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A mio padre, per natale.

1
SOMMARIO

INTRODUZIONE pag.3
SULLA NOZIONE DI LINGUAGGIO………………………………………………….. pag.3

IL LINGUAGGIO DELL’ARTE………………………………………………………… pag.5

PROCEDIMENTI CREATIVI………….………………………………………………... pag.8

CAPITOLO PRIMO: IL LINGUAGGIO AUDIOVISIVO pag.12


SENSO & SENSAZIONE………………………………………………………………... pag.17

MANIPOLAZIONE/MONTAGGIO……………………………………………………... pag.50

CAPITOLO SECONDO: L’IMMAGINE SUONO pag.91


PAESAGGIO SONORO………………………………………………………………….. pag.100

SCULTURA DEL SUONO………………………………………………………………. pag.106

CONCLUSIONI pag.124
ATTRAVERSO LA CROSTA DEL DESIDERIO………………………………………. pag.125

L’AUDIOVISIVO CONCRETO……………….………………………………………… pag.130

APPENDICE……………………………………………………………………………… pag.136

2
INTRODUZIONE

1.1. Sulla nozione di linguaggio.


Si deve forse alla specifica qualità del pensiero del novecento l’idea di un primato del linguaggio
nella pratica filosofica. E si deve proprio alla specificità del pensiero del novecento il fatto che
questa sostanziale uniformità di un’idea linguistica dell’essere e della pratica filosofica, si
componga di articolazioni disparatissime.
La cosiddetta svolta linguistica 1 – questa scoperta del linguaggio come ambito specifico o
privilegiato della filosofia – inizia a prendere forma negli anni Venti-Trenta con il lavoro di
Bertrand Russell, del primo Wittgenstein 2 e del neopositivismo (indirizzo proveniente dalla logica e
dalla filosofia del pensiero di Gottlob Frege di fine ottocento) in quella tradizione di pensiero
dell’area «austro-inglese» che viene definita analitica, in cui l’analisi linguistica ha funzioni
principalmente dissolutive o terapeutiche rispetto ai problemi filosofici.
In seguito, nel secondo dopoguerra, dalla divergenza 3 dei percorsi del neopositivismo e
dell’esistenzialismo (definibile come filosofia dell’esperienza non in base ad un “piano” di
fondazione del discorso filosofico, come la fenomenologia, bensì come contesto problematico entro
il quale ci troviamo), si attestano tre immagini del linguaggio:
a) quella che Martin Heiddeger inizia a proporre negli anni quaranta, e che viene in seguito
sviluppata dall’ermeneutica 4 .
b) quella che si precisa in filosofia analitica nella «scuola americana», direttamente erede del
neopositivismo, e nella «scuola inglese», che continua il cammino inaugurato da George
Moore all’inizio del secolo e prosegue con il secondo Wittgenstein concependo l’analisi
filosofica come studio del linguaggio ordinario.
Ed infine:
c) quella proposta dallo strutturalismo e dal poststrutturalismo in cui l’indagine filosofica,
muovendo dall’ambito linguistico delle ricerche di Ferdinand de Saussure attorno agli anni

1
Dal nome di una famosa antologia del 1967 curata da Richard Rorty, The Linguistic Turn, che costituisce una delle
prime esperienze di storicizzazione della filosofia linguistica di stampo analitico.
2
E’ in uso in ambito filosofico-accademico distinguere due fasi del pensiero di Ludwig Wittgenstein: una ‘prima’,
antecedente lo scoppio del primo conflitto bellico mondiale, cui risale la sua opera più letta e più citata il Tractatus
Logico-Philosoficus, in cui viene formulata una teoria del linguaggio finalizzata alla chiarificazione di problemi quali la
natura della logica o lo statuto dell’etica; e una ‘seconda’ fase del suo pensiero, successiva ad una interruzione - meglio
definibile come abbandono - della pratica filosofica durata quasi quindici anni, caratterizzata da una visione pragmatica
del linguaggio, e da una accentuazione degli elementi dinamici e funzionali, riassunta nella nozione di «gioco-
linguistico».
3
Dalla stessa ha origine la dicotomia ormai classica tra «analitici e continentali» che attesta l’incommensurabilità tra
due orientamenti in un certo modo integrabili e reciprocamente conseguenti.
4
Lett. la teoria (o l’arte) dell’interpretazione del linguaggio. Di Heiddeger e dei suoi rapporti con la pratica filosofica
dell’ermeneutica contemporanea avremo modo di parlare in seguito.

3
Dieci 1 , nel secondo dopoguerra si è estesa alle scienze umane e sociali con la nuova
antropologia di Claude Lévi-Strauss, e prosegue negli anni sessanta sotto forma di critica
dissolutiva nella visione sperimentale della filosofia di Gilles Deleuze, ricostituita come
prassi anarchica, dalle connotazioni insieme artistiche e politiche.
L’altra prospettiva sul linguaggio parallela alla riflessione filosofica, è quella relativa allo studio dei
processi mentali in ambito scientifico.
L’interrogativo fondazionale sul pensiero, da cui sorgeva la filosofia di Frege nonché lo
psicologismo del secondo ottocento, è sempre rimasto sullo sfondo del discorso analitico; ma
mentre i filosofi del secolo scorso sviluppavano le loro tesi in aperto antagonismo con la psicologia
sperimentale e naturalistica “oggi la domanda filosofica sul tema si intreccia profondamente con
l’elaborazione scientifica” lasciando chiaramente aperta “l’ipotesi di una psicologia filosofica come
effettiva «filosofia del pensiero».” 2
Il “brain decade”, come è stato definito l’ultimo decennio del secolo scorso, esprime la convergenza
di interessi sul tema dai vari settori dell’area psicologica (psicologia cognitiva, psicologia clinica e
sperimentale, neurofisiologia, filosofia della mente, psicologia dello sviluppo e computer science),
ed è in questo senso che si parla di una “rivincita dello psicologismo e del naturalismo” 3 in quanto
non di rado singole acquisizioni scientifiche si mostrano in grado di avvalorare o smentire tesi
metodologiche di ordine generale in ambito filosofico; le prospettive scientifica e tecnologica, in
pratica, si pongono come banco prova e verifica dei problemi discussi dalla tradizione filosofica, ed
è in una prospettiva dialogica, in un certo senso paterna, che può emergere il lato paradigmatico
della psicologia contemporanea nei confronti della riflessione sul linguaggio.
Partendo da tali premesse il lavoro articolato in questa sede si propone di interpretare la nozione di
linguaggio audiovisivo attraverso le acquisizioni degli ambiti sopra citati: la pratica analitica,
l’interpretazione ermeneutica, la fondazione strutturale ed il training psicologico; benché una
definita e minuziosa coerenza ci è preclusa per l’adolescenza dell’ambito che si sta investigando.
Il linguaggio audiovisivo infatti conta non pochi tentativi di sistemazione teorica nell’ambito della
ricerca artistica ma non è del tutto chiaro e forse può non esserlo, cosa pone gli argini all’estensione
della sua definizione.
Noi crediamo, insieme ai sopra citati autori delle teorie sul linguaggio, che in tale nozione non
venga solo designata una facoltà umana, specificamente la capacità di comunicare, ma che il
linguaggio sia in generale il tramite della nostra esperienza del mondo.

1
Il Cours de linguistique générale, lezioni pubblicate postume dagli allievi, è del 1913 (trad.it. di T.De Mauro, Corso di
linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1967).
2
F.D’Agostini, Breve storia della filosofia del Novecento. L’anomalia paradigmatica, Einaudi, Torino 1999,
pag.XXXVII dell’introduzione.
3
Ibid.

4
Riteniamo che l’esperienza umana sia sempre organizzata linguisticamente, che il linguaggio sia
intrascendibile, che sia precisamente “quel flusso di tradizione trasmissione in cui stiamo e da cui
siamo costituiti. (…) Essenzialmente,” parole del filosofo ermeneuta Hans Georg Gadamer “noi non
abbiamo un linguaggio, ma siamo linguaggio.” 1
Questa concezione si evolve in Deleuze nell’idea di una prestrutturazione logica del pensiero, di un
pensiero assoggettato ad un immagine normativa del linguaggio nelle sue forme d’uso. Poiché è
proprio il linguaggio a stabilire i suoi limiti, nella interazione comunicativa e nel contratto del
senso, entità inesistente concordata e confermata ad ogni interazione linguistica sulla base di
determinate regole contestuali (i «giochi linguistici» di Wittgenstein).
Definire un linguaggio pertanto significa considerare l’utilizzo pragmatico di un sistema di simboli,
studiarne la composizionalità degli elementi, testare la produttività che la competenza linguistica
specifica consente, ed esaminare la referenza spazio-temporale e la struttura sintattica che tale
linguaggio implica e condiziona. 2
Si delinea qui come obiettivo di questo lavoro, da una parte, l’idea che in futuro la padronanza di
un linguaggio audiovisivo riconosciuto e condivisibile possa gettare le basi per un’emancipazione
del pensiero dalle logiche costrittive della comunicazione mediatica del potere politico-economico
del capitalismo attuale, che sembra investire nei linguaggi non verbali, ed in particolare nella
comunicazione audiovisiva, per sperimentare e raffinare le sue tecniche di persuasione; dall’altra,
l’affermazione di una pratica, poetica e insieme politica, della differenza come già si delinea nel
caotico anarchismo della produzione amatoriale in rete, il mondo degli innumerevoli punti di vista e
della pluralizzazione, nella società del consumo immateriale (il consumo di immagini).
E’ necessario a questo punto distinguere quali formule di produzione e di fruizione del testo
audiovisivo possano essere annoverate nel nostro discorso quali facenti parte di un linguaggio; quali
fattori separano questi testi dallo statuto artistico; e quindi comprendere quale estetica possa nascere
e svilupparsi nel territorio della comunicazione per trascenderlo, trasformarlo e ritornare spirituale.

1.2. Il linguaggio dell’arte.


“La crisi culturale dell’ultimo secolo ci ha portato a considerare la creazione artistica un istinto
qualunque, - diceva in una conferenza sull’Apocalisse il regista russo Andrej Tarkovskij nel 1984 -
ci ha portato a considerare il talento un bene personale e questo a pensare che l’arte non chieda
1
Ibid. insieme di proposizioni derivate dall’ipotesi onto-linguistica di Hans Georg Gadamer in Verità e Metodo, p.257.
Cfr. anche più avanti l’Ermeneutica e la nozione heiddegeriana di «precomprensione».
2
Nel riferire tali condizioni della definizione di un linguaggio si è fatto uso delle caratteristiche della comunicazione
linguistica individuate da Bruno Bara nel testo Pragmatica Cognitiva, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Egli insieme
alla composizionalità ed alla produttività, distingue anche la sistematicità e la possibilità di dislocazione, che
riferiscono appunto delle regole di sintassi e del trattamento dello spazio e del tempo che un linguaggio consente.

5
nessuna responsabilità da parte dell’artista” 1 . Si spiega così la mancanza di spiritualità nell’arte
contemporanea, per come la intese il pittore Wassily Kandinsky nel suo libro-manifesto Lo
Spirituale Nell’Arte del 1910, e così come la intendeva ancora Tarkovskij, il quale continua: “L’arte
si trasforma in ricerca formale, o semplicemente in merce per la vendita. E il cinematografo si trova
all’apice di questo tracciato in quanto ebbe proprio origine con lo scopo esclusivo del profitto. (…)
Il problema sta nel fatto che invece di maturare armonicamente, nel senso spirituale e materiale del
termine, siamo talmente regrediti da essere attirati in quel processo debordante che è lo sviluppo
tecnologico, divenendone sue vittime.” 2
Sotto la spinta del progresso tecnologico e del profitto il processo creativo dell’artista viene piegato
ai fini della comunicazione, il suo lavoro viene a poggiarsi su un repertorio simbolico condiviso, un
immaginario collettivo, e diventa agire comunicativo, un atto illocutorio 3 a senso unico.
Il suo fine è compiacere, la sua missione l’intrattenimento. L’operato dell’artista sviluppa un
formalismo complesso la cui essenza risiede nella capacità di manipolare significati comuni, di
sfruttare le tensioni che animano una cultura, per dirigerle e organizzarle in uno schema testuale di
rapida fruizione che una volta collaudato diventa format, struttura del senso pre-confezionata -
riconosciuta comunemente nell’uso della qualifica ‘commerciale’. Il tutto amplificato da
un’impalcatura tecnologica travolgente, progettata per stordire, e resa merce dalla diffusione di
massa dell’innovazione ‘a misura d’uomo’ con cui la nostra società autorizza l’individuo ad
anestetizzare i propri sensi lasciandolo libero di scegliere quali canali prediligere per questa
dipendenza.
Così l’arte diventa linguaggio. Si fa linguaggio. Costruisce una propria semantica, introduce i
meccanismi del senso nel suo raggio d’azione, crea la propria dinamica investendo innanzitutto la
sfera emotiva, chiamando in causa la dolorosa questione della ‘comprensione’ dell’opera d’arte.
Ma fino a che punto può essere interpretata un’opera d’arte? Si può interpretare un simbolo, come si
può comprendere una formula o un concetto, ma un’immagine? 4
“Comprendere un’immagine è una contraddizione, è un errore usare questo termine. Un’immagine
può essere accolta, si può entrare in un’immagine, (…). Oppure, al contrario si può respingerla e
non accettarla. (…) L’arte deve contare sul fatto che la sensazione suscitata in voi vi permetta di

1
A. Tarkovskij, L’Apocalisse, Edizioni della Meridiana, Firenze 2005, p.19.
2
Ibid. p.19-20. E a p.21: “E’ come se fossimo dei selvaggi che non sanno che farsene del microscopio elettronico (…)
Resta ben inteso che noi siamo schiavi di questo sistema, di questa macchina, che è ormai impossibile fermare.”
3
Il concetto chiave che sta alla base della pragmatica - lo studio della comunicazione in atto o l’analisi dell’uso
effettivo del linguaggio – è quello di atto linguistico formulato negli anni sessanta dal filosofo linguista di scuola
analitica inglese John L. Austin, il quale definì illocutoria la capacità di ogni enunciazione linguistica di agire sul
mondo allo stesso modo delle azioni. Cfr. J.L.Austin, How to do things with words, Oxford University Press, Oxford
1962 (trad.it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987).
4
Per immagine intendiamo genericamente il prodotto della rappresentazione e della riproduzione (cfr. più avanti).

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entrare in contatto diretto con l’opera. Fino al punto che vi sembrerà d’essere voi stessi gli autori di
quest’opera d’arte. Oppure stupirvi del fatto che non lo siate.” E’ ancora Tarkovskij 1 .
Quando parliamo di immagine non ci riferiamo solo al cinema. La pittura ha dovuto attendere
l’astrattismo per liberarsi dalla referenza e dal significato denotabile.
Parliamo di immagine anche quando consideriamo la musica e la poesia; anche qui non possono
esserci stati espressivi intermedi, implicazioni simboliche, un lavoro di ricostruzione del significato;
avviene invece un contatto immediato, assoluto con chi fa l’esperienza dell’opera, con chi vive tale
esperienza estetica.
Il teatro dalla nostra prospettiva si trova in un terreno ibrido anzi guida il nostro discorso ad
un’ulteriore specificazione. L’immagine di cui facciamo esperienza a teatro è quella del concettuale,
lo spazio e il tempo vengono relativizzati in funzione dello specifico processo di rappresentazione
che costituisce l’esperienza estetica del teatro, l’assoluto percepibile in teatro è il mondo delle idee. 2
Non il Testo teatrale, ma la drammaturgia: il processo di dispiegamento dell’essere nell’ente, per
usare la terminologia di Heiddeger; o il testimoniare dell’uomo l’assoluto della propria esistenza,
nella nostra visione, o, in due parole, il darsi dell’immagine.
Attraverso tale determinazione possiamo fare spazio all’esperienza estetica concepita come
immagine anche all’interno di quell’universo che per antonomasia chiama in causa la strutturazione
del linguaggio, ossia la lingua. La letteratura o in ultimo la stessa filosofia non godrebbero dello
stesso status culturale se nelle produzioni testuali che ad esse competono non si verificasse questo
dispiegamento di assoluto, questo trascendere il tempo e lo spazio, questo universalizzarsi delle
parole in un senso sospeso dalle mille implicazioni, pura emanazione di energia, che rende una
creazione un’opera d’arte.
In questo senso possiamo definire l’arte il testimoniare dell’uomo nell’assoluto di ciò che vive, nella
doppia significazione della testimonianza di un’universalità dell’esperienza e del tentativo di fissare
in una forma la sua partecipazione al flusso della vita.
E fondare così nell’intenzione e nella percezione la nostra concezione dell’arte.
Ciò che comunemente intendiamo con la definizione di “arte” è un complesso sistema culturale le
cui linee di forza, o rizomi, sono l’istinto creativo, che allo stato di potenza è presente in ognuno di
noi ma viene precluso allo sviluppo di ogni essere umano dall’esito costrittivo del processo di
specializzazione del lavoro; e l’esperienza estetica, di cui si parla anche in termini di fruizione, di

1
Op. cit. p.29.
2
Naturalmente a tale interpretazione ‘platonica’ del teatro hanno reagito in molti e varie poetiche teatrali si sono
sviluppate proprio contro tale concezione, si pensi al «teatro povero» di Jerzi Grotowski o alla ‘politica’ del «divenire
minoritario» di Carmelo Bene in cui si combatte espressivamente il potere del linguaggio sull’evento teatrale (si pensi
alle parole di C.Bene nella risposta a Gilles Deleuze sul proprio teatro pubblicato in Sovrapposizioni, Quodlibet,
Macerata 2002 : “Recitare è morire.E morire è combattere languidamente la morte. (Ora il Testo è la Morte.)”

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cui si può parlare anche in termini razionali, ma di cui preferiamo parlare, seguendo
un’interpretazione ‘spirituale’, come esperienza intuitiva della conoscenza.
Ai fini del discorso serve instaurare una dicotomìa dialettica per potere mettere in luce aspetti
diversi della comune, ma spesso senza fondamenti, concezione di ‘linguaggio’ e sottolineare come
solo in uno stereotipo culturale, neanche tanto aggiornato, all’arte spetti il merito di elevare
spiritualmente l’essere umano con una comunicazione totale che lasci un’impronta indelebile nella
vita dell’individuo. Purtroppo al giorno d’oggi, benché molti individui continuino a credere nel
valore evolutivo della creatività, l’arte è un settore di Mercato, che si realizza e trae sostanza dalle
relazioni economiche e dalle regole della mercificazione.
In sintesi, la nostra tesi muove da questa premessa: Linguaggio è la riproposizione di una forma.
Mentre Arte può essere considerata tale forma all’origine, appena prodotta e\o esperita.
La trasformazione di un atto di creazione da ‘espressione’ in ‘regola’ di un utilizzo che ha espliciti
fini comunicativi è Linguaggio. Questo non vuol dire che arte e linguaggio non possano condividere
l’obiettivo del contatto, e quindi in linea generale della comunicazione, ma in questa sede vogliamo
distinguere tra ciò che costituisce un originale, un ictus, una nuova connessione neuronale – una
nuova esperienza, e ciò che viene impiegato in qualità di forma condivisa e riconosciuta per
trasmettere un messaggio, senza che tale distinzione nasconda tra le righe, alcun giudizio di valore.
Un artista che abbia elaborato un suo stile, e formalizzato il suo istinto creativo, ha sviluppato un
linguaggio.

1.3 Procedimenti creativi.


Potremmo azzardare e sostenere che viene l’arte prima del linguaggio in quanto traccia di
un’intuizione che lega l’esperienza del mondo, come un tutto indifferenziato, ad un movimento
nuovo di pensiero, alla nascita di un concetto, di cui ogni successiva riproposizione sarà già
linguaggio. Ma questo sarebbe già facilmente confutabile da un punto di vista psico-genetico perché
l’esperienza dell’insight (illuminazione), con cui viene descritto il processo creativo nei termini di
funzioni cognitive, ha luogo dopo una rielaborazione di contenuti mentali i quali, in quanto tali,
sono già rappresentazioni linguistiche, sia verbali che visive (ma anche sonore, tattili-olfattive) a
dimostrazione del fatto che è già linguaggio il nostro universo interiore, ed è linguistica la nostra
organizzazione dell’esperienza. Probabilmente è vero il contrario, o quasi, che il processo creativo
coinvolge sempre strutture linguistiche, ma nasce un’opera d’arte nel momento in cui rendiamo
concreta una tensione interiore, in esperienza intuitiva che cambia la nostra visione del mondo,
lasciando la nostra realtà aumentata.

8
Lo stesso accade nel processo di fruizione. Nell’esperire un’opera d’arte si ha la stessa realizzazione
della modalità intuitiva della conoscenza, simile a quanto si verifica nella comprensione di
un’arguzia: in quell’istante sincopato in cui si afferra la battuta di spirito si compie l’esperienza di
un momento di «illuminazione». Possiamo parlare di una ricezione, di un accogliere un’opera
d’arte, di lasciare che agisca dentro di noi e che cambi la nostra vita, non per una pretesa
‘elevazione’ del nostro spirito ad una ‘migliore’ condizione umana, ma per l’innescarsi nei nostri
dispositivi mentali di nuove possibilità di pensiero e, dunque, di esperienza.
C’è un’immagine universale che ci restituisce questo concetto, un immagine totale, di arte e
linguaggio che rappresenta per la prima volta l’arte e il linguaggio stessi, e li trascende nel
momento in cui li fonde segnando l’orizzonte di «ciò di cui si può parlare» wittgensteiniano 1 nel
linguaggio audiovisivo: è la scena di 2001- Odissea Nello Spazio 2 in cui «moonwatcher», l’uomo-
scimmia, lancia l’osso nel cielo dopo avere colpito lo scheletro di un animale morto. Questa scena
rappresenta la nascita dell’astrazione, il momento in cui le proprietà di un oggetto (il monolite)
vengono sviluppate come contenuto mentale e messe in relazione al bagaglio d’esperienza (la lotta
per la sopravvivenza) e aumentano la cognizione del reale di questo antenato dell’uomo, il quale in
una furia estatica che ricorda parecchio la “Aha! Experience” dell’insight (l’illuminazione
improvvisa), celebra la nascita dell’arte in uno sfogo di aggressività animale, l’istinto creativo, e
contemporaneamente implica un essere-linguaggio come rappresentazione. 3
Allora in che senso abbiamo parlato d’immagine sino ad ora? Andrè Bazin nel suo celebre testo Che
cosa è il cinema 4 puntualizza la sua considerazione dell’immagine proprio parlando di linguaggio.
“Per immagine - dice - intendo, molto genericamente, tutto ciò che alla cosa rappresentata può
aggiungere la sua rappresentazione 5 sullo schermo.” Dovremo fermarci a riflettere sulla natura
dell’immagine perché dalla sua specificazione si svilupperà il nostro discorso sul simulacro sonoro.
Nella comune accezione del termine un’immagine è la forma esteriore di un corpo percepita coi
sensi. Immediatamente dopo questa prima determinazione sensoriale, in cui la vista gioca un ruolo
di preminenza nella cultura occidentale, implicati dal concetto di immagine vi sono i concetti di
riproduzione e di rappresentazione, i quali risultano efficacemente distinti se ricondotti alla
discussione sul rapporto di somiglianza e similarità.

1
Cfr. la settima e ultima proposizione del Tractatus logico-philosoficus di L.Wittgenstein: “Su ciò, di cui non si può
parlare, si deve tacere”.
2
Stanley Kubrick – 2001- A Space Odyssey (1968).
3
La prima esperienza del monolite (che avviene di notte, come in un sogno, luogo privilegiato dell’esperienza di
insight) sembra essere spirituale, sacrale, o meglio, mistica. Quasi a voler significare che prima dell’arte, e prima del
linguaggio, se ha senso porsi questa domanda, c’è Dio, ciò che trascende la comprensione, e da cui essa ha origine.
4
Andrè Bazin, Qu’est-ce le cinèma?, Editions du Cerf, 1958 (trad.it. Che cos’è il cinema, Garzanti Editore, Milano
1999).
5
Corsivo nel testo, pag. 75 dell’edizione italiana.

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Il rapporto di somiglianza tra due oggetti presuppone un referente primario che prescrive e
gerarchizza tutte le copie che da esso hanno origine. La similarità invece, si sviluppa senza alcuna
gerarchia e si propaga tra gli elementi senza inizio né fine. “La somiglianza si dispone secondo il
modello che si è incaricata di proporre e di fare riconoscere; la similitudine fa circolare il simulacro
come rapporto indefinito e reversibile tra il similare e il similare. (…) La somiglianza serve alla
rappresentazione, che regna su di essa; la similitudine serve alla ripetizione, che corre attraverso di
essa.” 1
In definitiva alla base del concetto di rappresentazione (da ri-presentare) vi è il modello platonico
della copia-icona, la quale intrattiene con l’oggetto (con l’Idea) una relazione costitutiva, presunta
‘essenziale’, e la somiglianza è la misura di tale pretesa.
L’altro tipo di immagine, risultante del processo di riproduzione-ripetizione è quella del simulacro-
fantasma, della copia degradata a “puro effetto” esteriore, che include in sé il punto di vista
dell’osservatore e implica profondità e distanze che egli non può dominare. E’ questo scarto
sostanziale, rispetto ad un modello, e questo punto di vista differenziale dell’osservatore rispetto
alle copie, che costano al simulacro un senso peggiorativo, la qualifica di falso, mera simulazione.
Tuttavia il simulacro possiede una quantità illimitata di legami con il mondo, assoluto e non-finito.
Risultante del processo di falsificazione del reale, non imita un rappresentato, non simula, ma
sostituisce, ri-produce e cerca di rievocare (re-petere) l’effetto in virtù del quale si costituisce.
La sua natura è funzionale. Ed il suo statuto estetico non è posto in virtù del suo non-essere, o del
suo divenire folle e illimitato, sempre abile a schivare l’equilibrio della somiglianza (“sempre più o
meno simile, ma mai uguale”), bensì in virtù dell’impiegabilità del suo essere. 2
L’immagine-simulacro, quindi, risponde a due istanze: il criterio compositivo e l’evento del senso.
Delle quali l’ultima risponde proprio a quel contenuto addizionale che un immagine, su schermo
come su ogni altro supporto, possiede rispetto ad ogni possibile referente. E del senso, come
“evento”, avremo modo di parlare appuratamene nel capitolo successivo. Per quanto riguarda,
invece, la prima istanza, strettamente connessa all’impiegabilità del simulacro, siamo convinti che
nei linguaggi non verbali (adesso nel linguaggio audiovisivo) ma anche in un utilizzo particolare -
«poetico» - dell’ordine proposizionale-concettuale della lingua, la materia costituente le forme di
tale linguaggio raggiunto lo statuto di immagine-simulacro attraverso la fissazione su supporto o la

1
Michel Foucault, Ceci n’est pas une pipe, Editions Fata Morgana, 1973 (trad.it. Questo non è una pipa, SE Studio
Editoriale, Milano 1988). Cit.pag.64 dell’edizione italiana.
2
Per tutta la dissertazione sul simulacro si veda la Appendice I (Platone e il simulacro) di Logique du sens, Gilles
Deleuze 1969(ed.it.Gilles Deleuze, Logica del Senso, Feltrinelli editore, Milano 1975). Per quanto riguarda la teoria
dell’impiegabilità dell’essere come forma della conoscibilità dell’essere per l’uomo contemporaneo, impiantata nel
rapporto dell’‘essere-assieme’ e dell’‘essere-l’uno per l’altro’ della società industriale, si veda Filosofia e Cibernetica,
Martin Heiddeger, Edizioni ETS, Pisa 1988 (testo di una conferenza tenuta ad Amriswil nel 1965 dal titolo Das Ende
des Denkens in der Gestalt der Philosophie [«la fine del pensiero nella forma della filosofia»].

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prescrizione di una forma, risponda ad un criterio unificante che trascende il peso dei frammenti,
per piegarsi ai fini dell’organizzazione generale, la composizione.
Nella composizione si gioca la differente natura di una creazione artistica. Essa può ripercorrere gli
ordinamenti già collaudati e dare vita a dei prodotti linguistici, oppure può sforzarsi di svelare
nuove soluzioni, nuove combinazioni di senso, e generare nuovi concetti.
Concezione dell’arte fortemente radicata nel pensiero che non intende rinnegare affatto le forme
espressive strutturate nel corpo, vale a dire quelle produzioni dell’istinto creativo che si formano sul
piano affettivo del linguaggio, al di sotto del senso, ed in virtù di una profondità della passione. 1
Il motivo di tale predilezione è una fiducia nell’evoluzione della cognitività umana,
nell’impossibilità dell’uomo di non-trasformare la realtà in immagine dotata di senso; e la
convinzione che l’inconscio non sia un piano dell’io degli abissi della coscienza, ma costituisca
invece questa pulsione in base a cui il senso è possibile.
Per questo vogliamo parlare di istinto creativo e di manipolabilità delle immagini: le nuove
tecnologie consentono un’estensione di linguaggio che non è complicazione o mera perversione
intellettuale, ma una modalità differente che, forse, solo una mancinità può comprendere, e che
comunque ha il dovere di tentare di spiegare.
Abbiamo detto in precedenza che vi è possibilità di linguaggio laddove lo status degli elementi-
materia consentono un’elaborazione sintattica. Chiamiamo montaggio la flessione linguistica
(“proposizione”) attraverso immagini, l’espressione di senso che la materia può assecondare.
E’ chiaro perchè solo la natura del simulacro garantisce questa malleabilità, un’icona è
indeclinabile: una ripresa fissa, un continuum sonoro indiscreto, o un graffito.
Parleremo allora di montaggio audio e di montaggio visivo.
E di montaggio audiovisivo per quelle composizioni che mettono alla prova la significazione
presentandosi come esperienze multimodali - multimediali - del simulacro, dell’immagine.
L’immagine-suono è argomento specifico di questa tesi, cui essa perviene dopo una trattazione
generale, del tramite audiovisivo, in quanto medium e in quanto linguaggio.
Il simulacro sonoro richiederà una determinazione teorica ulteriore rispetto alla “musica concreta”,
l’arte dei suoni fissi, cui comunque deve essere ricondotto.
Definiremo scultura del suono la tecnica di fissazione, manipolazione e organizzazione della
materia sonora con cui viene plasmata la sua immagine.

1
Dal livello delle passioni si scende a quello delle emozioni e sempre più in ‘basso’ fino alla sensazione.
Si veda il teatro della crudeltà di Antonin Artaud o la pittura di Francis Bacon, certa musica ‘industriale’ o le video
performance di Vito Acconci, ecc.

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IL LINGUAGGIO AUDIOVISIVO

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Il problema del linguaggio, dalla formulazione degli anni Sessanta in avanti, è essenzialmente un
problema meta-teorico, in quanto, abbiamo visto, sposta l’attenzione da un oggetto d’indagine
all’utilizzo di un potenziale di scelte da compiere. Viene incentrato cioè il discorso sul piano etico.
Se un linguaggio è un sistema di relazioni tra elementi dotato di un certo numero di regole di
produttività e di una propria pragmatica, allora ogni espressione linguistica consta di un numero
variabile di scelte effettuate per plasmare un pensiero con i materiali espressivi che uno specifico
medium mette a disposizione.
Ecco che si delineano i presupposti per sottolineare quanto credenze e valori appartengano a buon
diritto all’universo linguistico da cui muove ogni prassi compositiva di linguaggio audiovisivo, e
per mettere in evidenza quanti pericoli possano nascondersi dietro ogni indagine sistematica che
cerchi di costruire una grammatica o di fissare una sintassi.
Il nostro interesse non muove dal tentativo di portare alla luce quali “trucchi” reiterare per
dimostrare padronanza di un fare audiovisivo in cui alla proposizione linguistica si sostituisce un
ordine, che è sia ordinamento rigido sia obiettivo univoco. Ciò che a noi interessa è dimostrare
come aldilà delle regole, da infrangere per non proporne altre, se non un’ideologia dell’infrazione,
quello che deve rimanere il fine primario di ogni tentativo di trasmissione di un prodotto della
creazione è la necessaria espressione del senso e della sensazione costituenti l’opera, necessità
trascendente la sola autobiografia dell’artista, sia il mercato dell’arte, sia l’esibizione di significato.
Qualcosa viene sempre nascosto dal concetto di comunicazione, ma dietro quello di
“comunicazione audiovisiva”, che implica l’idea di un “linguaggio audiovisivo”, sono in genere
presenti due intenzioni: quella del raccontare e quella del vendere.
In realtà dalle teorie della comunicazione nasce un’altra nozione che verrebbe a costituire la terza
tendenza obbligata del progetto comunicativo: quella di informazione, e quindi dell’informare; ma
noi crediamo significativo in questa sede reintegrare tale nozione in quella di racconto per due
motivi, uno di reazione antropologica, visto che di tale nozione non si è avuto bisogno finchè non si
è avuto bisogno di rendere “oggetto” di teorie produttive l’evento di trasmissione linguistica, il
secondo di riflessione e critica storico-sociale, che riguarda lo statuto reale del diritto
all’informazione così come formulato in sede costituzionale e così come esercitato dai comunicatori
sociali (giornalisti,divulgatori, mass media ), soprattutto in Italia, e soprattutto in questo momento.
Attraverso il linguaggio audiovisivo è possibile dunque trasmettere diverse intenzionalità: quella del
raccontare, sia intrattenendo che documentando, che è l’intenzione cinematografica per eccellenza;

13
quella di persuadere che è senza dubbio l’intenzione pubblicitaria; ma è nell’intenzione di trasferire,
prima che ad un destinatario, su qualche supporto tecnologico – l’intenzione di impiegare -
l’esperienza “fissata” attraverso le tecniche di registrazione del reale per plasmare una propria
«audiovisione» del mondo, che si manifesta la possibilità estetica specifica di questa epoca
multimediale. In quanto si suppone breve l’arco di tempo necessario per integrare nelle forme di
rappresentazione multisensoriale l’apporto percettivo degli altri sensi, in primo luogo il tattile, come
prova l’inclinazione presso le qualità “scultoree” della visione aptica e dell’ascolto concreto, e
conseguentemente l’olfattivo e il gustativo.
Arriviamo così ad un approfondimento necessario ad ogni estensione della pertinenza linguistica su
di un medium qualsiasi, nel caso particolare audiovisivo: abbiamo bisogno di comprendere come il
linguaggio, in assoluto, sia percorso da una grande dualità costituente, in virtù della quale è
possibile ipostatizzare la sua opposizione, in quanto copia, all'universo dei corpi.
Tale dualità, che nell'ordine della proposizione permette di distinguere le due dimensioni della
designazione (di cose) e dell'espressione (di senso), è l’archetipo del mangiare e del suo inverso,
quello del parlare, è un archetipo di azione-passione che riproduce i processi di assimilazione del
corpo e quelli di produzione del linguaggio.
Nella lingua parlata sono certe proprietà del suono che rendono possibile una ripartizione distinta
del linguaggio dai corpi. Tali proprietà strutturano un campo trascendentale, un luogo del senso, e
una frontiera corpi/proposizioni dove alle “mescolanze” tra i corpi si sostituiscono “eventi” di
superficie, sussistenti ed insistenti nelle proposizioni come espresso del senso, e sopraggiungenti
sugli stati di cose come attributi logici.
Quando l’espressione linguistica di senso fallisce, le immagini di superficie (le parole) che
dovrebbero organizzare la superficie-proposizione ricadono in profondità, dove - simulacri –
ritornano allo stato di affezioni del corpo.
Il fulcro di tale argomentazione si raccoglie attorno alla teoria del «primato del significante» di
Jacques Lacan ed alla «logica del senso» di Gilles Deleuze, a cui faremo ampiamente ricorso nella
prossima sezione dedicata al senso ed alla sensazione. Ma poiché le tesi dei due autori non sono
state sino ad ora congiunte da un’opportuna sintesi, il nostro tentativo di derivare la riflessione sui
media ed il linguaggio dal nesso tra psicanalisi e filosofia del linguaggio, rischia di poggiare su basi
troppo instabili per giustificare i propri assunti. Tuttavia è richiamandoci al ruolo di “sostituto
provvisorio” che la filosofia assolve in momenti e contesti in cui si tratta di elaborare delle tesi di
carattere universale partendo dalle teorie empiriche, formulato da Habermas nel 1981 a sostegno
della sua Teoria dell’agire comunicativo, che rinunciamo alla portata “universale” della nostra tesi
sulla derivazione psicanalitica di ogni agire linguistico per definire invece una prassi alternativa alla

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koinè cinematica, tanto irrigidita nelle sue forme linguistiche quanto vincolata alle sue funzioni
d’uso.
Quando crediamo che una dualità essenziale tra due dimensioni linguistiche dell’ordine
proposizionale, l’espressione di senso e la designazione di cose, rispecchi la dualità primaria del
parlare e del mangiare ci ritroviamo a fare i conti con la tendenza consumistica insita nel nostro
modo di percepire il mondo, di pensarlo e di comprenderlo. Perché se si è realmente convinti che
una pre-strutturazione logica dell’esperienza guidi i processi di comprensione una volta acquisita la
dimensione del linguaggio, ci accorgiamo d’esser cresciuti in un ambiente in cui la rappresentazione
simbolica assolve innanzitutto il compito di esser veicolo al consumo di immagini: tanto le
immagini-parole quanto le immagini-figura, le immagini-suono e così via. Le stesse immagini da
cui nasceva l’esperienza estetica, assimilate nella gabbia cognitiva diventano linguaggio la cui
commestibilità designata (la pubblicità, l'intrattenimento, la pornografia) occlude la dimensione
espressa, l’inconsumabilità del senso. E tale soppressione del senso ha luogo sia in ambito
comunicativo: esibizione senza veli, senza superficie, senza eventi della presunta sostanza di un
rappresentato; sia in ambito cognitivo dove non si esperisce mondo se non come nutrimento al
bisogno alimentare di tale meccanismo metabolico.
Siamo una società dell'immagine, questo è vero e reale, da tempo.
Ma adesso siamo ancora più dentro i processi dell'immagine, siamo nel simulacro.
La teoria del simulacro la ritroviamo nell’epicureismo classico, lucreziano, secondo cui l’immagine
si compone dalla successione immediata di molti simulacri identici. Tutto il problema ricordiamo,
era il principio del turbamento dell’anima ovvero dell’illusione di una capacità infinita di piaceri e
di una durata infinita dell’anima stessa. La teoria sosteneva che dai composti di atomi, i corpi, non
cessano di staccarsi elementi particolarmente sottili, esili e leggeri, i composti di secondo grado.
Tali composti o emanano dalla profondità dei corpi, o si staccano dalla superficie (ciò che Lucrezio
chiama simulacri ed Epicuro idoli), ed in quanto investono l’anima rendono conto delle qualità
sensibili: i suoni, gli odori, i gusti, le temperature, rinvierebbero alle emissioni di profondità, mentre
le determinazioni visuali, forme e colori, sarebbero composte dai simulacri di superficie.
In realtà la teoria è più complicata perché ogni senso sembra combinare informazioni di profondità
e di superficie, e nel caso del tatto, il solo senso che coglie l’oggetto senza intermediario, il dato di
superficie è riferito alla profondità e ciò che afferriamo sull’oggetto è percepito come residente nel
profondo. 1

1
Per tutta la trattazione sul simulacro si è fatto riferimento al testo Logica del Senso, Gilles Deleuze 1969 (edizione
italiana Feltrinelli, Milano 1975), in particolare alla Appendice II – Lucrezio e il simulacro.
Invitiamo il lettore a soffermarsi sin da ora su questa particolare definizione del tatto che richiama la precedente
tensione del tattile alla sinestesia aptica e concreta, e anticipa il nostro discorso sull’approccio scultoreo, come
linguaggio insieme delle profondità corporee e della superficie del senso.

15
E allora, anche se l’emissione di simulacri si effettua in un tempo minore del minimo di tempo
sensibile, ed è sensibile soltanto l’immagine che, abbiamo visto, porta la qualità e crea l’illusione,
non possiamo fare a meno di ritrovare in questa teoria dell’immagine, del simulacro, e della
sensazione, gli argomenti che muovono la nostra ricerca, per come parliamo di immagine, ossia
come prodotto; per come intendiamo il simulacro, frammento assemblabile; e per come crediamo
espresso in un linguaggio delle sensazioni, l’universo-illusione che stiamo sperimentando attraverso
le nuove tecnologie della trasmissione.
La piena coscienza dei procedimenti consente di intervenire a livello particellare nel processo di
condensazione simbolica. E di cosa avevano bisogno i primi dominatori dell'immagine, i dittatori
politici del Novecento? Solamente di più canali. La loro progettazione della struttura-immagine
mancava di un processo di riflessione multimediale in cui l'immagine si ridimensiona da più lati
acquistando consistenza, collaudando un involucro opaco cui non serve più contenuto per agire, ma
solo forza-divenire. Per questo il totalitarismo del secolo scorso sopperisce alla sua ingenuità nei
confronti dell’incorporeo con la violenza, e per questo quello attuale, così evoluto e così maturo
sostituisce a questa la produzione multidimensionale, super-ridondante, imprigionando il reale, e a
volte sostituendolo, con i suoi anelli economici e un plus-valore di immagine.
La produzione attuale è una corporazione dei singoli produttori di simulacri.
Così è il Cinema, la Pubblicità e l’Informazione.
È il Mondo che ci viene raccontato, quello di cui siamo informati, e che possiamo acquistare.
E la colpa morale non ricade solo su chi, anche se inconsapevolmente, lavora nella produzione
frammentata dei simulacri-musica, fotografia, grafica, o in ogni altro aspetto dell’Illusione; ma su
chi regge le fila di questa emissione e detiene la responsabilità di questa intenzione linguistica, sia
produttore, politico, o impresario, o tutti e tre contemporaneamente.
Vorremmo - con la ricerca - condividere la possibilità di decodificare un linguaggio esistente, senza
il quale l’Immagine non avrebbe forza di agire sulle coscienze; e attraverso l’infrazione delle sue
regole, che sono gli usi collaudati e condivisi, scoprire nuovi sensi e modalità d’esperienza.
E attraverso il nostro lavoro imparare a coordinare i nostri simulacri, così come ogni singolo
partecipante ai nostri discorsi di immagine, al di fuori della logica del profitto, determinati a non
costituire mai un'unità di misura o una sola visione del mondo, a resistere e, insomma, stare a
sinistra: sapere che tutti sono minoranza, lettera minuscola e che non si finisce…

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Senso & sensazione.

“In quel tanto di riferimento al linguaggio che qui si disegna


va visto il frutto della sola imprudenza che non ci abbia mai ingannato:
quella di non affidarci ad altro che a quell’esperienza del soggetto
che è l’unica materia del lavoro analitico.” 1

Nell’esperienza psicanalitica il problema del rapporto tra il pensiero del soggetto ed il linguaggio
che questi utilizza porta a cercare un punto di riferimento e una misura comune ai due termini del
problema nella situazione linguistica implicata.
L’interlocutore così, solo sospendendo il movimento di rispondere, comprende il senso del
discorso: il linguaggio prima di significare qualcosa, significa anzitutto per qualcuno.
Viene riconosciuta allora come unità significativa di pensiero e linguaggio, l’intenzione, che il
linguaggio trasmette, secondo la psicanalisi, in due modi: “l’intenzione è espressa, ma incompresa
dal soggetto, in ciò che il discorso riferisce del vissuto, nella misura in cui il soggetto assume
l’anonimato morale dell’espressione, è la forma del simbolismo; l’intenzione è concepita, ma negata
dal soggetto, in ciò che il discorso afferma del vissuto, nella misura in cui il soggetto sistematizza la
sua concezione: è la forma della negazione. L’intenzione si mostra così, nell’esperienza, inconscia
in quanto espressa, conscia in quanto repressa.” 2
Le domande che pone Lacan a questo punto sono le seguenti: se il soggetto di fronte alle sottrazioni
dell’analista, e in virtù della legge dell’esperienza, non giunge ad arrestare il monologo, ma lo
continua, è ancora a causa dell’uditore veramente presente, o piuttosto ha sostituito ad egli qualcun
altro, immaginario ma più reale, su cui riflettere precise tensioni del rapporto sociale?
Con le molteplici fluttuazioni dell’intenzione, con cui prende di mira l’analista, lo provoca, lo
implora, e che l’analista pazientemente registra, il soggetto non comunica a questi l’immagine che
gli sostituisce?
E l’analista nella misura in cui l’arringa del soggetto prende forma di testimonianza, puro racconto
o «evento senza intenzione», non riconosce questa stessa immagine che ha fatto sorgere dal
soggetto, come fantasma del ricordo o come statua del dovere, di essenza umana perché provoca la
passione, ma che sottrae allo sguardo i propri tratti?
Questi tratti, che l’analista scopre in un ritratto di famiglia, l’artista manipola in un’opera d’arte.
E l’immagine che il soggetto subisce, ma ignora, l’artista organizza nei suoi procedimenti creativi.

1
Jacques Lacan, Scritti – Volume I, pag.63. Giulio Einaudi Editore – Torino (titolo originale Écrits, Éditions du Seuil,
Paris 1966).
2
Ibid. p.77 sottolineature e corsivi nel testo sono nostre.

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Siamo particolarmente solleciti a non confondere la forza dialettica di un tale parallelo con la
«metafisica del padre e della madre» che lo stereotipo culturale occidentale celebra ogni volta che
traveste di forma critica la sola dimensione del freudiano che tale cultura è riuscita ad assimilare.
Probabilmente in questo stereotipo continua a lavorare in forma di negazione la stessa “funzione del
vero” che la psicanalisi a partire da Freud ha cercato di trasformare “in funzione del reale”,
attraverso la relativizzazione del valore di verità “all’incertezza da cui l’esperienza vissuta
dall’uomo è fenomenologicamente segnata” 1 , identificando l’oggetto proprio della psicologia nei
processi delle relazioni interumane comunicabili in qualche linguaggio, registrabili in ambito
sperimentale e riconducibili ad un ordine razionale che unifichi la disparatezza dell’oggetto che gli
è proprio in un’attività che abbia come fine la trasformazione dell’intelligenza, la cura di guarire.
Così non è neanche da questa prospettiva che la psicanalisi viene accostata all’arte: non è nella
propensione elettiva all’analisi introspettiva ed alla sua descrizione che possiamo citare chi ebbe a
definire Freud “ottimo analista…, pessimo filosofo, ma incredibile sensibilità intuitiva” 2 .
Freud ha trasformato una psicologia associazionistica che riduceva le attività superiori a complessi
di reazioni elementari negando significazione reale alla vita psichica irrazionale attraverso una
forma di determinismo organico, in una psicologia fenomenologica e descrittiva in cui la
sospensione del giudizio, come negazione sistematica del concetto di verità, restituisce forza vitale
a quel mondo «immaginario», dell’illusione, relegato in precedenza al ruolo di epifenomeno di una
sintomatologia organica: “Se si vuole riconoscere una realtà propria alle reazioni psichiche, non
bisogna cominciare con lo scegliere fra di esse, ma bisogna cominciare dal non scegliere più” 3 . È
una prima negazione fondativa, erede del «puro guardare» husserliano che muove l’attenzione dallo
spessore di un supposto contenuto, allo stesso principio del contenere, prima che alla morfologia del
contenitore.
È come quando diciamo che ogni semiologia o tentativo sistematico dell’interpretazione, non
muove nulla, se prima non rivela quelle singolarità pre-individuali che agiscono in un’opera, cioè
quelle forze che prima di ogni determinazione storica descrivono l’uomo che vi è testimoniato.
E questo è ben distante dal biografismo determinista che vorrebbe ricondurre le significazioni di un
prodotto della rappresentazione alle tensioni in atto in un periodo storico-sociale. Ad esso
riconduciamo la figurazione, come tecnica della finzione, ma non la stessa rappresentazione che è
un esito più complesso di percezione,sensazione, ed espressione.

1
Ibid.p73.
2
E.Fadini, ciclo di lezioni anno accademico 2003\2004 del corso Video e Tecnologie Teatrali.
3
J.Lacan, op.cit.p.75, in Rivoluzione del metodo freudiano.

18
Dunque stavamo convergendo la rivoluzione del metodo freudiano ai processi di combinazione
creativa dell’espressione, per arrivare ad annettere il senso all’involucro formale del sintomo, a
strutturare l’inconscio come linguaggio, e parlare di immagine come Lacan, ovvero come funzione
di informazione 1 che in arte come in psicologia può avere accezione di evento, forza di
un’impressione, o struttura organizzante un’idea. 2
Continuiamo con lo sviluppare la prima ipotesi, del senso, perché la sua pertinenza alle dinamiche
del linguaggio ci consente di sviluppare le nostre supposizioni sul medium audiovisivo installando
un collegamento diretto con il comandamento macluhaniano “il medium è il messaggio”.
Il quale, per noi, suona come “ogni linguaggio specifico, non è altro che la precipua espressione di
senso del mezzo impiegato”. Infatti di quale informazione sarebbe veicolo una tecnica o una
tecnologia se non del proprio movimento, statico o cinematico, di impiego, di flessione, modulante
o modulata, con cui produce un effetto?
Allora possiamo citare Deleuze, che nell’“undicesima serie” di Logica del Senso “Sul non senso”,
dice proprio: “il senso è sempre un effetto. Non soltanto un effetto nel senso causale; ma un effetto
nel senso di “effetto ottico”, “effetto sonoro”, o meglio effetto di superficie, effetto di posizione,
effetto di linguaggio.” 3
Tale prodotto continua, “è strettamente compresente, coestensivo alla propria causa” e “determina
questa causa come causa immanente, inseparabile dai suoi effetti”, i quali “vengono abitualmente
designati da un nome proprio o singolare”, un nome proprio considerato segno nella misura in cui
rinvia all’effetto in questione, “in questa via, la scoperta del senso come effetto incorporeo, (…),
deve essere denominata “effetto Crisippo” o “effetto Carrol”.” 4
“Effetto Mc Luhan”? La coestensione di evento mediatico ed effetto linguistico, o viceversa.
Se l’evento non è un fatto, ma nei fatti vi è di più un effetto, dobbiamo scusarci del gioco, ma solo
così ‘sentiamo’ che l’effetto è sempre in relazione al senso espresso: la frase precedente significa
(nel senso di implica) che un “evento” non è esattamente ciò che accade in uno stato di cose, ma
qualche cosa in ciò che accade, «il puro espresso» 5 (il senso), mentre un effetto può esserne la
conseguenza percepibile (l’allitterazione). Quindi l’evento, in quanto evenire, viene fuori
dall’effettuazione spazio-temporale dell’accidente in ciò che riusciamo a captare, a percepire,
attraverso l’effetto di senso.

