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Poco alla volta ho notato il contrasto tra l’immagine dell’uomo pubblico, sicuro di se stesso, volentieri

cinico, e quella che mi sembrava essere la sua vera natura: un uomo vulnerabile, sensibile ed emotivo,
che sente profondamente, fisicamente, le sensazioni che spera di comunicare al suo pubblico

Il suspense è prima di tutto la drammatizzazione del materiale narrativo di un film o almeno la


presentazione più intensa possibile delle situazioni drammatiche. Un esempio. Un personaggio esce di
casa, sale su un taxi e corre verso la stazione per prendere il treno. È una scena normale all’interno di un
film medio.

Ora, se prima di salire sul taxi quest’uomo guarda il suo orologio e dice: «Mio Dio, è spaventoso non
prenderò mai il treno», il suo percorso diventa una pura scena di suspense, perché ogni semaforo, ogni
incrocio, ogni vigile, ogni cartello stradale, ogni frenata, ogni movimento della leva del cambio vanno a
intensificare il valore emozionale della scena. L’evidenza e la forza persuasiva dell’immagine sono tali che
il pubblico non si dirà: «In fondo, non ha poi così fretta», o meglio: «Prenderà il prossimo treno». Grazie
alla tensione creata dalla frenesia dell’immagine, l’urgenza dell’azione non potrà essere messa in dubbio.
Una tale decisione di drammatizzazione non può funzionare senza arbitrarietà, ma l’arte di

Hitchcock sta proprio nell’imporre questa arbitrarietà contro cui si ribellano a volte gli «spiriti forti» che
parleranno allora di inverosimiglianza. Hitchcock dice spesso di non curarsi della verosimiglianza, ma in
realtà egli è raramente inverosimile.

Ma guardando il lavoro di Hitchcock, ci si accorge che lungo tutta la sua carriera egli ha cercato di
costruire film in cui ogni momento fosse un momento privilegiato. Film, come dice egli stesso, senza
buchi né macchie.

Con il cinema come viene praticato da Hitchcock, si tratta di concentrare l’attenzione del pubblico sullo
schermo al punto di impedire agli spettatori arabi di sbucciare le loro arachidi, agli italiani di accendere la
loro sigaretta, ai francesi di palpare la loro vicina, agli svedesi di far l’amore tra due file di poltrone, ai
greci di…, ecc.

Alfred Hitchcock non è né un narratore di storie né un esteta, ma «uno dei più grandi inventori di forme
di tutta la storia del cinema.

In effetti, il più grave pericolo che un regista corre è quello di perdere il controllo del film strada facendo
e questo capita più spesso di quanto si pensi.

Ogni inquadratura di un film, di una durata da tre a dieci secondi, è un’informazione che si dà al
pubblico. Molti cineasti danno informazioni imprecise e più o meno leggibili, sia quando le loro
intenzioni iniziali sono anch’esse imprecise, sia quando sono precise ma male eseguite

È così che Alfred Hitchcock si trova a essere praticamente l’unico a filmare direttamente, cioè senza
ricorrere al dialogo esplicativo, dei sentimenti come il sospetto, la gelosia, il desiderio, l’invidia e questo
ci porta al paradosso: Alfred Hitchcock, il cineasta più accessibile a ogni pubblico per la semplicità e la
chiarezza del suo lavoro, è nello stesso tempo quello che eccelle nel filmare i rapporti più sottili tra gli
individui
Il cinema di Alfred Hitchcock non è sempre esaltante, ma arricchisce sempre, se non altro per la
grandissima lucidità con la quale denuncia le offese fatte dagli uomini alla bellezza e alla purezza.

Sì, questo è un’altra cosa. The Lodger è stato il primo vero «film di Hitchcock». Avevo visto un lavoro
teatrale intitolato «Chi è?» tratto dal romanzo di Belloc Lowndes, The Lodger. L’azione si svolge nella casa
di un’affittacamere e la proprietaria si chiede se il nuovo inquilino sia un assassino conosciuto come il
Vendicatore. Un tipo del genere di Jack lo Squartatore. Ho trattato questo soggetto in modo molto
semplice, interamente dal punto di vista della donna, la proprietaria. Poi sono stati fatti due o tre remake
troppo complicati

F.T. Infatti, il protagonista era innocente, non era il Vendicatore. A.H. Proprio questa era la difficoltà. Il
protagonista, Ivor Novello, era una vedette del teatro in Inghilterra; allora era un nome molto
importante. Ecco uno dei problemi che dobbiamo affrontare avendo a che fare con lo star-system: capita
spesso che la vicenda sia compromessa perché il divo non può recitare la parte di un delinquente.

