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L’avvento della rete.

Riflessi antropologici sull'identità


umana

don. Luca Bressan


Premessa, ovvero il nodo della riflessione. 
     È utile, per cominciare questo percorso comune, focalizzare una prima immediata
tentazione nella quale la riflessione assegnataci dal titolo potrebbe cadere: di fronte alla
novità della situazione in cui ci troviamo, il rischio è di comprendere ciò che definiamo
con “era digitale” soltanto ad un livello tecnico e quantitativo. Sono cambiati i modi di
svago e le distrazioni per i giovani di oggi (e non soltanto per loro), in seguito alla
rivoluzione mediatica e digitale che stiamo vivendo in questi anni. Questi cambiamenti
sono visibili
e registrabili sia a livello di tecnologia (cellulari,  computer, internet, ipod/iphone),
come pure a livello di codici di trasmissione e linguaggi culturali
(nuovi format televisivi, siti blog e social network, ovvero reti virtuali di condivisione
come facebook e twitter, o fenomeni come second life). Basterebbe perciò costruire un
elenco dettagliato di tutte queste novità e immediatamente dopo stilare regolamenti che
ne disciplinino l’uso. Meno internet e tv, controllo dell’uso del cellulare: poche regole e
l’educazione dei più giovani è fatta; qualche divieto ed eccoci pronti ad abitare la
cultura mediatica che avanza sempre più.
Come ognuno dei lettori può facilmente intuire, le cose stanno ben diversamente. Il
cambiamento in atto va colto per quello che è, ovvero come una rivoluzione culturale ed
antropologica di notevoli proporzioni.[1] L’utilizzo delle nuove tecnologiche
mediatiche ed informatiche non modifica soltanto i ritmi esterni della vita degli uomini
(dei giovani in particolare); più profondamente ne modifica lo stesso modo di
comprendersi come persone, di strutturare la loro identità, di comprendere il reale e il
senso delle cose. È a questo livello che dunque si deve situare l’ascolto e il confronto
con la nuova figura culturale, l’era digitale che si va imponendo oggi tra i giovani, e non
solo tra loro.[2]
Ci troviamo dunque in una situazione abbastanza complicata: interpretata come una
metamorfosi culturale, l’era digitale con cui ci stiamo confrontando non si rivela un
oggetto facilmente abbordabile. Ci si trova spaesati di fronte ad essa, con la percezione
di essere troppo “antichi” per potere individuare un punto di ingresso, un terreno di
approccio ad un mondo culturale così nuovo e moderno; e, per di più, non disponendo
nemmeno di una solida base di partenza, visto che ciò che definiamo con “era digitale”
è una rivoluzione culturale ed antropologica di notevoli proporzioni: non modifica
soltanto i ritmi esterni della vita degli uomini ma lo stesso modo di comprendersi come
persone, di strutturare la loro identità, di comprendere il reale e il senso delle cose
Una simile constatazione può diventare però anche un buon punto di partenza: prima
di assumere qualsiasi posizione valoriale di giudizio (nei confronti della cultura digitale
nella quale siamo entrati, come pure nei confronti dei mutamenti in atto nei modi di
declinare oggi l’identità giovanile) converrà impegnarci in uno sforzo di comprensione,
che parta proprio da questa nuova figura culturale. Dovremo sforzarci di comprenderla,
e di vedere come può essere assunta e interpretata nei termini di uno spazio
antropologico dai confini e dalle forme tutte nuove, che chiede al cristianesimo (alla sua
memoria, alle sue istituzioni, alle sue esperienze) di elaborare strumenti e percorsi
perché possa essere abitato e diventare terreno sul quale costruire le identità cristiane di
oggi e di domani.
 
