Di Lara Vanni
Un inscindibile patto di sangue, un rito satanico, tre ragazzine adolescenti nate e cresciute a Chiavenna, in provincia di
Sondrio. Una follia sempre crescente, quasi inspiegabile, un delitto efferato commesso per gioco, per noia, “in nome di
Satana”.
La mattina del 7 giugno del 2000, in un vicolo quasi isolato, meta di passeggiate, viene rinvenuto il cadavere di una
donna, dalla figura esile, rannicchiata su un fianco, in una pozza di sangue, irriconoscibile: il viso era completamente
sfigurato ed il cranio fracassato. Questa donna indossava un abito religioso.
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29/7/2015 Sacrificio nel nome di Satana: il delitto di Chiavenna | Scena Criminis
La scena del crimine
Quando arrivano gli inquirenti, la vittima viene identificata: è Suor Maria Laura Mainetti, 61 anni, madre superiore
dell’Istituto dell’Immacolata di Chiavenna.
Inizialmente questo omicidio risulta essere un vero e proprio mistero, nessuno sa dare una spiegazione, nessuno ha idea
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di quanto accaduto. Suor Maria Laura Mainetti, era una donna che aiutava le famiglie bisognose, gli anziani, gli
emarginati, i poveri, ma anche gli sbandati, gente ai margini, persone fuori controllo. La sua più grande passione era
quella di educare i giovani, di stare accanto ai bambini, per questo lavorava in un convitto presso una scuola alberghiera:
voleva portare tra i giovani la Parola di Dio. La sua vocazione era quella di donarsi completamente agli altri, senza
risparmiarsi.
Le indagini cominciano: si pensa ad un tossicodipendente che, quella sera, incontra la suora chiedendole dei soldi ma,
vedendosi rifiutata la richiesta, infierisce sul corpo della vittima massacrandola. In fondo, un caso simile era accaduto
l’anno precedente: un prete era stato assassinato con un fendente di coltello da un giovane extracomunitario che si era
visto rifiutare un prestito di soldi. Questa pista però è poco credibile: non si può nemmeno parlare di una rapina perché la
donna non aveva con sé del denaro. Vengono interrogate le persone più vicine alla suora: le consorelle ed il parroco del
paese.
L’autopsia effettuata sulla vittima rivela che la suora ha ricevuto moltissime coltellate, diciannove, molte delle quali erano
dirette al volto ed al collo: questo ha preso il significato di una rabbia intensa, sintomo di un odio incontrollabile.
La sera in cui è avvenuto l’omicidio, la suora esce dal convento da sola. Di solito la donna, se usciva, andava a pregare
alla parrocchia oppure a qualche corso di formazione, ma sempre insieme ad altre consorelle. Stranamente, quella sera
esce da sola, dopo aver ricevuto la telefonata di una ragazza, una certa Erika, che vuole incontrarla.
La stessa ragazza si era già messa in contatto con la suora qualche giorno prima, sempre in orario serale. La giovane
chiede aiuto, racconta di essere stata vittima di una violenza sessuale, qualche tempo prima, da cui era scaturita una
gravidanza indesiderata. La suora sentendo questa storia, si attiva cercando una possibile soluzione: la soluzione era
quella di farla parlare con un’amica appartenente ad un’associazione che si occupa di casi come questo. Ma quando viene
organizzato il primo appuntamento, la ragazzina, vedendo che la suora non era sola, si spaventa e decide di andarsene.
Suor Maria Laura si sente in colpa, pensando di essere stata poco delicata a portare con sé un’altra persona, ma per
fortuna Erika richiama, dando appuntamento alla suora quella sera stessa, nella piazza del paese.
Prima di andare, la suora contatta il parroco del paese per chiedere di dare un’occhiata alla zona, dato che a quell’ora
poteva esserci in giro qualche malintenzionato. Lui esce in bicicletta e, dopo una rapida ispezione, tranquillizza la suora
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dicendo che aveva visto solo una ragazza di spalle che stava telefonando con un cellulare. La suora va al suo
appuntamento con Erika.