1
Ibid.p.71.
2
«Le diverse accezioni di questo termine, (…),esprimono infatti abbastanza bene i ruoli dell’immagine come forma
intuitiva dell’oggetto [senso], forma plastica dell’engramma [sensazione] e forma generatrice dello sviluppo
[montaggio].»(ibid., p.71)
3
G.Deleuze, op.cit, p.68: corsivo nel testo, sottolineature nostre.
4
Ibid.
5
Ibid.p.134.

19
E in tale legame con la percezione si pone la coestensività all’effetto perchè mentre l’effetto è
legato al linguaggio come conseguenza dell’espressione, l’evento rinvia ai corpi come attributo
“noematico” 1 in relazione all’oggettività percepita dall’esperienza del medium: l’evento è
esattamente un attributo logico degli stati di cose, l’organizzazione mentale della registrazione dei
sensi (in fase di emissione come in fase di ricezione, in ambito creativo come in ambito fruitivo).
Tale registrazione e organizzazione avviene nella “cornice” del linguaggio, come un istante fissato
in un divenire, l’evento è ciò che discretizza il continuum della vita nella «piega» del pensiero.
La stessa flessione del pensiero che dall’ordine del designato (la parola, l’inquadratura, il rumore)
attraverso la modulazione dell’espressione (la predicazione, la manipolazione, il trattamento)
giunge all’ordine dell’espresso (proposizione, scena, fraseggio) e rende possibile il linguaggio:
“Rendere possibile il linguaggio significa questo: fare in modo che i suoni non si confondano con le
qualità sonore delle cose, con il rumore dei corpi, con le loro azioni e passioni. Ciò che rende il
linguaggio possibile è ciò che separa i suoni dai corpi e li organizza in proposizioni e li rende liberi
per la funzione espressiva.” 2
Se pensiamo al nostro linguaggio audiovisivo ciò che rende possibile la separazione del fenomeno
dal corpo è la tecnica di fissazione, la ripresa, e ciò che organizza i simulacri in un ordinamento
dotato di senso è il montaggio.
Il motivo per cui indugiamo tanto nella riflessione linguistica così come formulata nel tardo
strutturalismo, è perché dovrebbe essere auspicabile un giorno poter parlare di linguaggio
nell’audiovisivo, di linguaggio nel cinema e nella musica, in virtù di una sola struttura linguistica
articolabile in meccanismi di senso, configurazioni e rapporti, che cominciamo a scoprire nella
prima infanzia sperimentando la voce, e forse ancora prima quando tutto il “sentire” è vibrazione. 3
All’origine di tale struttura va ricondotto il processo attraverso cui dall’insufficienza organica che
condiziona la nostra percezione di realtà sin dall’inizio, giungiamo ad uno stadio in cui
riconquistiamo una forma di integrità che non è originaria bensì immaginaria, che pone le basi per

1
Nella filosofia di Husserl il “noèma” è la modalità oggettiva della cosa di apparire nell’esperienza vissuta. Si ricollega
ad un altro concetto dell’esperienza, quello di “erlebnis” che evoca l’immediatezza del dato alla coscienza: “Il verbo
erleben significa la presenza di un essere vivente-sperimentante all’interno di una situazione, significa infatti «essere
ancora in vita [leben] quando una determinata cosa succede»” (da F.D’agostini, op.cit.p83+ nota, p.84). Deleuze usa
frequentemente questa locuzione invece che “attributo logico” probabilmente per sottolineare l’influenza della
fenomenologia nella sua accezione di “evento”.
2
G.Deleuze, op.cit, p.161: corsivo nel testo, sottolineature nostre.
3
Diverse esperienze della metà XX secolo dimostrarono che fenomeni simili al tropismo sonoro negli animali, la
reazione ad uno stimolo direzionale, la cui sollecitazione era cominciata già nel periodo prenatale, spiegano nel
bambino la cosiddetta «prova del nome» ovvero la reazione del bambino di nemmeno dieci giorni al timbro vocale
materno, l’unico a cui in una serie di stimoli, presta attenzione (vedi esperimenti di Andrè-Thomas). L’orecchio medio,
in particolare la tromba di Eustachio, conserva per dieci giorni del liquido amniotico, cosicché i due piani – orecchio
medio e orecchio interno – restano accordati sulle stesse frequenze a cui erano abituati in ambiente uterino. Per molta
letteratura, all’origine del linguaggio, o meglio all’origine del bisogno di comunicare, ci sarebbe questa tendenza a
ritrovare la relazione perduta con l’ambiente materno intrauterino.

20
un piano d’astrazione, principio e progetto che renderà possibile il linguaggio, e manifesta da subito
la destinazione alienante di una componente essenziale dell’esperienza estetica e psicanalitica.
Il linguaggio nel suo tentativo di ricreare il contatto, ha innanzitutto una dimensione fisica.
Da più parti riceviamo l’impressione che tutto il movimento del linguaggio derivi da una mancanza,
(da una «funzione di mancanza») 1 , da una privazione costitutiva.
Soluzione di continuità del legame ombelicale in medicina, prematurazione specifica della nascita
nell’uomo in embriologia, “complesso di castrazione” in psicanalisi, «schismogenesi» dell’ethos
nella cultura occidentale 2 : Il linguaggio sembra consistere dei numerosi tentativi intrapresi per
instaurare nuovamente un legame, sembra insorgere da uno sforzo, e trasformarsi in un eccesso nel
momento in cui la struttura del senso viene raggiunta.
La nozione di contatto si estende ai processi mediante i quali un bambino è plasmato ed educato a
conformarsi alla cultura in cui è nato, per poi orientare lo studio dei processi sociali.
Gregory Bateson 3 ha formulato uno schema per lo studio della psicopatologia, applicando la
nozione di contatto ai contesti di plasmazione dell’individuo, in primo luogo l’ambiente familiare, e
ha osservato che i processi di schismogenesi hanno pari rilevanza tanto nell’aumento del
disadattamento quanto nell’assimilazione dell’individuo normale al suo gruppo.
Il contributo fondamentale dell’ecologia batesoniana alla nostra tesi riguarda proprio la visione
olistica che il concetto di Mente racchiude mediante il complesso di strutturazioni della relazione
che rende possibile l’insorgere della soggettività in un ambiente.
I rapporti e le relazioni tra gli elementi non devono essere considerati l’origine di un sistema,
definire un linguaggio, come una cultura, si ridurrebbe altrimenti ad un inventario dell’esperienza.
Tutto comincia dai processi di formazione e di conferma del comportamento.
Le parole (fonemi), in un primo momento sono le cose stesse di cui ha bisogno l’infante, di cui si
serve proprio in virtù dell’incompiutezza motoria dei mesi neonatali.
La comunicazione preferenziale con la madre pone in origine una dimensione d’Altri connaturata
all’esistenza. Sperimentiamo la significazione nella forma di implicazione causa-effetto. Ma la
sperimentiamo sotto un aspetto deformante: attraverso l’eccesso di significante: qualsiasi intenzione
o tentativo di comunicazione riceve Madre sotto forma di Seno, Voce, Fiato.

1
Cfr. Lacan, op.cit.p.64.
2
Il complesso teorico definito attorno al concetto di ethos formulato da Gregory Bateson nel 1936 in Naven (Cambridge
University Press 1936, trad.it. Einaudi, Torino 1988) fa riferimento al “sistema culturalmente uniformato degli istinti e
delle emozioni in una cultura”, e comprende quello di schismogenesi a proposito dei processi di differenziazione in ogni
livello di un sistema culturale.
3
Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing Company 1972, trad.it. Verso un’Ecologia della
Mente, Adelphi, Milano 1977.

21
Un Tutto che percepiamo in frammenti nella nostra profondità corporea, fagocitante ed
escremenziale, ma la cui integrità ci sfiora dall’alto sotto forma di immagine 1 .
Tutto il senso è ‘trattenuto’ ancora in questa immagine cui rivolgiamo ogni tentativo d’espressione,
il senso si confonde in questo stadio con la significazione stessa, ma abbiamo già posto le basi per
la ripartizione tra immaginario e simbolico.
La comunicazione genitore-bambino si struttura secondo due sequenze fondamentali che nella
teoria della schismogenesi riflettono le componenti fondamentali dell’interazione umana. Bateson
chiama «schismogenesi simmetrica» l’interazione reciprocamente stimolante cumulativa, mentre
definisce «schismogenesi complementare» l’interazione reciproca strutturante una relazione. Nel
caso dell’interazione madre-figlio la necessità complementare della relazione assistenza-dipendenza
è il canale attraverso cui le primitive sequenze comportamentali diventeranno abitudini culturali.
Bateson porta in esempio la descrizione di una sequenza interazionale madre-figlio, raccolta durante
una permanenza in una comunità balinese, per dimostrare come determinate strutture di relazione
abbiano influenza decisiva sui processi di formazione del «carattere» culturale. In particolare egli
dimostra come la tendenza, fondamentalmente occidentale, verso l’interazione cumulativa venga
inibita a favore di sequenze ad intensità costante che caratterizzano complessivamente la vita
balinese. 2
Quello che accade nei processi di formazione dell’abitudine è qui schematizzato in una forma che
aiuti a comprendere anche il nostro obiettivo, che è quello di risalire all’origine della dualità
archetipica designazione/espressione, che abbiamo introdotto ad inizio capitolo come polarità
costitutiva ‘ogni’, ma alla fine uno solo, linguaggio.
La dimensione della memoria nell’evoluzione del comportamento individuale costituisce lo
specifico del processo di relazione tra il soggetto e l’ambiente di cui ha esperienza che attraverso
una gerarchia di livelli d’apprendimento strutturano il suo essere, il suo sapere, il suo fare.
È stato possibile descrivere uno schema dell’apprendimento attraverso l’impiego della teoria dei
«tipi logici» di Russell e Whitehead 3 per i fenomeni di comunicazione. Tale teoria che
fondamentalmente pone dei vincoli al discorso logico per impedire la generazione di paradossi,
sostiene la non appartenenza d’insieme ad elementi di diversa tipologia logica, contravvenzione
d’uso nel linguaggio reale da cui derivano i più familiari effetti di senso.

1
In una prima fase l’immagine di cui parliamo è usata nell’accezione freudiana di imago, la cui funzione innanzitutto è
quella di esser tramite alla relazione dell’organismo con la realtà di cui facciamo esperienza - a differenza degli animali
- in una permanenza mentale causata dall’insufficienza biologica con cui veniamo al mondo.
2
Bateson, op.cit.pp.149-153. L’espressione di fastidio della madre verso l’eccitazione del figlio in seguito ad
un’interazione cumulativa che si approssimi ad un acme sessuale ha l’effetto di sminuire nel bambino la fiducia nel
coinvolgimento competitivo e conseguentemente il comportamento di rivalità.
“L’assenza di acme è caratteristica della musica, del teatro e di altre forme artistiche balinesi. (…) Vi sono indicazioni
che una sequenza a intensità costante sia tipica per la trance e per le contese.”(p.150)
3
A.N.Whitehead e B.Russell, Principia Mathematica, Cambridge University Press 1910-13.

22
Bateson, nell’entusiasmo cibernetico della seconda metà del secolo trascorso, applicò tale
distinzione di livelli linguistici ai processi di cambiamento nel comportamento animale ed umano. 1
Ancora una volta venne osservato che l’apprendimento delle strutture della vita di relazione di tutti
gli esseri umani risale all’infanzia ed è inconscia. Precisamente ciò che costituisce un abitudine è il
rinforzo della modalità logica di segmentazione dell’esperienza: “la funzione essenziale e
necessaria della formazione delle abitudini e dell’Apprendimento 2 è un’economia nei processi di
pensiero (o canali neuronici)”. 2
A livelli più alti delle categorie d’apprendimento si situano quelle trasformazioni in cui avviene una
profonda riorganizzazione del carattere: l’apprendimento a farsi, a impedirsi, a cambiare o
indirizzare un’abitudine: “nella misura in cui un uomo consegue l’ Apprendimento 3 e impara a
percepire e ad agire in termini dei contesti dei contesti, il suo ‘io’ assumerà una sorta di irrilevanza. 3
Si è ormai capito, che il retrocedere agli stadi primordiali della comune e collettiva esperienza guida
anche la riflessione ad una re-interpretazione dell’istanza vitale che percorre arbitrariamente la
nostra vita psichica, per il suo legame connaturale alla chimica dei nostri corpi e per il suo continuo
impulso di sublimazione a cui come reazione si costituisce forse la nostra coscienza.
Chi ha detto che l’inconscio, di cui si sta parlando, debba essere questa sottorealtà parallela, quella
terra delle profondità, il cui sapore mistico religioso ci impedisce di relazionarci con interesse pro-
positivo, e ci rassegna ad augurarci qualche irruzione, eruzione, negli armistizi della coscienza
quotidiana vigile e abitudinaria, nella vita onirica o negli stati meditativi?
La meditazione così come esperibile nella nostra prospettiva antropologica è quella immersione di
insight radicale con cui facciamo esperienza, non dell’esperienza stessa (meta della «riduzione»
fenomenologica), ma proprio della sub-realtà corporea non integrata nella rete linguistica del
pensiero ‘piegato’, flesso nella riflessione, ma vagabondo tra gli agglomerati di nervi sotto forma di
sensazione.
Il problema dell’arte è fondamentalmente un problema d’integrazione tra i diversi livelli della
mente. Ad un estremo vi è il livello detto «coscienza», all’altro estremo l’orizzonte dell’inconscio.
Nell’estasi artistica è contenuta l’integrazione psichica.

1
Ciò che ne risultò fu la distinzione delle «categorie logiche dell’apprendimento» attraverso cui è possibile definire:
apprendimento zero la semplice ricezione di un’informazione dall’ambiente esterno e tutti quei casi in cui un ente
dimostra un cambiamento minimo nella sua risposta ad un evento sensoriale; apprendimento 1 tutti quegli atti in
risposta ad uno stimolo suscettibili di correzione per tentativi ed errori in cui l’apprendimento dell’ente implica una
scelta all’interno di un’insieme di alternative formulate sulla base di ipotesi sul contesto; apprendimento 2 o «deutero-
apprendimento» che definisce l’“apprendere ad apprendere” e che determina il cambiamento correttivo dell’insieme di
scelte entro cui operare una scelta. Cambiamento determinante buona parte della vita di relazione di tutti gli esseri
viventi poiché fa riferimento proprio alle abitudini di comportamento determinate dal bagaglio d’esperienza e dalla
memoria della ripetitività del contesto. Cfr.Bateson, op.cit.pp.324-356.
2
Ibid.p.350.
3
Ibid.p.351.

23
Già Bateson aveva dichiarato cruciale la questione dei livelli psichici per qualunque epistemologia
dell’arte.
Forse allora, riusciamo a spiegare cosa ci porta a mettere da parte l’impostazione ‘analitica’
dell’analisi linguistica: è impossibile considerare frasi e proposizioni, soggetti e attributi, regole di
relazione, nel linguaggio dell’audiovisivo. L’utilizzo di una logica implicherebbe il trattarsi di un
elaborato pienamente conscio e volontario. Quell’analisi muove dalle norme d’uso delle formule di
sublimazione nell’immateriale, costitutivo dell’uomo, che rende possibile il linguaggio.
Noi invece - come si dice dell’inconscio - ci troviamo di fronte ad una forma d’essere del pensiero
che ‘impiega’ (non ‘piega’, dall’interno, ma volge l’azione all’esterno) un realtà non sublimata, che
continua a trattenere la qualità con cui si manifesta, sotto forma di suono o forma-colore.
E mentre il linguaggio della sublimazione articola il pensiero in certe proprietà del suono-emesso in
modo che possano essere ‘significanti’ e produrre senso; il linguaggio dell’ascolto e della visione
deve capire quali proprietà della fissazione del suono e del colore mantengano il pensiero ad un
livello di densità della sensazione, e quale articolazione del senso gli sia connaturale.
La serie significante-significato che nella lingua si struttura in virtù della sublimazione del
linguaggio, sia come senso e denotazione che come senso e concetto implicato, nell’audiovisione
sarà per forza di cose assente per come sinora formulata, perché da una lato la sensazione
organizzata – sia ricostruita, riprodotta e quindi simulata, o viceversa tessuta, scolpita e scoperta -
sarà significato-effetto di un senso organizzante, ma allo stesso tempo il senso organizzato sarà
significato-evento di una sensazione organizzante. Ed il piano su cui si giocano queste dimensioni
rischia di rimanere confuso o completamente oscuro se non re-impostiamo la stessa ‘messa in serie’
dalla forma ‘sublimata’ significante/significato a quella ‘concreta’ designato/espresso.
Come avremo modo di spiegare, abbiamo derivato il piano della designazione ed il piano
dell’espressione dalle cosiddette “dimensioni della proposizione”, che insieme al piano della
manifestazione e della significazione descrivono i rapporti essenziali della parole con le realtà che
la determinano (filosoficamente: l’“Io”, il “Mondo”, e “Dio”) e con il senso ( il puro espresso).
Ma tale riduzione a due dimensioni audiovisive, delle quattro dimensioni originarie, avviene perché
da una parte il piano della manifestazione in quanto movente dell’agire linguistico è stato ricondotto
all’intenzione, dall’altra il piano della significazione o dell’implicazione concettuale, come rapporto
del linguaggio con se stesso (il piano divino), deve per forza di cose riassorbirsi in una logica di
montaggio audiovisiva, in una speculazione sull’elemento mancante - il ‘non-elemento’ d’aggancio
– che renderebbe possibile il rapporto d’implicazione nell’audiovisione 1 .

1
Cfr. L’ottava serie – Sulla struttura a proposito del paradosso di Levi-Strauss del significante fluttuante e del
significato fluttuato, in Gilles Deleuze op.cit.pp.50-52.

24
Non possiamo in questa sede permetterci una digressione su tale argomento, che seguirebbe
comunque la premessa che stiamo tentando, ma vogliamo chiarire come tale logica non sia a rigore
pertinente all’infra-struttura del linguaggio audiovisivo, poiché in esso l’unità autonoma, diciamo
proposizionale, ha la stessa possibilità di realtà della co-esistenza nella sovrapposizione, dimensione
impraticabile ovviamente nella lingua.
L’importante adesso è riuscire a concordare sul fatto che se nella lingua “il senso non si confonde
con la significazione stessa, ma è ciò che si attribuisce in modo da determinare il significante in
quanto tale ed il significato in quanto tale” 1 ; nell’audiovisione tale dualità non è affatto supposta,
ma al massimo intenzionata; e proprio il senso che nella lingua rende possibile tale messa in serie,
nell’audiovisione fonde in una sola forma fluida ‘designante’ ed ‘espressa’ la primordiale serie
designazione/espressione.
A questo punto, e soprattutto prima di continuare questa discesa verso le profondità del linguaggio,
dobbiamo porci una domanda senza la cui risposta rischieremmo di invalidare tutto il progetto
stesso: se non è da intendersi come superficie divisoria del significato e del significante come nella
lingua, come si può parlare di senso nel linguaggio dell’audiovisione?
È la discesa stessa che ci condurrà a svelare come la sua ‘sussistenza’ fa parte della natura stessa
dell’essere umano, per una specie di horror vacui.
L’uomo è la forma-vita del senso. Non può fare a meno di relazionare parti per comporre (o ri-
comporre) unità, forma chiusa, legame.
Al punto che ne soffre quando ne è impedito.
Ma il senso, come può nascondersi dietro i rivestimenti che utilizza, come può scolpirsi nella
superficie dei materiali che incontra, come possiamo descriverlo se della sua esistenza lascia solo
un’impronta, la traccia della sua azione?
E come possiamo descriverlo se la sua adattabilità agli strumenti che incontra ci illude che la sua
natura sia proprio quella a noi innanzi, e appena dirottiamo la nostra attenzione, ritroviamo senso in
ogni altro oggetto?
Per noi il “miraggio Kulesov” è avere racchiuso il senso nella relazione spazio-temporale.
Il famoso “effetto Kulesov” 2 per cui due inquadrature successive senza alcun legame deittico
sarebbero comunque collegate da un valore aggiunto corrispondente al senso, che sprofonda il
cinema nella problematica linguistica, lo riscopriamo ogni volta che ‘annodiamo’ due eventi; come
accadde innanzitutto al cinema con l’avvento del sonoro: un altro valore aggiunto fu presentato
come connaturato all’essenza del medium, ma il problema è mal posto.
Di nuovo non c’è un senso specifico per ogni linguaggio specifico.
1
Ibid.p.52.
2
Definizione peraltro paradossale se intesa come “effetto dell’‘effetto di senso’”.

25
Se abbiamo segmentato un sapore in relazione ad una temperatura del naso, quell’evento si è
inscritto nella nostra memoria, ma lo abbiamo fatto coscientemente? E ciò non di meno, non
avrebbe la stessa significazione di una sequenza filmica con una tavola imbandita e la visione dal
vetro di una finestra del gelo invernale mentre un suono di campane domenicale accompagna
l’avvicendarsi delle stesse?
Chi può saperlo. Ma è il problema mal posto.
Siamo stati abituati a riconoscere concatenamenti di parole che incontriamo di continuo, e sopra
questi a costruire le nostre ipotesi sulla significazione, perché associamo a queste concatenazioni
delle strutture della stessa natura, o di altra, in risposta, eseguiamo cioè dei compiti. Perché meglio
siamo esecutori meno difficoltà comporta il relazionarsi alla realtà circostante.
Ogni tanto però qualche tassello viene a mancare e avvertiamo un vuoto insostenibile; a questo
vuoto reagiamo scoppiando a ridere o sprofondando nell’angoscia più terribile.
Talvolta invece qualche tassello si lega in modo innavvertito ad un altro e abbiamo bisogno di
tempo per riflettere, dobbiamo ‘interpretare’.
Qualcuno più fortunato prova anche a comporre i tasselli in nuove concatenazioni per diffonderli, la
sua scommessa vince se non è alta, e se traveste gli ordini di chi amministra le concatenazioni:
quello è il caso di chi ‘racconta’.
Certamente mai riusciremo a liberare senso dalle nostre esperienze se fino ad ora abbiamo
conosciuto il senso come condizione da accettare per comprenderci o come storia da continuare a
riconoscere.
Ma il senso lo “stabilizziamo” noi. Proprio lo piantiamo con i chiodi. In ogni istante che afferriamo.
In ogni evento che riusciamo a cogliere, e a ‘raccogliere’ attraverso la nostra cultura.
Perché un fatto sarà nulla se non sono stato io ad organizzarlo, se continuo a viverlo per “bocca”
d’Altri, o a farlo raccontare come favola per addormentare.
Alla Madre che ammansisce ed al Padre che da ordini, si risponde: ipnotizzare padri e le madri
sedurre. Ancora prima di capirne la ragione la metafora è Padre-Simbolico e Madre-Immaginario.
Ma era proprio per capire il senso che abbiamo criticato l’atteggiamento passivo con cui ci
ritroviamo a vivere il linguaggio nella routine quotidiana.
Se tutti fossimo un po’ più consapevoli della libertà che abbiamo di manipolare le nostre risorse
linguistiche comunicare sarebbe un gioco. Invece cultura e insegnamento sono ancora regole di un
supposto modello. Non ci hanno dispiegato lo strumento, ma solo delimitato gli orizzonti del suo
impiego. Questa esplicazione che invano abbiamo atteso sarebbe ciò che stiamo rincorrendo?
Bianconiglio inafferrabile, immediatamente prossimo e comunque sempre sfuggito: osservandone le
tracce chissà non ne riusciamo ad intuire la natura.

26
Poc’anzi si è letta tra le righe una certa insofferenza verso un’importante epifania del senso nella
lingua: la forma-racconto.
Vogliamo distinguere l’istanza del raccontare da quella del narrare.
Delimitazione nella lingua che serve a descrivere in questa sede un atteggiamento di linguaggio.
Intendiamo il «racconto» un evento ‘ri-portato’ in linguaggio codificato, la cui finalità supera la
sola pertinenza linguistica.
Chiamiamo «narrazione» il linguaggio impiegato per la propria esibizione, l’evento esibito nel suo
‘darsi’, la produzione di senso ‘in diretta’.
Anche un racconto può essere narrato, la narrazione implica il contesto narrativo.
Il racconto è sempre dato, organizzato in un ‘tessuto’ di eventi, irrigidito in una gerarchia di ordini
che va dalla proposizione alle scene, fissato a degli ‘eventi-chiave’ che segnano un percorso deciso.
Il racconto è della lingua, della struttura-ordinamento, della linearità. Il racconto viene compreso,
perché riconosciuto. Ed in questo suo legame con ciò che è stabilito, il racconto si pone come
‘materno’, come ciò che addolcisce divieti e obbligazioni della vita quotidiana.
La finzione è da sempre sposa del potere.
La narrazione invece è cosa gratuita. Si fa esperienza della narrazione. Perché chi narra anzitutto
chiede un po’ di pazienza per mettere alla prova se stesso e la padronanza del medium che utilizza,
per collaudare senso, dopo averlo testato, o crearne di sana pianta, improvvisando.
“Qualcuno faccia pure l’elemosina se lo crede di supporto, ma non pensi d’essere intrattenuto”
direbbe il narratore audiovisivo, se mai fosse esistito…

“Molti di quelli che vanno al cinema, dopo 105 anni di produzione cinematografica si aspettano che
venga loro raccontata una storia.
Non credo che il cinema sia un mezzo adatto alla narrazione [qui intesa come racconto].
Se vuoi raccontare una storia è meglio che tu faccia il romanziere.
Il fatto che il cinema migliore sia non-narrativo [ ], porta a paradossi e contraddizioni.
(…) Una volta ho pericolosamente affermato che il cinema è un mezzo troppo ricco
per essere lasciato ai cantastorie.” 1

Consideriamo questo cinema a cui impediamo di importare dalla lingua la forma racconto.

1 Peter Greenway in L’Aleph e l’Occhio di Massimo Galimberti, RaiSat cinema 2000.

27
Molti esempi nella storia del cinema ci vengono incontro, che forse solo esempi non sono, se la
stessa nascita del cinema non ha a che fare con le ‘storie’.
Lasciamo stare i fratelli Lumière e pensiamo a Muybridge; pensiamo al Ballet Mècanique prima che
ad Un Chien Andalou; e anteponiamo Vertov al linguaggio di Griffith. 1
“Avanguardia di cosa?” 2 Di tutta la finzione che il cinema mondiale ha collaudato tra le due guerre?
Non è che si provi rancore se ad imporsi come concetto di “cinema” sia stato questo raccontare;
solo che ci chiediamo come sia possibile parlare di finzione mentre ci stiamo interrogando sulla
natura di un mezzo, cosa c’è di finto in uno strumento, cosa è che simula, di che cosa è copia?
La finzione del cinema è l’esperienza di un altro mezzo, l’imitazione del senso di un altro medium,
compresa la sua espressione.
Non esiste questa copia del ‘reale’, ogni medium è reale, quanto l’esperienza che produce.
Se io immergo la mia coscienza in una storia che ho dinanzi vengo assorbito dall’esperienza stessa.
Certo che si andrà alla ricerca di senso dentro il limbo in cui mi sono tuffato ma perché non mi
chiedo “come ho fatto ad uscire da me stesso?”
Per quale motivo se guardo un film su di una televisione domestica una porta che sbatte mi fa
pensare al brutto tempo in arrivo, mentre è possibile che si attenti alla vita di un cellulare che suona
in una sala cinematografica? Qualcuno dice che il medium è più ‘caldo’ 3 nel senso che uno schermo
cinematografico di 30x18 metri è più ‘forte’ di un televisore di 24 pollici da salotto.
Ma ‘più forte’ è il suo potere di attrazione nell’immaginario che racconta?
Se perdiamo il nostro “Io” in un “Me” 4 impersonale che vive la storia di un racconto cinematico
non ci stiamo perdendo perché un immaginario improprio ci sta alienando? Non sarà la storia
pertinenza della lingua, della pittura con le parole o della modulazione delle frasi, che esibisce il suo
senso tra lo scorrere delle pagine di uno scritto o nella flessione di una voce, che ci lascia al nostro
posto e ci consente di ascoltare musica mentre leggiamo o di chiudere gli occhi mentre ascoltiamo?

1 Il lavoro che rende famoso Eadweard Muybridge è l’invenzione dello “zoopraxiscopio”, l’antenato della
videocamera.Verso la fine del XIX secolo scatta diverse fotografie in sequenza, riprendendo cavalli, elefanti, uomini
che camminano. Grazie a questa tecnica riesce a catturare ogni singolo movimento del corpo animale e si rende conto
che, visualizzando in rapida sequenza ogni singolo fotogramma, riesce a creare l’effetto del movimento.
Fernand Lèger Le Ballet mécanique (1924).
Luis Buñuel Un chien andalou (1929).
Dziga Vertov passò alla storia del cinema come il teorico del Kinoglaz, il “Cineocchio”. Di lui ricordiamo soprattutto
L'uomo con la macchina da presa (1929).
David Wark Griffith per molti è la figura più influente della cinematografia mondiale e l’inventore del linguaggio
cinematografico riconosciuto, il suo capolavoro è Intolerance (1916).
2 Cfr.Avanguardia di che cosa? A proposito di Entuziazm (Dziga Vertov 1930) di Jacques Aumont, in Cinema
d’Avanguardia in Europa a cura di Paolo Berretto e Sergio Tuffetti, Editrice Il Castoro, 1996 Milano.
3
Cfr. Marshall McLuhan Understanding Media (1964), parII. “Media caldi e freddi”. Ediz.it. Gli Strumenti del
Comunicare, Il Saggiatore, 1987.
4
Sia Lacan che Deleuze distinguono tra Je e Moi indicando con Je la soggettività trascendentale costituente il mondo,
con Moi la determinazione mondana individuale. In questo caso la distinzione si pone nello stesso senso con cui Lacan
separa la soggettività dell’enunciazione dal soggetto dell’enunciato, nello scarto tra l’impersonalità del linguaggio e la
sensibilità del corpo.

28
Sicuramente la dittatura del testo di lingua nel cinema (come già nel teatro) ci ha impedito sino ad
oggi di vivere autentiche «esperienze cinematiche», e non a caso il miglior cinema che ‘finge’, si
appoggia su di un testo scritto a mestiere, la ‘sceneggiatura’.
Questo non significa che non si sia affermata una precisa esperienza del racconto cinematografico:
la traduzione del racconto in cinema si è trasformata in una scrittura cinematografica.
Ma se ci rifiutassimo di decodificare l’espressione cinematica di una storia e ci fermassimo al
sensum, al sentito, al vissuto col corpo, che le stesse immagini di una storia o meglio le immagini di
qualsiasi cosa, ci «presentano» prima che rappresentano, ci ritroveremmo davanti una superficie di
suoni e di colori, che esplode in eruzioni di crosta visiva ed investe di vibrazioni acustiche lo spazio
in cui ‘avviene’.
Dovremmo fermarci alla superficie dell’immaginario, ‘incatenare’ Alice al di qua dello specchio,
dal momento in cui il legame originario è andato perduto ogni rappresentazione messa in scena ci
illude, solamente.
In una comunione di senso e sensazione il sensum latino mantiene e trattiene un «principio di
realtà» primigenio, venutosi progressivamente a sgretolare nei piaceri immateriali che la vita
squilibrata nell’Immaginario esibisce come essenziali.
Si è notato in precedenza che la coscienza contiene soltanto una piccola parte della verità sull’‘io’.
L’inconscio non è propriamente il contenitore delle faccende penose che è preferibile non
considerare, esso contiene anche tutto il sistema esperienziale tanto familiare da non avere bisogno
d’essere considerato. Il principio economico che spinge gli organismi a calare nell’inconscio quei
tratti generali che restano sempre veri ha come prezzo l’inaccessibilità da parte dei livelli psichici
coscienti, e se l’insieme della mente, come dobbiamo ritenere, è una rete integrata di canali
neuronici, il contenuto della coscienza è il solo il campionario di alcune parti di questa rete.
Senza l’aiuto di fenomeni quali l’arte, il sogno, la religione e simili la pura razionalità è una
mostruosa negazione dell’integrazione del Tutto mentale. E la “natura correttiva dell’arte” come
ebbe a definirla Bateson nel saggio Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva 1 , consiste
proprio nel continuo processo di destrutturazione e ristrutturazione del carattere (ethos) culturale:
“quasi senza eccezione, i comportamenti detti arte, o i loro prodotti (detti anch’essi arte), hanno due
caratteristiche: richiedono o dimostrano abilità tecnica, e contengono ridondanza o struttura.” 2
Queste due caratteristiche, precisa, non possono essere separate: l’abilità sta nel mantenimento e
nella modulazione della struttura.

1
Bateson, op.cit.pp166-192.
2
Ibid.p.187 (corsivo nel testo).

29
Il nostro progetto muove verso la dimostrazione di come ogni comportamento che aspiri ad una
dignità artistica non possa prescindere dal considerare le sedimentazioni della coscienza quale
materiale primario del processo creativo.
Pertanto prima di sviluppare un discorso di carattere pratico abbiamo preferito sviluppare le ipotesi
storiche attraverso cui si ritiene vengano a formarsi quelle ridondanze aventi origine nelle più
arcaiche attività di linguaggio.
Tali ridondanze strutturano l’universo immaginario che deve considerarsi bagaglio culturale
dell’esperienza primitiva, ed è attraverso la riflessione filosofico-psicanalitica che abbiamo trovato i
mezzi per tentare la descrizione della matrice linguistica audiovisiva nell’organizzazione
dell’inconscio.
Tale predilezione nel canale sensoriale è un necessario vincolo evolutivo delle possibilità della
tecnica, la nostra convinzione è che le stesse premesse organizzanti presiedano la strutturazione
della percezione in tutti gli altri sensi ma che non possano, per il momento, essere oggetto di una
medesima codifica.
In linguaggio freudiano ci si esprime solitamente dicendo che l’attività inconscia è strutturata in
termini di processo primario, mentre il pensiero cosciente, soprattutto quello verbalizzato, è frutto
del processo secondario.
Dall’esperienza psicoanalitica dell’interpretazione dei sogni, Freud descrisse il processo primario
come caratterizzato dall’assenza di negazione, di declinazione temporale e, soprattutto, come
metaforico: nella lingua parlata attraverso l’aiuto di locuzioni quali ‘come’ e ‘come se’, la metafora
illustra una relazione tra cose o persone o tra cose e persone. Nel processo primario i termini della
relazione sono sempre presenti e percepibili per illustrare un discorso composto da eventi parziali
che evocano l’azione globale rappresentata. Per questo il discorso primario viene definito iconico.
Nel processo primario il soggetto del discorso è diverso dal soggetto linguistico della coscienza,
non vi sono segni che indichino alla mente che il messaggio onirico è metaforico, il soggetto e gli
altri materiali del sogno sono relazione tra l’‘io’ e l’ambiente, cose e persone. Particolarmente
interessante è l’assenza di negazione semplice poiché questo porta i processi inconsci ad enunciare
ciò che si vorrebbe negare attraverso la presentazione assertiva di immagini spesso spiacevoli per la
coscienza.
Secondo una terminologia più attuale Deleuze distingue il linguaggio analogico delle relazioni da
quello digitale delle significazioni. Partendo dalle stesse premesse sulla strutturazione della
coscienza definisce l’analogico a partire da una certa “evidenza” mentre il digitale dall’acquisizione
di un codice. Benché di tipo diverso dal digitale anche l’analogico necessita di un apprendimento.
Ed in questo risiede la possibilità linguistica dell’arte.

30
1

Secondo Lacan, l'ordine simbolico, ovvero il linguaggio, si fonda sulla rimozione dell'immaginario.
La soggettività dell’Io non è un dato originario della vita psichica dell'individuo, ma il risultato di
un processo, la cui prima tappa è costituita dal cosiddetto stadio dello specchio.
“Momento che non è di storia ma di insight configurante, per cui lo designamo come stadio anche
se emergesse in una fase”, definisce “l’assunzione giubilatoria della propria immagine speculare da
parte di quell’essere ancora immerso nell’impotenza motrice e nella dipendenza dal nutrimento che
è il bambino in questo stadio infans”, e “situa l’istanza dell’io (Me) in una linea di finzione, (…)
prima di oggettivarsi nella dialettica dell’identificazione con l’altro, e prima che il linguaggio gli
restituisca nell’universale la sua funzione di soggetto.” 2
Tra i sei e i diciotto mesi, il bambino arriva a riconoscere la propria immagine riflessa nello
specchio ed elabora un primo abbozzo dell'Io all’interno di una relazione duale di confusione tra sé
e l'altro identificando a se stesso una prima forma totale del corpo, una Gestalt 3 costituente, ovvero
una forma-esteriorità attraverso cui intravede la maturazione della propria potenza.
L’identificazione dello specchio quindi, come trasformazione del soggetto attraverso l’assunzione di
un’immagine “simbolizza la permanenza mentale dell’io e allo stesso tempo ne prefigura la
destinazione alienante”. 4
Lo specchio può considerarsi la prima manifestazione di una vocazione naturale dell’uomo a forme
di alienazione attraverso l’immagine che vanno “dalla più sottile depersonalizzazione
all’allucinazione del doppio”. 5
Tutta questa componente di scissione - dall’appercezione situazionale fino agli stadi di nevrosi che
straripano nella follia - deriva da una forma d’inerzia congenita che presiede tanto gli stadi della
formazione dell’io quanto i processi descritti in precedenza a proposito dell’immedesimazione nel
racconto.

1
“Stretched frame” da “Zerkalo” (Lo Specchio) di Andrei Tarkovskji, Russia 1975.
2
Jacques Lacan, op.cit.p88.
3
“La parola tedesca Gestalt sostantivo comunemente usato col significato di configurazione o forma, è stata riferita fin
dall’inizio del secolo ad un insieme di principi scientifici dedotti per lo più da esperimenti sulla percezione sensoriale”
(Rudolf Arnheim,Arte e Percezione Visiva, Feltrinelli Editrore Milano, p.26). Lacan usa adesso questo termine come
sinonimo di “immagine”, per operare una distinzione dall’imago freudiana come funzione di relazione, ed evidenziare
l’azione formativa sull’organismo
4
Jacques Lacan, op.cit.p.89.
5
Ibid.p.66.

31
Proprio l’immedesimazione descrive l’accesso ad un piano di coscienza diverso dall’Io,
precisamente il Medesimo, in cui ‘scivola’: un’altra dimensione, impersonale, in cui si compie
l’identificazione col simile che lega l’io a situazioni socialmente elaborate.
L'accesso all'ordine simbolico è indispensabile al sorgere della soggettività. Il simbolico infatti,
sempre secondo Lacan, è il luogo dell'inconscio impersonale, dove sono depositati i simboli
linguistici e sociali, privi di significazione, finchè non incarnati nell’individuo. Il soggetto facendo
perno intorno ad un'unità immaginaria, il Me, che estrania l'Io in un'alterità idealizzata, conferisce al
mondo un carattere antropomorfico. “Bisognerebbe sapere che cosa sarebbe l’io in un mondo in cui
nessuno sapesse nulla della simmetria in rapporto ad un piano” si domanda 1 ed in questa domanda
riconosciamo tutta la nostra intenzione a decifrare in noi stessi le istanze in conflitto.
Perché se il linguaggio si fonda sulla rimozione dell'immaginario ovvero sulla definitiva
separazione dello psichismo inconscio da quello conscio perché di mezzo si è frapposto il
simbolico: il divieto paterno; è impossibile la ricomposizione dell'Io col Me , per una “caduta” del
reale in un piano inattingibile; tra essi si colloca l’istinto di distruzione e di morte. Il padre, infatti,
rappresenta " la figura della legge ": la sua parola produce la rimozione del desiderio della madre, e
spostando la pienezza del legame con la madre, ha fatto sì che si desidera ciò che non si ha,
cosicchè il reale diventa lo scopo irraggiungibile, che perpetua eternamente il desiderio.
Così rispetto alla specularità dei desideri della madre e del bambino viene ad interporsi la figura
paterna e con essa l'interdizione dell'incesto (l'Edipo).
Il senso di perdita e di distacco del reale che ereditiamo negli sviluppi dell’identificazione primaria,
quella con la madre, matrice di tutte le altre, è fonte di una nostalgia esistenziale che vede nel
lamento la prima forma di elaborazione estetica di espressione di senso.
Il lamento, a differenza del pianto, è una specie di canto: una fonte poetica. Dietro il lamento e
l’inquietudine ‘assunta’ si nasconde una dedica della modulazione del proprio mezzo ad
un’immagine che stavolta non teme censura e questa archetipica intenzione dell’arte conserva
l’istintività del bisogno e l’amorevolezza del dono.
Ecco che l’opera e l’esecuzione si appropriano di una intenzionalità viscerale che lungi dal riflettere
l’anima inconsapevole della soggettività linguistica dissolta nelle sublimazioni simboliche, esprime
la stessa consapevolezza pre-individuale di ogni essere umano.
Una “nascita del senso”, come abbiamo già affermato, di imprecisa definizione, precede la “caduta”
nel linguaggio per questa consapevolezza del mezzo che l’espressione richiede, e si aggiunge,
‘sopraggiunge’, al primo utilizzo dello stesso mezzo come protesi dell’autosufficenza organica,
quello della designazione.

1
Ibid.

32
Siamo convinti, infatti, che gli sviluppi del senso muovano sin dagli stadi in cui è rinomatamente
impossibile parlare di linguaggio, in quelle formazioni amorfe di illocuzione radicale la cui
sublimazione in seguito estirpa l’essere dalla coscienza primordiale.
In questa coscienza primitiva le parole non esistono, l’emissione di suoni conserva tutta la valenza
affettiva delle passioni corporee, il mentale non esiste perché neanche organicamente gli stimoli
ricevuti organizzano un’autonoma struttura cerebrale, lungo il corpo si muovono vibrazioni che
rivelano il pensiero nella sua essenza energetica e si addensano nei centri della ricettività dei sensi;
il pensiero percorre questi tracciati corporei privilegiando frammenti e punti perché la sola integrità
che conosce è l’“audiovisione” materna senza la quale la molteplice sollecitazione tattile non
verrebbe forse ricondotta ad una sola fonte di stimolo.
Questo pensiero sensitivo organizza il piacere nelle zone relative ai frammenti, reinvestendole in
momenti successivi allo stimolo, ed il prodotto di queste prime intenzioni sensive, è l’azione
indirizzata a se stessi. L’espressione di senso è la sensazione ottenuta, nient’altro. Ma per uscire da
questa riflessività narcisista è necessaria una lunga fase di apprendimento cui verranno a
sovrapporsi i diversi ordini dell’identificazione all’Alterità: della Madre, dello Specchio, e del
Linguaggio.
All’inizio l’espressione è uno spremere i sensi.
Il dinamismo nella definizione “empatica” delle qualità strutturanti l’esperienza umana, sottolinea
una proiezione interiore dell’azione modulante. Se prendiamo come esempio lo stesso ragionamento
addotto dall’autore della «teoria dell’empatia» (Einfülung) Theodor Lipps, vediamo proprio come
una proiezione sul corpo delle sensazioni cinestesiche trasmesse da una configurazione percettiva
presuppongono una verifica del pensiero associazionista nell’infrasenso linguistico: “quando io
guardo delle colonne, so, da esperienze passate, il tipo di pressione meccanica e contromeccanica
che si verifica in esse. Egualmente, da passate esperienze so come dovrei sentirmi se mi trovassi al
posto delle colonne e se quelle forze fisiche agissero sopra e dentro il mio corpo. Io dunque proietto
i miei propri sentimenti cinestetici, sulle colonne; (…) solo in questo modo la mia empatia, riguardo
alla natura diventa un’empatia veramente estetica.” 1
Curiose ci sembrano alcune soluzioni linguistiche espresse in tale ragionamento riportato dalla
formulazione contro-effettiva nella teoria della percezione visiva di Rudolf Arnheim: notiamo
subito che un riferimento ‘classico’ alla psicanalisi letteraria non può non ritrovarsi nella scelta
delle colonne come topos privilegiato della solidità corporea che l’archetipo sperimenta.
Ma la stessa contro-argomentazione dello psicologo “artistico” - per cui l’espressione risiederebbe
nelle qualità percettive del pattern stimolante che inverte la direzionalità dell’evenire espressivo in

1
Rudolf Arnheim,Arte e Percezione Visiva, Feltrinelli Editrore Milano, pp.360-361

33
modo che invece di un associazione prodotta si tratterebbe di una tensione trasmessa - convalida
l’ipotesi di un comportamento organico all’origine dell’espressione del senso.
In quanto egli stesso dichiara attraverso la generalità delle qualità percettive che “le caratteristiche
dinamiche sono strutturali, e oltre che nella visione si sperimentano nel suono, nel tatto, nella
sensazione muscolare; ma quel che più conta, definiscono anche la natura ed il comportamento
della mente umana, e in modo molto coercitivo.” 1
Questa strutturalità del dinamismo, prima di venir riferita ad un aldilà della lingua, la lezione
psicanalitica ci spinge ad investigarla nell’aldiquà psico-somatico del dominio corporeo, nel regime
dei sensi. “Quando la nozione di senso si sostituì alle Essenze” ritroviamo nel citato passo
deleuziano Sul non senso, “la frontiera filosofica sembrò stabilirsi tra coloro che legavano il senso a
una nuova trascendenza, nuova metamorfosi del Dio, cielo trasformato, e coloro che trovavano il
senso nell’uomo e nel suo abisso, profondità recentemente scavata, sotterranea.” 2
In ogni caso, sia i “nuovi teologi di un cielo brumoso” che i “nuovi umanisti delle caverne” operano
un controsenso fondamentale presentando la questione del senso in termini di Principio e Origine,
quando in realtà trattasi sempre di un fatto di produzione.
Il senso è sempre prodotto, non appartiene a nessuna altezza come a nessuna profondità, in quanto
effetto di superficie, è inseparabile da tale dimensione come dai propri macchinari.
In uno stadio prematuro viene prodotto sul corpo in virtù di una pulsazione senza misura nella
profondità indifferenziata, tale profondità agisce per il potere di avvolgersi in superfici.
Il dinamismo espressivo appartiene alla natura dell’uomo in quanto pulsione strutturale e ciò che si
evolve nell’uomo è proprio tale capacità di produzione di senso attraverso sempre nuovi
macchinari. La struttura corporea è veramente una macchina per produrre il senso incorporeo.
Un bambino nella sua prima formulazione di una frase può esprimere: “Papà, io mi piaccio il sole”
perché lo slancio verso la propria affermazione matura nella libera produzione di senso prima che
nella piena padronanza dei contenuti linguistici.
Il senso è sempre contiguo al non senso e al continuo movimento, nasce dalla stabilita posizione di
elementi che non sono in se stessi significanti. Nel caso della scrittura, della lingua come di ogni
altra tecnica di fissione, se vi è linguaggio, il senso non sarà la somma del singolo apporto
particellare di ogni unità elementare, ma sarà il movimento prodotto dal medium attraverso i suoi
segni. Attraverso i suoi segni del movimento. Quei segni che esprimono il movimento, nella lingua
il verbo, nella sensazione la modulazione.
Coniugazioni del verbo ed effetti della modulazione sono prodotti dell’espressione di senso.

1
Rudolf Arnheim, op.cit.p.361.
2
Gilles Deleuze, op.cit.p.69.

34
Ma l’ostacolo che resta da superare per convalidare la nostra ipotesi “infralinguistica” sul senso è
proprio l’impasse generata dalla gabbia linguistica entro cui sarebbe identificabile ogni espressione.
Per noi che stiamo proiettando la riflessione sul senso in un territorio dove viene definita linguistica
la consapevolezza dell’utilizzo del macchinario per la produzione di sensum, compresenza di
sensazione ed effetto di senso; il limite del linguaggio deve essere superato per oltrepassare il muro
che farebbe dell’intenzione, e quindi dell’istanza etica, la sola condizione legittimante l’utilizzo di
un medium tecnologico, come dispositivo estetico invece che strumento di potere.
L’ultimo vincolo che si pone è la dimostrazione efficace che anche l’atto del designare - funzione
manifesta in ogni linguaggio tanto da ricondurvi l’essenza di molte teorie ‘analitiche’- come l’atto
dell’esprimere, il cui volto prelinguistico abbiamo scoperto durante l’organizzazione delle
cosiddette “zone erogene”, deriva da una pulsione costitutiva per la vita dell’essere umano.
Cosicché la dualità originaria, designazione/espressione, che nella comunicazione simbolica
struttura una proporzionalità inversa per agevolare l’esigenza della comprensione e del consumo,
nelle sue manifestazioni originarie deve potersi presentare come una polarità convergente, come
uno yin e yang sinestetico che presieda il fluire della modulazione di un pensiero incarnato.
Che tali forze vengano sublimate attraverso il linguaggio è opinione diffusa e condivisibile, ma che
le stesse insufflino il pensiero prima che la stessa fonazione è un punto su cui proveremo a riflettere.
Se “è da tempo che non vi è più nulla di strano tra la sessualità ed il pensiero come tale” 1 , non
conosciamo tentativi di ordine logico-istituzionale che abbiano provato, con la necessaria petizione
di tolleranza alle licenze creative, ad esplorare queste forme strutturali di pensiero primitivo,
precedenti la stessa organizzazione genitale della superficie corporea.
La sessualità nella forma pregenitale coincide con quella produzione di superfici parziali che
abbiamo visto fare del nostro corpo innanzitutto un abito di Arlecchino.
Il corpo in frammenti di Lacan. Il corpo delle profondità di Deleuze.
In questo stadio che vorremmo osservare, si presume che
accadano tutta una serie di eventi legati alla sperimentazione
dei sensi, che fissano in maniera decisiva il potenziale
emotivo, condizionandone gli sviluppi futuri. Tanto che, per
potere descrivere la difficile situazione presa in oggetto, sia
la psicanalisi sia la psicologia dello sviluppo hanno creato
delle figure-riferimento che solcano questo «quadro»
corporeo, descrivendone i “rizomi” in evoluzione:
l’investimento libidico, il narcisismo, il fantasma…

1
Ibid.p.193.

35
Dobbiamo fare una breve parentesi per ricordare la postulazione che per primo Freud aveva
avanzato per descrivere le diverse fasi dello sviluppo della pulsione sessuale, la rinomata “libido”.
Nello stadio che stiamo prendendo in esame, pressappoco del primo anno di vita dell’essere umano,
tale pulsione procede da uno stato autistico primario, senza oggetto, in cui ogni pulsione parziale
cerca soddisfacimento su parti del corpo (le zone "erogene" orale, anale, genitale) al cosiddetto
“narcisismo primario”, esperienza di un Sé unificato ed investito di libido narcisistica, che abbiamo
incontrato nello «stadio dello specchio».
Con lo sprigionamento delle pulsioni sessuali comincia un’organizzazione seriale delle zone del
corpo che troveranno unità nel raccordo fallico. Così i differenti momenti della sessualità da noi
considerati distinguono due differenti specie di serie: la forma seriale della zona erogena di
superficie e la forma seriale del raccordo fallico. Ogni legame seriale opera una sintesi della dualità
originaria designazione\espressione: cose-consumabili\sensi-esprimibili.
Ma le modalità del legame seriale nei due momenti, come la metafora e la metonimia del
linguaggio, corrispondono alle modalità della condensazione e dello spostamento individuate da
Freud nell’interpretazione dei sogni. 1
In primo luogo infatti la forma seriale della zona erogena consiste nella proiezione di immagini
sulla zona o sull’orifizio circondato da mucosa attorno a cui la stessa zona si estende. Si tratta della
soddisfazione autoerotica dell’attribuzione alla zona degli oggetti di piacere, dei frammenti
d’esperienza che la profondità dell’Io tiene sospesi. Tale attribuzione agisce in base alla
coestensività dell’immagine alla sensazione prodotta, ma anche in base all’origine, come legame
causale, o in base al grado di allontanamento dalle pulsioni alimentari e distruttive da cui si sono
staccate le pulsioni sessuali. La forma seriale sembra essere omogenea, dando luogo ad una sintesi
di successione, che può contrarsi ma che costituisce in ogni caso una semplice connessione
(metonimia\spostamento).