1. Il contesto. Una cultura digitale
 
Siamo così al primo punto della nostra riflessione, quello dedicato alla lettura e alla
comprensione dei tratti portanti della cultura digitale che sta sempre più segnando il
mondo che viviamo. Cominciamo ad introdurci alla comprensione di questa nuova
cultura digitale entrando per la porta più semplice ed immediata, ovvero l’osservazione
sociologica quantitativa e di superficie. Gli studi più recenti sulla situazione
adolescenziale e giovanile in Italia evidenziano al riguardo alcuni dati interessanti:
mediamente un giovane italiano passa oggi dalle due alle tre ore giornaliere connesso a
un computer e ad una rete. Il tempo passato nell’uso del cellulare non è più calcolato,
talmente è considerata una ovvietà e una evidenza la presenza di questo strumento nella
vita dei giovani. Così pure è per la fruizione di programmi televisivi. Si parla ormai
senza remore di una generazione connessa, costantemente legata ad un mondo e ad una
dimensione sociale tramite quel cordone ombelicale invisibile (senza
fili, wireless appunto!) che è Internet.[3] Gli studi specializzati hanno coniato anche una
espressione capace di rendere in modo plastico ed immediato questa situazione: si parla
degli adolescenti e dei giovani come di “nativi digitali”, ovvero come di persone
cresciute in ambienti sociali dentro i quali la presenza dei media e dei nuovi dispositivi
digitali è incessante, creando una sorta di continuum di sottofondo che fa apparire questi
strumenti e i linguaggi da essi veicolati come un elemento indispensabile dell’ambiente
che ci circonda e che contribuisce in modo determinante a fornirci gli ingredienti
(valori, linguaggi, riti, simboli, obiettivi) per costruire le nostre identità individuali e
collettive.
Continuando la lettura di questi studi, apprendiamo poi che l’utilizzo della rete è
direttamente proporzionale al grado di cultura da cui il giovane proviene e che poi è in
grado di incrementare mediante lo studio personale e la sua formazione individuale. La
rete (e, per logica conseguenza, la nuova cultura digitale) si rivela così un potente
produttore di selezione sociale (un discriminatore sociale): abbiamo da un lato giovani
intelligenti, motivati e pieni di energie, con alle spalle famiglie capaci di fornire loro
risorse economiche e soprattutto culturali, che entrano in questa nuova realtà digitale
sufficientemente attrezzati e capaci di raccogliere i benefici che un simile mondo loro
promette; abbiamo dall’altra parte giovani meno dotati, e con alle spalle famiglie poco /
per nulla capaci di fornire loro risorse, in posizione passiva di resa di fronte alle barriere
di un mondo sociale che vedono con difficoltà, traducendo questa loro fatica in
diminuzione di motivazione e di interesse (il mercato dei videogiochi li ha ben
identificati come consumatori ideali). Da un lato quindi i pionieri della nuova classe
emergente, pronti a rivestire in modo adeguato la nuova identità digitale; dall’altro lato
invece l’avvisaglia di una nuova classe di poveri, che vive questa nuova era digitale
come una barriera culturale insormontabile, dalla quale si resta esclusi; e che elabora
strategie conseguenti di evasione e di negazione di questo insuccesso che si va
producendo (il mondo digitale ridotto ad un grande paese fiabesco di videogiochi).
Ma torniamo alla nostra idea originaria. Di questa cultura vogliamo leggere non solo
la superficie quantitativa, ma il motore antropologico che la anima. Quali sono le regole
che la contraddistinguono e permettono di coglierne i tratti salienti, ovvero le regole di
funzionamento, i valori veicolati, le forme di relazione attivate, gli obiettivi produttivi
istituiti, le visioni del mondo e le teorie della verità assunte e trasmesse? Parliamo di
cultura digitale perché le sue produzioni trasformano in modo profondo, logico e
sequenziale – secondo una logica digitale, appunto –, due strumenti fondamentali che
l’uomo utilizza per costruire la propria identità e la propria idea di mondo: in primo
luogo vengono rilette e rideclinate le forme e le figure della relazione sociale; in
secondo luogo vengono riprogrammati e reinterpretati i processi di costruzione mentale
delle rappresentazioni del mondo, ovvero l’idea stessa di realtà.[4]
 
