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Per fare un olio ci vuole un seme (o un frutto).

Gli oli spiegati bene (2)

14 novembre2016

In ogni parte del mondo l’uomo ha sfruttato da tempi immemorabili oli e grassi per gli scopi più
disparati: come cosmetici o combustibili, a scopi rituali, come lubrificanti o come medicamenti e,
ovviamente, come alimenti. In alcuni casi i grassi erano di provenienza animale. Oltre al burro e
allo strutto per esempio si usava, anche in Italia, il sego. Ormai ben poco usato nella cucina
casalinga, sostituito da altri grassi alimentari, questo grasso veniva usato per friggere. Solido a
temperatura ambiente in un’epoca in cui i frigoriferi non erano ancora entrati nelle cucine, il sego si
conservava senza problemi, in un contenitore, anche a temperatura ambiente, a differenza dello
strutto. Trovava applicazioni però soprattutto al di fuori della cucina: come lubrificante e per
fabbricare saponi o candele.

Altre culture hanno sfruttato i grassi dagli animali che avevano a disposizione. Persino da
mammiferi marini come le foche o le balene. Più spesso però la fonte di grassi alimentari è stata, ed
è tutt’ora, di tipo vegetale. Molti oli vegetali sono usati fin dall’antichità: nel bacino mediterraneo
l’olio di oliva e in asia l’olio di sesamo per esempio.

Prima di proseguire vi ricordo che userò i termini “oli” e “grassi” in modo intercambiabile: gli oli
sono grassi solitamente liquidi a temperatura ambiente.

Dai frutti

Possiamo distinguere gli oli a seconda della loro origine. Ve ne sono alcuni che vengono prodotti a
partire da frutti. L’olio di oliva è l’esempio a noi più noto, ma anche l’olio di palma appartiene a
questa categoria e così l’olio di cocco. Una caratteristica dei frutti è di contenere una buona
percentuale di acqua e di essere facilmente deperibili. Per questo motivo gli oli da frutti sono
solitamente estratti vicino ai luoghi di raccolta, per evitare un deterioramento delle qualità dell’olio.

Frutto % di olio contenuto


Oliva 15-20%
Frutto della palma da olio (polpa) 21-25%
Noce di cocco (polpa) 33%

La produzione di questi oli si può basare su procedimenti meccanici, gli unici utilizzabili prima
dell’avvento della chimica moderna.

Forse avrete visitato qualche vecchio frantoio, con quelle enormi macine di pietra spinte dal
bestiame usate per spremere l’olio. Ora i frantoi moderni non funzionano più così e le olive non
sono più “spremute” nonostante la pubblicità ancora parli di “prima spremitura” o “spremitura a
freddo”. Dopo aver rotto le olive, macinato la pasta ed eliminato il nocciolo si passa a una fase di
centrifugazione per separare la fase acquosa dall’olio. In un capitolo futuro esamineremo tutto il
processo di produzione dell’olio di oliva distinguendone i vari tipi.

Le olive si deteriorano in fretta dopo la raccolta e andrebbero lavorate entro brevissimo tempo,
idealmente anche solo 24 ore, pena la perdita di qualità dell’olio. Un olio di oliva deteriorato non
può essere venduto come extravergine e può subire lavorazioni di raffinazione ulteriori prima di
essere messo in commercio.

Un procedimento analogo viene seguito per i frutti della palma da olio. Anche in questo caso la
presenza di acqua è sfruttata per separare, dopo la separazione del seme interno, la fase acquosa
dall’olio, producendo l’olio di palma vergine, che è rosso, ed è un prodotto tradizionale usato in
molti paesi africani nella loro cucina. Ha anche un buon contenuto nutrizionale, soprattutto
betacaroteni.

Qui vedete nella foto delle palme da olio (Elaeis guineensis) e un casco carico di frutti, grandi
quanto delle albicocche.

Esattamente come per le olive, i frutti della palma possono venire danneggiati durante la raccolta o
nelle fasi successive. Questo libera un enzima, la lipasi, che inizia a decomporre i trigliceridi
liberando gli acidi grassi e lasciando dei monogliceridi e digliceridi. Il contenuto di acidi grassi
liberi può raggiungere anche il 5% (tenete presente che per un olio extravergine di oliva gli acidi
grassi liberi non devono superare lo 0.8% mentre un olio vergine può arrivare fino al 2%).

Un olio con troppi acidi grassi liberi, che sia di palma o di altra provenienza, può –e a volte deve–
essere raffinato per ridurli, come vedremo in un prossimo articolo. Nella raffinazione si eliminano
le impurità per produrre un olio più insapore e inodore e quindi più adatto alle varie applicazioni
tecnologiche. Purtroppo in alcuni casi vengono anche perse tutte quelle sostanze disciolte nell’olio
di partenza potenzialmente benefiche per la salute.

Caso unico, dal frutto della palma da olio si producono due oli con caratteristiche molti diverse.
Dalla polpa si estrae, appunto, l’olio di palma. Dal seme invece si ottiene l’olio di palmisti (o
palmisto). In inglese è il palm kernel oil. Le caratteristiche chimiche e tecnologiche dell’olio di
palmisto sono molto diverse da quello di palma, essendo chimicamente molto più simile all’olio di
cocco.

