un posto di rilievo fra i ‘grandi’ della ricerca archeologica.

191
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

E ciò testimonia che anche gli antichi abitatori di un Sahara un tempo fertile
graffivano sulla roccia delle lettere alfabetiche simili ai segni presenti nei pri-
mi santuari della storia. Una coincidenza? Forse. Ma potrebbe anche essere
la prova che una élite della preistoria sahariana (Protoberberi? Tardo-ateria-
ni?) avesse un rapporto molto stretto con i misteriosi frequentatori della col-
lina di Gobekli Tepe. Il legame fra queste popolazioni, pur così lontane fra
loro, a noi appare sempre più evidente. L’alfabeto sahariano antico è stato
rinvenuto anche nelle Isole Canarie (Galand,1994). Ma questo dilata troppo
il discorso, ed evoca scomodi fantasmi …atlantidei.
Théodore Monod (1993), il grande ricercatore francese, aveva individuato
una serie di iscrizioni sahariane che giudicava“non riferibili alla scrittura
araba, né all’alfabeto tifinagh (la scrittura dei tuareg)” . Ma già precedente-
mente Mark Milburn (1986) aveva segnalato vari siti sahariani con iscrizioni
enigmatiche. Alfred Muzzolini (1995) precisa: “le iscrizioni libiche antiche,
quelle che i Touareg non sanno leggere, e che sono - ricordiamolo - non de-
cifrate, sono altra cosa dal tifinagh moderno, che i Touareg sanno leggere.
Le iscrizioni arcaiche utilizzano un alfabeto la cui origine resta misteriosa”
. E, sin qui, siamo d’accordo. La sua visione, però, non collima con la nostra
quando egli data questo alfabeto arcaico al 7°- 6° sec.a.C. Non riusciamo
a comprendere come un alfabeto ‘misterioso’ ed ‘arcaico’ per definizione,
possa essersi sviluppato in età storica. E perché mai le stesse popolazioni
autoctone del Sahara non riescano a comprenderlo. Non molto lontana dal-
le posizioni di Muzzolini è Malika Hachid (2000), l’esperta di Preistoria e
Protostoria sahariana. A suo giudizio, la più antica forma di ‘scrittura libica’
sarebbe apparsa intorno al 1300-1200 a.C. .Ci reca conforto, comunque, il
parere del grande africanista e storico della cultura berbera, Gabriel Camps
(1996), che considera il tifinagh “molto più antico di quanto sinora ritenuto;
anche se non è facile stabilire l’origine della scrittura libica”. Non diversa-
mente M. Aghali-Zakara (2001) che, al riguardo, parla di “segni enigmatici
non identificati. Segni che celano un messaggio che gli epigrafisti si sforzano
di decifrare”. Confidiamo che la linguistica un giorno possa chiarire questo
enigma. A nostro avviso, l’alfabeto sahariano arcaico ha svolto un ruolo di
trait d’union, di veicolo culturale tra l’età neolitica e quella protostorica.
D. Raso e S. Ravenda (2008), in un loro articolo, hanno pubblicato un’imma-
gine graffita del Tadrart Acacus libico (uadi Imha), nella quale compaiono
delle lettere che vengono definite “segnature di prescrittura pelasgica”. Pur
concordando con gli Autori, ci sembra doveroso precisare che alcuni esegeti
considerano questi grafemi di tipo ‘tifinagh recente’. Un particolare, però, ci
convince del contrario: quella specie di punto esclamativo ( ! ), che compare
al centro della prima riga, è un carattere esclusivo del ‘sahariano antico’. E,
nella seconda riga, ritroviamo con lieto stupore due delle lettere presenti sui
pilastri di Gobekli Tepe: la H e la C in sequenza.