Forse aveva incontrato il suo assassino dopo l’appuntamento con la giovane, ma, durante le indagini, la ragazza non si
trova. Trovare questa ragazza era urgente perché si era aperta una nuova pista, un nuovo sospetto: forse l’assassino della
suora era proprio quella ragazza. Sia il parroco che l’amica della suora avevano visto la ragazza e potevano fornire una
descrizione, nel frattempo le ricerche vengono estese a tutti gli ospedali della zona, per chiedere se era stata vista una
giovane incinta e bisognosa di cure. Viene fatto l’identikit e divulgato a tutti i quotidiani locali. Vengono fatte anche le
ricerche sul cellulare che, secondo le testimonianze, aveva la ragazzina.
Sulla scena del crimine, gli inquirenti hanno trovato, dopo qualche giorno dall’omicidio, un elemento inquietante: ad una
decina di metri dal corpo, viene trovata la raffigurazione di una stella a cinque punte sovrastata da tre numeri sei, chiaro
simbolo satanico. Ma non è il soprannaturale ad aiutare le indagini, bensì la scienza che riesce a dare un contributo
decisivo. Gli inquirenti vogliono analizzare tutti i cellulari della zona da cui, la notte dell’omicidio, sono partite delle
telefonate: un lavoro molto complicato perché in quella zona, erano attivi più ripetitori, ma le intercettazioni telefoniche
attivate su alcuni cellulari portano sulla giusta pista.
Dopo circa venti giorni di indagini vengono fermate tre ragazzine, tre adolescenti: Milena, Veronica ed Ambra.
I giornali le ribattezzano subito “babykiller”, ma queste adolescenti di 16 anni, sono tre ragazzine normali, figlie di
famiglie come tante.
Le tre amiche, in modi diversi, alla fine confessano l’omicidio, commesso per gioco. Raccontano di aver commesso il fatto
per sconfiggere la noia e per passare il tempo.
Ma gli inquirenti non sono convinti: questo non può essere un omicidio commesso per caso, giusto per passare il tempo
in una serata estiva. Forse, le ragazze volevano uccidere la suora già il 3 giugno: una di loro si finge una ragazzina
bisognosa di aiuto, in modo da poter individuare la vittima predestinata, ma la suora, non essendo sola come avevano
previsto, fa desistere dall’intento omicidiario le tre giovani che decidono di tornare all’attacco successivamente, con lo
stesso modus operandi. Questo indica chiaramente che la premeditazione e la reiterazione non combaciano con la
commissione di un omicidio casuale. Inoltre, il delitto presenta un’escalation di violenza particolare.
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La suora quindi quella sera si presenta in piazza da sola e ad attenderla c’è una delle tre ragazze. La giovane riesce a
portare lontano da quel luogo la suora, dicendo che aveva le valige in macchina, quelle stesse valige che avrebbe dovuto
portare nel convento che l’avrebbe ospitata. Durante il tragitto vengono raggiunte dalle altre due ragazze, Ambra e
Veronica, la suora le segue. Ma le tre ragazze si accorgono ben presto che è difficile uccidere una persona. Una di loro
prende un mattone dalla borsetta e da’ il primo colpo in testa alla suora che, però, non cade a terra: si inginocchia,
guardandole. Un’altra allora aiuta la prima colpendo più volte la vittima con un sasso al viso e la violenza di questi colpi la
sfigurano, finalmente cade a terra dove viene raggiunta da molte coltellate, per mano di tutte e tre.
La insultano in quei momenti concitati di pura violenza, si aiutano tra loro, si incitano. La suora, come raccontano le
ragazze, prima di morire compie un gesto straziante: sapendo che quella era la sua fine, suor Maria Laura comincia a
pregare e chiede a Dio di perdonare le ragazze per il loro gesto.
Compiuto l’efferato omicidio, le tre adolescenti cercano di crearsi un alibi: chiedono un passaggio ad un amico e, per un
breve lasso di tempo, vanno in un piccolo Luna Park della zona. Si preoccupano di lavare il coltello utilizzato per
l’omicidio, in una fontana pubblica poco distante dal luogo del delitto e poi riposto nel cassetto della cucina
dell’abitazione di una delle tre.