Dai semi

Il secondo gruppo di oli, quello più ampio, deriva da semi con un


contenuto più o meno elevato di grassi. Il palmisti appartiene a
questa categoria. Ma anche soia, girasole, sesamo, cotone, lino,
zucca, melone, colza, nocciola, arachide, mandorla, vinacciolo e
molti altri.

La percentuale di grassi in un seme può variare enormemente. Le


noci macadamia contengono più del 75% di grassi, le nocciole 60%,
le arachidi il 50%, i semi di girasole il 50% mentre quelli di soia il
20%. Tenete presente che le percentuali possono variare anche molto
a seconda della varietà, del clima e di molti altri fattori.

Molti di questi oli, come quello di nocciole, hanno una lunga storia.
Anche loro si possono ottenere per spremitura meccanica, a patto
che la percentuale di grassi sia superiore, più o meno, al 30%,
altrimenti le rese sono troppo basse. Per percentuali di grassi
inferiori si utilizza invece la tecnica di estrazione con solventi
organici.

L’invenzione dell’estrazione di oli con un solvente risale al 1855


quando E. Deiss di Marsiglia brevettò e sfruttò questo processo,
usando come solvente il disolfuro di carbonio, per estrarre l’olio di oliva residuo ancora presente
nella pasta spremuta, chiamata sansa.

Attualmente il solvente industriale più utilizzato per estrarre gli oli di semi è l’esano. Nell’estrattore
i semi rimangono da 30 a 120 minuti, a una temperatura di circa 60 °C. In passato sono stati usati
molti altri solventi, come il benzene e il tricloroetilene (la comune trielina). Tuttavia si scoprì che
l’uso del tricloroetilene poteva lasciare sostanze tossiche nella farina di semi residua, usata come
mangime animale, causando negli anni la morte di vari animali. Si è così passati a solventi meno
pericolosi come l’esano.

Tempo fa abbiamo estratto un po’ di olio di soia con una versione casalinga di questo metodo,
ricordate? Prima dell’estrazione i semi vengono schiacciati e ridotti in fiocchi sottili dello spessore
inferiore al millimetro, in modo che il solvente possa penetrare velocemente e estrarre il più
possibile l’olio.

Gli impianti di estrazione possono essere molto grandi. In Argentina gli impianti per estrarre olio
dalla soia possono lavorare 20.000 tonnellate di semi al giorno.

Alcuni di questi semi, come soia, girasole e colza, hanno un buon contenuto sia di grassi che di
proteine, e quindi una volta estratto l’olio la farina rimasta può essere utilizzata come mangime
animale oppure, specialmente nel caso della soia, utilizzata come alimento umano.

Poiché la spremitura meccanica lascia comunque una gran quantità di olio contenuto nel residuo,
solitamente per i semi ad alto contenuto di grassi si effettua una prima spremitura meccanica
iniziale in modo da ridurre il contenuto di olio a circa il 20%. Il residuo viene poi sottoposto a
estrazione con solvente, operazione che lascia nei residui proteici meno dell’1% di olio. Le due
frazioni di olio vengono poi unite e mandate alla fase di raffinazione.

In Europa e nel Nord America l’estrazione con solventi è la norma. Vi sono però anche piccole
produzioni di oli biologici solamente da spremitura, con un costo superiore, per i consumatori che
non vogliono consumare oli che siano stati in contatto con dei solventi organici.

Ma l’olio di mais?

Esiste anche una terza categoria di oli, provenienti da semi con pochissimi grassi, come quelli di
mais e di riso, dove i grassi vengono estratti dal germe e dalla crusca perché il seme contiene
prevalentemente amido. Un chicco di mais contiene al massimo il 4% di grassi e un chicco di riso
integrale il 2%. Questi oli quindi sono il sottoprodotto della lavorazione su larga scala di cereali,
soprattutto per la produzione di amido, che durante il processo produttivo vengono privati della
crusca e del germe. A causa della piccola quantità di grassi presenti l’estrazione con solvente è
praticamente l’unica tecnica utilizzata industrialmente oggi.

Eliminare il solvente

L’esano commerciale –una miscela di idrocarburi derivanti dalla raffinazione del petrolio– ha un
punto di ebollizione piuttosto basso: 64-69 °C, quindi è piuttosto facile, dopo l’estrazione, separarlo
dall’olio mediante evaporazione a bassa pressione o altre tecniche adatte al suo recupero, per
poterlo riutilizzare. Ovviamente sia l’olio che i fiocchi esausti, per poter essere commestibili, non
devono contenere residui significativi di esano. La legislazione italiana, recependo la direttiva
Europea 2009/32/CE fissa a 1 mg/kg il residuo massimo di esano che può essere presente nell’olio.
Per quel che riguarda i prodotti proteici e le farine sgrassate il limite massimo è di 10 mg/kg nei
prodotti alimentari contenenti il prodotto proteico e le farine sgrassate. Mentre nei prodotti di soia
sgrassata venduti al consumatore finale il limite è di 30 mg/kg.

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