192
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Fig. 58 Serie di lettere, dal graffito del Tadrart Acacus


(Raso e Ravenda, 2008)

Perché i ‘segni’ di Gobekli Tepe sono dei caratteri di scrittura

Rispetto ai glifi rupestri del Paleolitico superiore, presenti in Europa e nel


resto del mondo, quelli di Gobekli Tepe sono assolutamente ‘nuovi’. Essi,
inoltre posseggono caratteristiche che sembrano testimoniare uno status di
proto-scrittura o, quantomeno, di ‘notazione codificata’.
# Il sistema grafico di Gobekli Tepe, confrontato con i segni del Paleoliti-
co, appare decisamente perfezionato ed evoluto. I petroglifi non sono più
graffiti o dipinti, ma scolpiti ad altorilievo, una tipologia sinora inedita ed
originale.
# I ‘segni’ –isolati o combinati- sono fortemente caratterizzati da un di-
segno accurato, ‘plastici ’e di notevole impatto visivo ed emozionale (quasi
icastici, a mo’ di invocazioni). Essi sono i precursori di quei caratteri ‘onciali’
che ritroveremo nella tradizione epigrafica di età classica (‘maiuscola qua-
drata’ greca e ‘capitale lapidaria’ romana).
# Essi non sono caratteri alfabetici, ma ideogrammi, segni ‘astratti’ che
verosimilmente esprimono concetti di tipo sintetico (frasi), o analitico (paro-
le). Solo in apparenza semplici (come i pittogrammi ‘sole’ e ‘luna’), quando
compaiono interconnessi assumono un carattere discorsivo, e un intento co-
municativo.
# Sono disposti anche in sequenze lineari (orizzontali e verticali), intenzio-
nalmente collegati fra loro ed interagenti.
# Sono uniformi nella tipologia e replicati, come prevedono i criteri di
scientificità.
# Sopravviveranno, nel loro formato monumentale (maiuscolo), ancora
per migliaia di anni nelle scritture ‘occidentali’ (Danube script, iberica, caria,
greca, etrusca, sicula, latina, turca), nonché in quella ‘sahariana antica’.

193
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

Le scritture di età storica sono ancora di là da venire, ma questi segni sono


sicuramente degli ideogrammi o dei logogrammi. E li ritroveremo, nello
stesso formato monumentale, migliaia di anni più tardi, nell’alfabeto cario e
in quello greco. Perché le genti che avevano costruito e, successivamente, oc-
cultato ‘i primi templi’ non poterono occultare anche l’altra loro straordina-
ria creatura, ‘la madre di tutte le scritture’. E, paradossalmente, proprio quel
mondo occidentale che cancellerà i loro dei, adotterà nel proprio alfabeto le
magiche lettere nate sulle pietre dell’Anatolia. In definitiva, a prescindere
dalle implicazioni mistico-sacrali, sui pilastri di Gobekli Tepe ci sembra di
individuare due fattori di contiguità con la cultura sahariana antica, entram-
bi di carattere grafico: le immagini di animali (soprattutto quelle di leoni) e
i grafemi.
I segni, in particolare, celano un messaggio il cui significato era sicuramente
accessibile ai frequentatori dei santuari; e ora riaffiorano lì, sulla pietra, a sfi-
dare il nostro scetticismo. A livello semiotico, essi rappresentano una sorta
di linguaggio scritto, una vera e propria proto-scrittura, che nasce come
un sistema segnico di tipo astratto-ideografico. Ma con la vocazione ad uno
sviluppo in senso alfabetico-fonetico: pochi ed isolati in origine, questi segni
palesano un’attitudine ad aggregarsi ed interagire fra di loro, una tendenza
alla complicazione tipica dei sistemi in evoluzione. Il graffito sahariano del
Tadrart Acacus, più recente (prob. fase ‘pastorale’), nella proliferazione dei
caratteri, tradisce l’avvenuta evoluzione.
Il sistema grafico di Gobekli Tepe già presenta quelle specificità strutturali e
tipologiche che ritroveremo in alcune scritture più tarde. Inoltre, esso possie-
de quei requisiti di uniformità e ripetibilità previsti dal metodo scientifico, e
che gli valgono lo status di ‘scrittura’ a tutti gli effetti. Perché gli uomini che
anticiparono di vari millenni le conquiste culturali dell’Egitto e della Meso-
potamia, erano sicuramente in grado di ‘ inventare’ anche la scrittura. E le
testimonianze epigrafiche, a prescindere da ogni possibile interpretazione,
parlano da sole e, con la loro significativa valenza, rivelano dignità di prova:
ci troviamo di fronte ad una delle più antiche forme di comunicazione gra-
fica in codice elaborata dall’uomo. Decrittarla è tutt’altro discorso, perché il
senso del divino non ci appartiene più.