1
La metafora è la condensazione in una singola parola o immagine, mentre la metonimia è analoga allo spostamento,
cioè alla sostituzione di un'idea o immagine con altre associate ad essa. La psicoanalisi, operando una riduzione dell'Io,
può consentire l'accesso alle verità dell'inconscio. Lacan riprende da Saussure la concezione secondo cui la lingua e i
segni sono autonomi rispetto alle prestazioni linguistiche individuali, chi parla nell’individuo non è propriamente l’Io,
ma il Me, che abbiamo visto essere una soggettività rimossa dalla “Legge del padre”, l’identificazione simbolica. Per
questo la formula freudiana “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, per Lacan equivale a dire che il linguaggio è
l’esito della rimozione del desiderio, della pulsione sessuale, e rimane discorso dell’Altri percorso dal cosiddetto
“oggetto a”, un elemento x paradossale e istanza di squilibrio, che verrà collegato al non senso da Deleuze, che
rappresenta esattamente la traccia di tale sublimazione, una specie di piaga da decubito legata alla pulsione di morte ed
alle sedimentazioni del reale nel linguaggio.
Saussure aveva intuito che il sintagmatico (connessione) e il sistematico (congiunzione), devono corrispondere a due
forme di attività mentale. Jakobson ha ripreso questa estensione, applicando l'opposizione tra metafora (ordine del
sistema) e metonimia (ordine del sintagma) a dei linguaggi non linguistici. Secondo Jakobson la metafora, infatti,
rappresenta una sostituzione di qualcosa sull'asse paradigmatico; la metonimia, al contrario, su quello sintagmatico.
Cfr. R. Jakobson, Linguistica e poetica, in: Id., Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1966.
E S.Freud, L’interpretazione dei sogni, Capitolo 6, Il Lavoro Onirico, ed.it. Bollati Boringhieri, Torino 1973.

36
In secondo luogo nella forma seriale del raccordo fallico i legami seriali delle zone erogene
convergono intorno al fallo come immagine proiettata sulla zona genitale. Tale zona genitale, pur
avendo una propria forma seriale come zona erogena, non è ora scindibile da una forma complessa
che collega tra loro serie eterogenee, e che sostituisce alla connessione, una sintesi di coesistenza e
coordinamento, costituendo una congiunzione di serie convergenti (metafora\condensazione).
L’importanza di questo momento non è da sottovalutare perché se nella serie erogena la dualità
originaria si manifesta in una forma di coestensione in cui designato ed espresso coesistono
simultaneamente. Nella serie fallica si creano i presupposti della sublimazione nel linguaggio,
attraverso la proiezione totale in una “scelta d’oggetto” esterna. Il raccordo fallico porta
necessariamente su immagini parentali. A questo punto infatti la pulsione libidica, dopo il primo
investimento energetico sull’Io ancora indifferenziato (narcisismo primario), sceglie un Sé
unificato come «oggetto d’amore» (narcisismo secondario). Tale condizione di scelta presuppone
un salto di natura nei processi di immagine: ad una prima frammentazione del corpo
dell’autoreferenzialità auto-erotica, si sostituisce l’identificazione allo-erotica, con una forma
estranea impermanente, la “cosa gettata” al di fuori di sé, l’oggetto.
Questo amore oggettuale dopo una prima omosessualità speculare conseguente al raccordo si dirige
inevitabilmente verso il genitore di sesso opposto in cui viene avvertita la “propria” mancanza,
ovvero l’irraggiungibiltà dell’oggetto d’amore che anticipa la mancanza “a se stessi” della
sublimazione pulsionale nel linguaggio.
Così la designazione si slega dal piano espressivo dell’intenzione e la dualità originaria da
superficie osmotica in continuo movimento, si ripiega su se stessa delimitando un confine tra
l’”oggetto” e l’espressione designante 1 , anticipando la scissione simbolica di significato e
significante. Si costituisce un vuoto, una assenza di spazio, si cancella precisamente il «luogo
comune» che intrecciava la fibra dell’espressione con la forma della designazione.
Per questo la forma seriale successiva alla sintesi fallica di convergenza viene definita come forma
seriale di risonanza, poiché il dinamismo energetico comincia ad allontanarsi dalle serie corporee
del narcisismo, per operare un sintesi disgiuntiva, per mettere in “risonanza”, i legami seriali che si
erano costituiti in precedenza, questa volta da una prospettiva distante cui viene a mancare
progressivamente la sensibilità modulata dell’espressione pulsionale, e a cui viene a sostituirsi
progressivamente il meccanismo linguistico della ripetizione.
A questo momento appartiene la classica figura del fantasma, vero e proprio “evento di risonanza”.

1
Distinguiamo l’espressione designante dalla designazione espressa con lo stesso criterio che separa l’universo
potenziale della lingua (la langue) dalla sua realizzazione episodica contestuale (la parole)

37
Un processo per cui una “serie edipica” 1 fa risuonare una serie pregenitale di cui non si conserva
memoria, l’evento di coscienza che viene a sovrapporsi al tracciato corporeo degli eventi pulsionali.
Come lo stimolo retroattivo che un titolo deve poter suscitare nel rievocare il vissuto dell’opera
d’arte cui fa riferimento.
Il progetto di questa tesi è proprio il tentativo di capire se la coestensione originaria di espressione e
designazione, attraverso l’utilizzo delle attuali tecnologie della fissazione, venga ripristinata nella
combinazione di molti frammenti in un immagine di raccordo, che ripristini a sua volta la
permanenza del principio organizzante in una forma audiovisiva di linguaggio indiscreto, una
forma di linguaggio non separabile dall'evento, che non entri nel meccanismo della ripetizione e
non sia suddiviso in elementi e non nasconda significati da svelare perché esibisce la propria
intimità con il pulsare della vita.
Ogni prodotto di tale linguaggio costruirebbe un immaginario, sarebbe un “oggetto del desiderio” a
sé stante, perché lo stesso suo fluire sarebbe un comporne l’involucro, un assemblarne la “crosta”:
una scultura dei sensi attraverso i frammenti del desiderio.
E a costituire il salto con la sintomatologia del delirio psicotico sarebbe la piena padronanza della
scissione attuata attraverso la protesi tecno-logica e l’integrale appropriazione dell’io attraverso
l’intenzionalità direttiva e la coscienza dell’evento pulsionale.
Per questo motivo il resto del lavoro programmato in questa sede consisterà nel definire metodiche,
unione di metodi e logiche, per conseguire uno scopo e rendere plausibile una teoria estetica; come
reazione formale ad una “crisi di realtà” di cui si rende colpevole molta contemporaneità artistica
sottovalutando e trascurando intenzionalmente come ogni medium tecnologico costituisca in se
stesso un “motore estetico”, non appena abbia raggiunto la propria specificità d’esperienza.

Allora quel che resta da aggiungere ad una visione d’insieme dell’operazione da compiere, è forse
un tentativo di sintesi delle premesse e delle dichiarazioni d’intenti per anticipare un’ipotesi di
sviluppo del percorso da compiere, una volta raggiunto il primo obiettivo. E proprio in virtù di un
margine d’incertezza con cui ci appoggiamo a riflettere il mezzo audiovisivo, emerge il carattere
“sperimentale” di questa tesi, per la ristrutturazione ideologica che la disponibilità dialettica nei
confronti del feedback deve condizionare.
Qualora dovesse rivelarsi fuorviante la prospettiva che guida la nostra riflessione, ovvero la
possibilità di raccogliere dei simulacri sensoriali in una modalità coestensiva di azione e passione -
che designi “piegando” il mezzo ed esprima “scolpendo” i sensi - per offrire un’identità
immaginaria alla pulsione inconsapevole che anima le diverse manifestazioni di un solo linguaggio;

1
Così viene definita la terza forma seriale dell’investimento libidico sull’ “oggetto d’amore” esterno, parentale.

38
l’errore non consisterebbe nell’avere supposto il carattere generale di questa interpretazione, se in
quanto tale rimane comunque una chiave; ma piuttosto nel mancato raggiungimento di una presunta
integralità dell’esperienza audiovisiva per avere creduto possibile la separarazione degli eventi
pulsionali dal regime simbolico, entro cui la riflessione riconduce gli stessi.
Dal momento che gli stessi interrogativi sulla possibilità di una sorta di “logos pre-simbolico”
animano la speculazione psicanalitica contemporanea, cerchiamo di capire nel nostro ambito
circoscritto quanto gli stessi possano riproporsi nell’esperienza di mediazione del reale. Infatti se
rimane indubbia la necessaria componente linguistica del criterio organizzativo - la messa in serie
dei frammenti subordinata ad una logica di montaggio - che potrebbe eclissarsi solamente nell’agire
modulante della manipolazione da cui potrebbe venir sopraffatta, il fine ultimo dell’effetto di realtà
è l’agire sull’Altri, non la destinazione “pubblica”, ma la struttura dell’alterità che abita in noi
stessi, verso cui rivolgiamo il Discorso, l’immagine alla cui identificazione siamo stati sottratti.
Ogni prodotto di questo linguaggio non sarebbe esercizio ma lo sviluppo “ad hoc” di una logica
peculiare, la logica della sensazione relativa agli eventi di senso da mettere in risonanza,
un’impalcatura morbida e contestuale su cui incidere i solchi del fenomeno psicosomatico indotto.
Nelle teorie filosofiche successive all’esistenzialismo l’Altri non è un oggetto della percezione, né
un soggetto che mi percepisce: “l’Altri è innanzitutto una struttura del campo percettivo, senza la
quale questo campo, nel suo insieme, non funzionerebbe come funziona. Che tale struttura sia
effettuata da personaggi reali (…) non impedisce che essa preesista, come condizione di
organizzazione in generale. (…) Così, Altri a priori come struttura assoluta, (...) è quella del
possibile”. 1
Appare allora un aspetto conturbante della nostra natura umana, in quanto questa struttura della
cognizione è senza dubbio legata alla condizione di dipendenza dal simile che abbiamo visto
caratterizzare sin dalla nascita il soggetto e guidarne i processi d’identificazione della crescita.
Inoltre abbiamo riconosciuto in essa il terreno impersonale – o il paesaggio? - della potenzialità
effettuabile dalla lingua e la disorganizzazione dell’istinto che il pensiero simbolico attualizza.
In breve vogliamo arrivare alla radice: “senza esposizione ad ambiente umano l'animale umano non
si umanizza” 2 . Gli esempi di enfants sauvages in questo caso sono i più suggestivi. Esseri umani
cresciuti con animali che avendone acquisito le abitudini si muovono con rapidità sui quattro arti,
mangiano carne cruda e se reinseriti in un ambiente umano, sopravvivono pochi anni senza
acquisire il linguaggio e la possibilità del pensiero simbolico.

1
G.Deleuze, op.cit.p.269 (corsivo nostro).
2
Marco Focchi, La lingua indiscreta e l’irripetibile, articolo su www.lacan.com.
Cfr.Marco Focchi, La lingua indiscreta, Franco Angeli Editore, Milano 1985.

39
Il mondo possibile espresso dalla struttura d’Altri, non esiste al di fuori di ciò che la esprime: “il
viso atterrito non somiglia alla cosa terrificante, la implica” continua Deleuze a proposito del
Robinson Crosue di Michel Tournier 1 : quando viene colta la realtà implicata dall’esprimente viene
sviluppato e si realizza il mondo possibile corrispondente. Il linguaggio è una realtà del possibile,
ma la struttura d’Altri è la condizione di tale realtà e del suo stesso funzionamento.
Per cui il vero dualismo si manifesta ad un livello ancora più immanente nel campo della percezione
che al livello linguistico intenzionale della designazione\espressione, già dinamica di sviluppo della
struttura d’Altri. Il vero dualismo appare con l’assenza d’Altri: tra gli effetti di tale struttura e gli
effetti della sua assenza. Che cosa appare in assenza d’Altri? Come viene strutturato il campo
percettivo, secondo altre categorie oppure “si apre su una materia specialissima, facendoci penetrare
in un informale particolare?” 2
Resta il fatto che Amala e Kamala, dopo essere state strappate alla loro famiglia di lupi, morirono,
prima di aver compiuto i vent'anni, d'impoverimento fisiologico, sempre guardando la foresta dalle
finestre dell'ospedale in cui erano ricoverate.
Prima che Altri comparisse la sola realtà era un mondo rassicurante, da cui la coscienza non era
distinguibile. Lo sviluppo della possibilità di un mondo sconvolgente relega il precedente in un
tempo passato. Si costituisce il soggetto per l’estromissione della coscienza. E ciò che viene
annullato, gettato fuori, objectum, non è la realtà primitiva, ma l’Alterità dell’Io, l’impersonalità, il
Me. “Nell’assenza d’Altri, la coscienza e il suo oggetto sono una cosa sola” 3 , ma con il sorgere di
tale struttura in primo luogo si costituisce lo spazio e le categorie della percezione, successivamente
vengono distribuite le dimensioni temporali dell’Io e di ciò che non si è più.
“Io sono soltanto i miei oggetti passati. Se Altri è un mondo possibile, Io sono un mondo passato.” 4
“Nel mondo si è spezzato qualcosa e tutto un fianco ne crolla diventando me” dice Robinson, la
luce viene a costituirsi come occhio ed è solo eccitamento della retina: “Il mio occhio è il cadavere
della luce” continua 5 . Ecco che la progressiva dissoluzione dell’infrastruttura sociale e linguistica,
questa struttura d’Altri, che sperimenta Robinson nell’isola, che l’homo ferus non ha mai
sviluppato, che il perverso raggiunge per altre vie, attraverso quella che Lacan chiama forclusione
degli altri che porta a non avvertirli più come “altri” ma come complici o vittime; ecco che,
dicevamo, la coscienza cessa di essere l’organo di senso puntato sull’oggetto, o perché no,
l’estensione di tale organo, per diventare pura fosforescenza e unica risonanza delle cose in Sé.

1
Michel Tournier, Venerdì o il limbo del pacifico, Einaudi Torino 1968. Cfr. G.Deleuze, op.cit.p.270.
2
G.Deleuze, op.cit.p.271.
3
Ibid.p.273.
4
Ibid.p.272.
5
Michel Tournier, op.cit.p.96.

40
Eventi senza tempo e senza storia, cioè senza racconto; e Desiderio, non più ripiegato sull’oggetto o
su un mondo possibile espresso nell’Altri, bensì eretto per mezzo di una pulsione indifferenziata.
Ecco la nostra psicosi audiovisiva, non schizofrenico materialismo frammentario, né immaginaria
adulazione maniaco-depressiva, ma fluida perversione autolesionista, magma marmoreo sacrificato
alla Madre, liquida paranoia dei sensi per la riappropriazione di Sé.
Chi è allora il destinatario reale o ideale di questa audiovisione “primitiva”?
L’immagine-madre votiva cui raccordiamo i simulacri-frammenti della nostra esperienza, e che
mettiamo in risonanza attraverso un titolo-fantasma, non sarà un’ulteriore irrealtà, vera in quanto
reale e ideale al tempo stesso, irrimediabilmente agognata, imprigionata comunque nella rigida
costituzione paterna?
Come si evade dall’ordine simbolico? Tornare indietro ed arrestarsi al livello immediatamente
precedente, abbiamo visto, è pensabile, ma non realizzabile una volta avvenuto l’incontro
traumatico con il linguaggio, una volta superato il punto di non ritorno nell’avere ‘sentito’ la
“mancanza all’essere” della vita alla deriva nella ripetizione.
Abbiamo visto il linguaggio esibirsi nelle rigide concatenazioni della ripetizione, attraverso
l’immobilizzazione del suono nella circolarità dello scorrere, prima nella parola, poi con le stesse
risorse della realtà fenomenica, nell’evoluzione che va dalla convenzionalità della musica
d’ambiente allo spazio sonoro convenzionale, il cosiddetto, impropriamente, paesaggio sonoro.
Abbiamo visto costringere la luce nelle circonvoluzioni del codice, e dinamizzare l’impronta della
luce sulle stesse strutture della proposizione. Il linguaggio continua a ripetere se stesso.
Continua a presentarci un senso che non è mai evento, che è sempre lì lì per essere, sempre e solo
significante intrappolato nel meccanismo dell’implicazione di una realtà mancante “significata”.
Le immagini (quelle “dell’occhio”, dei Me nel racconto) rappresentano, e i suoni “suscitano”, vale a
dire resuscitano, emozioni. La codifica delle sensazioni sono i sentimenti e l’Immagine, mentendo,
arriva perfino a commuoverci, truccandosi. D’altronde anche il suono, se vuole, racconta aneddoti.
Ma quando accade? Perché prima di chiederci cosa avviene, cioè cosa ne viene fuori, nella
mentalità del possesso ciò che potrebbe essere evento, anche se in una “coreografia” di senso, è
sempre un oggetto di cui impadronirsi, un ‘significato’? Perché nessuno domanda qual è la verità
del mezzo trasformato in racconto, ammaestrato in docile metafora della regolamentazione?
Se Freud, studiando i fenomeni di ripetizione, è stato indotto a parlare di pulsione di morte, è perché
nella reiterazione si realizza il silenziamento della vita attraverso la dicibilità dell'essere. Sullo
sfondo di questo scenario c’è sempre un’agitazione della vita indicibile che attraversa da parte a
parte l'esistenza.

41
L'espressione vaga, il significato fluttuato, di cui parla Lévi-Strauss nell’Introduzione alla Teoria
generale della magia di Marcel Mauss 1 , passa vicino a quello che il fenomeno del panico fa venire
allo scoperto: l'inconsistenza dell'Altro. Un valore in se stesso vuoto “suscettibile di ricevere un
senso qualunque, la cui unica funzione consiste nel colmare lo scarto tra il significante ed il
significato” il coso, l’aliquid, il mana oppure anche ciò, che è il segnale di un’inadeguamento
dell’“integralità di significante” di cui l’uomo dispone fin dalla sua origine, e che “lo pone in
grande imbarazzo quando deve assegnarla ad un significato, dato come tale senza essere pertanto
conosciuto.” 2
Questo “buco” nella struttura del linguaggio è la falla di non-senso da cui straripa il reale della vita,
nelle sue manifestazioni patologiche di panico ed angoscia, o che trabocca come godimento in
eccesso con cui la coscienza sperimenta l’inconsistenza delle corrispondenze della significazione:
“Vediamo allora che l'evento è coordinato con il reale imprendibile della vita, con il tempo di
frattura in cui questa si fa sentire dal soggetto nella fitta dell'angoscia e nel risvolto conseguente del
godimento. Il soggetto è così portato a inseguire il proprio desiderio nella parvenza d'oggetto con
cui la mancanza si riveste. (…) E' l'essere che il desiderio insegue, (…) Ma nessuno insegue il reale
della vita, perché esso è già lì da sempre, e preme, e pulsa.”
E' importante riconoscere l’eccesso di pienezza che l'evento pulsionale fa sorgere.
L’essere è da sempre ciò di cui si può parlare, ciò di cui la filosofia ha sempre parlato, l’uomo è
l’essere-linguaggio, l’essere progetto, l’essere-impiegabilità, l’essere-mancanza che nella
prospettiva psicanalitica di Lacan è sempre “quel che quasi c’era”.
La struttura linguistica riveste la propria mancanza con la parvenza d’oggetto (a), “la roba”, “ciò”
con cui il soggetto insegue il suo desiderio, il “questo” che rende possibile la domanda. Ma ciò che
viene ripetuto nella Ripetizione non è forse la risposta alla prima domanda “cosa è questo?”, non
saremmo nuovamente di fronte a questo vuoto che renderebbe possibile l’evento e l’emissione della
singolarità corrispondente (cioè la singola corrispondenza)?
Il movimento della ripetizione tenderebbe così a cancellare l’evento ed a fare rientrare la vita nella
staticità dell’essere, sopprimendone il dinamismo.
La parola-evento, resta una delle istanze concettuali che più hanno ispirato i movimenti artistici
d’avanguardia, in tutte le arti performative. Viceversa il surrealismo, in un certo senso, ha solo
rappresentato l’evento, ne ha tracciato uno schema come didascalia del pensiero psicanalitico.
Questo “super-realismo” cui aneliamo ancora non può continuare a spiegare. Una volta sofferta
l’aria stantia che vizia le fondamenta della lingua, l’arte deve aspirare a liberare gli eventi.
È ciò che hanno fatto Antonin Artaud e Carmelo Bene nei loro teatri.
1
Trad.it. di Franco Zannino, Einaudi, Torino 1965, p.LI.
2
Ibid.

42
Ciò che la musica colta d’improvvisazione ha cominciato a fare da John Cage in poi.
Ciò che la musica tradizionale continua a fare da secoli, a riflettori spenti.
Ma il cinema e in generale l’arte della fissazione su supporto deve ancora puntare all’irripetibile.
E come può liberarsi dalle parvenze di realtà che il potere linguistico definisce “sentimenti”, che
sono i travestimenti delle sensazioni ripetute, e condizionare una esperienza pulsionale?
Il modello deve ritrovarsi nel fenomeno psicosomatico.
La nostra coscienza intenzionale non deve prescindere l’artificio della mediazione né avere la
possibilità di astrarsi percettivamente. D’altra parte ogni processo di immedesimazione sarebbe
un’identificazione alla macchina, di conseguenza linguaggio, espropriazione dell’io, e soprattutto
ripetizione. Quanti film diventano linguaggio per qualche legge d’immedesimazione e quanti al
contrario riescono a realizzare eventi ad ogni nuova proiezione.
Pensiamo ad alcuni film di Herzog, ad altri di Fellini, ai monumenti di Resnais, alle sculture di
Tarkovskji, ad altri a venire o ad alcuni momenti assoluti dispersi nei racconti cinematici; ci sono
film che come poesie vengono rivissuti ad ogni nuova visione. Quello che qui si evidenzia è che
non deve “fare” arte la ricontestualizzazione dell’interpretazione, come è di regola nel nostro
mondo ‘an-estetizzato’.
La Risonanza deve cercare l’artista, e lui predisporre la risonanza del nostro corpo, chiudendo dei
loop: scoprire la sensazione che diventa pensiero nell’ancorarsi a se stessa, chiuse le vie
all’interpretazione, con coscienza.
E qui si fa luce sull’ipotesi di una lingua-evento da scolpire, ciò che scolpisce è ciò che è scolpito al
tempo stesso, la traccia-impronta-simulacro che esprime è ciò che è stato designato, e designa per
come è stato espresso; il verbo, che nella lingua “flette” gli oggetti designati, rimane indistinto dal
“movimento di senso” vero e proprio, la cui realtà è nell’effetto che possiamo attribuire al medium
mentre questo “funziona”. Linguistica sarà la Formula che realizza l’esperienza, solo se
contemplata dall’attenzione “riflettente”, la superficie corporea e lo schermo, di proiezione ed
emissione sonora: solo se il dinamismo di sensum sarà riuscito a far vibrare l’organismo alla
frequenza desiderata, nella sequenza organizzata, in un diagramma di senso.
È col diagramma che il linguaggio audiovisivo elude la coercitività dello schema, del tracciato,
della storia. Attraverso il diagramma il linguaggio rimane in una modellizzazione del pensiero non
normativa, ma progettuale.
Non a caso il diagramma ha sostituito la notazione nella partitura musicale, ha diretto la
performatività in pittura e ha inspirato la recitazione di parecchio cinema. 1

1
In questo senso sono diagramma le poche note di regia che Herzog dava ai suoi attori in stato d’ipnosi in Cuore di
Vetro, i quali ricevevano un stimolo immaginario e sviluppavano da loro i propri contenuti, dando autonoma
consistenza agli ‘eventi’ del film.

43
In una sua paternità sospesa il diagramma suggerisce la mappatura del territorio, e libera la
realizzazione dalla razionalità linguistica. Il diagramma è il progetto, l’ossatura della sensazione.
Non si tratta di riprodurre o di inventare delle forme, ma di ‘captare’ e rendere ‘visibili’ delle forze.
La forza è la condizione della sensazione, in rapporto diretto con la vibrazione corporea. Esercitata
su un punto determinato dell’onda epidermica, una forza detonerà una sensazione se la differenza
della sua propagazione fisica subirà una traduzione rilevante nel nostro sistema corporeo.
Ordinariamente questo processo si può riassumere in questa maniera: la propagazione analogica
della forza si imprime negli organi ricettori, subito una codifica in impulsi elettrici si propaga e si
rigenera lungo i canali di trasmissione interna, i nervi, fino al cervello.
La codifica analogico\digitale ha luogo non appena l’informazione fisica dei canali esterni incontra
l’energia metabolica dei canali corporei. Questa “soglia” che separa i canali interni dai canali
esterni è causa dell’habitus di separare il mondo ‘fisico’ esterno dal mondo ‘mentale’ interno.
Tuttavia la lezione batesoniana ci insegna che la mente, il mondo dell’elaborazione
dell’informazione, non è delimitato dalla superficie corporea: “il mondo mentale è costituito solo da
mappe di mappe, ad infinitum (…) il territorio non entra mai in scena (…) poiché il procedimento di
rappresentazione lo eliminerà sempre.” 1
La nostra condanna consiste dal risultare dai processi di mediazione, ma tutta la vita in natura si
organizza attraverso la conformazione di scambio e trasmissione di informazioni. Resta dove situare
la coscienza.
La nostra coscienza audiovisiva è situata a livello del sensum nel processo di mediazione e una
particolare predisposizione mentale ci consente di ostacolare, di mettere un freno alla ridondanza
cerebrale attraverso cui ai livelli più astratti si sollecitano i concetti ed il pensiero simbolico.
La contemplazione nel vero senso della parola è una forma particolare di abitudine con cui si
incanala la normale percezione degli eventi. Una “riflessione” che la coscienza opera sul flusso
d’informazione giunto ad un’elaborazione tale che ulteriormente svilupperebbe pensiero, ma che
ritorna invece sulla soglia d’ingresso o si disperde o si sublima nel metabolismo corporeo.
Da una finestra nella parte alta dei polmoni si fa luce sulle zone d’ombra che la propria sensibilità
non ha sviluppato. Basterebbe uno schermo, di emissione, di luce, di suono, per potere meditare.
D’altronde l’artista ha come dovere di elevare la propria umanità attraverso la cibernetica dei
processi mentali. E se solo potesse contare sulla giusta predisposizione, su una cooperazione di
fiducia, il suo lavoro cambierebbe morfologia.

1
G.Bateson, op.cit.p.495.

44
La funzione del diagramma allo stato dell’arte serve a progettare la versione strutturata del climax,
uno schema d’induzione ipnotica, e la sua riduzione grafica assomiglia molto spesso ad una
scorciatoia per comprimere informazioni esecutive.
Ma il diagramma è il mezzo astratto per pensare l’organizzazione, non una cosa in sé ma una
descrizione di relazioni potenziali fra elementi.
A mio avviso dovrebbe restare su un piano di coscienza esoterico, simbolico, privato, articolato in
una forma-pensiero che coniughi l’istanza poetica di riferimento ad un immaginario di ridondanza.
Ricongiungendo quel Padre alla Madre nell’unità finalizzata di un Progetto.

Certi grovigli nella trasformazione dell’informazione generano una ‘sovrimpressione’ delle


sensazioni nell’inquadramento dell’esperienza esterna, e, viceversa alcuni processi interni possono
essere proiettati in contesti del mondo esterno.
Bateson cercò di definire questi fenomeni coniando il termine «transcontestuale», ricercando
nell’apprendimento una parziale spiegazione di tutta una famiglia di sintomi comuni tanto alla
schizofrenia quanto ad alcuni comportamenti affini, come il comico o l’artistico. 1
Ora, è indubbio che una tale descrizione comprenda anche quelle forme d’esperienza che in ambito
estetico hanno guidato la definizione del concetto di «sinestesia» ed anche questo tratto merita
un’adeguata riflessione per la sua storica pertinenza all’interesse audiovisivo.
In un interessante articolo di Felice Accame ed Angela Catenacci sulla cultura della sinestesia 2 ,
troviamo un compendio dell’interesse scientifico-letterario che dai tempi di Newton fino alle attuali
ricerche neuro-psicologiche, ripercorre le tappe di un’intensa produzione volta a descrivere il
fenomeno.

1
Cfr. G.Bateson, Doppio Vincolo, 1969, in op.cit.p.316-323.
2
Felice Accame e Carola Catenacci, Culture della sinestesia, in Hortus Musicus n°10, aprile-giugno 2002.

45
Notiamo innanzitutto la coincidenza storica dei due capisaldi artistici che, ad inizio del secolo
scorso, hanno segnato lo sviluppo di tutta l’arte multisensoriale: l’inizio della stesura della
Recherche di Proust in ambito letterario, nel 1909, e la prima rappresentazione del Prometeo. Il
poema del fuoco di Skrjabin, nel 1911.
Contemporaneamente all’esplosione dell’intenzione sinestetica nella produzione artistica si sviluppa
tutta una scuola scientifica determinata ad orientarne la comprensione. Ma solo negli ultimi tempi la
ricerca di laboratorio ha potuto fare affidamento su un sistema d’analisi tecnologico in grado di
descrivere in termini di processi mentali le teorie che in forma di ipotesi erano state avanzate dalla
psicologia cognitiva.
In primo luogo viene citato lo studio del neuro-psicologo Aleksandr Romanovic Lurija (1902-1977)
il quale analizzando l’elettroencefalogramma del suo paziente S. (il musicista Shereshevskii) notò
una forte depressione del ritmo alfa non appena immaginava una forte luce di lampada orientata sui
propri occhi. Immediatamente dopo, già negli Novanta, si presentano le tesi del neurologo zen
Richard Edmund Cytowic il quale sostenne la tesi della natura prettamente fisica dei fenomeni della
sinestesia, non esperienza dell’immaginazione, e quindi deliberata, e a base non-linguistica.
Secondo Cytowic la sinestesia sarebbe funzione del cervello limbico, quella parte del sistema
nervoso più antica dal punto di vista evolutivo, comune a tutti i mammiferi, che si trova sotto la
corteccia cerebrale. In particolare della parte del sistema situata nell’emisfero sinistro: “di sinesteti
se ne troverebbe uno ogni 25.000 persone, molti sarebbero non destrimani, le femmine avrebbero
una probabilità più che doppia e meno che tripla di esserlo, ed avrebbero ereditato la caratteristica
(una spiegazione di ordine genetico si baserebbe sull’associazione della sinestesia al cromosoma X
in qualità di tratto dominante). (…) Poi, tutti quanti avremmo beneficiato del dono della sinestesia
fino a quando non si finisce sotto la tirannia della corteccia.” 1
A parere di Cytowic la corteccia non sarebbe altro che la “buccia” deputata al controllo degli
stimoli esterni, mentre coscienza, creatività, e processi emotivi avrebbero sede proprio nel sistema
limbico. A sostegno della tesi porta il caso delle “percezioni sinestetiche” (tecniche d’indagine ‘non
invasiva’ sul cervello) durante le quali “il sistema limbico diventerebbe un vulcano, mentre nulla
avverrebbe nella corteccia.” 2
Negli ultimi tempi V.S.Ramachandran, direttrice del Brain Perception Laboratory dell’Università di
San Diego, discutendo le tesi di Cytowic arriva a formulare l’ipotesi che nella fusione di modalità
sensoriali siano in effetti implicate strutture limbiche ma che la spiegazione del fenomeno
sinestetico andrebbe cercata nel rapporto tra la «mappa somatosensoriale» e le zone della corteccia
adibite all’elaborazione degli stimoli percettivi.
1
Ibid.
2
Id.

46
Questa mappa, frutto degli esperimenti condotti tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento dal
neurochirurgo Wilder Penfield, rappresenta l’attività topografica della corteccia e attraverso di essa
sono stati spiegati sia fenomeni dovuti a qualche patologia delle modalità sensoriali, sia fenomeni
conseguenti ad incidenti quali l’amputazione di un arto: “certe tipologie di segnali raggiungerebbero
ugualmente le aree compromesse «affamate» di input. Da ciò il sovrapporsi caotico che può dar
luogo alla sinestesia.” 1
Prescindendo le licenze neo-evoluzioniste con cui nell’articolo si addurrebbe il beneficio derivante
dalla maggiore interazione del sistema limbico con la corteccia cerebrale quale vantaggio evolutivo
dei nostri tempi, è evidente che lo studio praticato sui “medium sinestetici” rafforza le premesse sul
senso che abbiamo voluto discutere.
L’architettura della sensazione, che opera attraverso il diagramma, nel migliore dei casi
provvederebbe alla descrizione del dinamismo ‘reale’ di senso nell’opera. Ma, benché sarebbe
auspicabile ipotizzare in tal modo, possiamo ritenere che in nessun caso la relazione del ‘progetto di
senso’ con il messaggio trasparente dell’opera d’arte poggerà su una comunicazione priva di
distorsioni.
Abbiamo definito infatti il dinamismo di sensum come fenomeno di superficie, come conseguenza
della trasmissione fisica di forze in un sistema di emissione e ricezione, ma non abbiamo ancora
approcciato l’idea che la comunicazione artistica potrebbe anche non orientarsi alla comprensione.
Nell’audiovisione è un errore “linguistico” il mantenimento del frame percettivo di significato.
Dapprima abbiamo visto a quale livello il linguaggio opera questa eliminazione della scissione
referenziale, in seguito quale edonismo assecondi l’induzione della sensazione da contemplare,
vogliamo capire quindi come può la tecnica audiovisiva strutturare ancora il confronto
individuale/collettivo con cui si crede interpretabile un’arte.
Si cerca ancora adesso di decodificare in parole e quindi tradurre, i pensieri che un artista ha voluto
confezionare a suo modo, attraverso la sua abilità. Noi crediamo che un «audiovisivo concreto»
potrebbe suscitare emozioni che non siamo ancora in grado di leggere, e che non possediamo parole
e concetti per discutere a fondo la sinestesia. Potrebbe risvegliare sensazioni che abbiamo
tralasciato dallo strutturare perché sollecitati a sublimare i sensi nel pensiero simbolico piuttosto che
assaporarne la loro fusione.
L’artista innanzitutto deve aver confuso in se stesso l’impostazione sensiva, la mappa (questa volta
cognitiva) della visione e dell’ascolto con cui ha scoperto il mondo, lasciandolo aperto e instabile,
come mancante di un elemento, un elemento per infirmare il senso, rimasto fluttuante.

1
Id.

47
Da parte nostra siamo sempre stati propensi a pensare che egli sia e-venuto mancante per una specie
di “incrinatura”. Una perdita genetica o un’amputazione emotiva.
Non può simulare - né d'altronde mirare a conseguire un handicap - ma “soffrire” di audiovista, di
astigmatismo sonoro, labirintite visiva. Sperimentando la ‘permanenza sonora’ e la
‘spazializzazione della luce’, egli deve credere possibile a priori l’universo di colori e suoni che
intende “comunicare”, ma del suo significato non avrà pretesa, potrà trasmettere l’immaginario da
cui ha raschiato frammenti ed obbedire al suo ideale diagrammato, ma del suo senso non lascerà
neanche l’ombra, solo un objectum di flusso articolato nel tempo detonabile con un play, o un
inventario di moduli audio/video in sequenze ‘a grappolo’, da performare narrando.
Essendovi e non essendoci la sua scommessa di sensum è una promessa.
La dimensione progettuale ambizione paterna.
L’immaginario riferimento pulsione madre.
Il senso dell’esperienza nell’Altri.
La comunicazione sinestetica.
L’idea di un elaborato finale a complemento di una tesi universitaria nasce da una necessità
interiore forse legata all’ambito pratico-realizzativo del corso di studi intrapreso.
La possibilità del suono di plasmare la materia audiovisiva ne è il pre-testo.
“Due cose sono venute a mancarmi durante la permanenza al di fuori del mondo che mi aveva
cresciuto e circondato per tutto il tempo della mia adolescenza: il mare, ed il fogliame.
Due universi simbolici di cui si sono nutrite tutte le mie immagini ipnagogiche e che pian piano si
sono scolpite nel mio inconscio.
E mentre la mia mente esercitava le sinapsi a collegare le impressioni ricevute durante le ore di
studio, parallelamente quelle visioni si legavano alle mie emozioni, imponendosi a volte con
inaspettata forza.
(…) Vorrei mio contributo alla ricerca audiovisiva il trattamento degli elementi di questo
linguaggio quali “oggetti” (altro da me, dotato di una propria vita interiore). Voglio cioé sforzarmi
di comunicare un senso aldilà della significazione aneddotica che le immagini sonore e visive
possiedono.
Ovvero evitare l’impiego di uno stato di cose, che si presenti alla percezione sotto forma di suono o
di luce, per edificare la convenzionalità di un concetto che possa essere il significato pratico di
un’opera.
E’ il collasso dell’interpretazione al livello della sensazione. Ed a questo, serve testare la
comunicazione: per l’emozione e tramite essa.” 1

1
Da una comunicazione privata, giugno 2005.

48
Diagrammi.

49
Manipolazione/Montaggio.

Nella straordinaria stagione in cui il cinema subì il devastamento dell’impeto giovanile con cui il
secolo ha esaurito il suo immaginario negli anni sessanta del Novecento, nel mid-west americano la
lisergica incontrava la nascita del filmaker heiddegeriano. Come in genere in Europa tendiamo a
semiotizzare l’arte, la speculazione filosofica in America ha trovato nel film una sua propria verità.
Unico erede delle avanguardie di primo Novecento il movimento definito New American Cinema fa
dell’esperienza visiva la ragion d’essere di uno strutturalismo filmico orientato alla sostanza dell’io.
Solcando il percorso che avrà sviluppo nelle visioni mistiche della videoarte contemporanea di un
Bill Viola, il fatto storico che imprime la svolta – e attesta il raggiungimento di una consapevolezza
del mezzo estranea tuttora all’universo della finzione - è la totale adesione dell’artista all’esibizione
del vissuto autobiografico ed il coinvolgimento della sfera dell’intimo nei vari stadi del processo
creativo. Tale processo viene articolato ai due estremi della natura linguistica: la totale immersione
nel corpo attraverso la dispersione della coscienza nell’abilità tecnica (misura anch’essa di
un’abitudine), e la definitiva proiezione dei “simulacri” nella formalizzazione logica del montaggio.
Concessa la forzatura sull’applicabilità del concetto di simulacro alle ‘parentesi di vita’ immortalate
in parecchie pellicole degli anni Sessanta la nostra attenzione si concentrerà in particolare sul lavoro
di Stan Brakhage (1954-2003) per la sensibilità attribuita ai processi da cui sorge la sua opera nello
storico testo Metafore della visione 1 e l’attenzione esclusiva per il dato sensoriale con cui pone in
crisi la realtà della sensazione stessa, la polemica portata avanti contro i movimenti hippies su una
“visione responsabile” e la relazione tra la realizzazione filmica ed un processo ascetico attraversato
da fisiologia e spiritualismo.
Quando Brakhage cominciò a scrivere quello che rimane il suo tentativo di memoria letteraria,
aveva girato una quindicina di film di un genere definibile psicodrammatico, ma nel 1958, anno del
suo matrimonio, concluse quello che viene considerato “il primo film americano strutturato dalla
natura dell’esperienza visiva” 2 conclusosi a sublimazione inconscia di un compiaciuto
annichilimento suicida.
In un tempo in cui i suoi quarto e quinto dito della mano sinistra (pag.22: “quello del matrimonio e
quello della morte”) erano completamente bloccati dall’artrite, le sue ricerche d’amore come luogo
della perdita dell’individualità venivano tutte sconfitte da una necessaria sequenza ‘dell’impiccato’
con cui voleva concludere il film che stava ‘iper-montando’, un film in cui tutta la sua vita sarebbe
apparsa proprio come un’Anticipazione della notte (titolo) in cui avrebbe tentato il suicidio.

1
Stan Brakhage, Metaphors on vision, Film Culture 1963 (ed.it.Metafore della visione, e manuale per riprendere e
ridare i film, Feltrinelli Editore, Milano 1970).
2
ibid.21 dall’introduzione di P. Adams Sitney.

50
Suicidio che verosimilmente tentò di imporsi attraverso un atto mancato ma che il matrimonio con
Jane, di poco precedente l’ultimazione dell’opera, aveva già trasformato in pulsione di morte e di
fuga dal Linguaggio cosicché, da questo film in avanti, la cinepresa gli si offrì quale mezzo per
sfuggire la ragione ed assecondare l’evento di «visione».
(pag.21) “Nel girare il film [Anticipazione] egli pervenne ad una semplice ma sorprendente scoperta
che sta al centro della sua estetica: se la visione è il valore più alto del film, allora la cinepresa (ed il
suo uomo) devono lasciare che la visione avvenga piuttosto che forzarla (tramite una sceneggiatura)
sul soggetto” “con la luce ad una velocità interpretativa più veloce della mente” (pag.26).
Dalle critiche e la polemica sorta dal rifiuto di molti artisti d’avanguardia di accettare Anticipazione
come nuova linea di lavoro, Brakhage fu ispirato a “liberarsi” attraverso la scrittura di Metafore
facendo luce su ‘ciò che andava trovando a proposito del fare film’.
Abbiamo riconosciuto in questo metodo “chiarificatore” la stessa sostanza di questa tesi, credendo
necessario tributare tanta ispirazione di cui siamo debitori riportando direttamente quanto scritto
alla fonte, per altro ormai quasi irreperibile, sperando che una prospettiva più forte e circoscritta nel
raggio d’intervento, riesca a rinforzare le nostre proposte facendo da modello attanziale alla
psicosofia della manipolazione.
Negli anni in cui scrisse i primi capitoli vennero alla luce una serie di lavori tra i quali il Prelude e
la part I della sua opera più famosa Dog Star Man a cui lavorò dal 1961 al 1964 (anno in cui
terminò la part IV). Un film che, nella sua struttura intera, viene a buon diritto definito
“mitopoietico”, ma che soprattutto nel preludio mostra i processi di evoluzione onirica attraverso
cui il sogno che precede il risveglio informa il giorno successivo, giungendo all’elaborazione
conscia attraverso un evento di senso, una mythos poiesis.
Brakhage stesso fornisce la trascrizione del processo di trasformazione di “immagini inaccettabili in
immagini accettabili” imperniato su una lavorazione ‘all’indietro’, che è proprio la manipolazione
di cui stiamo parlando, una tecnica cioè che muovendo dalla materia grezza che si è inteso
raccogliere e trasformare giunga all’evidenza immanente all’esperienza stessa attraverso una logica
di montaggio sviluppata durante la lavorazione.
Ecco la manipolazione perfetta:
(pag.47) “Per un lungo periodo del montaggio accoppiavo preoccupazioni surrealiste con, metti, il
senso che ha John Cage della forma attraverso vari processi casuali. E poi passavo e ripassavo su
quel materiale ristrutturandolo; arrivando alla fine ad un unico rotolo di pellicola lungo quanto lo è
adesso Prelude.
Il dipingere a mano era sempre strettamente in relazione ad una particolare “visione ad occhi
chiusi” che viene solo durante i sogni.

51
(…) La pittura era l’approssimazione più convincente; così la dipinsi, provocando strutture e
controllandole in vari modi. Le forme nascono da quel tipo di azione e reazione occhio-nervo. (…)
Si possono avere tre, quattro, o più pezzi lunghi quanto l’intero film e sovrimporre un’immagine
sull’altra dovunque si voglia. Presi il pezzo che era stato per gran parte determinato dal caso (…) e
cominciai a montare un secondo pezzo complementare ad esso. Da questo punto in avanti, tutto ciò
che montai fu iper-cosciente. Tornavo indietro e cambiavo immagini nel rotolo1 dovunque ne
venisse una necessità dallo sviluppo formale del rotolo2. Il rotolo2 partiva sempre da ciò che gli
preesisteva sul rotolo1 per poi strutturarlo e trasformarlo in qualcosa di simile a ciò che si ricorda al
risveglio. (…) Quando arrivai in fondo non rimaneva alcuna operazione casuale nel film.”
Il duplice processo manipolazione/montaggio è sempre qualcosa di strettamente interconnesso.
Come vedremo tutto comincia dalla fissazione, che è già di per sé un processo manipolatorio, forse
il solo momento in cui la manipolazione non proietta il frammento nell’ossatura organizzativa.
Certamente non sarà una regola, ma nel nostro discorso riproduce la scelta della zona erogena che
precede l’organizzazione della totalità corporea di riferimento, replica l’introiezione del frammento
da cui sorgerà la figura dell’alterità materna, rappresenta la materia concreta da cui il linguaggio
sublimerà lo sfondo sessuale. [“La sessualità è un punto di riferimento non un fondamento” pag.26].
Brakhage sosteneva la genesi idiotossica della mitologia creativa poiché nella propria cultura la
chimica delle sostanze stupefacenti ed il malessere esistenziale non potevano concedere un livello
d’analisi più profondo del piano simbolico, ma ne siamo già al limite. Precisamente compie il passo
successivo allo sforzo surrealista di rappresentazione dell’inconscio attribuendo autonomia
esperienziale alla componente di mediazione cosicché l’inevitabile attività di linguaggio consista
dell’incisione di sensum sul materiale filmato. Egli però non riesce ad isolare del tutto il “figurale”
dal figurativo, poiché l’“esfoliazione” della referenzialità dall’immagine si scontra con una
referenzialità progettuale, cosicché l’evento visivo viene inibito dall’evento rappresentato che
risulta investito di un alone mitico per effetto decorativo del figurale stesso.
La pittura è un procedimento molto semplice per isolare la figura, sono possibili diversi
procedimenti d’isolamento, l’importante è che questi non costringano la figura all’immobilità.
Campiture, trame, e geometrie aleatorie sono tutti campi operativi: “E, così isolata, la Figura
diviene un’Immagine, un’Icona.” 1
Le rivendicazioni di un Ego straripante non possono che rivolgersi alle figure del mito: nascita,
sesso, morte e ricerca di Dio. Questo è Dog Star Man insieme al dogma “sputando sull’obiettivo
(…) si possono ottenere i primi stadi impressionistici”(pag.58).

1
Gilles Deleuze, Francio Bacon. Logique de la sensation, La Différence, Paris 1981 (trad.it.Francis Bacon. Logica
della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995, pag.9).

52
(pag.61) “Si speculi sulla visione degli insetti, come il senso del profumo che ha l’ape nella sua
percezione dell’ultravioletto. (…) l’uomo deve ereditare mondi di occhi”.
È così vicina la nostra ipotesi che ci commuove quasi il “si speculi” a fronte dell’eredità che
saremmo tenuti a destare, attraverso Bateson e le categorie abitudinarie frullate nell’arte.
Ma siamo ordinati…: (pag.63 e sgg.) “il montaggio è ancora nella sua infanzia di un due tre, e i
laboratori stanno solo essenzialmente sviluppando pellicola”. Questo è ora come allora ancora vero
con la differenza tecnologica del riversaggio, ma di un secondo stadio evolutivo del montaggio, che
il digitale rende necessario, sarà protagonista sostanziale il movimento: “il realismo totale
dell’immagine in movimento è irrealizzato, perciò potenziale, magia.” 1
…Tutto parte dalla visione, e per visione intendiamo ogni stato di coscienza in cui ci abbandoniamo
all’esperienza percettiva e non solo i processi fisiologici dell’occhio. Ma partiremo dalla visione,
come omaggio a Brakhage, e come ‘sguardo’ generalizzabile alla manipolazione del suono.
Dedicandoci al suono nel progetto più ampio di rivendicazione audiovisiva.
Fissazione.
Proviamo a dare nome a due nature opposte dell’esperienza visiva, (percettiva), [acustica]:
Visione Meditativa e Visione Ipnotica. Entrambe definizioni di una particolare forma di
“focalizzazione attentiva” in cui la facoltà cognitiva del sentire opera un monitoraggio del flusso di
stimoli che l’attenzione elaborerà in percetti. Un livello intermedio nella classificazione batesoniana
dell’apprendimento, situato con approssimazione tra il secondo ed il terzo stadio, che attesta lo
sforzo che dal livello abitudinario (Apprendimento2) muove verso le riorganizzazioni del carattere
(Apprendimento3) attraverso ‘manipolazioni’ più o meno inconsapevoli di se stessi.
Non a caso meditazione ed ipnosi riferiscono di una tecnica.
Sottoposto ad una non-concentrazione estrema l’organo di senso è capace di ritenere come
conoscenza le riflessioni tanto transitorie da non essere completamente strutturabili: le forme che
organizzano il flusso, gli eventi, non esistono, ma solo differenze di potenziale di una corrente
fenomenica, luce o suono, che è possibile vivere sotto forma di puro “presente”: con una ‘protesi’ in
registrazione, la fissazione è già compiuta e ritorneremo al simulacro in base a ciò che l’esperienza
ci ha sollecitato dentro: dinamica formale, associazione di idee, ricordi. Il fine meditativo è il puro
scolpire, continuo, logaritmico, senza dispersione o saturazione, permanentemente molle. Morbido.

