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Il pittore Caravaggio e lo scrittore Pasolini paiono accomunati da

vicende esistenziali dalle forti convergenze. «C’è una forte affinità tra la
fine di Pasolini e la fine di Caravaggio – ha scritto Federico Zeri – perché
in tutt’e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata,
diretta e interpretata da loro stessi».
L’occasione di una mostra napoletana delle opere dell’ultimo
Caravaggio (Caravaggio. L’ultimo tempo 1606-1610. Napoli, Museo di
Capodimonte, ottobre 2004-gennaio 2005) dà modo a Davide Varì di
riflettere sull’esistenza parallela dei due grandi artisti: entrambi eretici,
irregolari e insieme partecipi del dolore dei disperati, innamorati della
vita e dell’eros e creatori di arte inimitabile, pervasa dal labirinto della
passione.

Nel labirinto delle passioni


di Davide Varì

“Liberazione” – dicembre 2004

Così seducente è la somiglianza della vicenda esistenziale e della


tragica fine dei due, che in molti sono andati alla ricerca di analogie,
evidenze e tratti comuni tra il pittore lombardo e l’intellettuale, poeta,
romanziere e regista friulano.
Difficile resistere al richiamo di due esistenze vissute sotto il segno
dell’eresia e dello scandalo. L’una, quella del pittore, nel cuore della
Roma papalina, «nella città tra manieristica e bigotta di Sisto V – scrive
Roberto Longhi, magnifico critico di Caravaggio -, dove egli doveva
sembrare un irregolare se non proprio un eretico»; l’altro nel cuore
dell’Italia piccolo-borghese degli anni Sessanta e Settanta, spesso
altrettanto bigotta e chiusa. Problemi con la giustizia, risse, alcove,
censure e infine la morte, violenta e prematura, consumata per entrambi
a pochi passi dal mare.
Un richiamo, quello della comparazione tra i due, cui non ha resistito
neanche Cesare Garboli, l’ultimo dei grandi critici letterari italiani. Nel
numero di aprile-giugno 1970 della rivista “Nuovi Argomenti” lo stesso
Garboli ricordava quanto fosse difficile scindere l’esperienza “eversiva”
del Pasolini “romano” dall’immagine del Caravaggio:

Si direbbe che il Pasolini lavorasse, allora, non allo specchio del


Caravaggio ma allo specchio del Caravaggio “romano”. Quello, per
intenderci, che finge per Maddalena la povera ciociarella tradita, gli
sciolti capelli che si asciugano al sole nella stanzetta smobiliata, o quello
dei bacchi rifatti su torpidi e assonnati garzoni d’osteria, o quello, infine,
della Vergine morta e gonfia a gambe scoperte, come una popolana del
rione, a dirla gentilmente, o una mignotta agli ultimi rantoli nella
stanzaccia spartita dal tendone.

Ed è a Napoli che i due, Pier Paolo Pasolini e Michelangelo Merisi da


Caravaggio, sembrano in questi giorni incontrarsi nuovamente e per la
prima volta. La Napoli che lo stesso Pasolini definiva «l’ultima metropoli
plebea, l’ultimo grande villaggio». La Napoli di Gennariello, lo scugnizzo
immaginato dalla penna dello scrittore che miracolosamente e quasi
fedelmente ritroviamo dipinto in molti quadri del Caravaggio.