The Lodger è il primo film nel quale ho messo in pratica ciò che avevo appreso in Germania. Il mio
rapporto con questo film è stato del tutto istintivo; per la prima volta ho applicato il mio stile. In realtà,
possiamo dire che The Lodger è il mio primo film

Tutto questo fa veramente di The Lodger il primo film hitchcockiano, a partire dal tema che si ritrova in
quasi tutti i suoi film: l’uomo accusato di un delitto che non ha commesso.

. In effetti il motivo dell’uomo accusato ingiustamente procura allo spettatore una sensazione di pericolo
più forte, perché ci si immedesima più facilmente con quest’uomo che non con un colpevole in procinto
di evadere. Tengo sempre presenti le reazioni del pubblico

The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo) è stato il suo più grande successo inglese e
ha riscosso molto successo anche in America. Una coppia di turisti inglesi sta facendo un viaggio in
Svizzera con la propria bambina. Assistono all’omicidio di un francese, il quale, prima di morire, fa in
tempo ad affidare loro un messaggio che svela il complotto per uccidere un ambasciatore straniero in
visita a Londra. Per essere sicuri del silenzio della coppia, le spie rapiscono la bambina. Di ritorno a
Londra, la madre, che è alla ricerca dei rapitori, riesce a salvare la vita dell’ambasciatore gridando proprio
nel momento in cui sta per essere colpito da una revolverata durante l’esecuzione di un concerto
all’Albert Hall. Nel finale vediamo l’assedio della polizia al covo delle spie e il salvataggio della bambina.
Ho letto da qualche parte che era ispirato a una storia vera, a un fatto di cronaca del quale Churchill,
allora capo della polizia, era stato uno dei protagonisti.

Siamo arrivati al 1948. È una tappa importante della sua carriera, perché si avviava a diventare, con
Nodo alla gola (Rope){31}, produttore dei suoi film. Nodo alla gola è anche il suo primo film a colori oltre
che un’enorme sfida tecnica. Vorrei chiederle prima di tutto se l’adattamento si discosta molto dalla
commedia di Patrick Hamilton

Non so veramente perché mi sia lasciato trascinare in questo pasticcio di Nodo alla gola; non posso
chiamarlo altrimenti che un pasticcio. La commedia aveva la stessa durata dell’azione, aveva un
andamento continuo, dal momento in cui si alzava il sipario fino a quando era calato e mi sono chiesto:
come posso tecnicamente filmare questa storia mantenendo lo stesso andamento della commedia? La
risposta era evidentemente che la tecnica del film avrebbe dovuto produrre la stessa continuità e che
non si sarebbe dovuto fare alcuna interruzione all’interno di una storia che incomincia alle 19,30 e
termina alle 21,15. Allora mi è venuta questa idea un po’ folle di girare un film costituito da una sola
inquadratura. {33} Ora, quando ci rifletto, mi rendo conto che era completamente senza senso, perché
rompevo con tutte le mie tradizioni e rinnegavo

tutte le mie teorie sulla segmentazione del film e sulle possibilità offerte dal montaggio, per raccontare
una storia attraverso delle immagini. Tuttavia ho girato questo film montandolo in anticipo; i movimenti
della macchina da presa e i movimenti degli attori ricalcavano esattamente il mio modo abituale di
scegliere le inquadrature per il montaggio, cioè cercavo di mantenere il principio del cambiamento di
proporzione delle immagini in rapporto all’importanza emotiva dei vari momenti.

Beninteso, ho avuto molte difficoltà per fare questo e non solo con la macchina da presa. Per esempio
con la luce: nel film la luce diminuiva continuamente, l’illuminazione cambiava tra le 19,30 e le 21,15,
perché l’azione cominciava quando era ancora giorno e si concludeva di notte. Un’altra difficoltà tecnica
da superare consisteva nell’interruzione forzata alla fine di ciascuna bobina; l’ho risolta facendo passare
un personaggio davanti all’obiettivo per oscurarlo proprio nel momento preciso in cui la pellicola del
caricatore finiva. Così c’era un primissimo piano sulla giacca di un personaggio e all’inizio della bobina
successiva si riprendeva ancora col primissimo piano sulla sua giacca.