1
Questa breve parentesi introduce argomenti che la nostra riflessione approfondirà autonomamente in seguito. Ma in
questo momento vogliamo sottolineare il fatto che lo stesso Brakhage già allora sentiva la necessità di puntualizzare la
sua completa idiosincrasia con la comune concezione del lavoro compositivo pertinente le tecniche di assemblaggio. E,
benché sino ad ora sia stato possibile parlare di visione esclusivamente, nel nostro lavoro è un punto cruciale che risulti
opportuno implementare piattaforme di lavoro in cui audio e video possano sfruttare le stesse potenzialità di
elaborazione, mentre al momento la progettazione dei software è decisamente sbilanciata sulla componente video per i
detriti culturali di cui stiamo parlando.
I corsivi del testo sono nostri e vengono letti come critica alla logica consequenziale della giunzione (“un due tre”), e
come auspicata manifestazione della natura precipua dell’esperienza cinematica (“il realismo totale”).

53
Vi è poi una visione raggiunta attraverso procedimenti di coscienza opposti, relativi ad una
chiarezza iper-focale e una spazialità indefinita. “Ci si avvicina qui all’auto-ipnosi attraverso una
fissità, piuttosto che una facilità del fissare. Un’attenzione volontaria, forzata oltre la capacità
naturale in funzione della ricezione mentale, produce possibilità aperte meno dominate dalla
memoria di quando uno si spersonalizza”(pag.75).
La netta opposizione tra i due atteggiamenti nell’atto del fissare svanisce se pensiamo al medium
come al mezzo fagocitante, ed al movimento dell’assimilazione, o la registrazione, come
all’universo su cui dovremo intervenire per «esprimere» l’intenzionalità per cui abbiamo voluto
interferire col flusso, ciò che intendiamo «suscitare» attraverso manipolazioni e montaggio.
L’alternanza dei due orientamenti è un meccanismo di senso audiovisivo, quando l’organizzazione
del flusso consente un rilassamento meditativo in un canale, l’altro avrà modo di stimolare il
trascinamento dell’organo e tutto il ‘fuoco’ della percezione vigile.
Questo processo potrebbe definirsi “oggettività” o piuttosto «oggettivazione», poichè tutti i nervi
coinvolti restano tesi, volti a rifinire l’oggetto attraverso un’incisione, e solitamente, lo spazio fuori
fuoco comincia ad ovattarsi, ad ondulare, come effetto di campo ricettivo non analizzabile.
Viceversa meditando si impara a lasciar essere, a far convivere gli stimoli, a piazzarsi su più livelli
una volta che il piano d’astrazione ha allentato la sua morsa. L’audiovisione concreta è
modulazione interconnessa di atteggiamenti percettivi, e loro reciproca aderenza sin(es)tetica.
Tutta la sperimentazione, con cui impropriamente viene indicata la personale libertà di espressione,
ha avuto bisogno di liberarsi dalla dipendenza del rappresentato attraverso l’improvvisazione
(“azione inter-azione di movimento di struttura”pag.91). E tutta la tematica del “ritmo”, del
movimento ‘forzato’ con cui si orientano le sensazioni e gli accoppiamenti di risonanza della
modulazione di forze elementari, definisce un “luogo dell’arte” diverso dalla comune ‘accettazione’
del termine che rende critica la distinzione con quella che ancora oggi viene definita “ricerca”, ma
che da tempo manifesta i vari sintomi di un’asfissia crescente. Manipolazione è il rapporto tra
un’intenzione di partenza e tutta una serie, o tutto un insieme, d’arrivo, non è una trasformazione
libera, ma una deformazione precisa, altrimenti qualsiasi punto di partenza varrebbe la stessa
possibilità al processo. Anche qui interviene la ‘legge’ del diagramma, ma come tecnica di
modulazione. Se nella diegèsi di senso il diagramma forniva una descrizione strategica del
movimento complessivo di “sintomi” dell’insieme di forze in azione (vedi senso & sensazione), nel
processo che abbiamo paragonato alla stimolazione seguente la scelta di una zona erogena, gli
‘oggetti’ deformati dall’azione manipolatoria fungono da “luoghi” alle forze informali del
diagramma generale di senso. Ma ricordiamoci che la natura di questi oggetti sarà sempre e solo
immateriale, in quanto ombra di una specifica manifestazione fenomenica. Impronta.

54
John Cage nel testo di Brakhage viene citato a caso (pag.144), ci siamo soffermati sull’affermazione
che dice “le relazioni di cose che accadono allo stesso momento è spontanea ed irreprimibile”,
siamo caduti nella trappola cageana del senso aleatorio come chiunque abbia realmente amato
quest’uomo, poi si legge “fermarsi e trovarne una soluzione prende tempo” ma l’abbiamo
considerato solo dopo aver riletto il libro per circoscrivere le citazioni, e in ultimo abbiamo
localizzato soltanto ciò che si annovera tra le nostre premesse piuttosto che infine “lo scopo più alto
è di non averne alcuno”. Nella nostra traduzione la dicitura è differente e proprio riguarda il nostro
lavoro: “E qual è lo scopo di scrivere musica? Un primo scopo, naturalmente, è non aver nessuno
scopo, ma occuparsi dei suoni.” 1
In ogni istante, in luogo di ovunque, deve esser forte questa dimensione del prendere, del ghermire
le cose, ma senza opprimere, stiamo metabolizzando la (nostra?) vita. Ciò che ci circonda per la
maggior parte è rumore “quando lo vogliamo ignorare ci disturba; quando lo stiamo ad ascoltare
troviamo che ci affascina” 2 , il termine musica viene sostituito con «organizzazione del suono».
Ascoltare come vedere deve potersi risolvere in niente, nessuna significazione, nessuna pazienza.
Siamo d’accordo con l’intenzione di amare ciò che si sta facendo, mentre si ascolta o si osserva, ma
non riusciamo a credere che la nostra epoca sia ancora disposta a non approfittare dei contemplatori,
benché tanta cultura sia stia evolvendo in due direzioni contrapposte, da un lato le scelte “materiali”
e la massa, dall’altro la vita dell’individuo e la speculazione. Nessuno ha creduto opportuno
concentrarsi sulla materia dell’io, mentre la massificazione dell’individuale continua a rovinarci
addosso.
Non ci prolungheremo più a lungo sulle responsabilità sociali che il nostro operare ha deciso di
assumersi, ma giunti al momento in cui la videocamera o il microfono sono nelle nostre mani o
piazzati per ridurre il caos a dei rumori e di essi conservare gli effetti sui nostri mezzi siamo
costretti a porci due domande, la fatidica “cosa è che voglio?” e la meno immediata “cos’è che
posso fare?”, necessità del prendere e responsabilità nel restituire, insieme “bisogno” d’intervenire.
Chiunque potrebbe voler indignarsi, ma non ne potremo mai uscire. Ciascuno avrebbe dei ricordi da
coinvolgere eppure memoria è già il nostro pensare, fare le cose, distinguerle, magari registrandole.
Crediamo che allora potremmo attestarci sul limite, quel famoso orizzonte che si offre a tutte le
nuove esperienze, il citato confine di sapere e ignoranza per avere qualcosa da dire, poniamoci in
ombra o in piena luce, voyeurs esibizionisti, ma privi di schemi mentali. Poiché lo stesso affrontare
le “cose” sarà pregno del più profondo atteggiamento che ci distingue e riesumando le forme
desunte avremo scoperto come funziona l’occhio, l’orecchio e in primo luogo resteremo inebriati
dall’incomprensibile fenomeno che abbiamo fissato.
1
John Cage, Silenzio, Feltrinelli Editore, Torino 1971. Pag.31 da Il futuro della musica: credo.
2
ibid.p.24.

55
Parliamo della nostra esperienza “in concreto”. Siamo partiti dalla “musica concreta”.
Contraddittoriamente in essa non è il rumore che interviene nell’ambito creativo, non sono i suoni
ambientali ad essere oggetto d’interesse, non si compone con i rumori come molti ancora credono.
La sintesi programmatica di questa estetica è geneticamente concettuale. Teoricamente ogni essere
in natura ha una sua vita sonora informale, l’insieme di collisioni e accidenti che interferiscono con
la vibrazione primordiale della materia. Quindi la nostra percezione degli eventi sonori, le giunzioni
tra gli accidenti che opera la nostra coscienza, è già in origine un lavoro di composizione.
L’esperienza estetica è un esecuzione di default tra i sensi e il cervello, siamo noi che “evolviamo”
la nostra dipartita dagli organi di senso, facendo decollare la mente al di sopra del mondo, e
obbligandola a definire contorni e localizzare fonti.
Ci si è chiesti allora il motivo della supremazia dello “strumento musicale” nel mondo dell’armonia
tra le relazioni. In un mondo in cui la cultura si organizza in settori di specializzazione, l’esperienza
estetica è la sola a realizzare l’integrità biologica dell’uomo, con i propri specialisti. Questi ‘dottori’
hanno i propri strumenti di lavoro e le rispettive istruzioni di utilizzo. I mezzi tecnici non possono
essere altri da quelli costituiscono la tecnologia del tempo, la ricerca deve solo verificare che la
trasformazione storica dell’esperienza estetica venga realizzata dall’attuale apparato tecnologico.
L’artista non progetta le trasformazioni della realtà che lo circonda ma la propria esperienza della
realtà, la propria facoltà mentale o attitudine: “È senza dubbio possibile considerare i processi della
visione, intesa come immaginazione e percezione, alla stregua di processi progettuali, design: non
però progettuali di oggetti bensì di quegli schemi di riorganizzazione dell’esperienza visuale, che
sono a monte di qualsiasi progettazione di oggetti.” 1 “Dobbiamo” allora “rinunciare totalmente agli
strumenti e abituarci a lavorare con gli utensili, in modo cioè che non lascino tracce. Ed è
precisamente quello che sono i nostri registratori a nastro, amplificatori, microfoni, altoparlanti,
cellule fotoelettriche, ecc.: cose da usare che non determinano necessariamente la natura di quello
che si fa.” 2 Progetteremo la nostra esperienza, raccoglieremo colori e suoni senza nessuna finalità o
passione timbrica, ciò che muoverà la nostra attenzione “fissativa” sarà ciò di cui avremo bisogno
se la nostra “emozionalità” ci guida e non un impellente bisogno economico, “coloro che oggi
stanno scoprendo cosa potrà essere quell’arte, devono imparare ad accettare disinteresse e insulti.
(…) Devono imparare ad usare i mezzi meno costosi di cui dispongono, (…) e a formalizzare la
propria espressione nel film curando di costruire la loro forma d’arte dal film stesso,” 3 ed ecco la
nostra tesi. Cioè la nostra proposta e forse noi stessi per come crediamo fruibile la nostra esistenza.

1
Dalla Prefazione di Giulio Carlo Argan a: Laszlo Moholy-Nagy, Pittura, Fotografia, Film, Martano Editore, Torino
1975.
2
John Cage, op.cit.p.112.
3
Stan Brakhage, op.cit.p.92.

56
Ecco dove andremo a finire unendo la musica ai colori - John Cage e Moholy Nagy - cogliendo
relazioni fra di loro che non possono liberare altro che nuove ipotesi alle nostre ipotesi: nel
“film_audiovisivo” che solo Brakhage ha saputo liberare dal supporto e dal sincronismo sonoro.
Predisponendoci al digitale.
Che uso ne avremmo potuto fare degli attrezzi e dei supporti di registrazione se la Loro ostinazione
non fosse giunta a meritarsi la codifica universale dell’esperienza. Certo, la tecnica analogica ha
dovuto superarsi per potere riaffermare il buio ed il silenzio, da tutto questo però partiamo.
Microfonando ogni distanza e ri-manipolando ogni impressione. Non è solo filmabile ogni
frammento di mondo riflesso dalla luce, ma pure ogni emissione di luce stessa, da una semplice
lampadina ad ogni televisore. Non sarà determinante l’intera gamma della timbrica del materiale,
ma pure le rifrazioni dell’ambiente in cui il suo suono si manifesta.
Per poi continuare la manipolazione.
Il software Spectron della M-Audio 1 consente di intervenire con una serie di effetti su selezionate
bande di frequenza mentre una volta si doveva duplicare il suono ed “effettare” l’alias dopo avere
eliminate le altre. Una videocamera digitale consente di filmare un vecchio proiettore 8mm mentre
sta “bruciando” una pellicola scaduta e la proiezione su un tessuto nero evidenzia le strisce di fumo
che attraversano gli squarci di luce prodotti. Non è “sperimentale”. È sapere che i conseguenti
effluvi sono cancerogeni e a nulla sarà valsa la pena se nel montaggio sovrimporremo una bambina
che balla a piedi scalzi su un tappetino nero, vista dall’alto, celebrando la pedofilia. Ognuno ha il
dovere di esprimersi, il diritto se lo sono presi in troppi. Sentiremo il bisogno di musicare l’intera
sequenza con l’audio rubato per gioco ad un amplesso con quella ragazza che ci ha lasciato con il
cuore in mano. E ci sembrerà bellissimo, perché è vero. Anche se non lo faremo vedere a nessuno.
Così continua la nostra esistenza e un nostro ricordo è stato strappato all’odio. Ma potremo
nasconderci dietro un mandorlo in autunno e giocare ad estirpare i frammenti secchi dal suo tronco
mentre un microfono registra il crepitio prodotto e montare in sequenza le foto di un rudere in cui il
pavimento caduto ha lasciato sospesi un cesso e una giara di terracotta irraggiungibile, aggiungervi
l’audio di una canzone cantata in un’altra stanza da una persona che amiamo e poi lavorare di lima,
per modulare la sensazione che questi accoppiamenti ci suscitano, e renderci conto che il tutto è
banale e se funziona è perché siamo di nuovo riempiti di parole. È così che riusciamo a sentirci
crescere, giocando con i solchi immateriali che l’evoluzione nell’immateriale ha reso importanti.
Ma le nuove esperienze?
Gli esempi appena addotti non sono precisamente ciò di cui vorremmo parlare, sempre che
‘parlarne’ sia lecito o quantomeno possibile, visto che il nostro obiettivo in questa sede è di

1
http://www.m-audio.com/products/en_us/iZotopeSpectron-main.html.

57
sviscerare le pulsioni inconsce che modulano lo stesso discorso e alimentano gli sforzi linguistici
nel momento in cui proprio il linguaggio deve superarsi. Dovremmo poter distinguere infatti,
proprio in base agli esempi sopraccitati, qual è la differenza tra un concetto audiovisivo e il nostro
‘concetto’ dell’audiovisivo: i due esempi parlano di due o più testi indipendenti uno visivo e gli altri
sonori, semplicemente giustapposti, in una scommessa di senso che poco a che fare con la pre-
meditazione ma che punta più sulla virtù della natura umana di cogliere le relazioni. Scimmiotta un
processo di pensiero laterale per giunta compiaciuto dalla valenza autobiografica del materiale
scelto. Qualcuno potrebbe aver pensato a questo tipo creatività quando parlavamo di inconscio e
linguaggio e ci serviamo dell’occasione per avanzare una distinzione in specie nel linguaggio
audiovisivo: il senso espresso in una sequenza visiva e sonora relativamente stabile, non per forza
immobile, ma ridondante senza sviluppi in entrambi i canali, equivale alla formulazione di un
concetto audiovisivo. Tra pensiero e parole non c’è un rapporto immediato, ma solamente
necessario in funzione dell’evoluzione e crescita dell’uomo. Così un pensiero linguistico, cioè un
concetto, può scegliere di piegarsi nella logica consequenziale della parola, come di rimanere allo
stato di pura emanazione attraverso il simbolo, oppure di trovare espressione nel territorio dei sensi
e attribuirsi l’impropria definizione di «concettuale» in una logica di rappresentazione.
Il movimento parte dall’alto, dalle maglie del linguaggio e si traduce, neanche si propaga,
codificandosi all’inverso. Proiettati in una scala evolutiva dell’audiovisione neanche dovremmo
poter comprendere un simile comportamento estetico se il nostro universo fisico non si fosse già
configurato percettivamente all’apparato protetico degli organi di senso. Il linguaggio, lo sappiamo,
è sempre acquisito, e non trascende l’esperienza dell’uomo. Non possiamo credere che la
speculazione razionale risolva l’impasse di linguaggio tra un’audiovisione ‘pilotata’ dall’alto e la
potenza grezza di un’audiovisione primitiva. La ripresa è l’unica esperienza ‘diretta’.
Cerchiamo quanti modi trova il linguaggio per estendere i confini della mente verso l’esterno,
includiamoci la sintesi sonora, quella grafica…soprattutto quella grafica: se pensiamo alle
produzioni in grafica digitale, oggi tridimensionale, sappiamo che mai e poi mai potrà generarsi una
materia visiva autonoma del mezzo informatico finché l’impulso creativo partirà dall’alto, perchè
linguaggio è la stessa organizzazione del processo. Nella sintesi sonora il modello analogico ha
indirizzato da subito la progettazione dei software verso la riproduzione del processo fisico
dell’oscillazione. La luce invece non ha mai goduto di una formalizzazione astratta della sua natura
o di una compositività indipendente dal suono, se non dal secolo scorso con Scrjabin e il suo organo
luminoso 1 .

1
Nel 1916 alla prima mondiale del suo Prometeo, ma in realtà stiamo enumerando nuovamente esempi audiovisivi,
infatti a rigore già dai tempi di Newton e del suo discepolo padre Castel erano stati condotti esperimenti di
progettazione di una specie di “pianoforte luminoso”. Cfr.Pittura, fotografia, film, p.93. In L.Moholy-Nagy, op.cit.

58
In seguito tutta una scuola di compositori si è sforzata di attribuire alla luce una propria possibilità
astratta, dal Clavilux di Thomas Wilfred, una specie di lanterna magica con la quale venivano
proiettate variazioni di immagini non oggettuali continuamente mutevoli, agli sforzi di Walter
Ruttmann e Viking Eggeling grazie ai quali la problematica estetica segue una precisa formulazione
scientifica nell’ambito cinematografico. Così fino ai giorni nostri attraverso gli anni Sessanta e la
scuola californiana di Jordan Belson e dei fratelli Whitney, grazie ai quali la luce esibisce la
massima potenza nella manipolazione ottica delle lenti per poi arrivare al dominio informatico (ed
annientarsi).
Come già all’origine del cinema, nel momento di massimo potenziale inespresso, la soluzione la
offre il mercato attraverso le logiche d’intrattenimento nel racconto e così la grafica digitale si volge
alla progettazione di mondi artefatti a misura del mondo in cui viviamo, e tutto muore lì sul colpo.
Ovviamente non è possibile pensare che la natura della visione possa trovare libera espressione
nell’uso di massa delle nuove tecnologie: provando a mettere in mano una videocamera a nostra
sorella lo strumento cortocircuiterà nell’autoreferenzialità di consumo. Ma vale la pena ritentare
l’esperienza delle avanguardie astratte senza sviluppare un codice, impedendo alla nostra facoltà
linguistica di orientare la manipolazione della luce nel momento in cui fissiamo l’esperienza,
attraverso una libera strutturazione del contesto e dell’atteggiamento ricettivo: in pratica dovremmo
maturare una nostra strategia delle possibili esperienze, attribuendo al “nuovo” massima attenzione,
solo così potremo sperimentare come reagisce il medium al proprio universo, filtrando ogni
sviluppo cognitivo attraverso la sua prospettiva, senza pregiudizi, e senza pregiudicarne l’esito
mediante qualsiasi partecipazione mentale. Tanto vi ritorneremo con il massimo proposito
analizzante, sviscerando le riprese e intenzionati a sfruttarle, seguendo la mentalità dell’impiego che
per Heiddeger è la nostra possibilità di partecipazione all’essere nell’epoca contemporanea. 1
Così possiamo comprendere l’ossessione di Stan Brakhage e di Bill Viola, la loro estrema
determinazione a riprendere ogni momento importante della loro vita, il parto della moglie, la morte
della madre, il loro proprio sacrificio in quella cultura dell’esibizione che fa dell’America il più
difficile ostacolo all’umiltà con cui al giorno d’oggi dovremmo gestire il continuo scambio tra le
culture del mondo.
Oggi l’idea dell’opera d’arte non è inevitabilmente ed imprescindibilmente associata alla
produzione manuale dell’opera stessa. In confronto al processo mentale della creazione l’esecuzione
materiale è importante solo nella misura in cui deve essere dominata fin nei minimi dettagli. 2

1
Cfr. Martin Heiddeger, Filosofia e cibernetica, Edizioni ETS, Pisa 1988.
2
Non era di quest’avviso, quasi un secolo fa, Moholy-Nagy da cui riprendiamo questa formulazione, con l’aggiunta
della semplice negazione, volendo sottolineare come sia forse un’esigenza di questi tempi la restaurazione del contatto
tra uomo e ambiente a seguito dell’intensificarsi dell’industrializzazione e dei processi di smaterializzazione della vita
ordinaria. Cfr.Moholy-Nagy op.cit.p.98.

59
L’arte come espressione di esperienze psichiche soggettive ha perso il suo significato, essa soddisfa
le esigenze obiettive della nostra epoca, l’inconscio globale. Moholy-Nagy, le sue predizioni si sono
avverate. Ma nel nostro oggi l’arte potrebbe ridare senso alla soggettività dell’individuo, non per un
ciclico titanismo d’inizio secolo, ma come sconfinamento del campo artistico nella democrazia
tecnologica, e primordiale ristrutturazione del sapere nell’irruzione belva della pulsione audiovisiva,
l’universo inconscio che più incarniamo.
Chissà quanti tra noi, cresciuti di fronte ad uno schermo, si riconoscono predisposti ad uno
sconvolgimento visivo e sonoro che lascia dei solchi senza ripercussioni nella propria coscienza.
Pensiamo al terrorismo audiovisivo dei Granular Synthesis, agli esperimenti subliminali e
abituiamoci all’idea che il nostro pensiero si è evoluto su molteplici piani della comunicazione,
sull’emissione a più livelli e una conseguente ricezione, passiva, di un contenuto non sviluppato
dall’attenzione. Non necessariamente per finalità occulte, ma perché non educati alla decodifica
della comunicazione di massa.
Allora potremmo pensare ad esperimenti quali la presente tesi come studi sociologici aventi propri
terreni sperimentali, in primis destinazioni esotiche come il Giappone dove la molecola sociale può
abbandonarsi alla contemplazione di un paesaggio visivo trasmesso in un maxi-schermo agli angoli
di un grattacielo qualunque.
In secondo luogo lo stesso progetto dovrebbe proporre un proprio esercizio pedagogico in qualche
laboratorio di secondo livello di qualche corso di teorie e tecniche dei nuovi media per futuri
educatori scolastici laddove, burocrazie permettendo, ci si rendesse conto che è attraverso i processi
di restituzione all’esterno che ci impadroniamo degli oggetti che crediamo necessari alla nostra
sopravvivenza - dalla digestione alla trasmissione delle informazioni – e che ogni nostra
convinzione deve essere messa alla prova per non prestare fede ad occhi ed orecchi altrui in un
mondo la cui immagine viene plasmata dall’esperienza trasmessa.
In ultimo vorremmo pensare a questo lavoro come a una resa dei conti e come tappa iniziale di un
modello estetico che vada sfracellandosi nelle varie collisioni con il reale organico dopo la
prolungata paralisi nel super-io linguistico, avendo deciso ora di ritornare a braccia aperte ma con
tutto il respiro teorico ad uno stato di grazia pre-natale.
È dura. Innanzitutto avremmo bisogno di un proiettore sempre acceso e di un impianto sonoro dove
verificare ogni passo che la manipolazione compie nell’organizzazione dell’eccesso. Un eccesso
che produca la surrealtà documentaria sinora suggerita.
Bisogna avere vissuto in una specie di esistenzialismo microfonico e non serve alcuna gavetta.
Bisogna avere amato suoni d’ambiente come brani musicali ed essere predisposti al missaggio.
Per la camera è lo stesso, ma è più difficile aggirare gli schemi mentali.

60
La nostra cultura ci costringe ad affrontare come problemi separati le rispettive esigenze dei due
canali, uditivo e visivo, quando potremmo argomentare il flusso e non separarli.
Cosa vogliamo dire, ecco…: benché non abituati ad invertirne le finalità la nostra predisposizione
tecnologica nei confronti della natura impiegabile del suono ci consente una comoda versatilità
nell’uso di svariate tecniche di registrazione microfonica e una discreta dimestichezza con l’utilizzo
delle fonti sonore da noi raccolte. Questo è dovuto alla costante subordinazione sonora al testo
visivo e la già biasimata condizione di appendice decorativa. Al flusso sonoro è sempre stato
lasciato poco spazio per ritagliare una propria possibilità d’immagine. E questa umile condizione
rende plausibile ogni rivendicazione fatta per restaurare ogni sua virtù rappresentativa,
paesaggistica, spazializzante, non è un caso che in inglese con il termine ‘imaging’, negli studi di
produzione musicale, s’intenda la dislocazione spaziale delle fonti e la risultante dinamica di uno
spazio sonoro.
Nella vista viceversa si sono sempre giocati i momenti migliori da ricordare, gli eventi da celebrare,
le cose care. La sonografia non è un hobby tanto accreditato quanto il corrispettivo visuale.
Ma questo non significa che alcune culture non si strutturino in proprie categorie spazio-temporali
basate sugli indicatori acustici. 1
La distanza prospettica è una problematica comune tanto alla vista quanto al suono perché riguarda
solo un dispositivo mentale. Quindi le stesse distinzioni per le inquadrature tra «campi lunghi»,
«campi medi», e «primi piani», riguardano tanto la ripresa visiva quanto la distanza del microfono
dal “soggetto”. Gli stessi strumenti di registrazione sonora vengono calibrati in base all’«angolo di
ripresa» con cui si prevede la migliore risposta dello strumento all’utensile da fissare.
Perché allora la formalizzazione musicale non ha un corrispettivo visivo astratto?
Le avanguardie storiche del cinema astratto hanno provato ad accompagnare visivamente la musica,
ma in quel caso si verificava una forma di dipendenza capovolta MUSICA>RITMO VISUALE.

1
Cfr. Steven Feld, Sound and Sentiment.Birds, Weepings, Poetics, and Song in Kaluli Expression, University of
Pennsylvania Press, 1982.

61
Ancora oggi dobbiamo fare i conti con un pensiero visivo avulso dalle percezioni, immaginare con
disinvoltura colori e forme come immaginiamo motivi musicali. Audiovisivamente il cammino
verso la musica visuale procede in senso contrario alla scultura dei suoni.
E tuttavia rischiare di fissare un codice con cui articolare uno spazio di movimento non è stata
sinora la soluzione ad un’immaginazione visiva troppo ancorata alle percezioni ordinarie.
Psichedelia, Mandala, immagini ipnagogiche, parlano di questa esigenza estetica di estasi visiva.
Che potrebbe raggiungersi progressivamente, seguendo un movimento ascensionale e culminante
attraverso climax audiovisivi. Ma si potrebbe anche dosare la modulazione delle distanze e dei
riavvicinamenti alle parvenze d’oggetto che i simulacri sonori e visivi rendono percorribili,
attraverso una proporzione tra deformazione espressiva e figurazione designabile.
Cosicché un intera gamma astratto/concreto venga sfruttata.
La distanza e la durata sono parametri di una manipolazione “primaria” che la natura costitutiva
della stessa fissazione comporta inevitabilmente.
La sola mappatura del territorio che non interviene a modificarlo è la modellizzazione astratta, ogni
tecnologia che conservi la manifestazione di un fenomeno non descrive alcunché, solca il terreno di
un altro territorio ad immagine del primo, ripercorribile in altri sensi, indipendente dall’origine.
Passeggiare con una videocamera è una nuova esperienza se solo saremo disposti ad intervenire
sulla materia fissata, perché la nostra esperienza avverrà nel momento in cui riprodurremo
(playback) la registrazione, fino ad allora l’esperienza è stata della macchina e di nessun altro. Noi
siamo solo esecutori in mani allo strumento. Vi sono in realtà tutta una serie di abilità che
apprendiamo con la pratica in funzione di precisi effetti che vogliamo riottenere, una volta scolpito
un senso, per caso o per ostinazione. Ma la nostra cognizione interviene al momento del riascolto
come secondo intervento manipolatorio, nel momento in cui scopriamo, ritroviamo, svisceriamo
dalle riprese il frammento che ci solletica, ci punzecchia o ci ferisce, nel momento in cui lo
rendiamo particella assemblabile di un linguaggio non ancora sviluppato.
Questo è il momento in cui riceviamo lo stimolo e possiamo essere disposti a lasciarlo agire sul
nostro corpo, ma un fattore è evidente: più lungo è il frammento più la nostra semiosi viene
sollecitata nell’evocazione di un concetto soprattutto se la distanza di fissazione è su scale molto
estese simili alle panoramiche.
Pensiamoci un attimo: una dinamica vista dall’alto o microfonata da un balcone non registrerà una
escursione di segnale tale da rendere rilevante una fonte precisa, ma comprimerà l’azione a livello
dell’aneddoto come una svogliata trascrizione di un accaduto.
Nel caso in cui avremo scelto una sequenza saremo capaci di liberare eventi all’interno di essa?

1
Frames catturati dalla composizione visiva astratta Motion Paintings di Oskar Fischinger del 1947.

62
Il procedimento riguarda gli esempi descritti in precedenza sulla sovrapposizione di più livelli di
sequenze visive o sonore: è come se ci trovassimo in un immagine già carpita e ne stessimo
esplorando il ricordo.
Niente a che vedere con i “rotoli” brakhageani che sono lunghi collage di pellicola assemblati con
minuzioso sviluppo del senso sintagmatico, aleatori solo nel paradigma decorativo sovrimpresso.
La nostra immagine dobbiamo ancora concepirla, siamo in stato di “corpo in frammenti”, e ora
dobbiamo organizzare quella totalità corporea audiovisiva che avremo evirato al nostro
immaginario. Il lavoro artistico così inteso è un ripetuto sprofondamento di linguaggio, con uno
sviluppo e una maturazione, ed uno stadio iniziale d’imperturbabile vocazione allo stupore.
All’iniziale ridiscesa negli abissi corporei dei sensi è necessaria un’obbligata gestazione in cui la
materia fisica desidera un universo psico-simbolico dando vita ad un immaginario di riferimento.
Senza questa proiezione viscerale il lavoro rischia d’essere un fantasma, assemblaggio incoerente.
Qualora avessimo deciso di mettere da parte il lavoro sulle sequenze e avremo scelto di attenerci
alla pratica del frammento, almeno in questo momento, l’ultima decisione da prendere su questa
manipolazione “a priori” riguarda la modalità della fissazione. Le attrezzature audio consentono
spesso una opzione di registrazione over dubbing con cui sovrimprimiamo senza controllo i segnali.
Aldilà di questa curiosa caratteristica dell’esperienza affidata alla macchina, non senza rischi, e tutti
rinviati alla manipolazione “da tavolo” (in studio o in sede comunque diversa dal contesto in cui è
avvenuta la registrazione), tutti i supporti consentono una prima giunzione dei frammenti portatrice
di senso aleatorio se muta di continuo la sorgente dello stimolo. Ovviamente una solida struttura
dell’immaginario da comporre non consentirà eccezioni ad una logica di relazione ingiustificata e
siamo convinti che esperimenti in tal senso lascino trasparire una esiguità, non di contenuti (non ci
interessano), ma di consistenza.
Un’immagine a cui ci identifichiamo ed in cui siamo immersi nel fare qualcosa conserva dei tratti
generali che appartengono ad ogni concetto che sviluppi l’idea in questione. Così, per esempio,
l’immersione subacquea stimola tutta una sensibilità visiva che chiama in causa le rifrazioni della
luce e non per forza il ritmo respiratorio del sub-operatore. La nostra cultura documentaria non si è
mai spinta oltre una soglia di creatività per un finanziario timore di perdita di pubblico. Ma le
tecnologie di largo consumo ci vengono offerte con una reason why dell’acquisto che esalta il
nuovo in quanto esperienza con finalità prettamente ludiche, perché non dovremmo giocare con i
compleanni, con le gite all’estero, o con i propri rimorsi ambientali?
Il pensiero associativo stimola la rielaborazione dei concetti che prepara il terreno alla sovversione
degli schemi mentali ed è chiaro il motivo per cui una porzione variabile dei materiali di partenza
non può appartenere alla nostra intenzione cosciente.

63
Found footage, registrazioni radio, materiali scoperti per caso, debbono integrare la nostra
audiovisione ed interporsi nella dinamica del movimento creato, spiazzando quanto il fermento di
suggestioni suscitato al momento del loro incontro. Da parte nostra tutta l’esperienza “incosciente”
che intercorre dall’assunzione di sostanze ‘ponte’ alla meditazione avanzata, o spinta. Ma non
stiamo parlando di “droghe”, né esaltando una specie di trance solitaria che non ha senso. Stiamo
predisponendo il nostro corpo alla ricezione di uno stimolo, amplificato dallo strumento e non da
qualche composizione chimica: il semplice digiuno capovolge la nostra sensibilità alle vibrazioni,
costringe i nostri nervi a raddrizzarsi come antenne, mentre una giusta respirazione consente al
muscolo di non esasperare la contrazione, e il nostro corpo è così libero d’assecondare gli eventi.
Per ‘sostanze’ intendiamo le inalazioni di profumi o l’assunzione di cibi e bevande ad alto
contenuto energetico e giusto grado di ‘tossicità epatica’. La sostanza per un organo di senso non è
l’oggetto in sé, ma la qualità che riusciamo a percepirne, e mettere in relazione più stimoli sensoriali
è un vero e proprio training di pensiero laterale.
La definitiva conoscenza del proprio corpo è la vera e propria conoscenza di sé, ed una
manipolazione ‘subita’ in fase di registrazione è una prima estensione di tale conoscenza attraverso
i media corporei.
Avendo chiara la proiezione del Nostro immaginario in un ambiente Proprio, la catena del
riferimento ideale potrebbe seguire tale evoluzione: INCONSCIO>IMMAGINARIO>CONTESTO;
mentre quella esperienziale capovolgersi e dal contesto guidare l’alterità che agisce in noi, o che
assecondiamo, dal paesaggio verso il nostro io più profondo.
Così, mettendo da parte considerazioni estetiche, vorremmo provare a descrivere un esperimento
del genere senza intaccare l’intento di essere fedeli ad una imperturbabilità teorica cercando di
forzare la trama del linguaggio e senza abbandonare ‘l’abbandonare’ con cui si starebbe cercando
d’oltrepassarlo.
Abbiamo pensato di trascrivere il flusso di coscienza “nutrito” durante una ripresa microfonica che
stiamo programmando in questa sede (da svolgere di sera, in una camera isolata dagli eventi del
contesto in cui ha luogo, e con l’aiuto di un minidisc ed un microfono di commento off-stage)
consapevoli che un tale atteggiamento ci allontana dalla possibilità di materializzare il “puro
qualcosa”, l’evento, a rischio di trasformarsi nella sola pretesa di comunicare il mero specchiarsi.
Tuttavia noi siamo l’esperimento di noi stessi e non sta a noi giudicare ma al resto, stiamo solo
provando a cambiare registro ogni qual volta vacilla la nostra risoluta ostinazione a non sentirsi mai
sicuri ma soprattutto a farlo quando la stessa insicurezza non è più la certezza ma un alibi trascorso
trascurando lo scorrere del tempo, chiediamo, quindi, venia a noi stessi.

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Attrezzatura:

• Microfono a condensatore con grande membrana modello AKG C 4000b in posizione


omnidirezionale per riprese in ambienti.

• Mixer di preamplificazione modello Behringer Eurorack MX 602A per modellare


l’equalizzazione del segnale in ingresso e variare la percentuale di rumore.

• Scheda audio esterna per convertire il segnale analogico in digitale modello M-Audio Duo.

• Computer di casa modello decisamente trascurabile la cui funzione è solo di registrazione


con un software di editing audio qualsiasi. In alternativa, nel caso in cui avremmo stabilito
una fonte sonora univoca, il campionamento del segnale potrebbe avvenire attraverso una
workstation musicale come il modello Korg Triton, la quale per sua diretta performatività
consente un approccio alla manipolazione secondaria1 meno formalizzato.

• Cuffie monitor di controllo modello AKG K141.

• Minidisc Sony e microfono Shure SM58 per documentazione.

p.s. La presente lista non ha alcuna finalità interna se non quella d’evidenziare la volontà di
trascurare una minuziosa apprensione verso la “qualità” tecnologica. Tutti gli strumenti sopra
elencati appartengono rigorosamente alla fascia di categoria amatoriale ad ovvia eccezione
della scelta microfonica e della contingenza strumentale di una workstation.

Descrizione e commento:
Il primo tentativo di questo esperimento, che altro non è se non una descrizione speculata di ciò
che faccio ogni qualvolta ho avuto bisogno di assecondare il trasporto dei sensi mediante un
ascolto amplificato, è stato condotto un sabato sera, in casa dei miei genitori, a notte fonda. A
quell’ora il traffico notturno si è già rarefatto, e nel nostro giardino si avvicendano suoni di insetti
a voci di animali domestici, pochi cani, spesso gatti sotto forma di “ombre” sonore, movimenti.
Nelle vicinanze gli edifici sono piccole palazzine da cui troppo spesso non si hanno cenni di vita, a
mio avviso lo scenario è il setting ideale di una psicopatia omicida (ma nel sud Italia queste cose
non succedono di frequente), sarà forse l’atmosfera borghese che si respira nei dintorni.

La prima cosa che appare è la cornice del contesto in cui si sta operando, viene assunta un’ottica, si
entra nello spirito delle aspettative che si nutrono dall’ambiente. L’ostacolo principale in questa fase
sono i preparativi, e benché le tecnologie si evolvano verso lo snellimento dei macchinari, il nostro
“apparato” per forza di cose sarà già pronto, a prescindere che si sia deciso di trascorrere il tempo
libero in questa maniera o che si sia talmente sfaccendati da aver sviluppato una forma di benessere
esasperando la sensibilità. La necessità interiore che muove tale prassi resta un punto enigmatico
che genera rimostranze ogni qualvolta facciamo il tentativo di darvi una spiegazione.

1
Per manipolazione secondaria intendiamo tutte le operazioni eseguibili sul materiale già fissato, sul simulacro,
mentre manipolazione primaria ha già definito l’insieme di scelte che precedono tale momento.

65
Una seconda sessione notturna ha seguito di due giorni la precedente, la dislocazione del
microfono è stata cambiata: dalla finestra che da sul giardinetto in cucina alla soglia della stanza
caldaia, luogo di passaggio per raggiungere lo spazio di giardino in cui teniamo la cuccia del
nostro cane, il quale insospettito dai rumori dà segni d’irrequietezza, ma potrebbe anche trattarsi
del suo sognare. Al quinto minuto di registrazione la sensibilità del microfono si attesta sulla soglia
del feedback, nonostante io mi trovi a più di 5m di distanza e stia modulando l’ascolto in cuffia.

Il suono è sicuramente la componente sensoriale più soggetta ad indiscernibilità da parte


dell’attenzione. La nostra cultura è già stata in grado di sviscerare le modalità attraverso cui la
nostra mente svolge un’attività di pensiero immanente al senso 1 ma la nostra sensibilità acustica ha
ancora bisogno di un esercizio costante a causa dell’iper-affollamento di stimoli uditivi che la vita
squilibrata nella vista non consente di analizzare e che per tale ragione vengono scartati
dall’attenzione come rumori. L’«ascolto amplificato» ci è sempre servito a raggiungere una
concentrazione che non avremmo trovato con altri mezzi. È interessante notare pure che le stesse
“tecniche terapeutiche” con cui la modernità si convince di trovare riposo dallo stress quotidiano
implicano quale prima condizione la chiusura degli occhi e un rilassamento dei sensi coadiuvato da
qualche forma d’ascolto.

Riassorbito dall’ambiente sonoro, il mixer mi consente di agire sui tre livelli base di equalizzazione
e potenziare a seconda del caso il livello dei bassi, dei medi, o degli alti. Il taglio di frequenze è
sicuramente approssimativo e l’espressività della registrazione consente di mettere in evidenza gli
eventi sonori chiaramente definiti. All’inizio l’attenzione coglierà solo le forti differenze di
pressione sonora ma con l’abitudine si giungerà ad esaltare le singole frequenze di risonanza
dell’ambiente di registrazione già in questa fase. L’opportunità di modulare un feedback riesce ad
incollare l’ascoltatore alla manipolazione delle ampiezze, ed è il mixer stesso ad essere uno
“strumento musicale”.

Attraverso la concentrazione avviene una forma di penetrazione dell’ambiente acustico.


Il microfono asseconda il suono che viene “espresso”, sia modellato dagli spostamenti del sostegno,
che è anche il proprio braccio in una ripresa dinamica, sia modulato nei suoi parametri essenziali:
frequenza, intensità, tempo. In questa zona dei sensi, ora zona del senso acustico, ciò che è
importante è il desiderio: o si assecondano le variazioni di potenziale sonoro, o si determinano le
soluzioni alle proprie aspettative.

Nel mio giardino io so che un cane può ululare, un insetto passare, o una serranda chiudersi, è un
ambiente dalla dinamica sonora discreta, non una via di un quartiere del centro dove essa è
pressoché omogenea, l’insieme delle possibilità di evento sono a priori condizionate. Assecondare
la discernibilità è un movimento sinergico, l’ambiente mi dà qualcosa di cui raccolgo la traccia.
Conservo la traccia dello stesso raccogliere, del filtro attraverso cui la mia sensazione ha luogo,
conservo la “grana” della pellicola, la “pasta” sonora. Ciò che solitamente viene considerato
errore personalizza il mio gesto, ed io stesso cerco di evidenziarne i tratti, con discrezione.

1
Vedi ad esempio il testo di Rudolf Arnheim Il pensiero visivo. Trad.it. Einaudi Editore, Torino 1974.

66
È molto importante che il paesaggio sonoro lasci cogliere i suoi tratti. L’universo sonoro è il
campo indistinto, un territorio senza mappa: se percorriamo una distanza subendo l’universo
indiscreto che si presenta ai nostri sensi spesso potremo ritrovarci senza coordinate che confermino
l’immagine sonora cui abbiamo fatto riferimento, la forma Gestalt che guidava la nostra percezione,
in special modo se tale esperienza viene veicolata attraverso un circuito non spazializzato come
quello cuffia-supporto-microfono. Dopo un iniziale principio di smarrimento, che arriverebbe a
forme più estreme di perdita dell’equilibrio e disorientamento, i nostri sensi si attivano in una
cooperazione volta a ristabilire il cosmo, come quando in assoluta mancanza di luce, mentre i nostri
occhi spalancati anelano con disperazione ad una minima intensità di luce, le nostre mani attestano
il limite entro cui siamo disposti al contatto con le cose, e la nostra percezione ha già computato il
modello spaziale in base all’immagine acustica ricevuta dall’orecchio.
Una stessa “sete” di suoni interessa il nostro esperimento, ma il disorientamento sarebbe l’effetto di
un audiovisivo la cui manipolazione ed il cui montaggio (in un solo orrendo termine: manipolaggio)
coinvolgerebbero, oltre che l’immagine video, l’immagine suono.

In questi momenti fisso la riproduzione di un contesto sonoro, che sia un paesaggio con i propri
eventi descrittivi, oppure l’impronta di un’azione detonata dal mio intento, in entrambi i casi il mio
sentire non è imparziale: la non-oggettività della sensazione coinvolge il doppio processo della
simbiosi percettiva che designa e nello stesso senso esprime ciò che sta afferrando con l’udito.
Attraverso l’esasperazione dell’udito la sensazione viene spremuta fino a diventare tangibile, sento
il diretto effetto nel corpo del tappeto di suoni gravi che la natura, col vento, e la città, con le auto,
rendono permanente, sento sobbalzare il mio sistema nervoso sulle alte frequenze, la banda
mediana lascia spazio alla sola commozione, non c’è processing, alcuna elaborazione, è una
pressione concreta, che si è scolpita da qualche parte.

Riascoltando le registrazioni rivivo, stavolta, “emozioni”: alla sensazione impressa si aggiunge il


contenuto mentale del ricordo, ma capisco che la mia pulsione è in attesa, sospesa tra
l’attaccamento a ciò che è stato reso oggetto ed il desiderio di riattivare la sollecitazione sul
materiale fissato. Un riascolto che dura impressionevolmente, da cui acquistano evidenza
particolari e dettagli che mi recano un piacere non definibile per sé stesso ma portatori di un
contenuto di coscienza in cui si riconosce una necessità di senso, qualcosa che si è imposto
nell’esperienza e non l’effetto di una scelta cosciente. Questo qualcosa io lo chiamo sensum perché
sono convinto che la responsabilità dell’evento percepito sia da attribuire al movimento negli
organi di senso, a quella forma di pensiero incarnato che in quanto memoria viene chiamato anche
esperienza.

Così la nostra sequenza abbraccia al suo interno aspetti salienti suscettibili di memoria perché li
abbiamo assecondati nell’“esprimerli” e una prima polarità di racconto tenta d’inscriversi nella
struttura della registrazione in un rapporto analogo a quello segnale-rumore. Da una parte vi sono
quei suoni dalla netta definizione la cui relativa indipendenza dal contesto determina la loro
impiegabilità di frammento, dall’altra una struttura di ridondanza dotata di una certa regolarità, la
cui costanza viene a costituire la trama su cui poggiano gli eventi.

67
Quando, una ventina di anni fa, si fecero i primi tentativi di film sonoro, scrissi in Der Geist des
Films 1 che il suono non costituiva ancora una conquista, ma un semplice problema: conquista
sarebbe divenuto – e conquista eccezionale – il giorno in cui fosse stato risolto. Ciò sarebbe
accaduto quando il suono filmico fosse divenuto un mezzo altrettanto poco materiale e altrettanto
docile e malleabile quanto lo era l’immagine filmica: cioè quando la ripresa sonora da riproduzione
tecnica che era, si fosse trasformata in atto creativo al pari della ripresa visiva.
Oggi, a vent’anni di distanza, debbo ripetere parola per parola quanto scrissi in quel capitolo di Der
Geist des Films. (…) Ciò che invece sperammo dal film sonoro non è mai accaduto. Ha cessato di
esistere l’arte del film muto, e ad essa si è sostituita la tecnica del film sonoro.
(Béla Balàsz, Il Film, 1952)

Oggi ci troviamo di fronte ad un problema nuovo. Dopo cinquanta anni di “tecnica del film sonoro”,
siamo giunti alla concezione dell’immagine del suono. Si può parlare del suono come si parla del
video: con un termine-simbolo che raccoglie le categorie di un sistema a più dimensioni,
interconnesse, ed una problematica concettuale sul valore di realtà riprodotto attraverso la tecnica.
L’immagine-suono è anche un distinguo dell’«immagine-tempo» e dell’«immagine-movimento»
con cui Gilles Deleuze definì due nuove categorie interpretative della “cinematicità”. Ma
innanzitutto è la dimensione dialettica all’immagine-video su cui si struttura il senso audiovisivo.
Posto che si assuma l’«immagine» come il prodotto cognitivo della rappresentazione.
E tuttavia sotto questo monoteismo tecnico-scientifico si è sviluppato un ideale estetico di una
spiritualità dell’ascolto. Che libera la riflessione, e la meditazione, sulle facoltà dell’udito. Sullo
sviluppo di un comportamento uditivo. E sulla riproducibilità dell’esperienza uditiva, scissa dalla
simulazione, come forma autosussistente di pensiero. Questa necessaria anticipazione
dell’argomento chiave di questa tesi serve a proseguire il discorso sul piano evolutivo del
linguaggio. Rimane da capire come lo stesso processo di sublimazione dei contenuti percettivi sul
piano simbolico astratto riesca ad edificare il sistema logico di superficie che anima il senso, su cui
viene prodotto dal punto di vista creativo. Al secondo stadio della manipolazione, quello della
riproduzione, appartengono tutta la serie degli atteggiamenti estetici e delle scelte coscienti. Cosa
accade infatti quando noi, oggi, ci ritroviamo davanti ad un software, o in passato quando una mole
di macchinari occupava fisicamente i nostri spazi di raccoglimento o gli studi di produzione?
Quando l’artista era tutt’altro che un esecutore tecnico degli effetti di senso collettivamente
approvati ed il suo lavoro non balbettava le formule affermate che il mercato aveva reso linguaggio,
da questo momento ma in un istante non precisato, avveniva l’alienazione del materiale “grezzo”
dai contenuti referenziali che i simulacri fissati si portano dietro comunque, e cominciava un lavoro
di proiezione verso totalità amorfe progettuali.
La manipolazione da ora asseconda il raggiungimento di un fine.

1
Estetica del film trad.it. Editori Riuniti, Roma, 1954. La citazione è tratta dall’edizione italiana de Il Film, Einaudi
Editore 1979.