194
Cesarino, F. La scimmia ambiziosa, 2017

PAUSA DI RIFLESSIONE

* Proviamo a lanciare una pesante provocazione, in attesa di smenti-


te. Vogliamo proporre una nuova datazione storicamente documentabile,
molto più antica di quel 3100 a.C. che segna l’avvento della I^ dinastia in
Egitto, e che viene spacciato per il ‘primo evento storico’. Perché la Storia
può essere ricostruita non solo attraverso i documenti scritti, ma anche
attraverso le testimonianze archeologiche, paleontologiche e le indagini
archeometriche. Ora, se le emergenze più antiche di Gobekli Tepe sono
datate con esattezza (e lo sono, a livello scientifico), i primi ‘templi’, le
più antiche strutture architettoniche, i primi geroglifici (segni sacri), i primi
ritratti virili (teste in pietra) della storia della scultura si collocano in un
preciso ambito cronologico, il 9600 a.C. Ed assumono così indubbia valen-
za di testimonianza storica.
* A prescindere da tutte le altre peculiarità, a Gobekli Tepe sono presenti
le più antiche testimonianze di architettura monumentale della storia: i
primi monoliti tagliati da mano umana, e per di più istoriati. Ma anche
questa priorità assoluta non sembra essere stata percepita dagli specialisti
del settore. Ci corre il dubbio che lo shok procurato da questa incredibile
emergenza abbia momentaneamente paralizzato certe loro facoltà men-
tali. Sveglia, signori! E al lavoro. Cominciate, per favore, con lo spiegare
dove sono finiti quei 6000 anni di storia, di arte, religione, lingua e scrit-
tura che dividono la civiltà di Gobekli Tepe da quella egizia o sumera.
E cercate anche di essere convincenti, perché non siamo più disposti a
berci la storiella che la Grande Piramide e i geroglifici rappresentano le
prime testimonianze ‘storiche’ dell’architettura e della scrittura. Ma nu-
triamo anche il timore che l’ambiente ufficiale della cultura, per continua-
re a dormire sonni tranquilli, possa ‘rimuovere’ le scomode emergenze
anatoliche per restituirle all’oblio. Vogliamo sognare che un giorno, nei
libri di storia, i nostri nipoti possano leggere quanto a noi è stato negato:
un’altra storia.
* Sarà una coincidenza, ma quando le rivoluzioni di ordine materiale rag-
giunsero anche il loro territorio, ‘i costruttori di templi’ di Gobekli abban-
donarono il sito, dopo aver occultato le loro creazioni. Lo spirito che arre-
tra dinanzi al progresso? Se è andata così, abbiamo fatto la scelta sbagliata,
e siamo rimasti abbarbicati a questa terra di fragili illusioni, perdendo
il tram per le stelle .I reperti, i documenti sono muti: l’archeologo tenta
di farli parlare, dà loro la sua stessa voce, ventriloquo. Ma, ogni volta,
la storia è parziale e inventata, soprattutto se cerca l’oggettività. I monu-

195
menti e i segni di Gobekli narrano una storia antica che è quasi fiaba. Ma in
archeologia, si sa, la parola ‘favola’ è bandita.Ed ogni proposta di tipo non
tradizionale finisce accantonata nel territorio della fantasia, nella ‘grande
riserva della fantasia’, accessibile a pochi adepti. E noi, ossessionati dalla
razionalità a tutti i costi, che ci fa rifiutare tutto ciò che non si vede e non si
tocca, non riusciamo a cogliere il senso di un messaggio che ci viene dalla
notte dei tempi.

Potrebbero piacerti anche