a. Mondo digitale e relazioni umane
 
La prima dimensione che la cultura digitale in crescente diffusione permette di vivere
in modo parecchio trasformato è quella delle relazioni sociali. I nuovi media, le nuove
tecnologie digitali funzionano in questo contesto come intensificatori di sensibilità e
riduttori di distanza. Emozioni prima riservate a pochi diventano di largo consumo;
esperienze elitarie vengono trasformate in fenomeni di massa, stravolgendo regole
spesso non scritte ma condivise e fondamentali per l’interpretazione e la costruzione del
senso delle nostre azioni e delle relazioni attraverso le quali strutturiamo le nostre
identità.[5]
La cultura digitale permette ai giovani (in realtà a chiunque la abiti; quindi anche ai
non più giovani) di vivere come variabili liberamente a disposizione della propria libertà
(soprattutto delle proprie emozioni!) elementi che nel quotidiano della vita reale e
concreta invece sono fissi e non intercambiabili; e consentono quindi la strutturazione
dei campi linguistici e culturali che veicolano la produzione e la trasmissione di regole
di vita e soprattutto di valori (elementi talmente stabili che ad essi la riflessione
filosofica soprattutto di matrice cristiana ha associato il concetto di natura). Ad esempio,
nella rete, nei social networks diventa una variabile a disposizione del soggetto la
definizione della propria identità, a partire da quella di genere: mi posso fingere uomo o
donna, o tutti e due, a seconda del contesto in cui mi trovo inserito; e soprattutto mi
posso inventare la trama della mia storia personale come meglio mi aggrada, senza
vincoli apparenti.[6]
Diventano poi variabili a disposizione dell’individuo anche la definizione della
propria età, e di conseguenza i rapporti tra le generazioni: in rete e, più in generale, nella
fruizione dei nuovi mediaposso assumere qualsiasi età della vita, scegliendo quella che
più mi attrae; posso fingermi eternamente adolescente; pur essendo bambino posso
presentarmi come adulto e acquisire informazioni e conoscenze che nella vita reale non
avrei avuto modo di acquisire, o alle quali mi sarebbe stato riservato un accesso
differente. In rete assistiamo al fenomeno di bambini/adulti e di adulti che giocano a
fare i bambini, dando a vita a dinamiche artificiali di iperesponsabilizzazione da un lato
e di deresponsabilizzazione dall’altro che minano alla base le più elementari regole
dello sviluppo pedagogico e morale, dinamiche che tolgono energie e risorse al giusto
cammino di crescita, che fanno sembrare antiquata e superata l’idea di saggezza, e la
possibilità di immaginare come virtuoso un itinerario per raggiungerla.
Infine nella cultura digitale diventa una variabile a disposizione degli individui la
costruzione delle relazioni sociali e pubbliche: scompaiono le distinzioni classiche tra
ricchi e poveri; anche la collocazione in una determinata e precisa classe sociale,
elemento immutabile nella vita reale, diventa in questo contesto un risultato di libere
scelte. È persino possibile immaginare forme e figure nuove per l’esercizio dell’autorità
e della responsabilità sociali. Nel mondo dei media mi posso far conoscere come fossi il
vicino di casa di tutti, usando la mia sfera privata per creare false intimità in grado di
nascondere i complessi meccanismi della costruzione delle azioni sociali e delle
decisioni politiche. Grazie alla cultura digitale non vale più la logica di separazione che
connota il meccanismo di gestione del potere: più sei potente meno sei disponibile, più
la tua vita privata è ritirata e sottratta allo sguardo dei più. I politici e i potenti li
vediamo tutti i giorni, accanto a noi, tra di noi ma non uguali a noi: nascono fenomeni di
sacralizzazione delle persone, trasferendo il carico di responsabilità e di potere dal ruolo
esercitato alla loro persona fisica individuale (poiché sono eletto mi è concessa qualsiasi
cosa: questo è il ragionamento odierno, che ha sostituito il precedente – poiché sono
stato eletto, è mio dovere rispettare ed eseguire il progetto che gli elettori scegliendo me
hanno voluto indicarmi – ). Nascono soprattutto fenomeni di riduzione dello sguardo e
degli obiettivi dell’azione sociale e politica: la globalizzazione della rete e dei
nuovi media è spesso una globalizzazione di cortile, da pettegolezzo. La dilatazione dei
confini coincide con una pigrizia dello sguardo: più che sviluppare forme di ricerca
solidale si preferisce spesso rinchiudersi in reti di informazione che esaltano le identità
peculiari e cavalcano i pruriti del voyeurismo.[7]
Così descritto, il mondo digitale che avanza appare davvero come un potente
decostruttore dei legami sociali sui quali fondiamo le nostre identità. Decostruttore più
che ricostruttore: sono maggiori i segni di ciò che viene destrutturato da questa nuova
cultura, rispetto agli echi di ciò che invece sta nascendo. Il mondo digitale diviene in
questo modo il mondo del provvisorio e dell’ambiguità, il mondo del non definito, alla
fine il mondo del falso nella sua declinazione di artificiale. Tutto può essere affermato e
negato, tutto può essere vero come tutto può essere falso; non c’è nulla di fissato e di
definitivo. Tutto può cambiare in questo luogo di sovrastimolazione delle relazioni e
delle loro possibilità. Si comprende anche la forza seduttrice di una simile cultura: di
fronte alla rigidità di un reale che appare costringermi in relazioni fisse e alle fine
impoverenti, il mondo digitale appare come un mondo incantato, dove tutto può essere
mutato da un momento all’altro. Ma questa sua forza di seduzione è anche la sua
debolezza: se tutto può essere eternamente modificato, non c’è nulla di solido a cui
ancorarsi, su cui fondare la propria storia.
 