68
L’ispirazione quindi, contrariamente a tutti i luoghi comuni che l’arte di scambio ha costruito, era
parte integrata di un processo già linguistico, ma ad uno stadio non cosciente. Solo che
l’ordinamento impartito dalle istruzioni d’uso ricevute attraverso gli story-board, le sceneggiature
ed anche certe partiture musicali, inibiva la piena consapevolezza che uno stadio di «pura
sensazione» era ormai andato perduto ed al suo posto si offrivano quali riferimenti per orientare le
ri-produzioni di senso solo le categorie massificate delle emozioni.
Noi non sosteniamo di poter orientare la ricerca di questa purezza con le tesi che stiamo
proponendo, ma stiamo tentando di fare un passo indietro che chiarisca nei vari momenti quanto sia
più o meno legittimo parlare di linguaggio. E, senza ripetizioni di refrain che corrono nell’arco di
tutte le pagine precedenti, evidenziamo non ciò che potrebbe considerarsi non-linguistico, visto che
ad un estremo filosofico si ritiene linguaggio la stessa possibilità di essere uomo, ma tutti gli
escamotages per forzarne la gabbia appoggiando le nostre tesi sugli interrogativi aperti della
psicanalisi.
Considerata la mediazione dei sensi la frontiera tra il reale esperibile ed i contenuti di coscienza,
che si estendono dalla percezione degli stimoli alla ridondanza dei simboli, possiamo ritenerci sin
d’ora sprofondati nel linguaggio non appena la fissazione ha avuto luogo, e la possibilità descritta in
precedenza di arginare le strutture linguistiche dis-orientando la percezione durante la fissazione,
una tecnica.
Il nostro studio non si esaurisce. Potremmo essere in errore. Ma la tendenza in ambito, purtroppo
solamente, artistico a riciclare la materia sonora, visiva, scultorea, ci sembra un doppio processo di
rifiuto della genesi autoreferenziale dell’esperienza creativa e contemporaneamente un trucco per
lasciare libera la tendenza inconscia ad innescare associazioni. Quasi che ricevere uno stimolo
dall’esterno sia garanzia di una percezione non normalizzata.
Ma noi sappiamo che lo stesso linguaggio è strutturato come l’inconscio. Anche se la celebre
asserzione lacaniana recava formulazione inversa. Perché sappiamo che nella ripetizione la lingua e
nell’abitudine l’inconscio convergono. E poiché in entrambi le associazioni generano senso.
Studiare il montaggio significa ricercare le possibilità dell’associazione.
L’associazione inconscia potrà stimolare la nostra creatività ma non incrinare gli schemi mentali,
linguistici e cognitivi, perché lascia comunque intatte le nostre strutture percettive. Ma se abbiamo
imparato che pur ampliando le nostre sensazioni dal linguaggio non si esce se non
involontariamente, per caso, e appena fuori il processo associativo si attiva per ristabilirlo, l’unica
possibilità dell’arte di essere pre o post linguistica sta nella modulazione della struttura stessa
secondo l’ipotesi batesoniana. 1

1
Vedi pag.29 del capitolo Senso & Sensazione.

69
Attraverso la continua escursione dalle aspettative al caos, attraverso il continuum informale e la
struttura esibita, attraverso le irruzioni del contesto di fruizione e la performance d’improvvisazione
oltrepassiamo il linguaggio estendendone contemporaneamente il confine. E se l’artista non accetta
questa propria vocazione zen rimane aperta solo la strada del delirio nelle pulsioni.
Il parallelo con le zone erogene stabilisce che il frammento, una volta introiettato nelle profondità
dei nostri corpi-supporti, venga poi stimolato da una pulsione territoriale (il sensum) che porti
all’organizzazione di una serie, una concatenazione. Ma tale processo si divide in più mo(vi)menti:
la vera e propria organizzazione della zona erogena, in cui la stimolazione del frammento connette
vari livelli di una medesima sensazione (la nostra manipolazione secondaria); e la prima proiezione
della totalità corporea attraverso il raccordo fallico, in cui la totalità organica assume risonanza
attraverso le varie congiunzioni di sensazioni eterogenee (da cui ha origine la produzione di senso).
Questa sillogistica nascita del senso dalla pulsione sessuale viene poi piegata ai nostri fini per
discutere la primordiale pulsione pre-linguistica, dal momento che sappiamo ormai come anche la
pulsione sessuale si sviluppi in base ai caratteri formali della struttura sociale di appartenenza,
quindi in seno al linguaggio, e vada proprio edificando la struttura della relazione di “comunione”,
o ciò che comunemente chiamiamo «Amore».
A loro volta il «puro produrre», il «produrre impiegando», e l’«immaginario prodotto impiegando»,
descrivono la nostra natura viscerale molto più di quanto potrebbe una mediazione non orientata, in
questo senso non linguistica, dei sensi.
La realtà non è più comprensibile facendone esperienza diretta. Guardando il mare crederemo di
conoscerlo per tutta l’esperienza accumulata attraverso i media piuttosto che rivolgendo il ricordo
all’esperienza personale.
Se ogni epoca dell’uomo occidentale ha sempre il proprio modo di partecipare (linguisticamente)
all’essere, la forma propria dell’essere-uomo contemporanea è quella della rappresentabilità,
successiva all’impiegabilità heiddegeriana, per questa forma di possibilità ontologica nella
proiezione di un immaginario, ed una logica dell’immagine, appunto il montaggio. Dal punto di
vista cinematografico il montaggio “permette di creare, ma anche di alterare e sovvertire la realtà
meglio che qualsiasi altro mezzo espressivo” 1 , “lo svolgersi di una serie d’immagini proiettate sullo
schermo può inoltre riprodurre il ritmo originario dell’associazione. (…) Si tratta della
rappresentazione di un processo psichico. Ed ora un esempio opposto: la serie delle immagini
cinematografiche non rappresenta la serie di immagini dell’associazione, ma al contrario la
dissocia, la mette in moto e le imprime un corso determinato.” 2

1
Béla Balàsz, op.cit.p.117,
2
ibid.124, corsivi nel testo.

70
Non dovremmo sottovalutare la relazione di ogni espressione artistica con lo stadio dell’evoluzione
dell’uomo nel contesto in cui si sviluppa. Quando avremo pieno possesso di un linguaggio
dell’audiovisione scopriremo il relativo non-senso ed il paradosso, le vie di fuga o le incrinature, del
linguaggio. Ma fino ad allora i nostri sforzi saranno orientati all’interpretazione dei tentativi che
attraverso il cinema sono stati fatti per rappresentare i processi dell’associazione.
Se attraverso l’informatica, la cibernetica e la stessa biogenetica l’uomo occidentale penetra la
propria natura in profondità fornendone una descrizione fagocitante che rispecchia la struttura di
pensiero attraverso cui si estende il potere della mente sulla realtà-oggetto, l’arte multimediale, se
associativa, fornisce la necessaria compensazione della complementare attività di pensiero, la
sintesi laterale.
Il montaggio per adesso è l’ennesima alienazione in una struttura logica, non importa se multicanale
o a senso unico, tenta di rappresentare quello che accade quando nella vita facciamo esperienza di
qualcosa attraverso i concetti, attraverso le emozioni, o attraverso i sensi, ma attraverso i sensi
possiamo fare un passo ulteriore rispetto a ciò che di per sé appartiene alla nostra mente, possiamo
estenderne i confini. Verso cosa tutto ciò vada muovendosi rimane ancora impreciso ma è ormai
chiaro che il pensiero occidentale ha fatto il suo tempo e debba manifestarsi in altre aree del mondo
che ne hanno subito l’influsso attraverso l’imposizione del surplus immaginario. E la nostra
speranza corre con i guinness dei primati indo-iraniani, con la «metafora del formicaio» cinese, e la
schizofrenia customizzabile del Giappone. 1
Prima o poi faremo i conti con le nostre influenze spirituali: abbiamo scambiato merci, ed immagini
di merci, con tecniche di medicazione psicofisica: dovremmo fare arte in Europa per assecondare
questo processo di caduta, lenire noi stessi ed i nostri malati: a nostro avviso è ciò che si è fatto
sinora: al cinema nel secolo scorso, nelle gallerie in questo. Dal montaggio alle video-istallazioni.
Verso il 1898, negli anni in cui prende avvio insieme all’Interpretazione dei Sogni la sua propria
autoanalisi, Sigmund Freud scrive a proposito del materiale e delle fonti del sogno un’osservazione
che ha concordanza diretta con quella che di lì a poco si sarebbe sviluppata come prima possibilità
della tecnica cinematografica di montaggio: “In una psicoanalisi, si impara a interpretare la
contiguità temporale come connessione oggettiva; due pensieri che si susseguono immediatamente,
in apparenza senza nesso, appartengono a un’unità che occorre indovinare, nello stesso modo in cui
una a e una b, se le scrivo una accanto all’altra, vanno pronunciate come una sillaba: ab.” 2

1
Ci riferiamo espressamente: al nuovo cinema iraniano e agli epifenomeni “bollywoodiani” come Kishan Shrikant,
giovane regista indiano a dieci anni alla sua prima esperienza di regia; alla metafora del montaggio proposta da Bèla
Balàsz nel suo testo citato (pag.132) nelle sue analogie con il boom economico della Cina attuale; ed alla tendenza
‘tecnicamente’ zen della vocazione giapponese a fondere natura e cultura in universi organici di pieno equilibrio
materiale/immateriale (vedi pag.58 in questo capitolo).
2
Sigmund Freud, op.cit.p.235.

71
Questo vale per il rapporto dei sogni fra loro come per tutto il cinema degli albori. La situazione si
complica quando questo rapporto di contiguità temporale si esplica in un ventaglio di possibilità di
giunzione che hanno relazione diretta più con la logica consequenziale che con “gli effetti di luce e
ombra del pensiero”.
Il linguaggio cinematografico di Eisenstein o di Griffith si sviluppa sulle orme della ricerca
filosofica di primo Novecento, in special modo sulle dinamiche della significazione che
coinvolgono tanto la psicanalisi quanto la primordiale filosofia del linguaggio.
Data l’evidenza di una diretta relazione tra l’associazione di immagini e le associazioni mentali,
accade che il solito habitus raziocinante si sia imposto con l’esperita carriera della tautologia
innescando il lungo processo dell’associazione esibita, indotta e tradotta, attraverso dispositivi di
causa/effetto che ripetono da un secolo “1+1=3” sviscerando innumerevoli possibilità di declinare
un pensiero attraverso la successione di fotografie a cui il suono si aggiunge nella migliore delle
ipotesi a commento. Dal commento musicale del muto classico alla colonna sonora attuale con
esempi ispirati di poesia dell’equivoco in cui la struttura di questo cinema viene svelata ed
estetizzata per l’occasione ricevendo conferma. 1
Quando Balàsz parla del “ritmo originario dell’associazione” e specifica che il montaggio
rappresenta l’associazione ma anche la dissocia forse inconsciamente parla di questa mancanza che
si avverte ogni qualvolta subiamo l’inquadratura in una sequenza come sillaba o parola di una frase.
Al capovolto processo attivo in cui è la nostra mente, ovunque sia localizzata, a cogliere più
relazioni fra le parti, ad innescare le proprie associazioni e stabilire i propri contenuti di coscienza,
viene lasciato ben poco spazio nel cinema “del riconoscimento di una storia”, quanto basta a fare sì
che il nostro entusiasmo si rivolga a quelle parentesi dell’orrore come il video maledetto del film
The Ring, o verso il tocco stilistico di David Lynch e a tutto il Cremaster Cycle di Matthew Barney.
In essi un campionario di paure raccolte per sondaggi, dei tagli ‘semiotici’ in punti cruciali della
sceneggiatura, e tutta un’estetica dell’eccesso, funzionano come detonatori delle dinamiche
inconsce proiettando la nostra emotività in un immaginario. È la dinamica della paura che funziona
in questa maniera: basta lasciare dei vuoti da compensare e un clima di ‘tensione’. Ma quando la
paura ci lascia al nostro spectare e coinvolge la nostra riflessione tanto quanto le altre innumerevoli
sensazioni che dovremmo essere in grado di provare allora si dà il caso di esperienze in cui
l’universo linguistico è cambiato, in cui la nostra posizione è parte di uno scambio biunivoco,
l’esperienza estetica.
Cerchiamo di approfondire questo punto verso l’ipotesi di una nuova possibilità di montaggio:
scegliamo senza ombra di dubbio Cremaster 5 per provare cosa intendiamo dire.
1
Vedi Me and You and Everyone we know di Miranda July, per esempio, ma la formula ha origine con la La Jetèe di
Chris Marker.

72
Sappiamo che la saga del “muscolo testicolare” è suddivisa in cinque episodi che Barney ha voluto
rispettassero la messa in serie attorno alla simmetria del numero 5: al Cremaster 4 del 1994 seguono
l’1 (1995), il 5 (1997), il 2 del 1999 e Cremaster 3 (2002). Tutta l’impresa è una grande metafora
genitale: dalla sequenza numerica 4-1-5-2-3 alla missione allegorica in un universo ermafrodita che
proietta questioni andrologiche in un immaginario di liquidi organici, corpi cavernosi e orifizi,
senza alcuna esibizione oscena, ma con un’alchimia visuale delle pulsioni di questo muscolo
involontario che agendo sulle contrazioni testicolari “funziona da interruttore generale del
meccanismo riproduttivo” scelto dall’artista come elemento chiave dei processi di affermazione. 1
Veniamo ostruiti dall’imponente gioco metaforico che percorre tutta l’opera ma ritroviamo nel
complesso di questo progetto un’estetica della pulsione che si avvicina estremamente al tipo di
‘gioco’ che noi vogliamo proporre.
Ad un esame strategico del contesto in cui l’opera è nata e si è sviluppata comprendiamo quanto il
doppio livello simbolico funga da provocazione al sistema di produzione che l’ha reso possibile.
Il mondo delle gallerie d’arte e dei musei infatti viene travolto dalla sublime iconicità psichica della
vita innescata negli scenari dell’asetticità pubblicitaria o del linguaggio turistico d’evasione.
Bisogna vedere Cremaster per comprendere quanto sia possibile oltrepassare la significazione verso
la pura modulazione della superficie, amplificata costantemente da una risonanza nell’inconscio
collettivo che funge da struttura di senso.
Potendo procedere per accenni per ciò che riguarda l’impianto generale dell’opera, le dinamiche
associative, il montaggio, non forza sicuramente la struttura dell’immagine in cui invece si
rispecchia più volte la struttura stessa del Ciclo e l’artista-corpo Matthew Barney. L’immagine si
succede nella forma sequenziale priva di una ritmicità stimolante, come in una mostra di quadri
animati in cui non ci si sposta ma è il museo stesso a scorrere sotto l’occhio della camera.
Nel quinto episodio, vero e proprio raccordo fallico, viene celebrato il dramma della caduta, l’eterna
condizione di sconfitta che segna il destino degli uomini. La visionarietà sfrenata costruisce un
mondo di pura irrealtà senza possibilità di accesso. È come se Matthew Barney avesse compiuto
quel primo passo verso la reificazione dell’io attraverso una liberazione della fantasia nel supporto e
lo compie proprio negando l’immedesimazione, la storia, perpetuando la messa in scena della
libido. Per chi si chiede come Cremaster sia potuto diventare l’evento mediatico dell’arte
contemporanea degli ultimi anni, ne osservi la struttura attraverso il riferimento ad un mondo
interiore.
Bisogna separare la necessità allegorica di riferimenti condivisi ed elementi ridondanti con
l’opportunità di fare esperienza di un mondo immaginario che ognuno di noi potrebbe proporre:

1
Confronta la recensione sul sito http://architettura.supereva.com/artland/20030203/index.htm

73
Matthew Barney costruisce un reale-immaginario di riproduzione che non viene coltivato
collettivamente. Grazie a Cremaster il cinema fa un passo ulteriore verso la propria natura:
l’affermazione non condizionante di un punto di vista unico, una singolarità. Tuttora questa clausola
etica è presente nel cinema d’animazione e l’utilizzo della grafica digitale lungi dal liberare la
creatività imprigiona spesso questo cinema nella simulazione del quotidiano sia nel raccontare
storie che nella progettazione d’ambienti: la sperimentazione tecnologica continua a muoversi
imbavagliata dalle categorie cognitive ordinarie, della ‘norma’, del linguaggio, ma non sempre.
D’altronde anche Cremaster ha il suo livello di lettura commestibile, di linguaggio condiviso, ma
l’intenzione è quella di celebrare anarchicamente l’essere uomo geneticamente, assemblando
campionari di fecondazione unici e assoluti.

Cremaster 5:
The Queen of Chain (Ursula Andress) osserva sotto i suoi piedi il regno di acque sotterranee popolate da ninfee dagli
occhi a mandorla e da un imperioso Nettuno (Matthew Barney).

Viene mantenuta la struttura facendo leva sull’inconscio collettivo e sul codice paralizzato delle
icone commerciali, ma la sua modulazione avviene grazie alla continua emanazione della pulsione
in questo mondo simbolico.

74
Tale simbolismo costa all’opera un’esasperata dominanza dell’elemento figurativo: come nell’Alice
carroliana i personaggi sono recipienti vuoti di un discorso sul linguaggio. Le icone di Cremaster si
impadroniscono della forza primordiale necessaria a muoversi all’interno degli scenari.
L’edificazione di un mondo surreale avviene nello spazio di proiezione, nella temporalità scandita
del montaggio, crediamo sia questa non una “finzione”, ma proprio “rappresentazione”. Allora
perché aver bisogno di una struttura di testo abituale con cui prestabilire l’esperienza visto che
siamo già pronti ad una ricognizione di “paesaggio” puramente audiovisiva?
Due diverse tipologie della descrizione entrano in conflitto in questa alternativa: la realtà figurativa
che pertiene il racconto e la collettività linguistica, che deve poggiare i propri contenuti sulla
significazione ordinaria dei simboli che utilizza, subordinata ad un reale “più reale” che è la vita
non mediata tecnologicamente; e la realtà figurale dell’evento, dell’effetto di sensum concreto,
indipendente ed autosussistente nella propria specificità d’esperienza, esito dell’espressione
modulante l’ossatura figurativa residua o trascendente l’indeterminazione verso la forma perfetta.
Nella storia dell’arte sono state figurative le cosiddette correnti “naturalistiche” mentre figurali tutte
quelle in cui si è incentrata sul mezzo la preoccupazione estetica: dagli “impressionismi” ai vari
codici dell’astratto.
L’edificazione del nostro immaginario [ripetizione + modulazione minimale = differenza] è questa
abilità, condizionata dal nostro apprendimento sul reale (designazione), nel tirare fuori dal nostro Io
i prodotti della rappresentazione (espressione). Possiamo considerare la manipolazione secondaria
ogni intervento orientato a questa rielaborazione dei contenuti di coscienza per assecondare la
produzione interiore, la pulsione estetica. La tecnologia a nostra disposizione prolunga l’esistenza
immateriale dei simulacri permanenti nei nostri supporti di memoria fino all’elaborazione centrale
in grado di saldare giunzioni tra i vari frammenti fino a modellare la superficie più o meno densa da
vivere coi sensi.
Proprio la possibilità, e non la certezza, di una cognizione organica a livello dei sensi rende la
composizione immaginaria un Tutto da discernere attraverso facoltà cognitive di basso livello, e
l’attività dello scultore dei sensi consiste nell’abilità tecnica di manipolare le sensazioni fino ad un
livello in cui gli stessi parametri costitutivi vengano sovvertiti e strutturino nuovamente una nuova
mappa sensoriale, reimpostando la percezione, e magari la stessa consapevolezza.
In una cultura della visione in cui domina la strutturazione dell’occhio, conosciamo già le tensioni
in atto durante la percezione visiva e possediamo consapevolezza di un’elaborazione attiva già
nell’esperienza comune. L’artificio luminoso scinde oggi l’elemento luce dalle determinazioni
oggettuali d’uso e consumo, guidando la contemplazione dei riflessi, giocando con le trame,
assecondando l’estasi luminosa come una dinamica da indurre.

75
Ma l’espropriazione del fattore luce dalle cose a priori come nei codici astratti inibisce questo tuffo
nella percezione. Né viceversa riteniamo efficace condensare gli oggetti di saturazione espressiva
istigando la semiosi alle significazioni concettuali.
La nostra ipotesi è che un territorio comune, una zona dell’abitudine, sia più soggetta ad incontrare i
nostri desideri e ad introiettare una funzione di scambio tra più canali sensoriali, quello uditivo
adesso e quello visivo, rispondendo ad una creatività più libera, secondo noi sfrenata.
Questo non pregiudica le innumerevoli ipotesi della creazione, proprio mentre scriviamo stiamo
pensando a come verificare un bisogno: se avessimo modo d’implementare questo universo de
l’immagine-suono, cercheremmo di concentrare le differenze di potenziale attentivo sulla
spazializzazione dello schermo sonoro, quasi che gli eventi da cogliere stessero tutti nell’ambiente
circostante ricreato attraverso i diffusori di suono, e lasceremmo l’occhio ipnotizzarsi in un fuoco
visivo, cosicchè la relazione designazione/espressione possa tradursi in un’escursione entropica
dall’ordine della percezione strutturata a quello della sensazione incontaminata.
Anche in questo caso, come nei riguardi della “purezza”, la lingua non si struttura in una dicotomia
di estremi, ma in una gamma indefinitamente discernibile, e nell’interazione dei due canali
sensoriali si giocano le compossibilità di un linguaggio audiovisivo, possibilità di esibire struttura
attraverso la combinazione. Ciò che stiamo suggerendo potrebbe verificarsi in un istante, o in una
sequenza, o proprio a non volerlo cogliere, in un climax strutturato a mestiere, anche se della
comunicazione a intensità crescente facciamo esperienza da fin troppo tempo e sarebbe il caso di
cominciare ad innestare le nostre attività culturali del puro fare gratuito sul flusso indiscreto della
Vita.
Arriviamo così, pur non avendo descritto in dettaglio una manipolazione finalizzata al complesso
dell’opera, a poter parlare di cambiamenti nelle pratiche di montaggio audiovisivo.
Le composizioni di musica concreta dell’etichetta discografica francese Metemkine nella serie
intitolata Cinéma puor l’oreille proiettano un testo sonoro in cui una narrazione avviene per mezzo
di suoni senza mai - da cd in cd - ripetizioni di struttura, perché ogni produzione nasce
dall’occasione e si risolve in essa senza possibilità di sviluppare ‘maniera’ o fissare delle formule
produttive perché ogni musicista usa il proprio universo cognitivo uditivo per campionare suoni o
sintetizzarli, ed assemblarli progressivamente in una ‘creatura’ di senso.
E questo non riguarda solo oggi i settori musicali di nicchia. Se ritorniamo un attimo alla
teorizzazione pop di due esponenti della ricerca cinematografica impegnata di primo Novecento che
abbiamo già incontrato in precedenza, ritroviamo punto per punto la teoria del montaggio sonoro
per noi tanto decisiva. Eppure qualcosa di dominante nella nostra cultura continua a fare sì che la
natura genuina del mezzo cinematico audiovisivo rimanga oscurata dalla sua prostituzione di massa.

76
Se già Balàsz parlava di film sonoro astratto e di una rispettiva «coreografia grafica», di uno
«spartito della vita» con cui analizzare il rumore indistinto che il film sonoro insegnerà a leggere, e
di un «paesaggio sonoro» “parola delle cose” e “recondito linguaggio della natura” 1 ; Moholy-Nagy
insiste sulla necessità di una «sintesi ottico-acustica» basata sul montaggio integrato di entrambi gli
elementi, di un concetto di «montaggio sonoro» che implica “tutta una serie di fattori
complementari, quali il primo piano sonoro, le angolazioni acustiche, le distorsioni dei suoni,ecc.” 2
Bisogna pensare al senso audiovisivo non come al prodotto di due canali di suoni e luci sul piano
del paradigma, ma come alla differenza di potenziale tra le giunzioni di unità audiovisive chiuse sul
piano del sintagma: posto che un immaginario risulti dai frammenti della designazione che
risiedono nella coscienza e la rappresentazione misuri l’intensità della loro espressione dal mondo
interiore verso quello esteriore al di là della superficie corporea; nella superficie audiovisiva la
relazione tra immagine e sensazione nell’unico canale audio-video, ricalca la proporzione
designazione/espressione nel singolo frammento.
L’immagine sta alla designazione come la sensazione sta all’espressione.
Facciamo l’esempio di una molecola in cui vengano manipolate le posizioni di nucleo materico e
orbite energetiche, se per ipotesi nella molecola audiovisiva in un primo momento domina nel
nucleo la percentuale di designazione visiva e si riconosce la forma-simulacro di un oggetto, per
“effetto” dell’espressione verrebbe ‘sentita’ la gravitazione del frammento sonoro attorno a questa
immagine-luce, in un momento successivo il nucleo visivo dell’oggetto potrebbe essersi dissolto nel
tempo che intercorre per identificare un altro nucleo di designazione stavolta sonoro: la luce ora
graviterebbe esibendo la propria vibrazione.
L’immagine[-suono] è il concetto della produzione di realtà attraverso la rappresentazione [sonora].
Realtà e Rappresentazione sono due concetti implicati in quello di Immagine. Ciò comporta che lo
sviluppo dell’ultimo potrebbe coinvolgere la descrizione dei processo in cui la mediazione dei sensi
è sempre elaborazione attiva, e l’attività cognitiva passiva non trova posto.
Nel pensiero simbolico il concetto è un’immagine del pensiero che deve venire espressa e articolare
una superficie di senso. Allo stato potenziale, cioè non formulato, il concetto è “immaginario”,
esiste come condensazione di forze, non di significati. (esempio: il concetto di CANE). Il
significato è la strutturazione di un espresso, un concetto sviluppato sempre allo stesso modo,
un’immagine fissata. Per questo la comunicazione pubblicitaria è un allevamento di «icone».
Cremaster Cycle sviluppa il proprio immaginario visivo su questa impalcatura mitica. Questo fa sì
che la logica di montaggio attraverso cui l’immagine-pulsione viene ‘presentata’ sia costantemente
alleggerita nelle scelte audiovisive complesse grazie alla struttura di un’altra tradizione: la Musica.
1
Bèla Bàlasz, op.cit.p.195;p.211;p.210.
2
Moholy-Nagy, op.cit.p.52;p.118.

77
La forma videoclip è sempre stata un varco per il potenziale immaginario visivo. Per sua stessa
natura è riconducibile all’accompagnamento musicale del film muto, e abbiamo visto come la sua
articolazione strutturale si sia ripresentata per tutto il cammino del cinema senza soluzione di
continuità, e con una produzione che dal facile intrattenimento raggiunge sempre il territorio della
sperimentazione.
Quindi non c’è da meravigliarsi se per molti registi - tra i più recenti Spike Jonze, Michel Gondry, e
il non ancora massificato Chris Cunningham - sia stato un banco di prova prima del debutto
cinematografico, e questo non solo per ovvie ragioni economiche. Basti pensare, tanto per restare ai
succittati esponenti del genere, ai loro esordi nella grande produzione: Being John Malcovich del
primo, Eternal sunshine of the spotless mind del secondo, e la vasta produzione pubblicitaria
nonché l’affermata collaborazione col musicista-dj Aphex Twin che ha reso celebre il terzo.
L’immaginario visivo dell’ultimo senza dubbio è quello riuscito ad entrare in piena sinergia con la
più stravagante produzione di musica elettronica di fine secolo dando vita alla virtuosa estetica del
sincronismo ormai vero e proprio genere dell’audiovisivo. A differenza degli altri due in cui è più
decisa una poetica dell’effetto di senso interna alla forma racconto del cinema sceneggiato,
Cunningham decide di lasciare frantumare le proprie visioni dal ritmo esasperato della techno più
cerebrale lontana anni luce dalla fruizione dance-floor da cui si è sviluppata. Come il genio del
musicista ha saputo elaborare un linguaggio attraverso la manipolazione analogica dei circuiti
elettrici dei primi giocattoli e strumenti elettronici estrapolandone suoni la cui timbrica porta
impressa il suo “marchio” di fabbrica, così il regista ha saputo sfruttare la tradizione della
«coreografia visiva» reimpiegandola nelle formule della neonata tecnica del vjing 1 riuscendo a
consolidare uno suo stile anche nella più rigida delle logiche di montaggio. Dal più naive
inserimento di disturbo di segnale alle più elaborate modulazioni di frequenza per discretizzare il
flusso del segnale video con il “calco” della grana sonora, la logica di montaggio è anche qui d’una
semplicità imbarazzante.
L’isomorfismo nella dinamica dei due segnali, tralasciando la complessità del dispositivo che lo
realizza, è un fattore cruciale per far convergere i due flussi verso qualcosa d’indistinto che possa
aprire la strada verso la percezione sinestetica. Ma noi riteniamo che l’uso indiscriminato della
corrispondenza ritmica tra i due canali più che aprire nuove strade dell’audiovisione, recida
completamente la possibilità di percepire strutture altre dal ritmo, in primo luogo quelle di materia.
“Il fenomeno [ritmico] colpisce in noi le aree cerebrali connesse con le aree motorie, ed è soltanto a
questo livello che esso viene decodificato ritmicamente.

1
Il vjing come il djing è la definizione della prassi di chi seleziona video o musica per una fruizione solitamente
collettiva.

78
(…) La transensorialità non ha nulla a che vedere con ciò che si potrebbe chiamare intersensorialità,
ossia le famose corrispondenze tra i sensi di Baudelaire, Rimbaud o Claudel. (…) Nel modello
transensoriale (o metasensoriale) che noi opponiamo a quest’ultimo, non vi è alcun dato sensoriale
isolato e delimitato in partenza: i sensi sono canali, vie di comunicazione, più che territori.”1
In quest’ultima citazione dal testo di Michel Chion facente parte degli impliciti sottostanti a questo
progetto di lavoro, ritroviamo la propensione della cultura odierna a concepire l’universo dei sensi
olisticamente, non articolato in sotto-domini, e siamo in grado di avanzare una prima distinzione in
ciò che fino ad ora era stato definito sinestetico.
Se teniamo a mente i due artisti-linguaggio per ultimo analizzati, Barney e Cunningham, possiamo
rinvenire una fondamentale proprietà audiovisiva di creare struttura nella reciproca frammentazione
del continuum per mezzo di eventi discreti piuttosto che nella biunivoca corrispondenza del
sincronismo ritmico.
Il riallacciamento del sincronismo, la “messa in fase” dei due canali, deve presentarsi come
dinamica e non come dispositivo a meno che non sia stato deciso che il movimento di senso venga
percepito come dato a priori, e in questo senso ingabbiato.
Sarebbe il caso di riconoscere poi, attraverso i videoclip, i tentativi di prosecuzione del movimento
“a tempo”, dal taglio strutturale di montaggio al piano di superficie dell’immaginario riprodotto.
Molti artifici vengono sfruttati nel cinema di finzione e della tecnica del film sonoro per alimentare
l’illusione di realtà, tipico l’esempio di un montaggio visivo più l’effetto-collante di un suono
naturalistico. A questo controbattiamo la scomposizione surreale del movimento chiamando in
causa nuovamente il montaggio sonoro di frammenti i quali, mal amalgamati e semplicemente
giustapposti, potrebbero accostare il continuo visivo frantumandosi tra i vari diffusori di suono.
L’unisono e il suono distinto non esistono in natura. Il tentativo di simulare il “percetto” sonoro,
l’abilità specifica del rumorista nel cinema, è una delle tante forme di compressione dello spazio
sonoro verso la convergenza sullo schermo di proiezione visiva.
In realtà, lo vedremo ampiamente nel prossimo capitolo, il mosaico acustico è una struttura “del
suono che si sposta sopra” 2 . Come il canto degli uccelli e l’acqua che scorre, il suono, la vibrazione
sonora, non cessa di manifestarsi ed i nostri tentativi di rappresentazione fissandone il corso, non
possono prescindere da questa relazione continuum-variazione d’intensità analoga alla relazione
figura-sfondo della percezione visiva. La disciplina che studia i processi cognitivi del suono nei
contesti abitudinari di una cultura si chiama epistemologia acustica, in una parola acustemologia.

1
Michel Chion, L’audiovisione.Suono e immagine nel cinema, Edizioni Lindau, Torino 2001, p.117-118 (Ed.orig.
L’audio-vision. Son te image au cinema, Editions Nathan, 1990 Paris).
2
Il concetto di «Lift-up over sounding» venne sviluppato dall’etnomusicologo Steven Feld nel suo studio sulla cultura
Kaluli della Papua Nuova Guinea a proposito del loro performare il canto tradizionale gisalo in un’orchestrazione di
sovrapposizioni coro-solista come rappresentazione della struttura-interferenza del canto degli uccelli.

79
Steven Feld, antropologo ed etnomusicologo, ha sviluppato la sua personale interpretazione
dell’antropologia del suono legata ai processi di rappresentazione agenti in una cultura, che
costruiscono l’«immagine acustica» che tale cultura possiede della realtà di appartenenza.
Uno studio delle forme di rappresentazione attraverso la mediazione dei sensi non deve
assolutamente prescindere questo contrappunto metodologico alla netta predominanza del fattore
visivo nella nostra cultura occidentale, anzi dovrebbe svelare attraverso uno studio comparativo
delle stesse forme espressive i fattori di originalità tra le diverse culture e sottoculture del mondo.
Il problema fondamentale è che per loro natura i mezzi di comunicazione di massa, attraverso cui
viene collettivizzata l’evoluzione tecnologica, tendono a livellare i punti di vista differenti lasciando
in vita proprio quei prodotti la cui minore complessità funge da minimo comun denominatore verso
una comunicazione efficace.
Ora, lasciando da parte le nostre ridondanti sfiducie verso i criteri di selezione di una efficacia
comunicativa, anche il campo della creatività artistica è costretto a misurarsi con gli stessi problemi
che il macro-processo di scambio denominato “globalizzazione” ha reso pressanti negli ultimi
tempi. La sana ricerca sul campo, che viva tra la gente le tensioni in atto a seguito dell’impatto o
dell’assimilazione del fenomeno audiovisivo, non può circoscrivere il proprio senso critico alle
diverse attitudini estetiche che le culture si portano dietro. La vera ricerca audiovisiva (etno-?)
dovrebbe verificare le proprie teorie attraverso la sperimentazione dei modelli di rappresentazione
dell’ambiente osservati e attraverso il riferimento allo specifico immaginario culturale dei
comportamenti abitudinari, fornendo il metodo e gli strumenti di questa mediazione del reale,
producendo “documentari fantastici”. E subito si aprirebbe la strada a quei procedimenti che in
questa sede siamo stati costretti a definire ipotetico genere “concreto” dell’audiovisivo.
Potremmo riconoscere quanto siamo sovra-determinati nelle nostre abitudini audiovisive: dalla
logica di montaggio ab che segue il formalismo linguistico tipico della ricerca logica di primo
Novecento e connette i pensieri attraverso le sei modalità di combinazione dell’asserzione e della
negazione 1 , ai suoi riflessi in campo psicologico in termini di «relazione» e di «processo primario».
Ma siamo sicuri che il pensiero audiovisivo (visto che ‘cinematografico’ si porta dietro questa
tradizione che stiamo criticando) riproduca il nesso logico attraverso la simultaneità, raffiguri i
rapporti causali anteponendo la proposizione secondaria o trasformando un’immagine in un’altra,
rappresenti la somiglianza attraverso la “formazione mista”, e la contraddizione attraverso
“l’inversione” e il “non riuscire”, come per Freud il lavoro onirico? 2

1
Primo tipo: congiunzione [A e B], Secondo tipo: negazione [non (A e B)]; Terzo tipo: inferenza [(non A) e (non B):
né A né B]; Quarto tipo: disgiunzione [ non (né A, né B): A o B]; Quinto tipo: opposizione [(non A) e B: (non A) ma
B]; Sesto tipo: ipotesi [non ((non A) e B): se B allora A].
Tratto dalle Ricerche Logiche di Gottlob Frege, Edizioni Angelo Guerini, Milano 1988, pp.99-125.
2
Cfr.I mezzi di raffigurazione del sogno in Sigmund Freud, op.cit.pp.290-314.

80
Tutto questo “condensare” nel raccontare attraverso le immagini potrebbe aver inibito la nostra
capacità di scuotere dalla nostra memoria quelle frazioni dell’esperienza fissatesi in movimenti
emotivi, e con essa si starebbe eclissando quella dimensione così indispensabile verso una sana
“ecologia della mente” che pulsa dietro le attività del parlare, del riprodurre, dell’esternare, che
equilibra nella nostra natura umana la polarità designazione/espressione e che rende i processi
metabolici dell’assimilazione qualcosa di consapevolmente diverso dal mero defecare digestivo.
È ora il caso di racchiudere in una definitiva circonvoluzione di pensiero l’essenza stessa della
relazione tra i due aspetti della tecnica audiovisiva – manipolazione e montaggio - che sintetizza i
materiali della registrazione in una logica pulsionale cosciente rielaborando il tutto in funzione di
un “Tutto”.
Per poterci permettere una tale libertà abbiamo utilizzato un atteggiamento verso il linguaggio che
riproduce il salto qualitativo che intercorre sia emozionalmente sia razionalmente tra i due stati
della creazione audiovisiva: la prima manipolazione o fissazione (la mediazione dell’esperienza), e
la schizopoièsi manipolazione/montaggio, il piano della sublimazione dei materiali acquisiti sulla
superficie di movimento che modula il senso (il linguaggio audiovisivo).
Psicosoficamente parlando, il medium è qualcosa di più del messaggio che veicola e deforma a sua
immagine. Se il senso è un effetto prodotto dal movimento di segnale espresso attraverso un canale,
non può esserci senso non mediato, non può esistere “senso” linguistico senza una mediazione, e lo
stesso linguaggio è già in se stesso mediazione essendo veicolo dell’espressione. Esiste la ricezione,
assunzione e assimilazione del designato, del “sentito” e della sensazione “appresa” (per-cepita); e
poi – come in risposta o una conseguenza – la riflessione, la restituzione “elaborata” di ciò che si è
ricevuto, la sua trasformazione 1 .
Il linguaggio è il medium per eccellenza, è il canale di questa produttività fisiologica.
Un canale può essere analogico e quindi sensoriale, oppure digitale e riguardare i processi d’alto
livello, lo scambio neuronale. Attraverso il suo uso il canale si struttura in abitudine e memoria, ed è
linguaggio proprio questa struttura. A trasformarsi in linguaggio è il nostro «istinto di espressione»,
la vera e propria pulsione.
Nella psiche, l’universo degli scambi neuronali che codificano l’esperienza analogica, tale pulsione
investe le differenze di potenziale frequenti, facendole vibrare, fino a fonderle insieme e creare
nuove connessioni. Oppure seguendo la terminologia classica freudiana si poteva dire che la libido
sollecita i contenuti mentali fino a metterli in relazione l’un l’altro nei loro spazi di memoria dando
luogo alle associazioni inconsce.
L’attività artistica è questo processo divenuto consapevole, controllato e indotto.

1
“Nulla si crea, nulla si distrugge…”

81
Per questo l’arte non è un territorio ma riguarda le innovazioni linguistiche compiute sul canale.
Ognuno di noi plasma i propri canali attraverso cui diventare espressione ed il progredire collettivo
non può che lasciare via libera alle infinite singolarità linguistiche.
I medium audiovisivi traducono ciò che abbiamo imparato a percepire, il linguaggio analogico dei
sensi, in supporti di memoria esterni al nostro regime corporeo, e consentono di concepire allo
stesso tempo nuovi stimoli sensoriali intervenendo sul dispositivo che sostituisce l’organo di senso,
in modo tale da disporre dopo avere compiuto la registrazione di un materiale pre-espresso, anzi
espresso mentre designato, non “percepito” se una funzione di novità agisce nel contesto in cui
stiamo operando. Questa distinzione tra “sentito” e “percepito” potrebbe sembrare riduttiva se non
fossimo disposti ad annettere una struttura di linguaggio evolutasi in ogni nostro senso
all’Immagine di tale struttura sublimata sul piano simbolico, l’universo di contenuti e delle
significazioni. Potrebbe darsi che l’immagine sia quel processo che associa l’impressione che si
inscrive nell’organo di senso all’evento codificato dai ricettori neuronali e che strutturi - qui Lacan
è stato fondamentale 1 - la stessa possibilità d’espressione attraverso tali associazioni, un potenziale
“immaginabile”, l’immaginario di cui continuiamo a parlare.
In questo senso l’immagine è una conseguenza del linguaggio, come l’idea. Perché
l’immaginazione è l’avanzare ipotesi dei sensi attraverso gli «schemi d’esperienza» 2 che la
solidificazione dell’esperienza rende possibile, senza di cui non si potrebbe parlare né di
sistematicità o di sintassi, né di produttività o di composizionalità del linguaggio.
Cercando di penetrare la natura dell’immaginario, e quindi sublimando pulsioni in una presa
emotiva della natura ideale di forme sonore o visive, o quelle specifiche di ogni altro senso,
potremo intuire quanto nel rappresentare siamo sempre condizionati linguisticamente dai nostri
dispositivi che rappresentano.
La rappresentazione è la possibilità generica dell’idea realizzata in una specifica determinazione
spazio-temporale, dall’immaginario all’immagine.
Di tutte le proprietà del linguaggio evidenziate dall’analisi pragmatica 3 la «possibilità di
dislocazione», il trattamento delle categorie di spazio e tempo che un medium consente, è quella
caratteristica che, se riferita al movimento di senso (e sensum) che il medium realizza, descrive
l’accesso all’immaginario di riferimento, la competenza di sensum e l’atto stesso del rappresentare.
A meno che nella nostra coscienza la possibilità d’immaginare si sia fossilizzata in una sola
modalità d’espressione – cosa che trasforma l’immaginario-ipotesi in una formula-racconto –

1
Vedi p.19 di Senso & Sensazione.
2
Cfr. p.45-46 sinestesia e «mappe somatosensoriali».
3
Vedi p.5 dell’Introduzione.

82
l’accesso alla lingua dei sensi è circolare e ridondante, non una ripetizione meccanica, ma la
differenza evidente della stessa esperienza, ed è così che si formano gli immaginari.
L’alternativa, al racconto ovviamente, è la costante esperienza del “sempre nuovo” giornalistico.
Non lo sforzo della forma-evento raccolta integralmente, ma quella costruita di sana pianta
attraverso la significazione immanente al medium utilizzando il bagaglio culturale divenuto
implicito e condiviso 1 .
Per noi che abbiamo ereditato le tecniche cinematografiche occidentali esiste un preciso trattamento
spazio-temporale (découpage) che tenta di fissare dei vincoli logici alla rappresentazione. Oggi, la
computer grafica tridimensionale invece introduce nuove forme di movimento che soprattutto nella
gestione dello spazio lasciano presagire la prossimità di un suo superamento, mentre il dominio
attuale del tempo continua a perdurare la schiavitù del suono in una gestione del ritmo vincolata alla
“visività” della sequenza e della sovrapposizione.
Se avessimo modo di lasciar detonare la forza di rappresentazione propria del suono, approfittando
di quell’aspetto perverso della dittatura visiva quale la decorazione dello spazio di proiezione
tramite la tecnica dei suoni chiamata surround sound, la concezione del tempo della nostra cultura
in istanti e cicli potrebbe incontrare l’anziana dominatrice e lasciar intuire veri e propri eventi di
audiovisione. Prima però per forza di cose una rivoluzione di suoni anticiperà la convivenza serena.
Sappiamo che sequenza e sovrapposizione da un lato, insieme alla variazione considerevole del
flusso costante («lift-over-sounding») ed all’immobilizzazione del flusso in un circuito chiuso
(“loop”) dall’altro, fanno parte del nostro bagaglio culturale tanto da poterli considerare elementi di
una struttura audiovisiva di nuova definizione, grazie in special modo alle determinazioni sonore
per una forma di «trascendenza» che il suono possiede rispetto ai vincoli che la percezione visiva
incontra nella realtà quotidiana, e per la cinematicità opprimente che questi vincoli occidentali
hanno reso dominio.
Per provare a sciogliere coi termini della ragione la categoria spazio/tempo nel linguaggio
dell’audiovisivo torniamo al pensiero-cinema, senza interpretare riflessioni esistenti ma provando a
costruire un dialogo con la formulazione più recente e rappresentativa. Torniamo a Deleuze ed al
suo intervento sul movimento nell’immagine cinematografica per costruire dialetticamente le nostre
ipotesi sul tempo e lo spazio audiovisivi dato che dal Movimento tali categorie discendono. Ne
articoliamo un’alternanza dalla Tesi sul movimento. Primo commento di Bergson. 2

1
Tutti questi accenni ad ipotetici “generi audiovisivi” ovviamente hanno i loro presunti primi esperimenti e tentativi nel
cinema tradizionale. Un esempio di “documentario fantastico” innanzitutto è il film The Wild Blue Yonder di Werner
Herzog (2005). Un esperimento di giornalismo surreale invece potrebbe verificarsi nei contesti di ricerca etnologica che
descrivevamo prima in cui una realtà immaginaria incontra quella biografica in una morfologia tradizionale di racconto
destrutturata per esempio dall’intenzione sperimentale.
2
Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984.

83
Bergson non presenta una sola tesi sul movimento, ma tre. Secondo la prima tesi, il movimento
non si confonde con lo spazio percorso. Lo spazio percorso è passato, il movimento è presente, è
l’atto di percorrere. Non si può ricostituire il movimento con posizioni nello spazio o con istanti
nel tempo, cioè con delle sezioni immobili. (…)
Non si può tentare una simile ricostituzione del movimento perché sfocia inevitabilmente nell’idea
di un tempo astratto, una successione omogenea in cui gli eventi hanno luogo universalmente a
prescindere dai contesti e dai dispositivi che riproducono il movimento stesso. L’idea della
divisibilità del movimento è contingente alla nascita del cinema, è una problematica del dispositivo
cinematografico di proiezione.
Nel 1907 Bergson battezza la cattiva formula: è l’illusione cinematografica. Il cinema ci
consegna dunque un falso movimento, è anzi l’esempio tipico del falso movimento. Ma la
riproduzione dell’illusione non è in un certo modo anche la sua correzione? Il cinema procede
con fotogrammi, ma quanto ci mostra è un’immagine media alla quale il movimento appartiene
come dato immediato. (…)
L’immagine elettronica giunge successivamente a questa conclusione fenomenologica di una
“correzione” dell’illusione attraverso la sua esperienza. Il sistema medium-soggetto si è sviluppato
sulle basi del funzionamento dell’organo di senso che il mezzo estende. La percezione
cinematografica è indipendente da ogni altra determinazione del movimento in natura, infatti…
Lo stesso accade per la percezione naturale, ma in questo caso l’illusione è corretta a monte della
percezione, mentre al cinema essa è corretta contemporaneamente all’apparire dell’immagine.
Insomma, il cinema non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci dà
immediatamente un’immagine-movimento. (…)
Se riportiamo il discorso ai medium audiovisivi, ritorniamo a distinguere l’immagine prodotta dal
medium dal processo di rappresentazione di un’immagine. È come se ci sentissimo ugualmente
limitati dal circoscrivere l’immagine-movimento alla sola rappresentazione cinematografica tanto
quanto lo eravamo dall’idea di un tempo astratto del movimento ricostruito, e fossimo portati a
puntualizzare che ogni processo di assimilazione del mondo esterno è legato alla produzione di
un’immagine specifica modulata attraverso il canale della sua esperienza. Immagine-movimento
può definirsi lo svolgersi di ogni esperienza estetica, è un sinonimo quasi di “produzione d’arte”,
perché l’immagine non è solo “rappresentata”, viene anche “prodotta” attraverso qualcosa.
L’immagine-movimento dell’audiovisione è la rappresentazione attraverso la sensazione combinata
dell’occhio e dell’orecchio che prova a diventare linguaggio attraverso la strutturazione di un
sensum comune. Ma siamo solo all’inizio.

84
L’essenza di una cosa non appare mai all’inizio, ma in mezzo nel corso del suo sviluppo, quando
le sue forze sono consolidate. Il cinema ai suoi inizi non è forse costretto a imitare la percezione
naturale? L’evoluzione del cinema, la conquista della sua propria essenza o novità si farà
attraverso il montaggio, la cinepresa mobile e l’emancipazione della ripresa che si separa dalla
proiezione. (…)
Il montaggio è davvero la continuità dal cinematografico all’audiovisivo, la dimensione in cui una
tecnologia sperimenta le possibilità della sua erede. Ci chiediamo ancora perché non sediamo di
fronte ad una piattaforma di lavoro audiovisiva a tutti gli effetti e la risposta è solo un gap di
potenza dei macchinari accessibili. Ma quanto tempo abbiamo ancora per forzare i mezzi a nostra
disposizione e suggerire esigenze di mercato e quanta voglia abbiamo di farlo?
Noi in questa sede stiamo solo creando una ridondanza per sublimare una pulsione che ha già i suoi
percorsi infra-linguistici segnati ma abbiamo già le nostre articolazioni slegate dal nostro corpo e i
nostri organi di senso emancipati manca solo l’assalto quantitativo del linguaggio negli schemi
mentali condivisi. In questo momento iniziale l’audiovisivo imita l’evoluzione naturale del sensum.
La rivoluzione scientifica moderna è consistita nel ricondurre il movimento, non più a degli
istanti privilegiati, ma all’istante qualsiasi. La ricomposizione del movimento - seconda tesi - non
avveniva più a partire da elementi formali trascendenti (pose), ma a partire da elementi materiali
immanenti (sezioni). (…)
Solo l’istante qualsiasi conserva la sua significazione informale. La sua impiegabilità assoluta.
È ovvio che una volta fissato in un supporto ‘quel’ movimento particolare diventa l’impronta di un
fenomeno interpretabile, la semiosi è una minaccia che bisogna imparare ad evitare e tale
apprendimento abbiamo suggerito diventa possibile di fronte ad un materiale immaginario neutro,
privo d’interesse, come le abitudini, per potere indirizzare la mente verso discriminazioni più sottili.
Per di più abbiamo compreso attraverso la psicanalisi quali sono le ragioni per cui la nostra
coscienza si ritrova di fronte a frammenti d’esperienza che non credevamo ci avessero segnato e
quindi potremmo esprimere tutto ciò che associamo a ‘quel’ movimento da tradurre più che tentare
di evocare la sensazione. Ma non solo, dovremmo riuscire ad esprimere per come quella sensazione
funge da collante nelle associazioni, a prescindere dal percetto, attraverso il solo movimento,
modulando la sua vibrazione.
L’istante notevole o singolare rimane un istante qualsiasi tra gli altri. Tale produzione di
singolarità (il salto qualitativo) si fa per accumulazione di ordinari (processo quantitativo), tanto
che il singolare è prelevato sul qualsiasi, è esso stesso un qualsiasi semplicemente non-ordinario
o non-regolare. (…)

85
Della storia del cinema biasimiamo le opere in cui la durata del frammento non è vincolata alla
vibrazione della luce ma lascia spazio ad una narrazione estranea. Nostra Signora dei Turchi di
Carmelo Bene, pur mirando alla decostruzione di un Testo, raggiunge il cinema della pura
vibrazione per buona parte del film. Non bisogna pensare all’istante necessariamente come alla
minima porzione di percezione possibile, si possono considerare istanti tutti gli eventi percepibili,
anche se accompagnati dall’inconsapevolezza di una parte dell’esperienza, come le Gestalt
vibratorie o del flusso audiovisivo.
In un regime audiovisivo l’istante privilegiato è quello in cui avviene l’incontro, o lo scontro, dei
due canali: l’istante sinestetico dura tutto l’arco della sensazione.
Ma la sensazione è un ottimo riferimento anche per gli istanti non-privilegiati.
Ma quale può essere l’interesse di un tale sistema che riproduce il movimento riportandolo
all’istante qualsiasi? Ci ritroviamo nel cuore della situazione ambigua del cinema come “arte
industriale”: non era né un’arte né una scienza.
Forse lo è entrambi: studiare la sensazione significa sperimentare nell’orizzonte extralinguistico la
capacità d’espressione. La questione degli istanti percepibili è un problema di linguaggio, significa
“fino a che punto sono capace di riconoscere una comunicazione dietro questo assembramento di
suoni e colori riprodotti, ripresentati, rappresi…rappresentati nel movimento?”
La trasmissione di sensazioni vanifica il conflitto logico, è contraria alla logica esplicativa che
altrimenti viene chiamata manipolazione delle coscienze, ogni prodotto di questa comunicazione
deve essere un regalo fatto per influire in un contesto o in una circostanza senza diventare cultura.
Atti linguistici audiovisivi, irripetibili ma riproducibili finché fissati su un supporto.
Lo stesso montaggio di logico ha il raggiungimento tecnico del fine immanente, della Fine, del
momento in cui compare il titolo, il simbolo che battezza la strada solcata (perché metterlo all’inizio
se non si vuole celebrare il rito del racconto?).
Attraverso il montaggio ed il movimento composto si trasmette la sensazione al senso della vista o
dell’udito.
Il movimento viene sperimentato senza che esistano già le parole per definirlo
Bergson mostra con forza che il cinema appartiene a questa concezione moderna del movimento.
Quando si riporta il movimento a dei momenti qualsiasi, bisogna diventare capaci di pensare la
produzione del nuovo, cioè del notevole e del singolare, in uno qualunque di questi momenti:
Bergson da alla scienza moderna la metafisica che le corrisponde ed il cinema non è più la
macchina perfezionata della più vecchia illusione, ma al contrario l’organo da perfezionare della
nuova realtà. (…)

86
Tale perfezionamento dell’organo consiste tipicamente nella pratica di rinforzo che la ripetizione
delle formule sperimentate determina, al contrario l’organo della nuova realtà è ancora esplorabile,
ed il passo verso il nuovo viene anticipato da una considerazione sistematica della realtà esistente.
Ci accorgiamo, come trascinati da un’onda, di accondiscendere all’uso semi-fisiologico delle
tecnologie di mediazione dei sensi, handicappati da un istintivo principio di piacere ma determinati
nell’atteggiamento ludico assunto di fronte alle nuove esperienze.
Il nuovo dell’audiovisivo compare nelle possibilità di tempi e spazi misurati attraverso i microfoni e
le videocamere, senza l’invasione di strumenti di misura impropri. Se fino ad oggi il cinema è stato
solcato con gli strumenti logico-consequenziali della cultura occidentale, una volta prodotta
l’interferenza costruttiva che porta il medium giovane a rivendicare la sua indipendenza dal suo
genitore, resta al medium esibire la propria espressione come formazione laterale.
Tocca al medium rendere evidente l’attività mentale di sua competenza, di
immagine_sensazione_sogno, di tutti i movimenti dell’organismo che non trovano significati per
rappresentarsi ma concatenazioni efficaci, che fanno effetto producendo un senso, un movimento di
superficie.
La terza tesi di Bergson dice: non soltanto l’istante è una sezione immobile del movimento, ma il
movimento è una sezione mobile della durata, cioè del Tutto o di un tutto. Il movimento
“esprime” un cambiamento nella durata o nel tutto, il problema è costituito dalla natura di
questa espressione e dall’identificazione tutto-durata. (…)
Innanzitutto è e deve essere chiaro che il messaggio del canale audiovisivo si configura anch’esso
sullo schema tradizionale della comunicazione con emissioni e ricezioni isomorfe al messaggio.
Se in primo luogo l’emittente scolpisce il messaggio attraverso la combinazione di informazioni-
impronte analogiche flettendo il tempo in una forma di ridondanza circolare che si evolve attraverso
variazioni rilevanti nei movimenti dello spazio visivo e sonoro; il ricevente decodifica lo spazio
riconoscendo questi istanti notevoli e nell’arco di tempo che corre tra un evento e l’altro percepisce
un movimento come “durata”.
La forma che traduce la traslazione del movimento spaziale nella durata è il messaggio del medium.
È l’impronta del movimento di senso audiovisivo in chi riceve e l’obiettivo da raggiungere
dell’emittente, il quale quando il lavoro è finito perviene ad un’immagine della durata di tutto il
processo e del tutto dei procedimenti di raccordo tra gli istanti immobili.
L’Immagine dell’Alterità che ha premuto la pulsione e la Logica di Montaggio (Madre-Padre).
Siamo partiti desiderando la persona sperimentata in frammenti di corpo e abbiamo trovato le
soluzioni contingenti per arrivare a comporne l’immagine sviluppando un metodo, una prassi.