Oltre a tutto ciò era la prima volta che usava il colore al cinema, dunque difficoltà ulteriori? A.H. Sì,
perché ero deciso a ridurre il colore al minimo. Avevamo costruito la scenografia di un appartamento
costituita da un’entrata, un soggiorno e una parte della cucina. Dietro la finestra, che lasciava intravedere
New York, avevamo uno sfondo costituito da un modellino di forma semicircolare a causa dei movimenti
della macchina da presa; questo modellino occupava una superficie tre volte più grande di quello della
stessa scenografia, per l’effetto della prospettiva. Tra i pezzi di grattacielo e la parete dello sfondo avevo
delle formazioni di nubi fatte di vetro filato. Ogni nube era mobile e indipendente. Alcune erano appese
con dei fili invisibili, altre erano posate su delle pertiche; erano sistemate in una forma semicircolare.
C’era un «piano di lavoro» speciale per le nuvole e tra una bobina e

l’altra si spostavano da sinistra a destra, ciascuna con una velocità differente. Non si muovevano sotto i
nostri occhi nel corso della bobina, ma ricordi che la macchina da presa non inquadrava sempre la
finestra, così approfittavamo di questi momenti per spostarle. Quando le nuvole avevano terminato il
loro percorso da un lato all’altro della finestra, le toglievamo e le montavamo di nuovo

arte di creare suspence è nello stesso tempo quella di mettere il pubblico nell'azione facendolo
partecipare al film. Lo spettacolo, da questo punto di vista, non è più un gioco che si fa a due (il regista +
il suo film), ma a tre (il regista + il suo film + il pubblico) e il suspence, come i sassi bianchi di Pollicino o la
passeggiata di Cappuccetto Rosso, diventa un mezzo poetico perché il suo obiettivo è quello di
commuoverci, di farci battere più forte il cuore» (F.Truffaut). Questo affermava il regista francese a
proposito di Alfred Hitchcock (1899-1980), universalmente riconosciuto come il più grande creatore di
thriller (anche numericamente: 54 lungometraggi in 53 anni di carriera) della storia del cinema.

«L'immagine hitchcockiana per eccellenza - continua Truffaut - è quella di un uomo innocente scambiato
per un altro, inseguito e che ritroviamo mentre sta cadendo da un tetto, aggrappato ad una grondaia sul
punto di rompersi» (ivi, p.293). E questo perché nell'opera del maestro inglese, trasferitosi nel 1940 negli
Stati Uniti, non c'è quasi mai, come nel giallo, la reale preoccupazione di seguire e dipanare un intreccio,
né, come nel noir classico, l'interesse a descrivere un mondo, le sue leggi e i suoi personaggi. Quello che
interessa ad Hitchcock è mettere in scena le paure comuni dell'uomo comune, e fare in modo che lo
spettatore le viva in prima persona mentre le osserva e non le subisca invece attraverso un racconto. Le
vertigini, la perdita d'identità propria o di chi ci è a fianco, il tradimento, l'essere accusati ingiustamente,
la claustrofobia, il venire improvvisamente strappati dal proprio mondo, l'essere braccati: il cinema di
Hitchcock suscita queste sensazioni, che sono tutte facce di uno stesso sentimento di base, la paura. Una
paura motivata e ragionevole, non lontana e soprannaturale come quella dell'horror, con cui ogni
spettatore potrebbe trovarsi un giorno a fare i conti.

L'importanza degli innumerevoli capolavori hitchcockiani non consiste però solo nell'aver dato un volto a
tutti i timori quotidiani del borghese medio: film come Il club dei 39 (1935), Rebecca la prima moglie
(1940), Notorius (1946), Io confesso (1953), La finestra sul cortile (1954), La donna che visse due volte
(1958), Psyco (1960), Gli uccelli (1963) e tanti altri, s'imposero anche per la loro bellezza formale, il più
delle volte raggiunta attraverso una costante sperimentazione tecnica. Nodo alla gola (1948), ad
esempio, è un unico piano-sequenza di oltre un'ora e un quarto, mentre la famosa scena della doccia in
Psyco fu ottenuta montando 70 posizioni di macchina diverse per 45 secondi di film.

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