Dal giorno successivo le ragazze evitano ogni contatto tra loro, solo per qualche tempo. Gli inquirenti che le interrogano,
pensano che le tre adolescenti stiano mentendo per coprire qualcuno, perché è inconcepibile che tre ragazzine così
giovani possano aver compiuto un delitto così efferato e, per di più, da sole. Forse dietro questo fatto c’è un adulto
mandante che le ha aiutate ad organizzare il delitto o che le ha aiutate a compierlo, ma non c’erano dati oggettivi della
partecipazione di altre persone.
Quindi sono loro e soltanto loro le vere responsabili ed hanno ucciso la suora per gioco: una verità semplice, assurda. Per
questo le ragazze vengono ascoltate da uno psichiatra, consulente del PM del Tribunale dei minori.
Le tre ragazze sono tre studentesse e vengono da famiglie aventi storie di separazioni, silenzi, disagi: le tre provano rabbia
e cercano, insieme, di sfogarla in modi diversi. Erano solite ubriacarsi al bar del paese e si rifugiavano in comportamenti
autolesionistici. Odiavano quel piccolo paese in cui vivevano che le soffocava con la sua monotonia, con la noia e, per
questo, volevano fare qualcosa di trasgressivo, di eclatante, in modo da colpire la comunità. Ascoltavano musica, quella
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di Marylin Manson, ispirandosi, nelle loro fantasie, al loro idolo.
Le tre amiche non sono nuove a gesti ed atti dissacratori: qualche anno prima di quel delitto, le tre giovani, bambine a
quel tempo, entrarono in una Chiesa del paese, rubarono una Bibbia e la incendiarono in un prato. Poi imbrattarono il
muro del cimitero con scritte inneggianti l’AntiCristo. I loro diari scolastici erano pieni di numeri sei ripetuti, di croci
rovesciate. Ma tutto questo non basta e vogliono fare qualcosa di veramente grosso e cominciano a pensare a diversi
progetti come profanare una tomba e poi rubare un cadavere. Ma, alla fine di queste progettazioni distruttive, decidono di
compiere il gesto più atroce di tutti, ovvero il sacrificio umano.
Prima di questo sacrificio era importante, per loro, celebrare un rito: un mese prima del delitto si riuniscono. Hanno un
coltello con il quale si tagliano e fanno cadere un po’ di sangue in un bicchiere di acqua, poi mescolano e bevono a
turno. Questo era il loro giuramento di fedeltà l’una per l’altra, il loro patto di sangue. Dopo questo, non rimaneva che
scegliere la persona da sacrificare. La scelta di quella suora, non era dovuta al fatto che fosse lei, ma al fatto che
rappresentava, per loro, una persona pura d’animo. Questo è il vero movente dell’omicidio: non per gioco, ma per
Satana, per quanto irrazionale ed illogico possa apparire. Nel loro gruppo avevano trovato la forza di andare avanti
mescolando sangue e fragilità.
Dal progettare il delitto al commetterlo, il passo non è stato facile: dagli interrogatori emerge che le ragazze hanno avuto
momenti di esitazione alternati. Ma c’era quel patto di sangue stretto in nome di Satana ed un patto così forte non si può
tradire. Il loro satanismo rimane sempre molto indefinito, incerto, un satanismo casereccio, faidate, senza alcuna base in
un gruppo più ampio: loro sostengono che questa scelta era dovuta alla paura di dover fare qualche prestazione sessuale.
Una di loro non crede in alcun essere superiore, un’altra sostiene di credere a Satana perché va di moda ed è più semplice
credere al male, la terza, invece, ci crede e descrive dettagliatamente tutti i riti.
Durante il processo vengono disposte le perizie psichiatriche sulle tre adolescenti: secondo il pm, tutte e tre sarebbero
affette da disturbi di personalità (personalità “borderline”) e non sarebbero state capaci di intendere e di volere al
momento della commissione del fatto. Viene disposto il rito abbreviato, ma anche altre perizie psichiatriche. Il processo, si
conclude con una sentenza che sostiene la premeditazione del delitto e demolisce completamente il movente satanico,
visto solo come cornice motivazionale. Il delitto sarebbe maturato in un contesto di disagio giovanile e noia della vita.
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Tutte e tre rimangono poco in carcere: vengono affidate a comunità terapeutiche di recupero, ma rimarranno sempre
macchiate di quel terribile delitto commesso.
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