87
Il movimento è una traslazione nello spazio: ogni traslazione di parti nello spazio è anche un
cambiamento qualitativo in un tutto. (…) un animale si sposta per mangiare o per migrare, non
gratuitamente: il movimento suppone una differenza di potenziale e si propone di colmarla. La
caduta di un corpo ne suppone un altro che l’attira e suppone un cambiamento nel tutto che li
comprende entrambi. Ciò che Bergson scopre aldilà della traslazione, è la vibrazione,
l’irradiazione. (…)
Il metodo consiste nell’insieme di abilità tecniche attraverso cui colmare le differenze di potenziale:
dalla trasformazione della forma visiva o sonora nella seguente, senza soluzione di continuità, alla
netta cesura, i tagli e le interruzioni, o tutte le dinamiche della sovrapposizione.
Focalizzata la superficie dello schermo come dimensione privilegiata dello spazio nella
bidimensionalità della luce e del “tappeto sonoro”, piuttosto che gli sprofondamenti nel figurativo
tridimensionale, assume rilevanza la natura vibratoria del fenomeno, la cui purezza rischia di
mantenere il senso allo stato informale. Questo è il motivo per cui anche nel linguaggio audiovisivo
esistono dei comportamenti linguistici che fungono da modulatori di superficie ed esibiscono
l’escursione dal simulacro materiale al fenomeno vibratorio.
La frequenza vibratoria è l’elemento chiave dei processi armonici: laddove esiste la possibilità di
computazione, come nell’ambito digitale, esiste quella di introdurre dei formalismi logici per
pianificare delle composizioni vibratorie in equilibrio quantitativo.
In realtà è nella proiezione immaginaria che sedimentiamo già i valori armonici delle immagini
audiovisive. Se proviamo ad afferrare uno dei frammenti rilevanti che costituiscono le basi del
progetto creativo, penseremo già audiovisivamente dosando la percentuale simbolico-concreta tra i
due canali, come l’accompagnamento musicale (simbolico) può esprimere l’emotività di un
processo visivo (concreto), o la digressione paesaggistica visiva accompagnare un collage di rumori
provocati di prima mano (idem).
La nostra attività mentale produce già risonanza tra le frequenze di trasmissione neuronale, ciò che
dobbiamo apprendere è come nutrire il nostro pensiero audiovisivo. Si tratta di vere e proprie
facoltà mentali che interferiscono con la nostra coscienza ma anche di abilità cognitive che
vogliamo sforzarci di raggiungere attraverso l’insight ‘orientato’, meditativo.
La terza tesi sul movimento pone l’analogia seguente: movimento-successione di sezioni
immobili = movimento-sezione mobile della durata cambiamento qualitativo del tutto. Con questa
differenza, che il rapporto di sinistra esprime un illusione, mentre il rapporto di destra esprime
una realtà. (…)
“Illusorio” è il movimento dello spazio, perché ricostruito istante per istante, “reale e concreto”
quello del tempo perché implica una trasformazione nella coscienza che attende e che “dura”.

88
L’attesa esprime una durata come realtà mentale, spirituale. Questa durata spirituale testimonia
non soltanto me che aspetto, ma il tutto che cambia. Bergson ha anzitutto scoperto la durata
come identica alla coscienza ed ha mostrato che essa esisteva solo aprendosi su un tutto,
coincidendo con l’apertura di un tutto vivente: “dovunque qualcosa vive, vi è, aperto in qualche
parte, un registro in cui si inscrive il tempo”. (…)
Ecco come definire allora l’Immagine del Tutto cui riferiamo la nostra produzione audiovisiva:
l’insieme delle relazioni di elementi espressi in immagini-movimento che articolano un’iniziale
totalità d’incoscienza verso il compimento spazio-temporale nella declinazione di montaggio:
l’immagine-tempo.
Della stessa durata o del tempo, possiamo dire che è il tutto delle relazioni. Il tutto si crea e non
cessa di crearsi in un’altra dimensione senza parti, in tal senso esso è spirituale e mentale: “il
bicchiere d’acqua, lo zucchero e il processo di dissoluzione dello zucchero nell’acqua sono senza
dubbio delle astrazioni, e il Tutto nel quale essi sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio
intendere progredisce forse allo stesso modo di una coscienza”. (…)
Questi elementi pre-coscienti registrati nei supporti dei dispositivi di memoria tecnologici non
godono immediatamente della stessa proprietà astratta dei corrispettivi “mentali”, frutto delle nostre
previsioni sull’ambiente di provenienza degli stimoli sensoriali. L’accesso alla coscienza infatti
comporta l’esclusione di uno sfondo indefinitamente esteso di variabili interferenti con la
percezione e di tale esclusione rende conto ogni processo di rappresentazione.
Attraverso il montaggio le sezioni di movimento fissate mantengono una loro “concretezza” nella
sensazione, e l’inevitabile astrazione cognitiva coinvolge la struttura complessiva della durata di
sensum nei canali audiovisivi interferenti.
Il sezionamento artificiale di un insieme o di un sistema chiuso non è pura illusione. È fondato
perché l’organizzazione della materia rende possibili sistemi chiusi ed insiemi determinati di
parti; e lo spiegamento nello spazio li rende necessari. Ma, precisamente, gli insiemi sono nello
spazio, e il tutto, i tutti sono nella durata, sono la durata stessa in quanto non cessa di cambiare.
(…) Cosicché le due formule della prima tesi di Bergson assumono uno statuto più rigoroso:
“sezioni immobili + tempo astratto”rinvia agli insiemi chiusi in cui le parti sono sezioni immobili
e gli stati successivi sono calcolati su un tempo astratto; mentre “movimento reale + durata
concreta” rinvia all’apertura di un tutto che dura. (…)
Le limitazioni d’accesso del pensiero sequenziale alla costruzione d’immagini che superino le
categorie spaziali nello strutturare la mappa della rappresentazione riguardano alcune dinamiche di
linguaggio.

89
Com’è facile notare nel discorso comune sull’immaginazione, la descrizione o la digressione, come
processi dell’articolazione spazio-temporale di una realtà in potenza, esplorano ‘parti’ o il percorso
di un tutto in via di sviluppo attraverso l’escursione temporale del pensiero sulla superficie di
un’immagine ideale. Ma questa tecnica di linguaggio poggia sulla condizione statica dell’oggetto
estromesso dalla coscienza come se l’immagine esistesse a priori, platonicamente.
Tuttavia nel corso della psicanalisi si evolve funzionalmente la nozione di un’attività di senso legata
alle impressioni attraverso la ripetizione e la ridondanza dell’esperienza cui viene dato il nome di
«immagine», con particolare attenzione al processo di produzione ad essa sotteso. Da qui il
rovesciamento sul focus temporale per descrivere la struttura delle formule cicliche della ripetizione
e la variazione nelle categorie spaziali, attraverso cui cognitivamente avviene il ‘rinforzo’ e viene
percepita la ‘differenza’.
Al termine di questa terza tesi [di Bergson], ci troviamo in effetti su tre livelli: 1) gli insiemi o
sistemi chiusi definiti attraverso parti distinte; 2) il movimento di traslazione; 3) la durata o il
tutto, realtà spirituale che non cessa di cambiare secondo le sue relazioni proprie.
Il movimento ha dunque, in un certo senso due aspetti. Da una parte è quanto accade tra oggetti
o parti, dall’altra è ciò che esprime la durata o il tutto. (…)
Il movimento è ciò che distingue la manipolazione ed il montaggio e li accomuna rendendoli
imprescindibili, l’uno in funzione dell’altro.
Col movimento, il tutto si divide negli oggetti, e gli oggetti si riuniscono nel tutto: e, tra loro, per
l’appunto “tutto” cambia. Possiamo considerare gli oggetti o le parti di un insieme come sezioni
immobili; ma il movimento si stabilisce tra queste sezioni e riporta gli oggetti alla durata di un
tutto che cambia ed esprime il cambiamento del tutto nei confronti degli oggetti, è esso stesso una
sezione mobile della durata. (…)
La manipolazione ‘fissa’, rende immobile, “scolpisce” il movimento dell’oggetto-simulacro
attraverso la modulazione dell’insieme vibratorio che giunge a noi sotto forma di sensazione.
Il montaggio riunisce il movimento in un flusso costante di transizioni e alterazioni vibratorie che
conduce nel nostro organismo il processo di coscienza definito «Immagine-…» con cui
sperimentiamo la rappresentazione.
Non vi sono solo delle immagini istantanee, cioè sezioni immobili del movimento; vi sono
immagini-movimento che sono sezioni mobili della durata; vi sono infine immagini-tempo, cioè
immagini-durata, immagini-cambiamento, immagini-relazione, immagini-volume, aldilà del
movimento stesso…

90
L’IMMAGINE SUONO


…Durante questa preghiera e il rosario che ad essa si unisce,
la divota è tutta orecchi
per udir l’eco (lu leccu) delle anime.
La cosa è importante,
perché da questa eco si potrà argomentare se la grazia perché si prega verrà concessa.
L’eco si traduce in segni buoni e in segni cattivi,
secondo che buono o cattivo debba essere il risultato della novena.
Buoni segni
Il canto d’un gallo,
il latrare d’un cane,
un bel fischio,
un suono di chitarra,
una scampanata o una scampanellata,
una bella canzone (specialmente d’amore),
il picchiare all’uscio di casa,
il rapido chiudersi di una imposta,
il passare rapidissimo d’una carrozza.
Cattivi segni
Il miagolio d’un gatto
(segno interpretato come fatale se si hanno parenti in viaggio),
il ragliare d’un asino,
una contesa,
un pianto,
un lamento,
un peto (!) e,
più che qualunque altro fatto,
un po’ d’acqua che si butti in mezzo la via.
Egli è allora che il rosario si deve sospendere,
perché nessuna cosa è tanto fatale quanto l’acqua,
forse,
credo io,
perché le sue gocce richiamano alle lagrime…

(Giuseppe Pitrè, Usi e Costumi. Credenze e pregiudizi del popolo siciliano 1 )

1
Dal Volume quarto, Esseri soprannaturali e meravigliosi, Le Anime dei corpi decollati, p.26-27.
Pubblicato dal Gruppo editoriale Brancato-Clio-Biesse-Nuova Bietti, 1993 Catania.

91
In latino il verbo imagino esprime fondamentalmente il rispecchiare. Ma nella radice greca di μιμός
e del verbo μιμέομαι si ritrova un senso dell’uso improprio del termine, mimaginem, che lega il
sostantivo imago, -inis al concetto dell’imitazione.
“In, come prefisso, si assimila davanti a l, m, r (illacrimo, immetto, irrepo)” e “in composizione con
verbi non altera generalmente il loro significato e vale in, dentro, sopra, contro; (…) in
composizione con sostantivi e aggettivi ha valore di particella negativa.” 1
Noi non crediamo inequivocabile l’attribuzione di tale prefisso ad uno solo dei termini coinvolti
nell’etimo di immagine e approfittiamo dell’incertezza nelle riverberazioni concettuali della
scansione di in(prefisso)- me(sostant.accusativo)- ago(verbo àgere, condurre) per riconoscervi i
fondamenti di una gnoseologia artificiale che fin dall’origine della scrittura porta l’uomo alla
reificazione della conoscenza attraverso forme di rappresentazione.
L’altro livello di lettura della parola ‘immagine’, quello concernente la relazione
emanazione_simbolica\impressioni_culturali, implica l’aspetto esterno di una cosa o di una persona
percepita dal senso della vista che, in questa sede di licenze concesse al nostro criterio, avvalora
l’ipotesi che dietro questo focus sensoriale si nasconda lo stesso dispositivo atropo-logico della
prospettiva rinascimentale con cui l’uomo amputato degli oggetti è in grado di conoscere senza
“sporcarsi le mani”. La prospettiva occidentale ‘optocentrica’ trascura il dato che in tutte le culture
orali ed in molte tradizioni orientali l’universo della vista è il regno dell’illusione giacché la luce è
più rapida e quantitativamente immediata mentre il suono come flusso è qualitativamente più denso.
Così ogni contenuto mentale intuitivo che si distingua dal percepito per il fatto che il suo oggetto
non è presente non circoscrive la propria possibilità di immagine al solo universo della luce:
l’immagine è la rappresentazione. Sia riproduzione esatta o manifestazione simbolica, l’immagine è
un prodotto dell’elaborazione interiore che concerne i sensi, tutti i sensi.
La visione interiore è solo più semplice, meno filtrata dallo sforzo cognitivo. Da ciò l’abitudine di
un contenuto ottico del termine, mentre, con adeguato riguardo per il ruolo dei verbi nel pensiero,
l’immaginare sollecita processi sistemici d’associazione tali da renderci consci di una spudorata
immediatezza del dato visivo nell’immaginazione del profumo di una rosa, o dell’odore della legna
che va a fuoco, o del calore di un amplesso: il concepimento visuale fa da trampolino allo sforzo
produttivo dell’immaginazione vera e propria. E attraverso queste ‘espressioni’ non ci appropriamo
a posteriori delle nostre esperienze sinestetiche ma ci soffermiamo con calma sull’unità organica
delle nostre percezioni, sulla evidente inseparabilità del pensiero dalla dimensione corporea.
Quindi in-me-ago: spingo innanzi dentro di me, produco.
Come processo della psiche si attesta sulla conoscenza sensibile.

1
Dal Vocabolario della lingua latina, Castiglioni Mariotti, Loescher Editore (…) p.499.

92
In questa tesi, per i motivi esposti nei capitoli precedenti, «linguaggio» e «cultura» nei termini
strutturalisti sono stati usati spesso come sinonimi, lo stesso avviene da questo momento per ciò che
riguarda «immagine» e «rappresentazione», i riferimenti sono ormai ovvii.
Meno ovvia potrà sembrare la citazione del Pitrè con cui si apre questo capitolo e per discuterne
abbiamo sfruttato il risvolto autobiografico di alcuni scatti fotografici 1 che riportano il nostro
discorso ad una sfera emotiva, il piano ermeneutico da cui vogliamo estrapolare le nostre intuizioni.
Sull’opera del più illustre “psicologo della tradizione popolare” poco avremmo da aggiungere anche
perché in questa sede non è sul lavoro antropologico canonico che si è concentrata la nostra
attenzione. È risaputo che Giuseppe Pitrè fu fondatore in Sicilia della scienza che studia le
manifestazioni, le tradizioni e la cultura di un popolo, la «demologia» da lui battezzata
«demopsicologia» che insegnò all'Università di Palermo.
Giuseppe Pitrè fu formidabile nel raccogliere e catalogare gli ultimi bagliori del mondo popolare
siciliano e non solo: il popolo e i contadini siciliani, i loro usi e costumi, i canti, i racconti, i
proverbi, le feste e quant'altro proveniva da quel mondo fu messo sotto osservazione, ne furono
tratti le corrispondenze e quindi le somiglianze o le evidenti differenze con tradizioni di altri luoghi.
Nel suo smisurato progetto ci siamo imbattuti durante una ricerca sulle credenze religiose del
mondo popolare palermitano a proposito dell’incredibile vocazione per il sacro che porta una
cultura a connotare l’acqua, simbolo universale di vita, in termini negativi.
Tuttavia siamo rimasti colpiti dal passo relativo alle preghiere delle devote all’«anime dei decollati»
perché abbandona il quadro della ricerca etnologica per aprire una parentesi di proto-psicanalisi dal
momento in cui descrive il processo psicologico della coscienza in attesa di un “segno”
interpretando la predisposizione mentale.
Questo aspetto che riguarda la codifica della percezione, ovvero il fatto che la nostra coscienza
coglie il reale attraverso le dimensioni da cui è stata educata a percepire o attraverso gli elementi
che ha imparato a discernere, si trova qui affiancato all’idea di una struttura mentale vuota in attesa
di riempimento cui la coscienza presta contenuti immaginari.
Infatti: “Compiute le preghiere, ogni buona divota passa nella cappelletta a destra, s’accosta ad una
lapide pur messa a destra, sotto la quale si credono numerosissime le anime, e parla o mormora, e
prega, ed interroga e vuole. Finito di parlare vi applica l’orecchio, attende trepidante il responso. Se
ode un leggiero tintinnio (il quale naturalmente non potrà mancare ad una fantasia troppo alterata in
quell’istante) è segno che la grazia è già stata conceduta.” 2
Ecco la prima determinazione dell’immagine(del)suono: il piano di proiezione del percepito, o il
quadro cognitivo, frame, del contesto uditivo culturale ed appreso.
1
Vai a fine capitolo p.122-123.
2
Giuseppe Pitrè, op.cit.p.23-24.

93
Noi stessi non ne riusciremmo a parlare se non riferendoci ad una cornice dell’esperienza in cui
sono sollecite le nostre emozioni ed in cui proiettiamo i nostri ricordi. L’immagine infatti ha a che
vedere con la possibilità dell’esperienza, in pratica con la dimensione in cui passato e futuro si
fondono assieme per ciò che ancora non è ma che può essere in base a come è già stato prima.
E ritorniamo alla questione ordinaria. Come non proiettare nel vissuto quotidiano l’insieme di suoni
di buono o cattivo esito con cui le devote traevano responso ai loro patemi?
Il gallo, il cane, il fischio o la chitarra, i suoni d’imposte o dell’uscio di casa, delle carrozze.
Stiamo disegnando un paesaggio sonoro.
Riportandoli al giorno oggi le nostre divote ascolterebbero il suono di una sveglia, o una radio, il
campanello di casa o uno squillo telefonico, un automobile che passa o un aereo a distanza. È ovvio
che il calcolo delle probabilità influenza le ipotesi sull’esito dell’evento su cui si è ‘scommesso’ e il
disappunto iniziale sull’acqua e la meraviglia di fronte alla simbologia negativa scompare se
relazionato al contesto di siccità in cui si trova la Sicilia per cui è inopportuno aspettarsi uno spreco
di acqua se non per una necessità ‘emblematica’.
Giuseppe Pitrè ci introduce alla ricerca letteraria sul paesaggio sonoro cui l’immagine-suono si
relaziona da una prospettiva estetico-produttiva. Ma prima di dedicarci all’opera d’ecologia acustica
più importante della ricerca antropologica multidisciplinare vorremmo contravvenire alla
determinazione anti-semiotica per individuare un piano intermedio tra questo concetto di paesaggio
dato alla nostra percezione ed il concetto di paesaggio costruito dalla nostra produzione
immaginaria, tributando la nostra eccezione ad un articolo di Alessandro Perissinotto sul paesaggio
come testo. 1
Nella pratica quotidiana, quando ci riferiamo ad un paesaggio, diamo per implicita l’esistenza di
una realtà rilevabile, perlopiù visibile, sul piano della consistenza fisica, la definizione più generale
del concetto di paesaggio è “l’immagine da noi percepita di un tratto della superficie terrestre.” 2
Ora, filtriamo tale definizione con la griglia che stiamo progressivamente costruendo, “immagine”
qui starebbe per la specifica modalità umana di esperire lo spazio reale, il cosiddetto territorio,
percepita attraverso una “mappa” cognitiva che la tradizione e la memoria genetica predispongono
come configurazione di default dei nostri sensi.
Perissinotto dice “il paesaggio è lo spazio percepito, cioè qualcosa che nell’esperienza sta per
l’ambiente”. 3 Con questo stare per il paesaggio si configura come il significante che sta in relazione
col significato che l’uomo comunque non coglie (quello spazio reale della perdita originaria).

1
Alessandro Perissinotto, Il paesaggio e i segni. Applicazioni di semiologia alla scienza del paesaggio. In QRS 4,
febbraio 1992, Centro Scientifico Editore, Torino 1992.
2
ibid.76.
3
Ivi.

94
Il paesaggio come insieme di segni è quindi testo e come tale, secondo l’autore, prevede un
momento di produzione e uno di fruizione, un mittente ed un destinatario, polisemia e traducibilità.
Viene detto che l’uomo adotta strumenti per “appropriarsi dello spazio”, ma che il lavoro di
scrittura è inconsapevole e che deriva dallo svolgimento di altre attività culturali, poi vengono
individuate due componenti, una funzionale ed una simbolica, che rendono conto delle motivazioni
pratiche e consapevoli della produzione di segni paesaggistici.
Ciò che muove la nostra critica è la costante logica aberrante dell’istituire un potere sulle cose,
questa forma ultrasottile di violenza con cui l’intelligenza occidentale crede di appropriarsi di ciò
che essa stessa riconosce irraggiungibile, a discapito di altri universi antropologici che non vogliono
gli strumenti per farlo, e poi molto spesso realizzare una nuova formula per realizzare un guadagno,
si comincia dalle migliori intenzioni e si conclude sempre con il solito finale.
Per quanto crediamo ciò che spingeva il fedele alla costruzione di una chiesa o ciò che ripartisce lo
spazio sacro dallo spazio profano non riguarda solo una finalità da raggiungere o dei significati da
trasmettere ma, ancora una volta, la superficie che investe emotivamente ogni cosa per cui si
produce concretamente senso e non piani simbolici.
Stiamo parlando dello stesso argomento ma attraverso atteggiamenti inconciliabili quando si è detto
“se la percezione e l’interpretazione dello spazio sono già processi di umanizzazione di esso,
saranno segni del paesaggio e suoi elementi costitutivi, anche le rappresentazioni che ogni cultura
dà dello spazio medesimo: dalle incisioni rupestri ai rilevamenti del satellite” 1 ; solo che noi
distinguiamo il processo cognitivo di ‘paesaggio’ dal prodotto della rappresentazione, battezzandolo
immagine-paesaggio.
Laddove la descrizione semiotica assolve un compito analitico o esplica un’ergonomia dei processi
cognitivi crediamo possa essere opportuna l’istituzione delle gerarchie semantiche per ‘istruire’ ad
un mondo specifico un’utenza non qualificata, ma nell’ambito puramente produttivo, progettuale,
diciamo in sede ‘artistica’, la semiotica non può per propria ragion d’essere estendere alcun confine,
valicare alcun limite, perché costruisce i propri modelli in base al proprio criterio d’analisi, su ciò
che già esiste, cioè sul linguaggio.
Ciò nondimeno Perissinotto dice la sacrosanta verità quando afferma che sempre più spesso “noi
non leggiamo il paesaggio direttamente, bensì attraverso sue rappresentazioni come dipinti,
fotografie, film, descrizioni, carte geografiche, ecc.” 2 È ciò che dicevamo in precedenza a proposito
della conoscibilità trasmessa di ciò che una volta veniva definito “il reale” che ci sembra piuttosto la
dimensione negativa di tutto ciò che è esperibile, l’orizzonte in continuo spostamento.

1
Ibid.77.
2
Ibid.78.

95
La nostra tesi è che nella produzione di immagini audiovisive la circolazione di paesaggi è soggetta
a molteplici manipolazioni, il cui fine nel migliore dei casi è non avere obiettivi deterritorializzando
le condizioni a priori o le aspettative in primo luogo di se stessi, per poter accedere ad un ulteriore
livello di realtà, non più paesaggio, neanche trasmesso, ma immaginario in-vero-simile (stavolta in
particella negativa) spirituale e ad uno stadio di coscienza non ordinario.
Tutto ciò va oltre le comuni intenzioni, o i nostri limiti mentali, e la condizione primaria di questo
lavoro è lasciare le ‘cose’ al proprio posto non impadronendosi dei significati ‘altrui’.
È peraltro vero che la nostra obiezione rischia di ridursi alla mera puntualizzazione linguistica sul
concetto di immagine se non specifichiamo il nostro disaccordo con l’ipotesi di una doppia
significazione nei processi di rappresentazione, il primo attinente la percezione, che trasforma lo
spazio in paesaggio (“primo interpretante” 1 ), il secondo legato al dispositivo mentale, manuale o
fisico che struttura nuovamente il materiale ‘paesaggistico’ attraverso le caratteristiche del metodo
di rappresentazione (“secondo interpretante”) che ha come fine la produzione di immagini.
Il paesaggio nella sua definizione minima di “spazio percepito” è la nostra possibilità di accesso
all’esperienza, il paesaggio è la sola condizione del reale: dinnanzi al territorio non ancora
sperimentato un atteggiamento culturale convenzionale -“un dispositivo stereotipante”- tende a
modellare il mondo ‘aperto’ dei fenomeni in strutture intuitive reali o immaginarie. Il paesaggio
dell’esplorazione è sempre un paesaggio frammentario ed equivoco, scegliendo culturalmente la
pertinenza stabiliamo a priori quali ‘segni’ del paesaggio cogliere ed eventualmente trasmettere.
Ma l’immagine-paesaggio è sempre un prodotto espresso della rappresentazione.
Non dovrebbe riguardare invece le modalità di designazione che i media inaugurano, come spesso
si sostiene. Un conto è la trasmissione di un “dato” 2 , il fenomeno carpito dagli strumenti della
tecnica, e qui ha senso rilevare la presenza di stereotipi nella stessa rilevazione: «l’effetto cartolina»
o i riferimenti al mondo immateriale della pubblicità, sintomi della codificazione della pertinenza.
Altra cosa è la produzione di immagini siano anche interpretazioni socialmente acquisite.
“Le immagini del paesaggio costituiscono l’unica condizione possibile per la circolazione sociale su
vasta scala del testo paesaggio” 3 , questa è la tesi semiotica per cui “l’immagine sta per il territorio
(…) sotto un preciso aspetto legato allo scopo”, ma quella che sostiene “alla fotografia –intendendo
l’immagine fotografica - si richiede cioè di essere uno strumento per l’appropriazione e la fruizione
differita del paesaggio” 4 , è solo una tesi di consumo.

1
Ibid.79.
2
Vedi il «simulacro» come copia dell’effetto e “ripetizione”, p.10 dell’Introduzione.
3
Nel testo in grassetto, p.79.
4
ibid.87 e 88.

96
Il traguardo raggiunto è stato la dimostrazione del pesante intervento di ogni cultura sulla
percezione del territorio ma il proposito d’indagare i meccanismi che presiedono alla “scrittura” e
alla “lettura” del paesaggio non ha superato i confini dell’evento comunicativo.
Oltre i quali vi è il mondo dell’arte.
Un dispositivo mentale che produce immagini che riproducono il dato del dispositivo tecnologico
produce abnegazione. Il dispositivo tecnologico dovrebbe in primo luogo estendere le possibilità di
realizzazione dell’intervento espressivo sul rappresentato. Ed un’immagine non deve poter avere
alcun fine contingente perché realizza il proprio scopo portando a termine il processo di produzione
attraverso cui si compie.
Ecco, se vogliamo, una seconda determinazione dell’immagine-suono, o una prima distinzione di
specie in questo concetto: l’immagine-paesaggio_sonoro: il paesaggio sonoro rappresentato
ovvero prodotto dai mezzi e coi metodi dell’espressione.
Come sostenuto immagine è anche movimento espresso. Dalla manipolazione attraverso i media.
In cui non si nasconde un significato, è solo senso. Movimento “statico” o “dinamico” viene riferito
al tipo di supporto attraverso cui l’immagine si da e viene espressa.
Così l’“audiovisione in frammenti” è la dinamica solcata dal movimento pulsionale che in un certo
senso attraversa la “crosta” del desiderio perché lega tra loro i frammenti dell’esperienza concupita
tessendo una superficie di sensazioni. E allora neanche segno ma solo sensum.
Un’immagine-suono può ancora avvilire incatenandoci al testo, al tessuto di segni, questo dipende
dall’equilibrio designazione/espressione che la sostiene. Laddove deriva da un mondo sonoro
concepito con i soliti schemi della pertinenza produce un’immagine-paesaggio_sonoro che simula,
copia riprodotta dal rapporto di somiglianza.
Il fattore decisivo, secondo noi, sta nel fattore poi più trascurato, sta nel territorio tramite tra le
mappe percettive e gli schemi produttivi, o tra gli schemi cognitivi ed i dispositivi linguistici, sta
negli immaginari.
Più vasta è l’esperienza più ampia è l’immaginazione, o meglio: la versatilità negli atteggiamenti
percettivi nutre immaginari di ampio respiro poiché maggiori configurazioni di movimento saranno
accessibili per la coscienza.
Immaginario sonoro é la possibilità; immagine-suono l’insieme delle scelte effettuate.
Questa ci riporta al concetto del Tutto bergsoniano 1 . L’immagine-movimento della riproduzione
sonora - istante sezione immobile / sezione mobile della durata - esprime il cambiamento di un
tutto-durata che è l’immagine-tempo del suono, pura realtà di coscienza, spirituale, indipendente
dai livelli di attuazione definibili produzione e fruizione, come da quelli di emissione e ricezione.

1
Vedi p.87 di Manipolazione/Montaggio.

97
Quindi:
∗ L’immagine-movimento del suono è quel simulacro-fissato espresso in un istante o in una
sezione mobile della durata.
∗ L’immagine-paesaggio_sonoro è quel contesto uditivo prodotto dalla determinazione
spaziale dell’espressione attraverso lo schermo sonoro.
∗ L’immagine-suono è la determinazione nella durata del tutto-sonoro di coscienza.
Nei supporti artistici tale determinazione avviene sempre in una durata, prefissata, stabilita.
Nel supporto audiovisivo il montaggio sonoro è lo strumento attraverso cui prendiamo coscienza
dell’immagine-suono, ma tale acquisizione è antitetica o costruita dialetticamente all’immagine-
movimento della luce o all’immagine-luce del montaggio visivo?
In questo modo crediamo sia illegittimo porre una tale domanda, cui possiamo rispondere solo
attraverso procedimenti logici, perché rischiamo di confondere problematiche divergenti. Sappiamo
quanto i concetti di immagine riferiti alla determinazione di coscienza del tutto-visivo siano gli
stessi celati dietro le determinazioni tronche del -cinema, -video, -animazione, ma è evidente come
la motivazione nascosta dietro questa rivendicazione, fondamentalmente linguistica, del suono sia
contingente allo stato dell’arte contemporaneo. Il paradigma sonoro si accorda nei vari livelli del
sistema culturale in cui ci muoviamo: dalla spazializzazione della tecnica 5.1 agli studi acusmetrici,
dalle psicopatologie cognitive all’ecologia acustica. Dalla ricerca scientifica allo studio umanistico.
Ma è come un corso segnato. Il movimento parte dalla degenerazione del consumo di immagini-
luce per trovare un raccordo o una densità, un contenuto di materia, nel suono.
La luce è come se si fosse arenata nella natura del simulacro-fantasma, “della copia degradata a
“puro effetto” esteriore”, per la mercificazione del bello. Il suono si offre quale primo garante di una
fisicità dell’esperienza, un’ipotesi ‘concreta’ del piacere estetico attraverso cui edificare ponti con
adiacenti regimi sensoriali, a quello tattile è arrivato il mercato con la ‘passione’ per le basse
frequenze, conferma del target «basso ventre», al regime visivo si sta avvicinando le neonata
acusmetria di cui parleremo in seguito.
Forse da questo processo ne verrà potenziata la stessa immagine-luce della natura audiovisiva,
quando il suono avrà ormai fissato le sue strutture per sviluppare linguaggi; o forse l’unione dei due
linguaggi audio e visivo, nella simbiotica produzione d’immagini-suono e immagini-luce, verranno
a comporre il solo linguaggio_audiovisivo.
Quindi l’urgenza opprimente del fine sonoro di farsi linguaggio è l’invenzione di nuove modalità di
struttura alternative al linguaggio musicale, fossilizzato nelle sue formule temporali e pressoché
privo delle determinazioni del movimento spaziale così necessario ai processi d’immagine.

98
Per farci carico di quest’impellenza dobbiamo accostarci all’universo sonoro antropologicamente, -
chi pone in dubbio che non sia questa l’unica strada per relazionarsi ad ogni fenomeno non ancora
descritto?- e la nostra tesi si sposa coi tentativi di una musicologia etnica che individui all’interno
del prodotto cinematografico i cliches narrativi del mezzo musicale ma si propone di oltrepassare
concetti come «colonna sonora», «tappeto musicale», o «testo audio» per concepire una struttura
sonora radicale che implichi la prospettiva immanente alla realtà prodotta audiovisivamente, che
valga la stesso salto qualitativo che intercorre tra la descrizione delle formule musicali del folklore e
la domanda sulla stessa musicalità dell’uomo. 1
La domanda cui risponde l’immagine-suono, aldilà dei riferimenti teorici che ne legittimano la
formulazione, è anche quella relativa alla testimonianza di un categorico della nostra esistenza che
interroghiamo mettendoci alla prova. Un paio di anni fa rimanemmo colpiti dall’elevata sensibilità
con cui Steven Feld nel suo Senses of place 2 descrisse il “dislocamento” dei sensi nella cultura
Kaluli. Gli antropologi si muovono nell’ottica Kantiana che tutta la conoscenza parte
dall’esperienza: modelli esperienziali costruiscono i sistemi di credenze, l’obiettivo
dell’acustemologia è l’interpretazione contestuale della sensazione, della conoscenza e
dell’immaginazione acustica espressi nel particolare «senso del luogo» echeggiante in una cultura. 3
Per «senso del luogo» possiamo intendere la percezione ‘paesaggistica’ di un determinato contesto.
Il nostro contesto è il prodotto audiovisivo scevro dalle logiche testuali della forma racconto.
L’audiovisivo come flusso di sensazioni optosonore.
La realtà rilevabile sul piano della consistenza fisica di questo flusso è il «senso del luogo»
dell’immagine-movimento dell’audiovisivo, e come sappiamo esistono ancora grandi lacune nella
letteratura audiovisiva sulla formulazione di un’estetica del disegno sonoro mentre ottengono
maggiore visibilità i lavori che sviluppano questo argomento in termini tecnici.
Nel linguaggio cinematografico il suono si definisce sempre in stretta corrispondenza ad un
contenuto narrativo veicolato dal montaggio visivo. Questo ancorarsi dà luogo a tre possibili
determinazioni qualitative del posizionamento sonoro in relazione al contenuto narrativo: suono in e
suono fuori campo (intradiegetici) e suono off (extradiegetico).
In un prodotto audiovisivo il rapporto tra sonoro e diegési non è strutturalmente vincolato.
Dal punto di vista strettamente funzionale una ripartizione molto generale del movimento di sensum
potrebbe relazionare l’utilizzo delle immagini-movimento audio e video con i fattori di continuità o
discontinuità rispetto al flusso audiovisivo complessivo. 4

1
Cfr. John Blacking, How Musical Is Man?, University of Washington Press, Seattle and London 1973.
2
Steven Feld, Keith H. Basso, Senses of Place, School of American Research Press, Washington 1985.
3
ibid.p.91.
4
Cfr. Vincenzo Lombardo e Andrea Valle, Il montaggio audiovisivo in Audio e Multimedia, Apogeo, Milano 2002,
pp.313-316.

99
Dalla combinazione di questi due fattori e delle dimensioni audio/video si ottiene un quadrato delle
possibili relazioni e opposizioni:
sincronismo
(audio e video correlati)

Continuità video Continuità audio

Rottura Scavalcamento
(audio come interruzione (audio come collegamento
del flusso visivo) del flusso visivo)

Non continuità audio Non continuità video

Asincronismo
(audio e video indipendenti)

Quadrato delle relazioni audio/video e continuo/discontinuo 1 .

Paesaggio Sonoro.

Se il montaggio cinematografico è sempre vincolato ad un’immutabile predisposizione degli eventi,


bisognerebbe cominciare a pensare alla relazione audiovisiva comprendendovi sia eventi necessari,
sia eventi soltanto possibili, come i livelli di pellicola aleatori che Brakhage veniva strutturando
attraverso la propria manipolazione.
Indipendentemente dalle possibili interazioni che il tipo di supporto consente il montaggio
audiovisivo deve essere pensato nei termini di una “predeterminazione di una serie di possibilità
relative al flusso audiovisivo. In realtà, si potrebbe pensare di descrivere l’audio in un prodotto
multimediale in parte in relazione al modello del montaggio audiovisivo, in parte come simulazione
di un paesaggio sonoro” 2 .

1
Tratto da V.Lombardo/A.Valle, op.cit.p.315. “Il modello è interessante perché permette anche di pensare alle possibili
transizioni tra stili di montaggio audiovisivo: infatti, potremmo pensare ai cambiamenti rilevabili (o previsti) in un
prodotto multimediale come spostamenti lungo le traiettorie definite dai lati e dalle diagonali del quadrato”(p.316,
corsivo nel testo).
2
Id.

100
La “simulazione” di un paesaggio sonoro viene effettuata per mezzo di tre componenti: toniche,
segnali e impronte sonore. Questa terminologia, ripresa in vari contesti, deriva dalla prima
classificazione del paesaggio sonoro ad opera di Robert Murray-Schafer, che nel fondamentale testo
del 1977, The Tuning of the World 1 , descrisse le principali caratteristiche di un paesaggio sonoro in
termini fondamentalmente letterari senza esplicite intenzioni di svilupparne una grammatica.
Concetti come quelli di design acustico che risuonano adesso nel mondo imprenditoriale alla moda,
realizzano un testo attraverso “un insieme di paradigmi e formule immediatamente applicabili a
paesaggi sonori ribelli o privi di leggi” 2 , ma delineavano in origine i principi da utilizzare
nell’orientare le scelte ecologiche della ricerca di ‘paesaggio’.
Una progettazione ‘riproduttiva’, imperniata attorno agli elementi descritti nell’analisi del testo-
paesaggio si rivela povera, perchè tali caratteristiche descrivono lo schema cognitivo dell’abitudine,
a significazione avvenuta. Infatti ha poco senso considerare le toniche, gli elementi sonori strutturali
creati dalla geografia e dal clima, come elementi che si caratterizzano per il fattore continuità.
Murray-Schafer sottolinea piuttosto la dimensione inconscia di questo livello sonoro, definisce
questi sonori “sovrascoltati”, impressi in modo profondo nella cultura di riferimento, ed in
riferimento ai quali alcuni suoni acquistano il loro significato. E precisamente i suoni che ottengono
sussistenza dalle strutture di senso trasparenti sono quelli che Schafer chiama impronte sonore
ovvero i fenomeni acustici (in)caricati di un particolare valore affettivo che possiedono
caratteristiche di unicità, non nel senso di una puntualità nella loro manifestazione, ma che
esprimono un contenuto emotivo di particolare valore nell’immaginario di riferimento
(cultura/paesaggio).
Così proviamo a spostare i concetti caratteristici del testo-paesaggio ai fondamenti psicanalitici
della produzione di immagini-paesaggio, prodotti della pulsione rappresentante, e non simulazioni.
Quindi il discorso vale anche per le immagini visive e d’altronde lo stesso Schafer propone un
parallelo con la psicologia della percezione visiva nella distinzione tra figura e sfondo.
Le “figure” in primo piano del campo sonoro vengono chiamati segnali e sono quei suoni ascoltati
consapevolmente. A questo punto però entrano in gioco i propositi della ricerca perché, nel contesto
di studio interno alla dimensione collettiva o comunitaria, la pertinenza del segnale sonoro, o della
figura visiva, viene individuata all’interno della dimensione codificata della trasmissione di
messaggi complessi; invece, nell’esperienza estetica, laddove il lavoro consiste nel concepire eventi,
nel relazionare sensazioni a contenuti di coscienza, la priorità viene attribuita ai criteri di
pianificazione della possibilità di senso, scolpendone superfici attraverso le strutturazioni d’alea.

1
Robert Murray-Schafer, The Tuning of the World, McClelland and Stewart Limited, Toronto 1977.
Ed.it. Il Paesaggio Sonoro, BMG Ricordi S.p.a. e LIM Editrice, Lucca 1985.
2
Pag.328 dell’edizione italiana.

101
Ciò che stiamo provando a dire esclude le premesse ‘statiche’ della simulazione, strutturata
attraverso queste caratteristiche del suono semantico. Che la percezione musicale si attesti sulla
concezione antropologica della discretizzazione del flusso e sulle variazioni considerevoli di
potenziale sonoro («lift over sounding» 1 ), e che il lavoro di coscienza nell’esperienza estetica
includa un canale attentivo unico attraversabile da molteplici esperienze sensoriali, porta ad
ipotizzare che processi cognitivi simultanei possano avere luogo a patto che non vengano utilizzati
meccanismi cognitivi dello stesso tipo. Come nell’analisi musicale ogni linea melodica si compone
della propria evoluzione temporale e della funzione armonica ‘verticale’, così la distinzione
percettiva «figura-sfondo» non rileva la significazione interna di un solo canale sensoriale, ma
coinvolge il dinamismo complessivo della linea focale dell’attenzione lungo il flusso sensivo che la
sta attraversando, di qualsiasi natura sia lo stimolo.
Così la natura ‘paesaggistica’ dell’esperienza non può essere ricostruita da ciò che descriviamo
attraverso l’analisi ‘cosciente’ poiché gran parte del movimento che alimenta lo scorrere della vita
ci è sempre sfuggito per mille motivi. La verità è che l’universo si lascia conoscere ‘musicalmente’
attraverso lo strumento estetico che abbiamo in dotazione dalla nascita e che impariamo ad educare
assecondandolo, il cosiddetto principio di piacere che traduce psicanaliticamente il principio
positivo, Eros, o yang, che muove la nostra proiezione sul mondo, il fare cosmo.
Quindi il ‘paesaggismo’ artistico non può impantanarsi in una “continuità” di sottofondo modulata
dalla “rilevanza” semantica come da tutte le “interazioni” sociali del discernimento - anche il
cogliere eventi nel prodotto artistico pertiene la sfera comunicativa - come accade nel sistema
toniche, segnali, ed impronte sonore. È sicuro che, qualora l’intento di rappresentare la natura
dell’esperienza mediata non assecondi altri fini se non quelli dell’integralità dell’esperienza stessa,
buona parte della nostra percezione del durante spaziale sarà una percezione di paesaggio, mentre
la nostra elaborazione del tutto temporale sarà il prodotto di coscienza delle sensazioni di
movimento.
Noi quindi produciamo immagini attraverso la progettazione di paesaggi, all’altro estremo
percepiamo paesaggi ma sentiamo immagini: immagini che sono i contenitori, vuoti peraltro perché
pura superficie, della comunicazione artistica. I paesaggi sono gli schemi con cui strutturiamo il
linguaggio dei media. La percezione caotica prima di configurarsi in paesaggi possiede
l’indeterminazione idonea per diventare sinestetica. Il sinestetico non è il collante degli eventi
eterogenei, ma l’impossibilità di percepire una diversità tra gli stimoli, quando la linea attentiva
subisce uno ‘spaesamento’ o quando la densità del flusso rende ‘inconcepibile’ l’evento.
L’evento sinestetico dura tutto l’arco della sensazione.

1
Vedi p.83 di Manipolazione/Montaggio.

102
Lo scenario che abbiamo appena finito di descrivere traduce, a nostro avviso, per l’ennesima volta,
la dualità originaria che funge da impalcatura alle categorie linguistiche. Percepire paesaggio,
significa ‘comprendere’, riconoscere, definire le forme, nelle logiche di ‘sopravvivenza’:
metabolizzare. Mettere in pratica “designazione”. Sia in emissione che in ricezione.
Viceversa la produzione di immagini implica un processo di modulazione del movimento senza
soluzione di continuità tra i vari livelli d’immagine: l’immagine-movimento, l’immagine-
configurazione di movimento (paesaggio), l’immagine-tempo (suono/luce). Tale processo è
l’espressione e l’immagine-tempo è sempre la traccia dell’espressione nella durata, il suo solco.
Quel solco che verrà lasciato nella coscienza del fruitore, e sarà l’impronta dell’artista.
Il cuore dell’estetica concreta è il movimento di coscienza prodotto dall’espressione dei contenitori
vuoti designati e dalla loro sublimazione sulla superficie di senso.
È nostra abitudine, prospettica, optocentrica, affrontare la designazione in un’‘ottica’ spaziale,
mentre ‘immaginiamo’ l’espressione come qualcosa che cambia nel tempo. Forse è una necessità
cognitiva che ci porta alla fissità della ricognizione di paesaggio, ma forse è proprio un effetto della
modificazione della conoscenza ad opera delle tecnologie della trasmissione visiva. La ripresa
cinematica è l’unico medium visivo in grado di descrivere un territorio e contemporaneamente di
fornirne una mappa: attraverso il movimento di camera viene data a priori l’escursione cognitiva
che pittura e fotografia delegavano all’elaborazione attiva del fruitore, pur sfruttando o subendo,
come abbiamo visto, l’azione di stereotipi culturali per stabilire la pertinenza.
Il concetto di paesaggio introduce nella relazione mappa-territorio una problematica interessante: la
“mappa” come contenuto di coscienza non avrà mai una genesi statica in quanto sviluppa l’ipotesi
che il “paesaggio” ha avanzato sul “territorio”, realizza la possibilità di pensiero che il paesaggio
rendeva immaginabile: l’immaginario esperienziale.
Qualsiasi immagine-tempo contraddistingua una forma peculiare di rappresentazione (una cartina
geografica ed una digressione letteraria realizzeranno il movimento in maniera radicalmente
diversa) l’immaginario di riferimento su cui si baseranno le scelte della designazione possiede una
gamma di senso, di movimento esprimibile, tanto estesa quanto la capacità di concepire paesaggio,
o percepire configurazioni di movimento.
Il paesaggio allora è il tramite immaginario dell’esperienza.
Ma non il tramite testo dell’esperienza “significata” bensì la struttura linguistica dei sensi.
Solo che non possediamo appieno gli strumenti per addentrarci al suo interno, ovvero non li
abbiamo forse costruiti, o peggio non siamo più in grado di arrestarci a quella “visione”
complessiva che la perlustrazione di superficie chiama ‘paesaggio’.