b. Mondo digitale e percezione del reale
 
Esiste poi un secondo luogo antropologico, una seconda dimensione fondamentale
per la costruzione delle nostre identità dentro la quale la cultura digitale che avanza è in
grado di esercitare un influsso senza precedenti: la dimensione della percezione del
reale, ovvero i processi attraverso i quali io costruisco nella mia mente le
rappresentazioni del mondo in cui vivo, di ciò con cui entro in contatto e in relazione, di
ciò che sperimento e provo. In una parola, le rappresentazioni mentali della realtà.[8]
La nascita del virtuale consente per la prima volta nella storia del pensiero umano di
interagire in modo determinante e diretto coi meccanismi attraverso i quali ogni singolo
individuo si costruisce nella propria mente una rappresentazione del reale in cui vive,
meccanismi sino all’avvento di queste tecnologie digitali ritenuti automatici, quasi
magici. Mi affido ad una citazione per spiegare in poche parole un concetto molto
complesso: « Costruiamo modelli del mondo all’interno della nostra mente, utilizzando
i dati provenienti dai nostri organi di senso e le capacità di elaborazione delle
informazioni del nostro cervello. Siamo abituati a pensare al mondo che vediamo come
a “là fuori”, ma quello che vediamo è in realtà un modello mentale, una simulazione
percettiva che esiste soltanto all’interno del nostro cervello. Questa capacità di
simulazione è il punto in cui le menti umane e i calcolatori digitali condividono un
potenziale per agire in sinergia. […] La simulazione cognitiva, la costruzione dei
modelli mentali, è una delle cose che gli esseri umani sanno fare meglio. Lo facciamo
talmente bene che tendiamo a rimanere incatenati ai nostri modelli del mondo da una
ragnatela ininterrotta di credenze e percezioni sottilmente formate. E i calcolatori sono
strumenti per la costruzione di modelli per eccellenza, malgrado essi stiano appena
iniziando ad avvicinarsi al punto in cui la gente potrebbe confondere le simulazioni con
la realtà. Le tecnologie di calcolo e visualizzazione stanno convergendo sulla possibilità
di simulazione iperealistica. Quel punto di convergenza è abbastanza importante da
valere la pena meditarci sopra prima del suo arrivo. Il giorno in cui le simulazioni
computerizzate diverranno talmente realistiche che la gente non riuscirà a distinguerle
dalla realtà non-simulata, ci troveremo di fronte ad importanti cambiamenti ».[9]
Ciò significa non soltanto la possibilità da parte della cultura digitale di esercitare
forti forme di influsso e di condizionamento delle emozioni e del pensiero dei singoli.
Molto più profondamente, la cultura nella quale stiamo entrando vedrà (sta già
vedendo!) le tecnologie digitali e i loro linguaggi nel ruolo di soggetto, di produttori
parziali (speriamo non totali) delle esperienze che viviamo; vedrà queste tecnologie
esercitare un ruolo sempre più attivo nella costruzione dei significati e del senso di
questa vita; vedrà queste tecnologie capaci di segnare in modo forte la nostra vita.
Questo influsso potrà essere deciso in modo diretto e libero da parte del singolo
(meccanismi di evasione e di compensazione, ma anche di interesse e di apertura); potrà
però essere deciso, organizzato e regolato anche dai nuovi poteri che la società digitale
va creando, i creatori ma soprattutto i gestori dei flussi di informazione e di
comunicazione, permettendo la nascita di nuove figure di società e la forte
modificazione di quelle esistenti, comprese le loro istituzioni politiche e le loro
organizzazioni. Intorno all’anno duemila è avvenuto un ribaltamento di paradigma.
Intorno all’anno duemila è avvenuto questo ribaltamento di paradigma: usando come
ponte le neuroscienze, la cultura informatica è diventata il modello epistemologico a
partire dal quale organizzare il sistema della conoscenza umana e i suoi sviluppi (una
nuova immagine di homo sapiens)[10]. Alla fine, ciò che risulta intaccato è il concetto
stesso di vero e di realtà: come riconoscerla? A quali esperienze ed emozioni dare