“Il ragazzo con il canestro di frutta” (1593-1594) di Caravaggio. Galleria


Borghese, Roma
«I tuoi occhi devono essere neri e brillanti, la tua bocca un po’ grossa, il
tuo viso abbastanza regolare, i tuoi capelli devono essere corti sulla
nuca e dietro le orecchie, mentre non ho difficoltà a concederti un bel
ciuffo, alto, guerresco e magari anche un po’ esagerato e buffo sulla
fronte», scrive Pasolini in Lettere luterane. Una descrizione, quasi, di
molti soggetti caravaggeschi. Tratti fisici e immateriali che ritroviamo
nel Suonatore di liuto e nel volto, inondato dalla luce divina, del
protagonista della Vocazione di san Matteo. Insomma, solo Napoli
poteva rimandare e custodire l’idea di un’osmosi tra i due. La stessa
città che ospita fino alla fine di gennaio 2005 una mostra straordinaria
dedicata alle ultime opere del Caravaggio, quelle nate sotto il segno
della fuga e dell’eversione, non solo metaforica.
«Successe in Campo Marzio una questione – così narrano le cronache
giudiziarie di allora – tra un tal Ranuccio Terani, che vi restò morto, et
dall’altra Michelangiolo da Caravaggio che non si trova ove sia», un
omicidio compiuto per «interessi di gioco et di 10 scudi che il morto
aveva vinto al pittore». Ed è proprio nella capitale mediterranea che
Michelangelo Merisi ripara per scampare al bando capitale emesso dopo
l’omicidio.L’inizio di una fuga che lo porterà fino a Malta passando per
Siracusa e Messina. Un viaggio verso la morte consumata sulla spiaggia
di Porto Ercole per una febbre malarica non curata. Gli anni napoletani e
siciliani saranno, però, anni intensi e fecondi.
Anche Pasolini ebbe innumerevoli problemi con la giustizia e con il
cosiddetto ordine morale. Corruzione di minorenne, stato di ubriachezza,
contenuto pornografico, sono solo alcune delle voci di denuncia di
altrettanti processi. Nessun omicidio per lui ma una sorta di perenne
stato d’incomprensione delle norme e della giustizia del tempo.
Ma c’è una cosa, su tutte, che unisce i due. La compassione per gli
ultimi. Per i brutti, gli sporchi ed i cattivi. «Qui degli umili sento in
compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via»,
scrive Umberto Saba in Città vecchia. Ma il poeta triestino è solo di
passaggio. Nutre la propria coscienza con la visione di quelle vite
disperate e gettate via nelle ombre delle strade, ma non si ferma
assieme alla «prostituta, al marinaio, al vecchio che bestemmia alla
femmina che bega». C’è pietas, ma non compartecipazione.
Pasolini e Caravaggio invece no, loro passano e si fermano. Vivono fino
in fondo il mondo che rappresentano. Il pittore perso nel sottobosco
delle osterie del Seicento e lo scrittore perso nella Roma delle borgate.
Li spinge qualcosa, una necessità, che arriva direttamente dall’anima e
dal ventre. L’amore febbrile per la vita. La «strana gioia di vivere» (così
ha scritto Sandro Penna) che li pervade:

Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può


venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: … e
io divoro, divoro, divoro… Come andrà a finire, non lo so.

Una confessione ed una premonizione insieme. Era avvezzo alle


premonizioni Pier Paolo Pasolini. È l’intellettuale dell’ “Io so”, la denuncia
spietata e lucida nei confronti dell’Italia piccolo-borghese e corrotta. Un
amore per la vita spezzato in una notte disperata ad Ostia. Come un
cerchio che si chiude, il suo assassino era un ragazzo di vita, uno di
quelli tratteggiati nei suoi romanzi e filmati nelle sue pellicole.
Un particolare della “Morte della Vergine” (1604) di Caravaggio. Museo
del Louvre, Parigi
Poco a nord di Ostia, a Porto Ercole, nel 1655 un’altra vita spezzata
sulla riva del mare. Moriva Michelangelo Merisi da Caravaggio. «Una
vicenda tormentosa e sciagurata», (così l’ha definita Roberto Longhi)
quella del geniale pittore lombardo. Un’altra vita amata e vissuta
ferocemente e disperatamente. Una vita buttata tra le bettole cenciose e
rissose della Roma papalina e nelle stanze torbide e passionali, dove si
rifugiava con i suoi giovani amanti. Ragazzi e ragazze di vita in pieno
Seicento, nel cuore di Santa Romana Chiesa. Basti pensare alla Morte
della Madonna. Una delle opere in assoluto più belle e potenti di
Caravaggio. Leggenda vuole che il volto della Madonna venne ispirato
da quello di una prostituta morta annegata nel Tevere. Un volto gonfio
ed umanissimo, quello di Maria, segnato e avvezzo alle sofferenze della
vita quotidiana. Il divino che trova strada e si incarna nel volto degli
ultimi e dei dimenticati, mai opera fu più bella.

Una nota
Su Caravaggio Pasolini scrisse nel 1974 il saggio La luce di
Caravaggio, rimasto inedito e oggi leggibile in Saggi sulla letteratura e
sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, II, “Meridiani” Mondadori,
Milano 1999, pp. 2672-2674.

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