103
La concezione comune di paesaggio è una ricognizione di volumi, come paesaggio è la loro
dislocazione nello spazio oltre che il loro movimento. La configurazione di movimento possiede
una struttura ciclica nella temporalità e una costanza nell’insieme di relazioni spaziali che
garantiscono al paesaggio un ampio margine di prevedibilità e poche possibilità di evento.
Essendo una struttura dell’Alterità 1 che appartiene al nostro mondo interiore il paesaggio come la
comunicazione lascia cogliere le differenze di potenziale rilevanti non il suo aspetto continuo.
Questo vuol dire che la coscienza per sua natura tende a soffermarsi sull’elemento “fuori posto”
all’interno di un insieme o su ciò che mira a distinguersi dal rumore di fondo: la coscienza consiste
in un valore di soglia. L’innalzamento di questa soglia - cognitiva - può avvenire sia in presenza di
un sovraffollamento di stimoli dando luogo al mascheramento del segnale al di sotto di questo
valore, sia a difesa del sistema dando luogo al fenomeno conosciuto come «rimozione» 2 .
In condizioni ordinarie durante la nostra permanenza in un ambiente se non proprio domestico
quantomeno addomesticato come può esserlo una cucina in una casa di città la nostra soglia
percettiva si accorderà sul centro tonale dell’era elettronica il quale, nei paesi in cui la corrente
elettrica alternata compie 50 cicli al secondo, corrisponde, approssimativamente, a un sol diesis 3 .
La rivoluzione elettrica ci ha quindi fornito nuovi centri tonali cui rapportare tutti gli altri suoni.
Indubbia è la constatazione che tali accordature di paesaggio sonoro urbano appartengono ai livelli
di percezione inconscia, vengono “sovrascoltati”, perché qualcosa di ‘motivazionale’ attesta le
nostre soglie di coscienza su frequenze ‘ultrasonore’, immateriali, chiamiamole simboliche.
Tuttavia se soffermassimo la nostra attenzione su questi tappeti sonori e ci proponessimo di
rapportare ogni suono a quest’unico suono entreremmo in quello ‘stato d’ascolto’ che concerne la
meditazione, estetico oltremodo e in extremis «estatico».
Il nostro progetto audiovisivo incoraggia le formule di “incanalamento” della coscienza nel flusso,
nella cascata («drone»), purché la continuità si attesti sulla soglia del rilevabile per fare spazio
all’intervento della coscienza fruitrice, predisponendo il paesaggio che farà da scenario all’evento di
senso. A questo punto possiamo pensare che il “fare paesaggio” del medium audiovisivo possa
tradursi nell’“accordatura del flusso” multimodale.

1
Vedi p.39 di Senso e Sensazione.
2
Per una teoria della rimozione come soglia percettiva di coscienza confronta Michael W. Eysenck e Mark T. Keane,
Manuale di Psicologia Cognitiva, Edizioni Sorbona Milano, 1998 seconda ediz. pp.427-439: Emozioni, apprendimento,
memoria.
3
Cfr.R.Murray-Schafer,op.cit.p.144-145: “Le apparecchiature elettriche spesso producono delle armoniche di risonanza
e in una città tranquilla di notte è possibile ascoltare un’intera serie di altezze costanti, prodotte dall’illuminazione
pubblica stradale, dalle insegne luminose o dai generatori. Studiando il paesaggio sonoro del villaggio svedese di Skruv,
nel 1975, incontrammo molti di questi casi e tracciammo sopra un grafico i loro profili e le loro altezze. Con nostra
grande sorpresa notammo che complessivamente esse formavano la triade dell’accordo di sol diesis maggiore, accordo
che il fischio del treno in transito (un fa diesis) trasformava in un accordo di settima dominante.”

104
In musica esiste il concetto dell’«accordatura aperta»: una predisposizione della risonanza armonica
di ogni intervento sullo strumento che fa da scheletro all’improvvisazione. Come il voltaggio di un
circuito elettrico fa da soglia al livello di tensione costante, così il canale audiovisivo fa da metro di
misura alla densità di sensum complessiva di entrambi i segnali con un’ampiezza di banda che va
riempiendosi a scapito della discernibilità della variazione rilevante superata la soglia di equilibrio.
La soglia di coscienza audiovisiva si muove modulando la proporzionalità inversa tra immagine-
movimento e immagine-paesaggio dei due segnali, in una perpetua oscillazione, in un continuo fare
spazio (paesaggio) al cambiamento (movimento) reciproco.
Alla deformazione espressiva deve essere collegata
una “immobilità” designatoria. Quest’ultima non
vincola il movimento alla ripetizione, non esiste solo Linea_movimento

il loop come struttura della ridondanza. Come


nell’arte primitiva, il lavoro artistico spesso richiede Ellisse_paesaggio

delle abilità tecniche nei procedimenti con cui, da


sempre e in ogni area del mondo, si realizzano i
processi di mantenimento di struttura 1 . E non è difficile notare come tutti i dispositivi che
producono trame nei procedimenti creativi, siano i detentori del “significato” estetico delle teorie
dell’automatismo come del compiaciuto esibizionismo della macchina. Per quanto ci riguarda
crediamo che i migliori risultati siano stati raggiunti allorquando al dispositivo tecno-logico si è
avvicinata una personale sofìa esistenziale nelle logiche di modulazione della struttura decorativa,
che in questa sede chiamiamo “paesaggio”.
La modulazione è un intervento sulla superficie di senso, può derivare da una strategia della
ripetizione generando ritmo, ma nelle arti del flusso e dello scorrere di immagini-movimento è
sempre l’incisione di chi fa girare questo “tornio” che viene definito playback, riproduzione.
Modulazione che include concettualmente sia la manipolazione, la sede in cui viene scolpita
l’immagine-movimento, sia la giunzione dei frammenti di un immaginario attraverso il montaggio
predisponendo quel luogo del movimento che continuiamo a chiamare “immagine-paesaggio”.
Ma una domanda che nasce spontanea si chiede cosa possa distinguere una tale definizione dal
cosiddetto processo «figura-sfondo» delle abilità percettive. Ebbene quest’ultimo processo riguarda
il fare ordine bottom-up delle abilità cognitive, quella pratica del discernimento che l’esperienza del
movimento ha reso inconsapevole. La relazione immagine-movimento_immagine-paesaggio
richiama la metafora energetica della molecola audiovisiva 2 .
Per quanto scomodo declamarlo il cosmo è una continua vibrazione. Ed il caos è solo scordato.
1
Vedi p.29 di Senso & Sensazione.
2
Vedi p.77 di Manipolazione/Montaggio.

105
L’immagine-paesaggio è il setting predisposto all’evento di senso. È la struttura decorativa che
entra in risonanza col materiale espresso in differenze di potenziale rilevante attraverso la
manipolazione, l’immagine-movimento. Tra le due ‘immagini’ si costituisce un vuoto, un piano di
proiezione che riproduce il processo della «forma seriale di risonanza»1 ma il dinamismo energetico
incontra stavolta una realtà oggettuale instabile, una forma seriale circolare, che sarebbe il legame
di montaggio paesaggistico: la risonanza, o il senso, è la penetrazione dell’immagine-movimento
attraverso la crosta dell’immaginario designato, l’immagine-paesaggio.
Quale complesso traduca in realtà l’ennesimo riferimento ‘sensuale’ a noi non è dato discuterne,
piuttosto metterlo in pratica, ma in ultima analisi arriveremmo a descrivere questa esperienza come
“il processo d’appropriazione dell’Alterità originaria che alimenta la nostra pulsione”.
Il paesaggio è la struttura collettiva che ritroviamo predisposta, che cominciamo a trascurare dopo
aver appreso a decifrarne i movimenti. È inconcepibile abituarsi, non bramare a sovvertirne il
linguaggio.
Producendo audiovisivi concreti cercheremo di raggiungere quella compenetrazione tra livelli
psichici eterogenei che spiega il senso dell’arte. Da questo lato, i movimenti di coscienza di basso
livello definiti pulsionali, all’estremo orizzonte le strutture inconsce dell’immaginario collettivo.
Dalla pulsione estrapoleremo le intensità con cui abbiamo rubato frammenti di cosmo attraverso gli
strumenti del simulacro. Ne congiungeremo gli estremi dando vita al movimento differenziale.
Insinueremo il senso del dislivello. Dalla giunzione di paesaggio concepiremo le trame al desiderio,
ostentando la ripetizione in tutte le direzioni. Attraverso le scelte logiche di montaggio
provocheremo la risonanza cui obbediranno la convergenza e la divergenza, sorelle. Tutto
comincerà a scorrere mentre contiamo tantricamente la sensazione e con calma e decisa costanza
prolungheremo l’estasi. Come passione sublimerà nel linguaggio ogni abitudine.
Ma il nostro amore utilizza la Lingua per stimolare i corpi.

“Così come abbiamo accusato gli esperti di acustica


di tradire il suono trasformandolo in immagine,
così ora accusiamo gli psicologi di tradirlo
trasformandolo in racconto.” 2

Scultura del suono.

1
Vedi p.37 di Senso & Sensazione.
2
R.Murray-Schafer, op.cit.p.214.

106
L’estetica della sensazione incarnata in forme audiovisive esiste ad un livello elementare. Pertanto
la teoria dell’immagine-suono, che richiede un adeguato approccio teorico, verrebbe meno se
ridotta ad un complesso di funzioni e strutture, in quanto trascurerebbe il suo livello esperienziale,
che è fondamentale.
La psicoacustica è riuscita a spiegare sino ad ora parecchi aspetti che riguardano il funzionamento
del nostro sistema uditivo dal punto di vista fisiologico. Invece non è completamente chiara la
produzione linguistica che sottende la ricostruzione della mappa spaziale delle sorgenti sonore,
competenza che, unitamente alla comprensione del messaggio sonoro, definisce la funzione
cognitiva del sistema. In generale infatti noi conosciamo l’ambiente in cui si esplica la nostra
attività percettiva e ciò che comunemente si intende con il concetto di «mappa sonora», il modello
cognitivo che fornisce il contesto spaziale, è ciò che abbiamo provato a specificare attraverso la
distinzione in immagine e paesaggio.
Nella prima determinazione di «immagine del Suono», l’immagine-suono si propone come piano
dell’espressione del “linguaggio uditivo”, dimensione della produttività, mentre il concetto di
«paesaggio» identifica la dimensione del reale a noi accessibile attraverso l’udito e quindi il piano
della designazione.
Delle altre dimensioni individuate dalla ricerca filosofica che avevamo messo da parte lungo tutta la
gestazione di questa estetica bipolare, possiamo prendere in considerazione adesso anche la
manifestazione avendo preso atto della pulsione strutturale che smuove il nostro agire linguistico
nel processo creativo.
La rimanente ultima si lega alla problematica di questo paragrafo attraverso una riflessione che
vuole difendere la conclusione del precedente. Nel prodotto audiovisivo che sviluppi i requisiti
acquisiti nella trattazione trascorsa non esiste il piano dell’implicazione semantica, non esiste
neanche una forma di racconto immanente che sviluppi il diagramma, poiché qualsiasi obiettivo
prefissato si scontra con la contingenza della lavorazione e con tutte le scelte contestuali dell’umore
“pratico”. Non esiste quindi quella rete di rimandi, ridondanze implicite, connessioni logiche che
costituisce nel linguaggio il piano della significazione, il luogo del potere, la “Legge” semantica.
Esiste un progressivo movimento di coscienza, speculare al flusso di stimoli organizzato, che
sviluppa simmetrie di sensazioni alle immagini - paesaggio o movimento - prodotte sullo
«schermo», sulla superficie di emissione.
Tuttavia la prassi non sviluppa un linguaggio ma una langue di pura pragmatica che assomiglia allo
stile ma non ripresenta un modello risultante dalla serie di scelte consolidatesi nei vari insiemi di
costruzione. Uno stile che coinvolge l’intero approccio e la concezione del problema estetico nel
medium prescelto.

107
La problematica estetica che sviluppa l’audiovisione concreta concerne gli interrogativi sulla
produttività dell’apparato cognitivo relativo ai sensi. Per questo questa ricerca viene repulsa dal
mondo scientifico ma non intende neanche avvalersi dello statuto artistico del prodotto di coscienza.
L’artistico nutre la cultura o viceversa la conduce nelle vetrine dei negozi, non trascende
un’autoreferenzialità di progetto ma si fa carico della responsabilità umana di cui si chiama in
rappresentanza per esibire un talento che noi non riteniamo possedere. Neanche siamo convinti che
questo lavoro, che potremmo definire “sperimentazione lacaniana”, coinvolga strutture e processi
che lavorano attivamente nella collettività.
Forse abbiamo rivestito di zelo una pulsione ludica che vorremo perdurasse nelle nostre attività
future o forse abbiamo riassunto un intero percorso di studi improntato sull’interesse personale.
Quello che resta da fare comunque è descrivere il metodo attraverso cui rivestiamo da sempre un
primordiale egoismo che identifica affetti, progetti e i movimenti di coscienza cosiddetti ‘raffinati’.
L’analisi conduce direttamente ad esaminare il contesto artificiale che sorregge buona parte delle
attività che normalmente svolgiamo attraverso la tecnologia nel quotidiano, ma attraverso una
prospettiva singolare, strutturale, poiché non ci è dato né crediamo possibile per onestà intellettuale,
interpretare la distanza del fenomeno, rendere oggetto il problema. Piuttosto crediamo
nell’autocoscienza e nell’insight orientato come metodo del lasciar trasparire le strutture in azione e
ricorriamo al mondo esterno per delegare la responsabilità del nostro approccio ‘tecnantropologico’:
“La percezione del nostro corpo, del nostro pensiero, i valori, il significato che attribuiamo a sapere
e verità sono stati trasformati dall’interazione con la tecnica nel corso della storia dell’uomo; pur
non trattandosi, quindi, di una particolare novità oggi ci troviamo di fronte a una tale enorme mole
di informazioni che corriamo il rischio di cadere nella tentazione di considerare il corpo come un
mero elaboratore di informazioni (…). Il corpo, primo medium, viene sublimato nella persona,
unione di corpo e mente, intrinsecamente multimediale in quanto soggetto, individuale e sociale,
che elabora informazioni e produce senso conferendo organicità alle conoscenze. Tutta la persona,
quindi, si oppone ad un io atemporale e decontestualizzato, approdando, così, ad un nuovo soggetto
di conoscenza (…) la conoscenza è tale perché in rapporto all’oggetto, in quanto l’esperienza
dell’uomo è la sua soggettività.” 1
Tale citazione, a sua volta collage di rimandi, prepara alla distinzione, ad opera di Tullio-Altan, di
un soggetto gnoseologico e di uno storico-psicologico, aspetti complementari di una soggettività
che approccia la propria consistenza attraverso la rappresentazione, l’oggettivazione e l’esperienza
cosciente di se stessa.

1
Davide Parmigiani, Didattica e tecnologia diffusa. Riflessioni per un’antropologia multimediale, Franco Angeli
Editore, Milano 2004; p.30.

108
Attraverso la rappresentazione la coscienza si propone di fare esperienza di se stessa, estromettendo
i propri contenuti, ma questa opportunità non viene colta attraverso tutti gli strumenti tecnologici a
nostra disposizione e non viene letta allo stesso modo una volta prodotta la superficie di senso che
viene chiamata immagine.
Nel gergo lacaniano l’immagine è la funzione di informazione che può avere accezione di senso o
di sensazione, a seconda che la sua natura cognitiva abbia forma intuitiva o plastica. Questo è il
piano di lettura che alimenta l’abitudine culturale a rilevare tale funzione nell’ordine sensoriale che
più riproduce i processi cognitivi dominanti.
Come è noto la scrittura deriva antropologicamente da un processo primario di estromissione dei
contenuti di coscienza e risulta difficile accedere intellettualmente ad una concezione procedurale
della stessa partendo dalle premesse occidentali della cornice prospettica, o dell’“ottica”. Tuttavia
custodiamo noi stessi le tracce di una modalità ‘laterale’ d’approcciare la conoscenza fenomenica
che riguarda la terza accezione dell’immagine intesa come «struttura dello sviluppo» e traduce
letteralmente il senso del termine script. 1
La pratica religiosa in ogni cultura è satura di comportamenti che riflettono la struttura temporale
della conoscenza attraverso la ripetizione: la preghiera cattolico-musulmana, i mantra indiani, la
Torah ebraica, sono scienze della ridondanza.
Quello che sostiene la teoria dell’immagine-suono, nella sua riduzione all’immagine-montaggio, è
che dietro il funzionamento strutturale dei medium audiovisivi si nasconda la possibilità di
concepire l’esperienza estetica attraverso l’idea di uno sviluppo sonoro, l’immagine-tempo sonora.
Il problema consta nell’impossibilità dello strumento “descrittivo” di formulare simbolicamente
l’esperienza dal momento che viene instaurato il ponte diretto tra la sensibilità corporea e l’insieme
dei movimenti di flusso energetico che attraversano la comune attività mentale psicosomatica,
espressa in variazioni di pressione sonora. Tutto il processo viene ‘percosso’ col ripetuto ritornare
sull’evoluzione del montaggio, come una maieutica modulazione progressiva della pulsione.
Scultorea. E fino alla fine si resta intenti a verificare la “forma” prodotta dal movimento vibratorio,
quel solco che lascia nella nostra coscienza, a qualsiasi livello questa si trovi, immaginando uno
schema di movimento o una struttura dello sviluppo, come l’impronta che si è cominciata a scolpire
nel nostro sistema nervoso da quando qualcuno fece vibrare la nostra attenzione con il nome Mario.

1
Con il termine script si intende nella psicologia cognitiva il costrutto mentale che spiega un determinato
comportamento abitudinario (la conoscenza procedurale). Lo script contiene una sequenza di azioni per eventi
stereotipici con cui libera il sistema cognitivo dalla necessità di analizzare tutti gli elementi di un contesto.
L’informazione episodica ricordata di un evento è la differenza tra le informazioni dell’episodio e lo schema prototipico
di rappresentazione in memoria (vedi: evento di senso e variazione rilevante). Gli sviluppi della teoria degli script
propongono tre modalità basilari di acquisizione degli schemi: l’accrescimento (ripetizione dell’esperienza)
regolazione (strutturazione) ristrutturazione (implicazione per analogia o intuizione di un nuovo schema da uno
precedente).

109
Ciò che faremo per provare a “raccontare” come l’immagine-suono da concetto si evolva in un
progetto produttivo è innanzitutto una valutazione qualitativa degli scenari in cui il fenomeno
audiovisivo si rende accessibile secondo le nostre intenzioni.
Dopo esserci assicurati che la contingente esclusione della dimensione video e dei processi di
‘addensamento’ attorno allo schermo visivo possano non costituire un problema, almeno in questa
sede, per un eccesso di produzione che rimanda il suo approfondimento come passo ulteriore della
nostra ricerca, cercheremo di interpretare i nostri attrezzi acustici per installarvi in seguito le nostre
elucubrazioni sulla produzione di realtà acusmatiche.
Viene definito “acusmatico” il suono la cui fonte di provenienza non è accessibile ad altri sensi.
Pierre Schaeffer, il teorico della musica concreta, individuò l’origine di tale determinazione
precipua del fenomeno acustico nella filosofia platonica, laddove l’insegnamento del maestro
veniva impartito attraverso la schermatura della voce in un setting cavernoso, scuro e offuscato.
Il suono acusmatico ha, per ovvie ragioni, uno statuto percettivo specifico che lo qualifica
diversamente da ogni altra manifestazione sonora condizionante l’ascolto. Nella realtà quotidiana e
nelle realtà virtuali che provano a simulare contesti di esperienza ‘diretti’ accediamo
fenomenicamente alla natura del suono attraverso strutture di relazione causa-effetto, indice-codice,
‘tarando’ la frequenza attentiva del nostro sistema percettivo in direzione di un ascolto “causale”
e/o “semantico”, a seconda che la nostra attività ‘designante’ sia orientata verso l’apprendimento
referenziale della causa che ha prodotto l’oggetto sonoro o in direzione di un significato (simbolico,
semantico, semiotico…).
In un prodotto audiovisivo la scelta compositiva che muove il senso in direzione di uno dei due
ascolti è la verosimiglianza, nei casi di sincronismo audiovisivo (la pertinenza della causa), o la
narrazione (la comunicazione di contenuti).
L’intenzione compositiva che si propone di guidare l’attenzione verso la materia del suono in sé
stesso provoca quel singolare atteggiamento percettivo conosciuto con il nome di “ascolto ridotto”,
essendo proteso verso la captazione delle caratteristiche tipologiche e morfologiche di un suono e
non, invece, verso le determinazioni contestuali di cui viene spogliato.
Nel suo Traitè des objets musicaux 1 , Schaeffer espone il paradigma dell’“oggetto sonoro” musicale
da lui inteso come “elemento della percezione” e considerato da Murray-Schafer come “la più
piccola particella di un paesaggio sonoro” 2 . Nel nostro caso la definizione predilige sicuramente la
porzione di movimento autonoma più interpretabile come evento, ovvero la dinamica sonora la cui
continuità porta la coscienza ad individuarne una forma, o a percepirla come tale in opposizione ad
uno sfondo, più che in relazione ad un paesaggio.
1
Pierre Schaeffer, Traitè des objets musicaux, Ed. du Seuil, Paris 1966.
2
R.Murray-Schafer, op.cit.p181.

110
Siamo sempre più propensi a considerare paesaggistica una massa sonora d’ampia banda spettrale
piuttosto che una configurazione semplice di tipo descrittivo (tonica+segnale+impronta sonora…)
anche se di questo contenuto ‘storico’ può ancora liberarsi, come vedremo, la progettazione
acusmetrica. Ma in tal caso saremo ancora in presenza di paesaggi o dovremo battezzare piuttosto
nuovi ‘ambienti’ audiovisivi costruiti attraverso il design acustico?
Rimaniamo adesso alle componenti dell’oggetto sonoro per come esaminate nella letteratura: le tre
componenti elaborate da Schaeffer sono l’attacco, il corpo, e la caduta che si specificano in:
“attacco” (la brusca variazione di ampiezza e di spettro con cui un suono comincia); “decadimento”
(la diminuzione d’ampiezza fino ad un certo livello); “sostegno” (la parte centrale d’un suono che
viene percepita come stazionaria e immobile); ed “estinzione” (la diminuzione dell’ampiezza fino
alla dispersione nel rumore ambientale). A queste si aggiungono delle componenti parallele ed
‘organiche’ che sono la durata, la frequenza, e la dinamica, attraverso cui è possibile condurre
l’osservazione di tutte le fluttuazioni interne ad un suono complesso definite in termini tecnici
transienti.
Schaeffer introduce due nuovi criteri che riguardano in particolare la sottolineata convergenza tra il
senso del tatto e quello dell’udito: la massa e la grana.
“Mentre alcuni suoni consistono di frequenze o altezze chiaramente definite, altri consistono di
inestricabili cluster di frequenze. (…) Alcune volte il suono occupa una banda di frequenze
abbastanza ristretta, altre volte invece è a larga banda. (…) La massa di un suono risponde ad un
criterio di densità. La si può quindi considerare come l’ampiezza di banda predominante. (…) La
grana è un tipo particolare di fluttuazione interna, caratterizzata da una modulazione regolare. Si
differenzia quindi dai transienti, che sono invece delle fluttuazioni isolate o irregolari. La grana
forma la trama; rende ruvida la superficie del suono e produce effetti di tremolo (modulazioni
d’ampiezza) o di vibrato (modulazioni di frequenza).” 1
Murray-Schafer, da cui abbiamo tratto questa veloce ed intuitiva tassonomia, sottolinea l’utilità, in
sede analitica, di fornire alcune informazioni di carattere generale relative all’ambiente, come la
distanza del suono dall’‘osservatore’ (dall’apparecchiatura di registrazione) oltre che la sua
intensità, ma soprattutto se tale oggetto-evento sonoro “si distacca con chiarezza dal contesto
ambientale o se è a mala pene percepibile; se è semanticamente isolabile o se fa parte di un contesto
o di un messaggio più ampio; se è simile o meno alla trama generale del contesto ambientale; se le
condizioni dell’ambiente circostante producono effetti di riverberazione e di eco o altri effetti
ancora, quali un senso di deriva o la difficoltà a stabilirne il punto di origine.” 2

1
ibid.189-190, corsivi nostri.
2
Id.

111
Non è difficile ricordare come il nostro lavoro abbia già esibito la personale linea esecutiva
nell’affrontare il fondamentale momento della ‘fissazione’ di un evento sonoro, 1 e non bisogna mai
dimenticare quanto lo stesso Schaeffer sia sempre stato sollecito a ricondurre i suoi studi alla
particolare prospettiva tecnologica che rese l’interesse dei suoi studi antropologicamente urgente.
Sia chiaro infatti che oggi come allora vigono gli stessi interrogativi e le preoccupazioni nei riguardi
del dilagare progressivo dell’esperienza trasmessa: di quali conseguenze aspettarsi e di quali
modifiche al nostro apparato cognitivo rendere conto in ultima analisi ma soprattutto se continuare a
definire “immateriale” quella dimensione dell’esperienza umana legata alle perturbazioni di
coscienza definite ‘estetiche’.
La nostra reiterata attenzione nel puntualizzare una certa consapevolezza nel rendersi ‘cavie’ di un
processo ben più complesso del nostro singolare è legata ad un altrettanta convinzione della
struttura relazionale di ogni processo culturale, e se anche tale dimensione della collettività fosse
circoscritta a quel piano dell’impersonalità linguistica che comunque abitiamo, rivolgiamo i nostri
prodotti di coscienza a quel soggetto ‘storico-psicologico’ della nostra soggettività atemporale per
rivendicare ancora una volta la flessibilità adattiva della manifestazione pulsionale dell’essere.
Attraverso lo schermo sonoro intravediamo la contaminazione cosciente della nostra
immaginazione sul mondo che abitiamo, edifichiamo e comunichiamo in attesa di quella domanda
che non formuleremo mai cui questa tesi offre un lungo e diluito punto interrogativo.
Uno schermo sonoro ha per mattoni degli altoparlanti.

Imaging stereofonico

1
Vedi pp.65-67 di Manipolazione/Montaggio.

112
Le ricerche sulla spazializzazione del suono muovono i primi passi già sul finire del diciannovesimo
secolo, ma solo attorno agli anni Trenta del Novecento vengono messi a punto i primi sitemi di
registrazione tramite una testa “finta” (la dummy head) con dei microfoni nei canali uditivi per
simulare l’evento sonoro così come percepito dall’essere umano.
Confrontando le registrazioni dei due canali venne battezzata «tecnica stereofonica» la riproduzione
di un campo sonoro attraverso la trasmissioni di due tipi di segnali, canale destro e canale sinistro,
indipendentemente dal numero degli altoparlanti. Sin da allora si propendeva per un’idea
dell’illusione convincente piuttosto che per la ‘ricostruzione’ di uno spazio sonoro, e così per una
sua solidità strutturale l’imaging stereofonico fu impiegato da subito con l’obiettivo della
riproduzione della sensazione acustica per come percepibile nel vero spazio tridimensionale,
attraverso l’utilizzo di svariate tecniche di registrazione e di manipolazione del suono che
aumentassero in ultimo la «consapevolezza spaziale» (spaciousness) del campo sonoro prodotto, ma
di un campo sonoro fortemente limitato nello spazio tra gli amplificatori.
Ogni fonte sonora di un ambiente acustico genera tre campi sonori: il suono diretto, il suono
riflesso, e la riverberazione. Nella routine stereofonica si usa annullare la distanza microfonica in
sede di registrazione ed in seguito aggiungere un effetto di riverbero per dare profondità. Ma ciò di
cui è priva la stereofonia a due canali è un’altra significativa componente della riproduzione
spaziale vale a dire quella dell’«avvolgimento» (envelopment), il senso di un “immersione” e
dell’essere circondati dal campo sonoro: “So spaciousness is like looking into a window that
contains space beyond; envelopment is like being in the space of the recording.” 1
L’imaging stereofonico è una vera e propria “Arte” dotata di un linguaggio condiviso e di una serie
di competenze da dover padroneggiare prima di dedicarsi ad altre soluzioni più “creative”. Come
ogni base da apprendere per sviluppare il proprio stile è anche ai confini con il sapere scientifico in
quanto le soluzioni che si affermano nel tempo sono le stesse implementate nell’ambito della ricerca
fisica, psicoacustica e, purtroppo, militare. Ma sebbene il doppio canale stereofonico sia
probabilmente la tecnica affermata universalmente, dalla musica popolare agli eventi sportivi,
l’alternativa del suono “multicanale” esiste dai tempi della Seconda Guerra Mondiale quando
l’esercito statunitense sperimentò nei propri centri di controllo che più fonti sonore univoche
dislocate nello spazio avevano maggiori probabilità di essere seguite simultaneamente che se
posizionate in uno stesso luogo.
La stereofonia, come la stereoscopia, è comunque legata ad una prospettiva convergente, a quel
punto d’osservazione frontale che riconduce il raggio della percezione sonora al senso della vista.

1
Tomlinson Holman, 5.1 Surround Sound. Up and Running, Focal Press, Elsevier 2000, p.118.

113
Ma se dal ‘punto di vista’ tale dislocazione non compromette l’esito della rappresentazione per la
naturale morfologia dello strumento, nel caso del suono tale restrizione di campo risulta artificiale.
Noi siamo ormai assuefatti alla pasta del suono mixato stereofonicamente, al muro di amplificatori
cui resistiamo nella fruizione di musica dal vivo, e cominciamo solo ora a prendere confidenza con
le nuove formule di mercato della riproduzione, ma l’«era quadrifonica» di fine anni Sessanta e
inizio Settanta continua a rimanere l’unico fermento nonché l’ultimo riferimento di sperimentazione
creativa nell’ambito del suono spazializzato.

Imaging quadrifonico.
La migliore spiegazione del fallimento quadrifonico, oltre al fatto che esistessero tre formati in
competizione, include la resistenza da parte del pubblico a posizionare più altoparlanti negli spazi
dedicati all’ascolto, indice di un’inerzia cognitiva prima ancora che economica perché molto poco
considerata è l’influenza che ebbero sulla cultura della fruizione le molteplici concezioni dei
produttori quadrifonici su come il mezzo avrebbe dovuto essere impiegato: “from coming closer to
the sound of a concert hall than stereo by putting the orchestra up front and the hall sound around
the listener, to placing the listener “inside the band”, a new perspective for many people that saw
both tasteful, and some not so tasteful, presentations.” 1
Certamente non tutti furono gli ascoltatori tanto fortunati da poter assistere alle performance di
sperimentazione quadrifonica di Karlheinz Stockhausen, o a quelle di Edgar Varèse o di Iannis
Xenakis, ma a partire dagli anni Settanta la tecnologia informatica ha sostenuto la ricerca su vari
aspetti della spazializzazione, come quella sui meccanismi di controllo del posizionamento.

1
ibid.p.14.

114
Oggigiorno l’uso del calcolatore sposa le più estreme esplorazioni della natura sonora.
Nel caso del controllo la tecnologia multicanale ha reso di pubblico dominio sia la riproduzione, ed
una selezione interattiva, sia la progettazione tramite interfacce grafiche che disegnano il modello
spaziale della disposizione degli altoparlanti.
Alla stereofonia ci si è in fondo fermati, ma si tratta di un arresto commerciale non certo creativo.
Ci si è resi conto durante la ricerca del compromesso tra costi economici e spazi necessari alla
dislocazione di parecchie casse acustiche che un’alternativa poteva essere costituita dal cosiddetto
sistema 5.1 il quale all’impianto quadrifonico aggiunge un canale separato per la gestione del
materiale sonoro sulle basse frequenze chiamato LFE (low frequency enhancement) con il suo
apposito amplificatore chiamato subwoofer, ed un amplificatore centrale che risponde
all’intenzione di incollare il suono trasmesso dall’imaging frontale ad un ipotetico schermo visivo
facendo in modo che la soluzione collaudata ai tempi del capolavoro cinematografico Fantasia
negli anni 1938-41, s’imponesse come standard della fruizione domestica cinematica degli ultimi
tempi. Non solo, questa deformazione dell’impianto quadrifonico determina un ulteriore movimento
dello spazio sonoro funzionale al tipo di impiego che lo spazio 5.1 va collettivizzando: infatti alla
notevole riduzione del volume spaziale degli altoparlanti, tale da convertirne la denominazione in
semplici “diffusori”, è collegata la standardizzazione del setup (sistemazione) ad opera di un
organismo internazionale per le telecomunicazioni (l’ITU 1 ) nel quale si prevede che gli altoparlanti
dedicati all’emissione ‘posteriore’ vengano posizionati ad un angolo di ±110° dall’asse ascoltatore-
fronte uditivo. E questo non in ragione di una migliore esperienza di ‘avvolgimento’ dell’imaging
acustico testata sperimentalmente ma poiché viene supposto che la principale posizione d’ascolto
domestico sia immediatamente adiacente al muro ‘di spalle’ piuttosto che al centro di uno spazio
sonoro creato dagli altoparlanti liberamente posizionati. Come tutti i processi di consumo questi
vincoli vengono fuori in relazione a «doppi legami» che si rinforzano reciprocamente. E, anche se
gli esperti stipendiati dall’industria citeranno sempre le funzioni di trasferimento in relazione alla
testa (HRTF 2 ), noi crediamo che proprio questa soluzione venga offerta per promuovere un preciso
format commerciale, il prodotto dell’industria dell’intrattenimento che delega al sonoro la
responsabilità di far da garante all’autenticità dell’illusione, alla verosimiglianza della finzione,
diciamolo, alla contraddizione.

1
http://www.itu.int/itudoc/itu-r/rec/bs/775-1.html.
2
La Head related transfer function è una misurazione delle alterazioni della propagazione del suono a causa della
diffrazione prodotta dalla testa in quanto barriera. Questa misurazione viene fatta registrando un segnale con dei
microfoni posti dentro i condotti del meato uditivo di una dummy head (la testa finta della registrazione a 360°) e rende
conto di tutta una serie di cambiamenti che subisce la forma d’onda percepita dalle nostre orecchie, mentre la sorgente
sonora si muove rispetto all’ascoltatore: dalla riflessione delle alte frequenze alla diffrazione delle basse che ‘girano’
intorno all’ascoltatore dai 1500hz a scendere, laddove questa lunghezza d’onda è di circa 20cm approssimativamente
uguale al diametro della testa. Cfr.Lombardo-Valle,op.cit.p.298.

115
Imaging 5.1
+ schermo visivo.

Il tipico schema della fruizione “da salotto” del suono multicanale è drasticamente ancorato alla
visione del racconto sceneggiato. L’altoparlante centrale oltre che per sostituire alle immagini
fantasma che si formano tra i 60° stereofonici una localizzazione reale, e per sopperire al picco di
volume attorno ai 2khz per effetto della diffrazione e agli ‘increspamenti’ sulle alte frequenze, non
ha alcuna ragion d’essere se non quella di veicolare il contenuto più esplicito del testo raccontato:
funzionalmente il suo contributo evolutivo apportato al surround sonoro è stato subito superato
dall’ipotesi di altri altoparlanti centrali su entrambi gli “schermi” laterali (il “7.1”) ma la sua decisa
affermazione si spiega in definitiva con la funzione di “trampolino dell’immedesimazione” che gli è
stata impartita dall’industria culturale. La quinta “cassa” serve la Voce.
Quando venne studiata nei laboratori di ricerca della BBC per tutto il 1975 ci si chiedeva se la
quadrifonia sarebbe stata utilizzata per la grande diffusione. I test di ascolto quadrifonici diedero
uno schema di imaging sonoro intercanale che sulle bande laterali richiamava le ali di una farfalla:
mentre l’immagine posteriore funzionava altrettanto chiaramente quanto quella anteriore, nelle zone
laterali subisce una deviazione dovuta alla posizione delle orecchie nella nostra testa. Tuttavia allora
non si ritenne opportuno ampliare l’angolo tra i diffusori posteriori per migliorare l’effetto sonoro,
si concordò sul fatto che è sempre preferibile posizionare il suono diretto in una precisa sorgente
d’emissione piuttosto che dare adito alla produzione di immagini fantasma che giacciono nello
spazio tra due altoparlanti, soggette ad effetti di precedenza o ad anomalie di risposta in frequenza.

116
“Quadrophony can trasmit information about both the direction of sound incidence and the
reverberant sound field. Directions of sound incident in broad parts of the horizontal plan
(especially the frontal and rear sections, though not the lateral sectors) are transmitted more or
less precisely. However, four loudspeakers and four transmission channels fall far short of
synthetizing the sound field at one position in a concert hall faithfully enough so that an attentive
listener cannot notice considerable differences in comparison with the original sound field.” 1
Cos’altro giustifica allora questa passione sempiterna della simulazione designatoria? Il problema si
ripropone costantemente senza che veri sforzi vengano mai compiuti per fomentare la creatività sul
mezzo. Non possono neanche giustificarsi questi tentativi, isolati dall’intero circuito dell’interesse
“artistico”, che rischiano di diventare deliri solitari della perversione (“la perversione come
dimensione di superficie … pone soltanto il problema dell’investimento di un oggetto sessuale
mediante un’energia desessualizzata come tale” 2 ) in cui dichiariamo, consapevoli del rischio che
stiamo correndo, che la quadrifonia è il setting ideale della modulazione scultorea.
Non ci interessa a quale livello sia giunta la simulazione di un ambiente acustico, soprattutto
quando la sua riproduzione visiva ci viene esibita innanzi, preferiamo di gran lunga l’esperienza
“sudata” di quel contesto. Le uniche categorie che possono aiutarci a definire nuovi concetti estetici
del suono che si addensa per mano di uno scultore dell’invisibile, sono le stesse con cui la
letteratura tecnica produce le sue considerazioni sulla distribuzione spaziale del suono, ovvero:
localization, spaciousness, ed envelopment.
La localizzazione avviene nei punti di emissione sonora, negli altoparlanti, e può mutare a seguito
di uno spostamento del suono da un altoparlante ad un altro. Se due altoparlanti emettono lo stesso
segnale una localizzazione intermedia tra le due fonti sonore verrà percepita come sorgente sonora
ed in gergo questo fenomeno viene chiamato immagine fantasma.
La consapevolezza spaziale riguarda lo spazio sonoro fino al punto in cui questo viene descritto,
altrimenti designato, e concerne l’ascolto indipendentemente dal numero di canali di emissione
sonora: “in un sistema a due canali, il campo sonoro viene solitamente costretto tra i due
amplificatori, e la consapevolezza spaziale descrive la percezione di uno spazio fisico rappresentato
tra di essi. La dimensione della profondità non ne viene esclusa, ma il profondo si estende anch’esso
unicamente nell’area tra i due altoparlanti.”3 Non sarà difficile concludere che la spaciousness
riguarda la percezione di paesaggio.

1
Jens Blauert, Spatial Hearing, MIT Press 1997, pp.285-6, citato in Tomlinson Holman, op.cit.p.214. Si sostiene in
pratica che la quadrifonia benché in grado di trasmettere le informazioni relative alla direzionalità di un evento sonoro
sul piano orizzontale, non riesce a “sintetizzare” la simulazione di un campo sonoro senza considerevoli differenze
dall’originale.
2
Gilles Deleuze, Logica del Senso, ed.cit.p.214.
3
Traduzione libera da T.Holman, op.cit.p.216.

117
L’envelopment o “avvolgimento”, infine, riassume la sensazione dell’«essere circondati dal suono»:
“l’essere incorporati nello spazio della registrazione” 1 . L’essere rivestiti della superficie
d’emissione che richiede necessariamente come sistema di riproduzione un impianto multicanale:
“two-channel stereo can produce the sensation of looking into a space beyond the loudspeakers;
multichannel stereo can produce the sensation of being there” 2 .
Più alto è il numero di altoparlanti concorrenti all’imaging sonoro, maggiore sarà la sensazione
d’avvolgimento prodotta dalle occorrenze sonora rappresentata.
L’impianto quadrifonico è il minimo sistema della sensazione di movimento scultorea,
trecentosessanta gradi di risonanza, la tridimensionalità invisibile dello spazio solcato sulla pelle.
Non riguarda più la sola dimensione acustica, avvertiremo le correnti d’aria sulle basse frequenze e
contrazioni nervo-muscolari per i suoni acuti, le deformazioni che lasciano sul corpo percepito,
quello che crediamo possedere e quello che immaginiamo come nostra soggettività preindividuale,
la stessa di tutti, manipolata da quegli eventi di senso che lasciano i solchi nella nostra coscienza.
L’isomorfismo coscienza-immagine fa sì che esista un «luogo dell’arte» in cui le nostre
individualità si raccolgano in una sola coscienza impersonale, che informa l’ethos e rende
“circolare” il linguaggio, ed è solo lì che l’arte può trascendere il contesto dell’opera e dell’autore,
nel Sé “spirituale”.
La scultura del suono sublima allora, come la castrazione della sessualità nel linguaggio,
un’esperienza sensoriale nella struttura cognitiva dell’udito attraverso la proiezione di un
immagine-suono, il processo durante il quale viene modellata la nostra sfera impersonale, che
comunica, dalla nostra percezione degli eventi, nel susseguirsi di stimoli sensoriali che ‘avvolgono’.
L’appercezione definitiva renderà conto se tale processo s’è compiuto mettendo in comune l’autore.
Questo parametro semibiografico è l’ultima determinazione da regalare all’immagine temporale,
basta vedere un film di Tarkovskji e non c’è bisogno di leggere l’autobiografico Scolpire il tempo 3
se ciò che vogliamo dire è già capitato a qualcuno. L’opera d’arte è impersonale, ma è impersonale
in quanto sublima l’esperienza individuale di qualcuno nell’assoluta impersonalità della vita.
Il medium è l’immagine…(©)

Quindi di seguito proponiamo la nostra versione dell’imaging acustico, il nostro schermo sonoro,
contesto fisico dell’evento di senso e sensazione, e luogo di immagini-tempo audiovisive.
Quadrifonia in proiezione ottica potenziata sulle basse frequenze:

1
Id.
2
Ivi.
3
Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri Milano …

118
Imaging 4.1.
«Audiovisivo Concreto»
(da qualche parte, uno schermo visivo)

Alla stereofonia ci si è, in pratica, fermati perché l’imaging acustico del sistema 5.1 è questa
struttura ‘piatta’ del suono da guardare, da riconoscere, ed in cui perdersi senza mettersi in gioco
mentre siamo accarezzati da due altoparlanti che ci sussurrano all’orecchio: “c’era una volta…e
tutto è bene quel che finisce bene..”.
L’uomo non fa a meno di raccontare, non può fare a meno di rendere testo quei tratti dell’esperienza
che s’inscrivono nei processi di memoria, la narrazione esibisce questo movimento dell’“intessere”.
Ma si può senz’altro fare ameno d’imparare a memoria e d’imparare ad ubbidire alle regole che
“pilotano” la nostra identità collettiva, visto che questa è già presente in noi stessi e copre metà
dell’essere bidimensionale che ci divide in Linguaggio e Arte, in principio in-positivo e “negativo”
dell’esperienza, in concetto e immagine.
È tutto già complementare dalla nostra infanzia, nel padre e nella madre, e sin dall’origine genetica.
Quindi chi ci racconta quel movimento di senso che si è già scolpito nel nostro organismo tante, ma
così tante, volte ci sta facendo perdere il tempo, ma anche lo spazio, e ci sta facendo credere di
essere in un altrove “immaginario” che non possiamo raccogliere noi stessi, frammento per
frammento, nel corso della nostra esistenza privando la nostra coscienza di un’ennesima possibilità:
costui è quel ciascuno di noi quando decide di non decidere e lascia che Altri scelga per noi.
Il meccanismo del “Potere” abita in noi stessi, ed è “solo” un atteggiamento.
119
La necessità di esprimere diventa quindi un’urgenza di esprimersi, di riprendere in mano ciò che si
va perdendo vivendo nella società. Questo è il tardo capitalismo e l’occidente che va crollando. E
chi non ci arriva soffrendo è chi non patisce né economie del tempo né dello spazio e non potrà mai
venire schiacciato dalla natura che si ribella attraverso un profumo di fiori appassiti in un vaso:
l’impiego del mondo di un egoismo semiotico.
Ciò che si è perso nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la cognizione
dell’evento per cui si arriva a bestemmiare che “è bello ciò che piace” intendendo quel che piace
come ciò che è gradevole a tutti.
L’evento ed il corpo sonoro sono qualcosa che riguarda davvero questo momento di transito verso
l’immateriale, e di scultori di suono, cui siamo “linkati” per esperienza, diamo un elenco
nell’Appendice “garante” di una territorialità di questa tesi.
Il fine non è, o forse non è più, definire integrale l’esperienza audiovisiva pulsionale perché
pulsionale è quell’esperienza che realizziamo spezzando la riflessione nelle strutture linguistiche
sensoriali. Invece abitiamo l’ipotesi che nella sensazione possa trasmettersi una virtù indeclinabile
della nostra coscienza, un’immaterialità ‘vera’, una consistenza.
“La sostanza per un organo di senso non è l’oggetto in sé, ma la qualità che riusciamo a
percepirne” 1 . E se spirituale è l’esperienza intuitiva della conoscenza. La trasmissione intuitiva
della sostanza dell’io attraverso le manifestazioni fenomeniche o è un’esperienza estetica
“spirituale” o è l’arte concretamente.
Da sempre concettualmente, ma da poco difatti, la musica concreta ha una “missione” spirituale.
Che non è l’“obiettivo” o la “ragione” ma la vocazione poetica di chi si esprime attraverso i suoni.
Dai primi Michel Chion agli ultimi Valerio Tricoli, passando per l’universo dell’istallazione sonora
ai confini del percepibile dei nostri amici russi Dmitry Gelfand ed Evelina Domnitch, ci rendiamo
conto che una reale espansione di coscienza travalica il senso concettuale dell’opera d’arte per
attestarsi sul piano della transduzione di sensum, di senso percepibile mediante i sensi e mediante
un loro interscambio di superficie: la superficie ‘cosciente’.
Il termine psichedelico interpretato letteralmente conduce al nostro senso spirituale perché riguarda
ciò che rende l’anima manifesta, e solo in secondo luogo coinvolge il pensiero. Per cui il potere
delegato alle droghe di liberare chi le usa dalle sovrastrutture mentali è di nuovo quel gesto di
abbandono, dalla partecipazione totale ‘attenta’ a quella priva di controllo, che rende pericoloso
proprio l’atteggiamento di chi fa uso di sostanze stupefacenti, oltre che il tipo di reazione chimica
presupposta.
La psichedelìa è un esibizionismo di coscienza.

1
P.64 di Manipolazione/Montaggio.

120
“Le membrane degli altoparlanti, i lievi spostamenti dei pigmenti colorati: sono sempre superfici di
diversa natura a rivelare il suono, in superficie avviene lo scambio tra udito e vista, la creazione di
una nuova dimensione sensoriale, di vere e proprie sculture sonore.” 1
Non si tratta di produzione audio su supporto, o di musica per intenderci, né di visione cinematica,
anche se riguarda di gran lunga il nostro proponimento audiovisivo, Daniela Cascella in
quest’ultima citazione descrive il lavoro di alcuni artisti che producono, per il mondo delle gallerie,
degli spazi d’ascolto: “Alla soglia del silenzio, nel passaggio tra quiete e presenza acustica, tra ciò
che non viene più udito per eccesso di abitudine e ciò che l’orecchio rifugge per mancanza di
familiarità. I suoni che aleggiano negli spazi di questa mostra sono tutti assai sfuggenti, difficili da
definire. Non si tratta di musica nel senso comune del termine: il loro andamento non segue una
linea melodica che rimane nella mente e che possiamo rievocare a distanza. Se vogliamo tentare di
ricordare questi suoni, o di descriverli, ci troveremo piuttosto a ricordare e a parlare di spazi, di
consistenza, di luoghi, di colori e sensazioni legati in modo intrinseco ai suoni stessi, non
riproducibile se non come variazione infinitesimale e sempre diversa di una materia quanto mai
elusiva. Ad essi torniamo proprio in virtù del loro essere inafferrabili, della loro capacità di renderci
consapevoli del nostro corpo collocato in uno spazio: ecco perché questi suoni così astratti, a volte
percepiti dal corpo a livello di pura vibrazione fisica oppure soltanto evocati in un disegno,
arricchiscono la nostra esperienza a livello spaziale e non soltanto uditivo. (…) Nel momento stesso
in cui i suoni prendono forma a livello di texture, di una sorta di vapore diffuso, di nuance
percettiva, mettendo in secondo piano le proprie caratteristiche temporali ed esaltando quelle
fisiche, abbandonano il raggio d’azione della musica ed entrano in quello della scultura, alle prese
con la definizione di uno spazio: una scultura che per ognuno di questi artisti è traccia, segnale da
completare, frammento che accenna a una totalità avvertita ma non esaurita nell’opera 2 , che al
limite è assenza. (…) Il tipo d’ascolto richiesto da queste opere è attento e assottigliato: può essere
mentale o fisico, istintuale; richiamare al dettaglio di minime variazioni tonali o a una vagheggiata
pienezza percettiva. In ogni caso questi suoni invitano ad ampliare lo spettro d’ascolto, a porci in
relazione sfumata e complessa con lo spazio. Nelle parole di Bas Jan Ader, uno degli artisti che più
hanno lavorato sull’assenza e sull’incompletezza, a “pensare attorno agli angoli”.” 3

1
Daniela Cascella in Simone Menegoi, Sebastiano Barassi, Daniela Cascella, Light Sculture, Edizioni Il Mulino,
Vicenza 2005, p.38.
2
Cfr. le nostre definizioni dell’immagine-suono.
3
Daniela Cascella, op.cit.p.36. La scelta di chiudere questo paragrafo con una citazione di tale estensione si accorda con
la sensazione che in essa troviamo riassunte una serie di ipotesi che abbiamo sviluppato nel corso di questo capitolo ora
attraverso riferimenti tecnici, ora attraverso riflessioni personali. La sinergia d’intenti nel definire nuovi spazi d’ascolto
anche in ambito letterario ci convince che una sensibilità diversa nei confronti della musicalità dell’uomo sta prendendo
campo ed è questo il momento di proporre nuove soluzioni, concentrando i nostri sforzi laddove per molto tempo, e
come tanti, ci siamo ritrovati da soli. Gli artisti di cui scrive Cascella sono Rolf Julius, Steve Roden, Max Neuhaus, e
Paolo Piscitelli. Per il nostro lavoro vedi in Appendice la voce Scultori di Suono.