credito? Come spiegarle, come deciderne il senso? È possibile vivere modi e stati
diversi di concentrazione mentale: dove fissare la regola e dove l’eccezione o
l’alterazione? Come giudicare i nuovi sviluppi del funzionamento simbolico (nella
costruzione dell’io, nella costruzione del rapporto col reale)? Come gestire dal punto di
vista epistemologico le nuove identità polidimensionali rese possibili da queste
trasformazioni? Per evitare scenari che si potrebbero rivelare davvero preoccupanti: « È
possibile che vi possa essere un numero sempre maggiore di interazioni
tra avatar. Possiamo finalmente arrivare a capire in cosa è consistita una buona fetta
della nostra vita sociale cosciente: una interazione tra immagini, ossia un processo
altamente mediato in cui i modelli mentali delle persone cominciano a influenzarsi
reciprocamente in modo casuale. […] I nuovi ambienti mediatici possono dare origine a
nuove forme di coscienza vigile che assomigliano a stati debolmente soggettivi – un
misto di sogno, demenza, intossicazione e regressione infantile »[11].
Torniamo tuttavia al nocciolo del problema che stiamo analizzando, la costruzione
delle rappresentazioni mentali del reale. Ascoltiamo ancora la citazione: « Ci stiamo
avvicinando ad un punto di rottura in cui il miglioramento nell’interfaccia per la
costruzione dei modelli stimolerà un salto qualitativo. Negli anni a venire saremo in
grado di circondare noi stessi con simulazioni del reale di sorprendente verosimiglianza.
Le nostre più fondamentali definizioni di realtà verranno ridefinite nell’atto della
percezione; come afferma Jean Baudrillard, “l’astrazione non è più oggi quella della
mappa, il doppio, lo specchio o il concetto. La simulazione non è più quella di un
territorio, un essere di riferimento o una sostanza. È la generazione, per mezzo di
modelli, di un reale che non origina dalla realtà: un iper-reale. Il territorio non precede
più la mappa, né le sopravvive. D’ora innanzi sarà la mappa a precedere il territorio” ».
[12]
Detto in poche parole: in un futuro che è già cominciato le tecnologie digitali
avranno un ruolo attivo sempre maggiore nel costruire non soltanto le nostre
rappresentazioni del reale, ma nel disegnarci, nel costruirci la realtà in cui viviamo. Uno
scenario simile pone questioni epistemologiche ed etiche di non poco conto. Come già
anticipavamo, alla fine è il concetto stesso di vero e di realtà ad essere intaccato: come
riconoscere, come dare contenuto a questi due concetti fondamentali per la storia
umana? In che modo, a quali condizioni, attraverso quali forme di discernimento, dare
credito alle esperienze e alle emozioni che viviamo, nel costruire le nostre identità, nel
cercare il senso e i significati delle nostre azioni? A partire da quali grammatiche
interpretarle? Un esempio che ci permette di comprendere la posta in gioco di questa
trasformazione in atto ci è fornito dalle modificazioni che un concetto come quello di
morte sta conoscendo presso le generazioni più giovani: le nuove generazioni faticano
oggi a comprendere la realtà della morte, a fronte di una cultura digitale che struttura
invece il dramma dell’esistenza a partire dalla dialettica presenza / assenza tipici del
mondo mediatico. È proprio questa coppia a sostituire, nel loro modo di ragionare, la
coppia vita / morte: l’apparire, l’esistere dentro questa cultura appunto, sostituisce con
le sue simboliche tutto un modo di pensare la vita e la morte, il presente e il futuro, il
visibile e la trascendenza, il limite e l’esperienza religiosa. Avviando in questo modo
processi di trasformazione delle gerarchie di valori, degli obiettivi della vita; ma
soprattutto innescando una trasformazione di tutto l’orizzonte simbolico (il vero, il
bene, il bello, il giusto, l’amore, l’alterità, … ) a partire dal quale comprendo la verità
della mia storia, ne strutturo il senso e decido il futuro della mia vita. Mostrando così
come sia in atto una trasformazione senza precedenti di tutte le categorie del giudizio
umano e del discernimento.[13]
 