121
122
123
CONCLUSIONI
(o due metafore della Premessa)

124
Attraverso la Crosta del Desiderio. (grazie Alessandra)

Alice viene destata dalla sorella e fugge via, a prendere il tè, la sorella rimane a sedere dove Alice
s’era addormentata, con la testa appoggiata sulla mano, a guardare il tramonto, e a pensare a tutte le
avventure che la piccola Alice aveva sognato nel suo Paese delle Meraviglie, fino a che, anche lei,
non comincia a sognare in un certo qual modo.
Dapprima sogna la piccola Alice in persona, i suoi occhi lucenti pieni di desiderio fissi nei suoi, e
tutto il luogo intorno a lei diviene vivo delle strane creature del sogno della sorellina. Così resta ad
occhi chiusi pur sapendo che sarebbe bastato riaprirli e tutto sarebbe ritornato la ‘prosaica’ realtà…
“Infine, si immaginò come questa sua stessa sorellina sarebbe diventata anche lei una donna adulta,
nei tempi a venire; e come durante gli anni più maturi avrebbe serbato il cuore semplice e affettuoso
della sua infanzia; e come avrebbe riunito intorno a sé altri bambini, e avrebbe fatto a sua volta
brillare di desiderio i loro occhi con molti racconti strani, forse perfino con il sogno del Paese delle
Meraviglie di tanto tempo prima; e come avrebbe diviso tutti i loro semplici dolori e goduto di tutte
le loro semplici gioie, nel ricordo della sua fanciullezza, e dei felici giorni d’estate.” 1
Tuttavia per colpa di una gattina nera Alice si ritrova, un giorno, dall’altra parte del vetro di uno
specchio, nella Casa dello Specchio: “La primissima cosa che fece fu guardare se ci fosse un vetro
nel camino, e fu lietissima di trovarcene uno vero, che ardeva non meno allegramente di quello che
si era lasciata dietro. «Così starò calda come nell’altra stanza» pensò Alice «anzi, di più, perché non
verrà nessuno a dirmi di stare lontana dal fuoco. Oh, che divertimento sarà quando dal vetro mi
vedranno qua dentro, e non potranno prendermi!»” 2 . Alice, lo Specchio, il Desiderio.
La nostra tesi consiste di un primo lungo tentativo di precisazione del concetto, sottolineando
questo aspetto squisitamente teorico, di linguaggio audiovisivo. Negli anni Sessanta, a seguito della
rivoluzione radicale che lo sguardo strutturalista compie nei confronti dello studio di ogni realtà
sistemica, anche la filosofia del linguaggio compie quel passo decisivo che scardina l’ordigno
prospettico, il metodo d’osservazione analitico, per restituire «potenza di fatto» all’unità organica.
Non a caso lo Strutturalismo si afferma come tendenza dominante della scienza antropologica nello
studio delle culture orali, quei settori del sapere che devono definirsi “campi” d’indagine piuttosto
che “oggetti” di studio. Come prima conseguenza di questo ‘salto’ nel paradigma culturale dalla
«visione» all’interpretazione del sentire, si fa strada nello spirito dell’epoca una cognizione
dinamica, attraverso la descrizione del reale per mezzo di linee di forza, o movimenti di tensione. È
la presa di coscienza di una cultura del cambiamento epocale, dall’era industriale a quella elettrica.

1
Lewis Carrol, Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie - Attraverso lo Specchio, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 1978, p.118, corsivo nel testo.
2
Ibid.pp.145-146.

125
Per un meccanismo proprio del sistema “cultura” l’appropriazione comunitaria di una realtà di fatto
successiva ad un cambiamento segue nel tempo le modifiche essenziali - “strutturali” - che quel
mutamento ha apportato. È come dire che la riflessione è sempre conseguenza della percezione,
che, in sintesi, è ciò che arriva a formulare la filosofia del linguaggio attraverso la speculazione sul
«senso».
Tuttavia quello che sosteniamo in questa tesi è che noi stessi, in quanto elementi particellari di un
macro-sistema su scala globale, siamo già vittime e fautori di un ennesimo ‘scarto’ epocale ad opera
delle tecnologie elettroniche ma per l’inadeguatezza dei nostri strumenti di pensiero non siamo
ancora in grado di ‘contemplarne’ gli effetti.
Il terreno che abbiamo cercato di solcare attraverso le autocritiche a questi retaggi culturali che ci
portiamo dietro è quello dell’arte come dimensione della creatività in ogni essere umano, e gli
strumenti che abbiamo utilizzato sono la psicanalisi lacaniana, la filosofia deleuziana e
l’etnomusicologia odierna non più solamente filologica ma soprattutto tecno-antropologica,
sviluppando un ‘utensile’ attraverso l’assemblaggio dei rispettivi metodi per potere esercitare in
futuro la nostra personale pulsione estetica.
Per questo abbiamo parlato di senso e sensazione, e di manipolazione-montaggio, perché
psicanaliticamente sin dalla nostra nascita siamo portati a dirigere fuori da noi stessi il nostro
slancio vitale individuando nella mamma, in noi stessi e nel “Padre” la finalità di ogni nostro agire:
prima fisiologico, poi percettivo ed infine simbolico. Il linguaggio pre-esiste, non è una tappa che
raggiungiamo né una meta cui accediamo. Il linguaggio è una «potenza» del nostro corpo,
intendendo sia ciò che trascende l’esistenza individuale, sia ciò che immàne nella struttura umana.
Filosoficamente l’esperienza non è più interpretabile in termini di contatto bensì di trasmissione. Se
il contatto riguardava la relazione delle cose con i loro nomi e una doppia realtà di oggetti con i
segni di questi oggetti per cui veniva denominata “conoscenza” una supposta ‘unione’ tra soggetto e
realtà; la trasmissione di cui si parla nella ricerca linguistica attuale non è “comunicazione” di un
contenuto ma “transduzione”, transcodifica e «transfluenza», di movimento, attraverso qualcosa.
Ciò che viene trasferito attraverso il medium, che è ogni mezzo d’espressione, è la “modulazione”,
il movimento prodotto e percepibile. Quando la modulazione di movimento deriva da un’intenzione,
“il proposito o desiderio di compiere un determinato atto non necessariamente accompagnato dalla
decisa volontà di realizzarlo” 1 , si parlerà di «produzione di senso»; viceversa quando si tratta della
presa di coscienza di una configurazione o di una “forma” di movimento si dice che avviene una
«percezione di senso».

1
Dal Vocabolario della Lingua Italiana di Nicola Zingarelli, Zanichelli Editore, Bologna 1993.

126
Infatti Lacan costruisce la propria nozione di immagine in base alla figura-destinataria
dell’intenzione inconscia, pulsionale, che si cela dietro la produzione di senso linguistica.
Non a caso dedichiamo questi paragrafi conclusivi alle destinatarie dei nostri movimenti pulsionali:
il primo, che riassume la contingenza, stabilisce il contesto delle nostre scelte coscienti, il
successivo sublima una perenne instabilità interiore e l’affronta con i mezzi del proponimento.
E non a caso ritorniamo più volte durante tutto l’arco della tesi a condannare l’impianto del senso
“letterario” sul mezzo cinematografico evolutosi per ‘oppressioni’ economiche su una struttura di
senso importata: ‘impiantata’ dal piano simbolico e astratto a quello materiale e concreto.
È come se il linguaggio del senso “simbolico” mancasse alle proprie tecnologie e tecniche arcaiche:
sono la scrittura e la lingua parlata che ontologicamente presuppongono il codice e la convenzione.
È come se di tutto ciò che è autenticamente cinema, immagine in movimento, non se ne fosse capito
niente nonostante i disperati tentativi di chi ha perseguito l’ostinata sperimentazione di esperienze
cinematiche viscerali.
Ovviamente non si può andare contro la Storia e contro ciò che viene edificato al di fuori della
nostra volontà ma contro un ‘proprio’ atteggiamento di rinunzia ci siamo soffermati per rivendicare
uno specifico “diritto” di immagine ad ogni singolo dominio sensoriale coniando la necessaria
espressione «immagine-suono» per fronteggiare la dittatura dell’immagine visiva in quel territorio
dell’esplorazione tecnologica denominato «multimediale».
Se nel mezzo audiovisivo infatti si deve parlare di multimodalità perché la modulazione dei due
canali audio e video trova convergenza nello stesso supporto, non dovrebbe risultare problematico
riconoscere la componente di immagine del suono nei prodotti di questa forma di rappresentazione
che esprimono il movimento in base ad una doppia polarità strutturale. Le possibilità di senso,
allora, sarebbero circoscritte all’utilizzo condivisibile di una logica relazionale tra le modulazioni
combinate dei due segnali cosicché sia possibile parlare di “Linguaggio” di fronte alla
‘riproposizione’ delle dinamiche primarie che agiscono nella cultura attraverso i processi di
asimmetria e dialogo.
La nostra proposta traduce in «movimenti di immagine» la relazione essenziale, forse la più
elementare in tutti gli insiemi sistemici, che trova nella sessualità un riferimento, individuando un
principio negativo che ‘accoglie’, l’immagine paesaggio, ed un principio positivo che ‘muove’,
l’immagine-movimento appunto, che un po’ più specificamente del concetto deleuziano riguarda
l’“intensità espressiva” e la natura vibratoria dei processi di immagine.
Partendo da una delle molte osservazioni che rendono Stan Brakhage un ‘martire’ delle
rivendicazioni del movimento abbiamo creduto che l’evoluzione dell’immagine audiovisiva debba
necessariamente frequentare la “scuola” del «cinema di struttura».

127
Tuttavia resta da compiere quel passo ulteriore che ‘scolpisca’ una volta e per tutte la legittimità
dell’uomo di esprimersi attraverso i suoni per condensare una verità di coscienza indeclinabile in
altri modi (o media).
Una semplicissima tecnica di rilassamento consiste nell’incanalare la concentrazione attraverso quei
‘solchi’ nel nostro corpo che conducono alle parti o “zone” che siamo in grado di riconnettervi.
Queste zone sono il residuo “linguistico” - non solo perché vi abbiamo associato un nome ma
perché abbiamo imparato a “sentirle” - di una primaria attività di senso consustanziale alla
sensazione che, con il dovuto rispetto per la primordiale natura di questo “movimento
d’espressione”, abbiamo battezzato sensum: il senso incarnato, il movimento di coscienza che
‘conduce’ la sensazione.
Come sostiene Gregory Bateson la nostra “Mente”, o il complesso delle facoltà intellettive, è situata
su molteplici piani cui la coscienza accede più o meno intenzionalmente, una delle funzioni
dell’arte consisterebbe proprio nell’agevolare certi meccanismi di coscienza involontari che si
offrono alla nostra comprensione come esperienze extra-ordinarie.
Ciò che fu in grado di realizzare Brakhage furono delle “strutture della possibilità”, pellicole in cui
fosse possibile ‘liberare’ eventi, cogliere senso, aldilà dell’intenzione ‘espressa’; e per ottenere un
simile risultato non gli fu necessario l’utilizzo del suono perché egli entrò dentro la Luce, andò fino
in fondo al senso del ritmo che la materia visiva col suo movimento poteva esibire, senza aver
bisogno di altro: “il ritmo del movimento delle immagini e quello della lunghezza dei piani
parrebbe un metodo assai più diretto – anche se più laborioso – per evocare lo stato d’animo
desiderato, di quanto non lo sia appiccicare un accompagnamento orchestrale, (…). L’evoluzione
del senso del suono nella sua relazione estetica al fatto visivo che sta alla sua origine non trovò
alcun parallelo nello sviluppo della relazione di suoni veri con le immagini. Il senso del suono che
un’immagine visiva evoca sempre e che può diventare parte integrante dell’esperienza estetica del
film se controllato creativamente, spesso rende superfluo il suono reale. Data solo questa premessa,
si potrebbe squalificare come opera d’arte quasi ogni film sonoro. Non vi è alcuna definizione di
una opera d’arte che lasci un margine per il superfluo.” 1
Certe posizioni che possono sembrare severe e in certi casi arroganti se venute fuori dalla bocca di
chiunque molto spesso si dimentica che appartengono a chi della propria vita ha deciso di fare
pubblica ammenda non per pura sevizia ma, si presume, per un’etica irrefrenabile dell’interrogarsi.
Certe volte insomma non si capisce che il destinatario delle proprie convinzioni è sempre
‘qualcuno’ che abita dentro chi parla e si rivolgono contro noi stessi le accuse che rivolgiamo
all’esterno. Verso qualcuno al plurale contro cui resistiamo in un equilibrio compresso.

1
Stan Brakhage, op.cit.pp.95-96.

128
Questa volta abbiamo voluto interrogarci attraverso le “macchine”, che sono la ripetizione di uno
specchio deformante, ed in questo contesto abbiamo costruito una “stanza” a misura del nostro
soliloquio tra l’Io e l’Altri, con cinque amplificatori, uno ad ogni angolo più uno per i movimenti
del ventre che non importa localizzare, ed un luogo visivo a noi innanzi.
In questo contesto d’audiovisione cerchiamo la soluzione ad una nostra irrequietezza che non potrà
mai trovare riposo nella comunicazione ma che trova sostegno in quelle presenze con cui condivide
quel sentimento che più d’ogni altra cosa ha a che fare col sangue, senza ulteriori risvolti patetici.
Esercitare la libera creatività è un diritto che in occidente perde la sua valenza ecologica per
diventare quasi un lusso acconsentito agli eredi di una vita sacrificata per un benessere che alcune
volte mette in forte discussione la stessa dignità.
Fare cultura: “diventare rizoma” conclude Deleuze in quel libro sul ‘senso’ della sublimazione dei
corpi nel linguaggio.
Ma il corpo pesa ed il respiro diviene affannato e “naturalmente, ogni vita è un processo di
demolizione” scrisse Fitzgerald quando avvertì il presentimento che l’America stesse cominciando
a decomporsi.
E se lucreziana è la frase:
“il tormento dell’anima è la paura d’esser morti, non ancora, quando già lo saremo”.
Il mio tormento è che ogni donna nella sua ‘incompossibilità’ di evento è il mezzo per andare fino
in fondo alle altre il che significa che quella cosa che originariamente è andata perduta, quando noi
due siamo insieme, ha la possibilità di manifestarsi in tutta la sua verità.
E tu accarezzandomi la fronte rispondi:

“La verità anzitutto è che ti fa male la testa,


ti fa talmente male che pavidamente pensi alla morte.
Non solo non sei in grado di parlare con me,
ma ti è perfino difficile guardarmi.
E adesso sono involontariamente la tua torturatrice,
il che mi amareggia.
Non riesci neppure a pensare e sogni solo che venga il tuo gatto,
l’unico essere, evidentemente, al quale sei affezionato.
Ma il tuo tormento cesserà subito,
la testa non ti farà più male.” 1

Ed io m’addormento.

1
Tratto da Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Capitolo secondo. Ponzio Pilato, avendo sostituito
“torturatore” e “cane”.

129
L’Audiovisivo Concreto. (Mamma…)
Il linguaggio audiovisivo come arte del flusso.

Non è con la falsificazione che può essere invalidata una poetica.


Nell’audiovisione gli oggetti sono involucri opachi, simulacri, o sono essenze di cui la materia
visiva e sonora sarebbe manifestazione? Un blu nella nostra cultura sostanzializza l’oggetto marino
perchè la sensazione del colore attribuisce realtà ed è garante di un «valore di verità». Così non può
essere per il suono che è più libero e slegato perché non siamo abituati a suonare le cose, ad
organizzare edonisticamente la produzione di rumori e silenzi in un contesto. Si potrebbe ricercare
la sostanzializzazione dell’oggetto attraverso il suono e la trasparenza vuota del colore.
Ma soggetto e oggetto sono determinazioni improprie della metafisica, ed anche in questo caso ciò
che conta è l’essere, non l’essere dell’uomo, ma il flusso. In ogni suo aspetto l’uomo è l’ente che
pone il problema dell’essere e l’arte è uno di questi.
Il linguaggio ha la struttura di una “pura” normatività senza norma dicibile, viene messo in pratica e
perseguito, viene eseguito in stretta dipendenza dalla contestualità: per alcuni, è impensabile seguire
una regola al di fuori dei sistemi di giochi-regole già esistenti e particolari. In questa tesi mi sono
inventato una regola per produrre dei giochi-linguistici nuovi, fondati sulle istanze della crescita,
credendo così possibile impadronirmi delle figure genitoriali che ogni essere umano si porta dietro
come fantasmi.
Ovviamente così esorcizzando una dipartita tremendamente conflittuale.
Attraverso questo lavoro devo chiudere i conti con la figura normativa del linguaggio sociale ed
anche questo tratto è alla portata di tutti nella prima pagina di questa tesi contraddicendo non solo
l’intenzione ma anche gli stessi contenuti delle mie opinioni insinuando un livello di lettura
ulteriore che è possibile definire simbolico. Ma il mio criterio d’intendere il simbolo è abbastanza
distante dal credere che la realtà sia quasi dovunque imbrigliata in una rete di significati. Si celebra
un simbolo come si ricorre al rito, e viceversa, nel Mito: nella consapevolezza che una porzione
dell’esperienza viene trasportata in un “luogo del senso” più in alto e di difficile raggiungimento per
un’ennesima modulazione: è così che nasce il racconto, ciò che ho biasimato continuamente in
queste pagine, la superficie di senso che si è indurita.
Io non credo nella contraddizione, secondo me con questo termine si traveste l’incapacità di leggere
quella dote che tuo marito non è in grado di riconoscersi come principale dono che la natura gli ha
regalato e che io, in un età in cui si devono esibire i propri dubbi, mi attribuivo come fondativo
insegnamento del Padre: la non-obbligatorietà di scelta o che non esistono delle scelte di “principio”
di fronte ad un bivio perché ogni strada conduce ad una realtà possibile che ha le sue ragioni.

130
Detto questo, considera che anche in questa tesi si è autoimposto il “metodo” del «concepimento
conflittuale» e ti dirò di più, che proprio questo procedere potrebbe trovare in te un suo fondamento.
Ma ho già esibito troppo le nostre questioni familiari, e spero che il giorno in cui leggerete, se lo
farete, queste pagine pesanti adotterete questo ragionamento e non altri che cercano “spiegazioni”:
esiste un livello del linguaggio, che è come dire un mondo possibile, in cui la dimensione delle
parole e dei movimenti di pensiero attraverso le parole sembrano uno schermo liquido guardato
dalle profondità subacquee; in questa dimensione immaginare che il linguaggio è ‘pura norma’ è
come sentire che la “cosa” pubblica dei monumenti, degli edifici di rappresentanza o delle
istituzioni è quel “valore di morte” che la non percorribilità popolare di questi luoghi rende fisica:
l’appropriazione di “Legge” dello spazio che si ripete nella rivendicazione della proprietà privata.
E tu che sei architetto conosci bene quei processi linguistici che pre-determinano la cognizione
comune e involontaria dei luoghi e viceversa il respiro profondo e pulito di chi sta scegliendo in
totale libertà che cosa percepire, la sua fruizione indipendente.
Allora cercheremo di elaborare questo primo momento conclusivo con una proiezione di
ricongiungimento in futuro attraverso la veloce analisi e assimilazione di una ricerca appena nata e
attraverso l’elaborazione armonica della fusione tra scultura del suono e disegno architettonico:
L’Acusmetria.
Questo neologismo coniato nel 2002 con l’unione dei termini acustica e metrìa nasce dalla ricerca
portata avanti nei laboratori del Politecnico di Milano a cura di Francesco Rampichini a partire dal
1999: “così come la geometria è l’arte di misurare la terra (gea) e in senso più ampio la scienza
delle proporzioni e delle misure, avendo per oggetto tutto ciò che è misurabile (linee, superfici,
solidi), l’acusmetria assume il ruolo di disciplina delle proporzioni e delle misure delle forme
acustiche.” 1
Come la nostra ricerca ha cercato di dimostrare, anche Rampichini sostiene che l’interazione di
stimoli visivi e sonori tende verosimilmente a creare un ethos risultante, “un’efficacia psichica”
propriamente audiovisiva. Tuttavia il piano del discorso in questo testo di indiscutibile valore
pionieristico è impostato a livello del codice, o del linguaggio comprensibile, nonostante anch’egli
abbia dovuto argomentare la propria suggestione sia attraverso riferimenti al piano evolutivo del
linguaggio sia dedicando un breve paragrafo al fenomeno sinestetico. Per l’autore la musica è un
insieme di stimoli nuovi e di pattern già noti “il cui significato è accessibile in ragione e misura
dell’apprendimento dei suoi codici.” 2
Allora o noi non vogliamo fare musica, o si può intendere qualcos’altro con il termine musica.

1
Ettore Lariani, Marco Maiocchi, Francesco Rampichini, Acusmetria. Il Suono Visibile, Franco Angeli Editore, Milano
2004, p.15.
2
ibid. p.14.

131
Sembra che anche nell’opinione comune esista un piano puramente istintivo, “che le masse
semicolte riconoscono”, ed un livello superiore dei “significati” musicali in cui “il logos, principio
razionale, può trasformare lo strumento della comunicazione in dilettevole” 1 . Rabbrividiamo…
Come è possibile credere che qualcuno abbia bisogno di codificare a più livelli di lettura le proprie
necessità espressive. È un’esagerazione intenzionata, la nostra, perché lo sappiamo a quale tipo di
produzione ci si riferisce, ma per quale motivo non si presume che chiunque sia in grado
d’organizzare la propria intenzione linguistica attraverso uno stimolo percettivo non debba mirare a
raggiungere il più alto livello di trasmissione empatica. È chiaro che la fruizione estetica sia una
“scommessa di senso” che avrà la sua cognizione specifica in ogni sensibilità raggiunta, perché si
apprende a sentire, come si impara a mangiare o a scrivere. Ma tutto ciò che si può dare attraverso
qualcosa è già tutto ciò che chi esprime è disposto a ricevere. Tra l’altro lo stesso Rampichini è
“disposto a ricevere” la cosa che abbiamo chiamato «immagine-suono» perché nel suo testo
troviamo citata la descrizione di un processo di coscienza formalizzabile attraverso la notazione
musicale, la cui trasposizione grafica viene chiamata «struttura d’esistenza», ed il cui vissuto
interiore viene esperito nella continuità della durata: “Il vissuto psichico è il prodotto di una durata
continua. (…) Come primo aspetto la musica è immagine, un’immagine cui la coscienza musicale –
in quanto coscienza psichica – dà un senso affettivo; come secondo aspetto essa è il percorso della
nostra esistenza riflessa dai suoni (…). La comparsa della melodia (…) ci fa passare dallo spazio
sonoro (che è pur già uno spazio soggettivo) ad un orizzonte spazio-temporale analogo al nostro
orizzonte d’esistenza, però immaginario. (…) La nostra coscienza uditiva passa da un
atteggiamento realizzante (che fa del fenomeno percepito una successione di suoni nel tempo del
mondo) ad un atteggiamento immaginativo (che fa della successione di suoni un percorso
d’esistenza vissuto secondo il tempo interiore e proiettato nel mondo).” 2
La musica è un fenomeno interiore e puramente psichico, ma non importa se nell’ascoltatore si
riprodurrà l’“atto immaginativo” dell’autore, l’origine di questa opinione sembra nascere da un
fraintendimento espresso nelle parole dello stesso Ansermet: “questa coscienza è potuta passare
all’atteggiamento immaginativo soltanto perché un’attività affettiva si è inserita nell’attività uditiva
per dare un senso al fenomeno, senza tuttavia cessare di essere pura riflessione della propria attività
uditiva, che essa trascende nell’immagine melodica trascendente l’immagine uditiva percepita,
oppure più in generale nell’immagine musicale, con qualunque struttura.” 3

1
Id.
2
Ernest Ansermet, I fondamenti della musica nella coscienza dell’uomo, Campanotto editore, Prato 1995. Citato in
Francesco Rampichini, op.cit.pp.24-25, corsivo nel testo.
3
Id.

132
A questo punto avremo già riconosciuto il noto ‘errore’ cognitivo che porta ad identificare un
soggetto del fenomeno ed uno sguardo della coscienza non appena si comincia a parlare di
immaginazione. Si spiega perché troviamo qualcosa che disattende le aspettative create dall’iniziale
suggestione delle forme acusmetriche (o AS: acousmetric shapes): “l’acusmetria getta le basi di un
semplice codice che mostra, ad esempio, come l’osservazione delle figure possa essere compiuta
anche da un punto di vista differente (…) facendo intendere attraverso metafore uditive forme e
combinazioni.” 1 Perché l’ascolto di un oggetto acusmetrico nelle parole dei suoi sviluppatori deve
innescare “un confronto con nozioni extra sonore in cui il suono diviene un segno che rinvia ad un
senso” e perché “la domanda da porre a chi vi si sottopone non è “cosa senti?” ma “cosa vedi?” 2
La risposta è che le “AS imitano il gesto compiuto per tracciare i loro omologhi grafici” 3 .
Prima di continuare, quando capiremo questo perché, diciamo che l’acusmetria attuale si preclude il
sensum di flusso: catapultata in omologie simboliche di corrispondenze tra forme visibili e forme
udibili quest’interpretazione si gioca la possibilità di un omeomorfismo strutturale di movimenti e di
tensioni tra forme visive e forme acustiche.
Il resto del libro sviluppa con notevole precisione questa possibilità di una metafora visiva
attraverso alcune dinamiche sonore realizzate attraverso il formato MIDI, il metodo standard di
rappresentare digitalmente informazioni musicali. Essendo un codice: “un file scritto in tale formato
può essere interpretato da adeguate apparecchiature, in modo da permettere la riproduzione di suoni
come descritto nel file stesso” 4 .
Per una trattazione certamente più rigorosa riguardo la formalizzazione dei fenomeni acusmetrici
rimandiamo alla sezione del libro curata da Marco Maiocchi. La nostra attenzione si sofferma sulla
descrizione in sé dello “spazio acusmetrico” perché è sicuro che qualcosa di meno può essere detto
per raggiungere un’acquisizione ulteriore. In sintesi per individuare uno spazio sonoro ed i
movimenti di una sorgente all’interno di esso si possono usare tre parametri il pan, lo spostamento
destra-sinistra, l’altezza del suono, lo spostamento alto-basso, e l’intensità, lo spostamento in
profondità. Queste corrispondenze percettive vengono sfruttate acusmetricamente per indurre
l’astrazione di una forma geometrica attraverso l’ascolto. Ma alcune domande sorgono spontanee
per gli stessi autori e sono le stesse che a nostro avviso conducono all’utilizzo di queste intuizioni
verso altre finalità “concrete”: “come può un ascoltatore distinguere tra il fenomeno che rappresenta
una sorgente sonora debole vicina e quello che rappresenta una sorgente forte lontana?

1
ibid. p.26.
2
Id. p.27.
3
Id. p.28, corsivo nel testo, sottolineature nostre.
4
Marco Maiocchi in op.cit.p.98.

133
Non può, evidentemente, (…) in tutti questi fenomeni è più facile indurre interpretazioni attraverso
la modellazione di punti sonori in movimento che non di punti fissi.” 1
Non ci permetteremmo tanta sinteticità nel riassumere questa idea di una possibilità induttiva dello
stimolo sonoro se anche noi non ci fossimo misurati con un retroscena teorico implicato dai nostri
obiettivi ma per capire dove si collocano i rispettivi punti di vista e soprattutto quelli d’ascolto è
importante evidenziare dove l’acusmetria ha ‘incontrato’ Bergson. Nel caso delle rappresentazioni
uditive cita Rampichini che “la maggior parte di noi (…) allinea i suoni successivi in uno spazio
ideale, e crede così di contare i suoni nella pura durata. (…) Ma delle due cose l’una: o trattengo
ciascuna di queste sensazioni successive per organizzarla insieme alle altre in un gruppo che mi
ricorda un’aria o un ritmo noto, (…); oppure mi propongo esplicitamente di contarli, e allora sarà
necessario che io li dissoci, e che questa dissociazione venga effettuata in un ambito omogeneo in
cui i suoni, svuotati delle loro qualità, vuoti in un certo senso, lascino tracce sempre uguali del loro
passaggio. Resta ancora da sapere, è vero, se questo ambito appartenga al tempo o allo spazio.” 2
Ma diversamente dalle conclusioni che ne trae l’inventore dell’acusmetria per riportare sul piano
visivo il movimento spaziale del flusso sonoro, nello scenario tecnologico che abbiamo descritto
precedentemente il tempo e lo spazio non sono due dimensioni distinte ma due “proiezioni”
complementari della coscienza in questo flusso: nella ricognizione percettiva individuiamo i
movimenti delle forme nello spazio (attraverso i frame paesaggistici), nell’introiezione
contemplativa ricostruiamo lo sviluppo temporale attraverso la produzione di immagini
(l’immagine-tempo).
La nostra risposta condizionata dagli sviluppi tecnologici non può coincidere con quella
bergsoniana al dubbio precedentemente posto: “I suoni possono dissociarsi purchè lascino degli
intervalli vuoti tra loro. E noi possiamo contarli perché permangono gli intervalli tra i suoni che
passano: ma come potrebbero permanere se fossero pura durata e non spazio? (…) Da ciò risulta
infine che ci sono due specie di molteplicità: quella degli oggetti materiali, che forma
immediatamente il numero, e quella dei fatti di coscienza, che non potrebbe assumere l’aspetto di
un numero senza l’intermediario di una rappresentazione simbolica, in cui interviene
necessariamente lo spazio.” 3
Primo: non esiste in natura nessuna molteplicità, ma un flusso di movimento che noi frammentiamo.
Secondo: non esiste la materia, e di conseguenza l’oggetto materiale, perché tutto l’universo è solo
un subbuglio di particelle in continua vibrazione. Terzo: non abbiamo per nulla bisogno di una
mediazione simbolica per trattenere uno svolgimento esperienziale nella nostra coscienza.

1
Ibid.pp.95-96.
2
Henri Bergson, Saggio sui dati immediati immediati della coscienza, citato in Francesco Rampichini, op.cit.pp.29-30.
3
Id.

134
Certo, sembra che l’evoluzione individuale si compia attraverso il pieno possesso delle attività
simboliche, ma forse questo valore apparteneva alla precedente generazione tecnologica.
Il logos della Mente ‘odierna’ si evolve attraverso la coscienza di una mediazione onnipresente e
sperimentandone i luoghi della contemplazione attraverso le pratiche estetiche oltrepassiamo
l’implicazione della vista in tutti i settori del sapere scientifico per celebrare il potere del suono nel
dominio della durata di coscienza.
Arte, religione, magia sono tutti pre-nomi di mondi possibili di specifici processi di pensiero
definiti laterali di cui da sempre nelle culture, ma non nella storia, si da testimonianza attraverso la
produzione di particolari realtà uditive.
L’acusmetria sarebbe una grande intuizione se si offrisse come strumento dell’intenzione
nell’induzione delle dinamiche audiovisive: la modellizzazione geometrica del movimento in punti,
linee e superfici, resa possibile dall’utilizzo delle tecnologie informatiche, va oltre il concetto di un
piano della rappresentazione come foglio bidimensionale del tracciato di movimento per dispiegare
uno schermo di proiezione multimediale di sensazioni eterogenee.
E se la stessa formula del percorso di una dinamica sonora venisse applicata alla dinamica di
movimento di una trama visiva ci accorgeremmo che la modellizzazione simbolica del movimento
si offre come utile orientamento verso la ricerca della convergenza strutturale.
Il fine non sarebbe quello di esibire un contrappunto di codici visivi e sonori attraverso la sintesi di
stimoli sensoriali elementari ma, piuttosto, quello d’amalgamare i residui fenomenici più disparati -
frammenti di mondi mediati - per condensare un flusso omogeneo di sensazioni modulate nello
stesso senso. Cosicché l’“impasto” percepibile risultante possa essere il flusso audiovisivo concreto
dotato del proprio linguaggio di sensum. Quel linguaggio che disciplina la pulsione affettiva da cui
viene sospinto questo nostro operare rubando le sostanze percepibili ad un mondo di suoni e colori.
Quel sensum sensazione-di-senso che si produce dando un senso alla sensazione.
E quel flusso di coscienza rappresentabile attraverso un movimento nello spazio concreto.
Immagine-tempo e immagine-movimento, e il linguaggio audiovisivo attraverso l’immagine-suono.
Oppure Mia madre da quando ho scoperto il mio corpo.
Oppure mio Padre da quando utilizzo il linguaggio.
Siete sicuri che debba concluderla in analisi?

Pellizzara, 23-08-2006.

135
APPENDICE

136
Indice ragionato dei riferimenti bibliografici:
Nota: la cronologia dei testi rispetta l’ordine delle opere consultate direttamente. Laddove si fa
riferimento a testi di autori stranieri tradotti in italiano viene riportata la data di pubblicazione
della prima edizione italiana.

Filosofia del linguaggio e Psicanalisi:

Gilles Deleuze, Logica del Senso, Feltrinelli Editore, Milano 1975.

Sigmund Freud, Psicopatologia della Vita Quotidiana. Dimenticanze, Lapsus, Sbadataggini ed


Errori, Editori Boringhieri, Torino 1965.

Sigmund Freud, L’Interpretazione dei Sogni, Edizioni Bollati Boringhieri, Torino 1973.

Martin Heiddeger, Filosofia e Cibernetica, Edizioni ETS, Pisa 1988.

Martin Heiddeger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi Edizioni, Milano 1995.

F.L.Gottlob Frege, Ricerche Logiche, Edizioni Guerini e Associati, Milano 1988.

F.L.Gottlob Frege, Senso e Denotazione, dispense a.a.1998-99 del corso di Filosofia del Linguaggio
del prof. Franco Lo Piparo.

Jacques Lacan, Scritti. Volume I e Volume II, Einaudi Editore, Torino 1974.

Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi Editore,


Torino 1964.

Etnomusicologia e Antropologia del Suono:

Steven Feld, Sound and Sentiment. Birds, Weeping, Poetics and Song in Kaluli Expression,
University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1982.

Steven Feld, Keith H. Basso, Senses of Place, School of American Research Press, Washington
1985.

Charles Keil, Steven Feld, Music Grooves, University of Chicago Press, Chicago 1993.

John Sloboda, La Mente Musicale, Società Editrice Il Mulino, Bologna 1988.

John Blacking, How Musical Is Man?, University of Washington Press, Seattle and London 1973.

Roberto Leydi, L’Altra Musica. Etnomusicologia. Come abbiamo incontrato e creduto di conoscere
le musiche delle tradizioni popolari ed etniche, Gruppo Editoriale Giunti, Firenze 1991.

Robert Murray-Schafer, Il Paesaggio Sonoro, BMG Ricordi e LIM Edizioni, Lucca 1985.

137
Antropologia:

Roland Barthes, L’Impero dei Segni, Einaudi Editore, Torino 1984.

Gregory Bateson, Verso un’Ecologia della Mente, Adelphi, Milano 1976.

Marshall McLuhan, Gli Strumenti del Comunicare, Il Saggiatore, Milano 1969.

Giuseppe Pitrè, Usi e Costumi. Credenze e Pregiudizi del Popolo Siciliano – Volume IV, Gruppo
Editoriale Brancato-Clio-Biesse-Nuova Bietti, Catania 1993.

Claude Lévi-Strauss, Il pensiero Selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964.

Claude Lévi-Strauss, Antropologia Strutturale, Il Saggiatore, Milano 1990.

Jurij M. Lotman, La Semiosfera. L’Asimmetria e il Dialogo delle Strutture Pensanti, Marsilio


Editore, Venezia 1985.

Davide Parmigiani, Didattica e Tecnologia Diffusa, Riflessioni per un’Antropologia Multimediale,


Franco Angeli Editore, Milano 2004.

Arte e Percezione:

Rudolf Arnheim, Arte e Percezione Visiva, Feltrinelli Editore, Milano 1984.

Rudolf Arnheim, Il Pensiero Visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, Einaudi
Paperbacks, Torino 1974.

Rudolf Arnheim, Entropy and Art. An essay on Disorder and Order, University of California Press,
Berkeley-Los Angeles- London 1971.

Walter Benjamin, L’Opera d’Arte nell’Epoca della sua Riproducibilità Tecnica, Einaudi, Torino
1966.

Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della Sensazione, Quodlibet, Macerata 1995.

Jacques Derrida, La Scrittura e la Differenza, Einaudi Paperbacks, Torino 1971.

Michel Focault, Questo non è una Pipa, SE Studio Editoriale, Milano 1988.

Martin Heiddeger, L’Arte e lo Spazio, Il Melangolo, Genova 1979.

Wassily Kandinsky, Lo Spirituale nell’Arte, SE Edizioni, Milano 1989.

Laszlo Moholy-Nagy, Pittura, Fotografia, Film, a cura di Gianni Dondolino, Martano Editore,
Torino 1975.

138
Musicologia letteraria:

John Cage, Silenzio, Feltrinelli Editore, Milano 1971.

Michel Chion, L’Arte dei Suoni Fissi o la Musica Concretamente, Edizioni Interculturali, Roma
2004.

Gilles Deleuze, Felix Guattari, Droghe e Suoni: Passioni mute. Paesaggi musicali e paesaggi della
dipendenza, Mimesis Millepiani, Milano 1998.

György Ligeti, Lei sogna a colori? György Lieti a colloquio con Eckhard Roelcke, Alet Edizioni,
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Arnold Schönberg, Manuale di Armonia, Il Saggiatore, Milano 1963.

Aleksandr Skrjabin, Appunti e Riflessioni, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992.

Alfred Tomatis, Ascoltare l’Universo. Dal Big Bang a Mozart, Baldini & Castoldi, Milano 1988.

Cinema e Audiovisione:

A.A.V.V., La Scena Immateriale. Linguaggi elettronici e mondi virtuali, Costa&Nolan, Milano


2000.

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Alessandro Amaducci, Banda Anomala. Profilo della videoarte monocanale in Italia, Lindau,
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Alessandro Amaducci, Il Video Digitale Creativo, Nistri-Lischi Editori, Pisa 2003.

Béla Balàsz, Il Film, Giulio Einaudi Editore, Torino 1987.

André Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti Editore, Milano 1973.

Silvia Bordini, Arte Elettronica, Art Dossier Gruppo Editoriale Giunti, Firenze 2000.

Stan Brackage, Metafore della Visione, Feltrinelli Editore, Milano 1970.

Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg. Capire la Filosofia attraverso i Film, Paravia Bruno
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Michel Chion, La Voce nel Cinema, Pratiche Editrice, Parma 1991.

Michel Chion, Le Son au Cinema, Cahiers du Cinéma/Editions de l’Etoile, Paris 1885.

139
Michel Chion, Un Odissea del Cinema: il «2001» di Kubrick, Lindau, Torino 2000.

Michel Chion, L’Audiovisione. Suono e Immagine nel Cinema, Lindau, Torino 2001.

Cinema d’Avanguardia in Europa, a cura di Paolo Berretto e Sergio Tuffetti, Editrice Il Castoro,
Milano 1996.

Gilles Deleuze, L’Immagine Movimento, Ubulibri, Milano 1984.

Gilles Deleuze, L’Immagine Tempo, Ubulibri, Milano 1989.

Vittorio Fagone, L’Immagine Video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli Editore,
Milano 1990.

Il Nuovo Spettatore 15. Video Imago. 1993, a cura di Alessandro Amaducci e Paolo Gobetti, Franco
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Sandra Lischi, Il Respiro del Tempo. Cinema e Video di Robert Cahen, Edizioni ETS, Pisa 1991.

Jurij M. Lotman, Yuri Tsivian , Dialogo con lo schermo, Moretti & Vitali, Bergamo 2001.

Jean Mitry, Il Cinema Sperimentale, Mazzotta Editore, Milano 1971.

Sandro Petraglia, Andrei Tarkovskij, Edizioni A.I.A.C.E., Torino 1975.

Andrei Tarkovskij, L’Apocalisse, Edizioni Meridiana, Firenze 2005.

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Steina e Woody Vasulka. Video, media e nuove immagini nell’arte contemporanea, a cura di Marco
Maria Gazzano, Edizioni Farhenheit 451, Roma 1995.

Bill Viola, Vedere con la mente e con il cuore, a cura di Valentina Valentini, Gangemi Editore,
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Gene Youngblood, Expanded Cinema, E.P. Dutton & Co, New York 1970.

John Whitney, Digital Harmony, Bite Books/ McGraw Hill, New Hampshire 1980.

Manuali e Testi tecnici:

A.A.V.V., Manuale della Comunicazione, a cura di Stefano Gensini, Carocci Editore, Roma 1999.

A.A.V.V., Quaderni di Ricerche Semiotiche N°4, Febbraio 1992, Centro Scientifico Editore,
Torino 1992.

Bruno Bara, Pragmatica Cognitiva. I Processi Mentali della Comunicazione, Bollati Boringhieri
Editore, Torino 1999.

140
Francois Colbert, Jacques Nantel, Suzanne Bilodeau, Jean Dennis Rich, Ugo Bacchella, Marketing
delle arti e della cultura, ETAS Edizioni, Milano 2000.

Gian Maria Corazza, Sergio Zenatti, Dentro la Televisione. Strumenti, Tecniche e Segreti della
Televisione, Gremese Editore, Roma 1999.

Franca D’Agostini, Breve Storia della Filosofia del Novecento. L’Anomalia Paradigmatica, Giulio
Einaudi Editore, Torino 1999.

Michael W. Eysenck, Mark T. Keane, Manuale di Psicologia Cognitiva, Edizioni Sorbona, Milano
1998.

Peter Gammond, La Musica, Sansoni Editore, Firenze 1973.

Tomlinson Holman, 5.1 Surround Sound. Up and Running, Focal Press, Elsevier 2000.

Ettore Lariani, Marco Maiocchi, Francesco Rampichini, Acusmetria. Il Suono Visibile, a cura di
Francesco Rampichini, Franco Angeli Editore, Milano 2004.

Vincenzo Lombardo, Andrea Valle, Audio e Multimedia, Apogeo, Milano 2002.

Lorenzetti, Antonietti, Processi Cognitivi in Musica, Franco Angeli Editore, Milano 1986.

Manuale di Psicologia Generale, a cura di Luciano Mecacci, Gruppo Editoriale Giunti, Firenze
2001.

Diego Marconi, La Filosofia del Linguaggio. Da Frege ai giorni nostri, Utet Libreria, Torino 1999.

Francesca Pasquali, I Nuovi Media, Carocci Editore, Roma 2003.

Fonti:

A.A.V.V.,Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino 1994.

Carmelo Bene, Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002.

Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi Edizioni, Milano 1982.

Guy Debord, La Società dello Spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997.

Il libro tibetano dei morti, a cura di Namkhai Norbu, Newton Comptom Editori, Roma 1983.

Internationale Situationniste, La Critica del Linguaggio come Linguaggio della Critica, Nautilus,
Torino 1994.

Jean Francois Lyotard, La Condizione Post-Moderna, Feltrinelli Editore, Milano 1981.

John Zerzan, Futuro Primitivo, Nautilus, Torino 2001.

141
Cataloghi:

A.A.V.V., ARTEL. Media Elettronici nell’Arte Visuale in Italia, Edizioni Illisso, Nuoro 1995.

A.A.V.V., Elettroshock. 30 di videoarte in Italia (1971-2001), Castelvecchi Editore, Roma 2001.

A.A.V.V., Dal Ritmo Colorato alla Musica Visuale. Continuità ed evoluzione linguistica
nell’audiovisivo astratto, Edizione Ergonarte, Milano 1992.

Simone Menegoi, Sebastiano Barassi, Daniela Cascella, Light Sculpture, Edizioni Il Mulino,
Vicenza 2005.

142
Frammenti di Cinema espanso.

FILMOGRAFIA:

Jordan Belson: Allures 1961.

Ingmar Bergman: Persona 1966.

Stan Brakhage: Nightcats 1956, Anticipation of the Night 1958, Cat’s Cradle 1959, Sirius
Remembered 1959, Window, Water, Baby Moving 1959, Dog Star Man 1960-64, Mothlight 1963,
The Act of Seeing with One’s Own Eyes 1971.

Viking Eggeling: Symphonie Diagonale 1924.

Renè Clair: Entr’acte 1924.

Tony Conrad: The Flicker 1966.

Maya Deren: Meshes of the Afternoon 1943, A Study in Choreography for Camera 1945.

Marcel Duchamp: Anémic Cinéma 1926.

Sergej M. Ejzenštejn: Bronenosets Potyomkin (“La Corazzata Potemkin”) 1925.

Oscar Fischinger: Munich Berlin wanderung 1927, Studien n. 5 e n.6 1930, Komposition in Blau
1935, Allegretto 1940, Motion Painting 1 1947.

Peter Greenaway: A Zed and Two Noughts (“Lo Zoo di Venere”) 1985, Prospero’s Books
(“L’ultima Tempesta”) 1991, The Pillow Book (“I Racconti del Cuscino”) 1995, The Tulse Luper
Suitcases – Part I. The Moab Story (“Le Valigie di Tulse Luper – Parte I. La storia di Moab”) 2003.

David Wark Griffith: Intolerance 1916.

Werner Herzog: Auch Zwerge haben klein angefangen (“Anche I Nani hanno cominciato a
sognare da piccoli”) 1970, Camdan Kalp (“Cuore di Vetro”) 1976, Wo die grünen Ameisen träumen
(“Dove Sognano le Formiche Verdi”) 1984, The Wild Blue Yonder (“L’Ignoto Spazio Profondo”)
2005.

143
Derek Jarman: Blue 1993.

Takeshi Kitano : Dolls 2003.

Stanley Kubrick: 2001: A Space Odissey (“2001: Odissea nello Spazio”) 1968.

Fernand Leger: Ballet Mécanique 1924.

David Linch: Mullholland Drive 2001.

Len Lye : A coulor box 1935, Trade Tatoo 1937, Free Radicals 1979, Particals in Space 1979.

Norman McLaren: Dots 1940, Begone Dull Care 1949, Blinkity Blank 1955, Opening speech
1960, Horizontal lines 1962, Mosaic 1965, Narcissus 1983.

Laszlò Moholy-Nagy: Ein Liechtspiel; Schwartz, Weiss, Grau 1930.

Phill Niblock: The Movement of People Working 2003.

Claude Nuridsany/Marie Pérennou: Microcosmos – Le people de l’herbe (“Microcosmos – Il


popolo dell’erba) 1996, Genesis 2005.

Sergej Paradjanov: Sayat Nova (“Il colore della Melagrana”) 1969.

Man Ray: Le Retour à la Raison 1923.

Godfrey Reggio/Philip Glass: Anima Mundi 1991, The Qatsi Trilogy: Koyaanisqatsi 1982,
Powaqqatsi 1988, Naqoyqatsi 2002.

Hans Richter : Filmstudie 1926, Dreams that money can buy 1947.

Walter Ruttmann :Opus I 1919, Opus II 1921, Opus III 1924, Opus IV 1925, Berlin Sinphonie
einer grosstadt 1927.
Paul Sharits: Fluxfilm 26-29 1965.

Aleksandr Sokurov: Mat’y Syn 1997.

Jan Svankmajer: Alice 1988.

Andreij Tarkovskij: Andrej Rublëv 1966, Zerkalo (“Lo Specchio”) 1974, Stalker 1979.

Dziga Vertov Chelovek s kinoapparatom (“L'uomo con la macchina da presa”) 1929.

Jean Vigo: L’Atalante 1934.

Kar Wai Wong: In The Mood For Love 2000, 2046 2004.

144
VIDEOGRAFIA:

Alessandro Amaducci: Spoon River 1999-2003.

Matthew Barney: Cremaster Cycle 1994-2002.

Robert Cahen: L’invitation au voyage 1973, Dernier Adieu (Sur le photographe J.M. Tingaud)
1988, Hong Kong Song 1989, Voyage d’Hiver 1993, 7 Visions Fugitives 1995.

Rechenzentrum: Director’s Cut 2003.

Ryoji Ikeda: Formula 2002.

.::invernomuto::./A.A.V.V: ffwd_mag#3 2005.

Gianni Toti: Gramsciategui ou les poesimistes – deuxième cri 1999.

Woody Vasulka: Art of Memory 1987.

Steina Vasulka: Violin Power 1970-78, Signifying Nothing 1975, Switch! Monitor! Drift! 1976,
Flux 1977.

James Whitney: Lapis 1965.

James & John Whitney: Film Exercises IV e V 1944.

Bill Viola: Chott El-Djerid 1979, Sodium Vapor (including constellation and oracle) 1979, Ancient
of Days 1979-81, Hatsu Yume (First Dream) 1981, I Do Not Know What It Is I Am Like 1986,
Angel’s Gate 1989, The Passing 1991, Deserts 1994.

145
Scultori di Suono:

Antonin Artaud, poeta;


Carmelo Bene, attore;
Carmela Burgio, madre;
Michelle Bokanowski, compositrice elettroacustica;
Claudio Bonanno, dee jay;
Francesca Caglio, psicologa;
Daniele Ciprì e Franco Maresco, registi;
Michel Chion, compositore elettroacustico, teorico;
Evelina Domnitch e Dmitry Gelfand, alchimisti;
Ernesto, animale psicopatico;
John Fahey, chitarrista;
Steven Feld, acustemologo;
Luc Ferrari, compositore elettroacustico, teorico;
Roberto Garofalo, emigrato;
Antonio Giannusa, scultore;
Keji Haijno, chitarrista;
Ryoji Ikeda, sound designer;
Ivan Li Pira, artigiano pazzo;
Francisco Lòpez, ento-musicologo;
Lionel Marchetti, compositore elettroacustico, teorico;
Mastro Pietro, urlatore;
Merzbow e Mike Patton, rumoristi;
Fred Miclet, sound designer;
Giulio Molina Mantello, futuro primitivo;
Max Neuhaus, scultore sonoro;
Jim O’Rourke, musicista;
Enzo Rinaldi, falegname;
Bernard Parmigiani, compositore elettroacustico;
Pybloqtok, progetto musicale elettroacustico;
Nino Puleo, istruttore yoga;
Reiko Kudo, ensemble avant pop;
Rosa Restivo, nonna;
Luigi Russolo, futurista;
Pinuccio Sciola, inventore di sculture sonore;
Gianluca Scuderi, graffiatore di dischi;
Pierre Schaeffer, compositore, musicista, teorico;
Karlheinz Stokhausen, compositore;
Andrei Tarkovskij, regista;
This Heat, ensemble avant rock;
Luca Toscano, compare;
Valerio Tricoli, sound engineer;
Edgar Varese, compositore;
Iannis Xenakis, compositore;
Zoroastro, gatto.

146
Ringraziamenti:
Desidero ringraziare le seguenti persone per la collaborazione, il sostegno, ed i preziosissimi
suggerimenti, che mi hanno appoggiato e rassicurato durante tutta la lavorazione di questa tesi:

Il professore Febo Guizzi, innanzitutto e soprattutto, in qualità di persona oltrechè relatore,


d’ineguagliabile spessore umano.

Il prof. Alessandro Amaducci, videoartista, correlatore, fonte di stimoli e ispirazione.

Il direttore del C.R.I.C.D. - Regione Siciliana dott. Gioacchino Vaccaro, il responsabile dirigente
dott. Alessandro Rais e tutto il personale dell’unità operativa Filmoteca.

La dott.sa Valeria Burgio, critica d’arte e cugina adorata.

Mirco Cangiamila, specialista tecnico del suono, partner musicale, amico prezioso.

Ilario Meandri, docente prodigio, incredibile sensibilità, spero un giorno da qualche parte collega.

Claudio Bonanno ed Elisa Mazzola, long life friends (auguri, adesso tocca a voi).

Le mie sorelle, mia nonna, i miei zii, tutta la famiglia Calderaro allargata.

Tutti coloro che nascono ma che non arrivano a crescere. Tutti coloro che rinascono. Tutti coloro che arrivati a un certo punto hanno deciso di morire.

147

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