 
2. La descrizione: i “barbari” del duemila
 
Il primo punto della riflessione ci ha permesso, anche se soltanto attraverso qualche
accenno, di intuire la portata dei cambiamenti che l’avvento della nuova cultura digitale
sta generando nella nostra società. L’era digitale che stiamo esaminando si presenta
davvero come un nuovo mondo da abitare, che chiede di essere riorganizzato dagli
uomini, perché possano continuare a vivere, comunicare e trasmettere le loro
esperienze, i loro valori, la loro saggezza. Prima di lasciare che, smarriti e un po’ persi
di fronte all’entità dei mutamenti in atto, siano le emozioni a decidere il nostro
atteggiamento nei confronti di una simile cultura, dobbiamo sforzarci di leggerla per
quello che è: uno spazio antropologico di costruzione delle identità umane. Come sono
queste identità? Precisando meglio la domanda a partire dalla riflessione che stiamo
sviluppando: come sono i giovani che sanno abitare in modo snello questa cultura? Il
concetto di “barbari” che assumo da un testo di A. Baricco[14] serve per collocarci in
modo corretto nella riflessione che svilupperemo in questo secondo momento: va
utilizzato non in modo proiettivo, gettato come un giudizio sui destinatari della nostra
osservazione; ma come un filtro da assumere da parte nostra, di noi osservatori. È
davvero qualcosa di nuovo quello in cui stiamo entrando, così nuovo da lasciarci spesso
senza parole per descriverlo. Tentiamo allora questa descrizione, tentiamo la
costruzione di un ritratto dei giovani che abitano la cultura digitale attraverso quattro
aggettivi: questi giovani ci appaiono come nomadi, incredibilmente complessi e
costruiti, orizzontali ovvero spesso chiusi nelle loro reti di relazione, tragici perché
fragili.
 
a. Nomadi
 
I giovani di oggi sono nomadi, come d’altronde ogni uomo, ma in modo nuovo.
Secondo la logica del multitasking (la capacità di un calcolatore di eseguire più processi
operativi nel medesimo tempo) colorano il loro nomadismo con questa abilissima
capacità assunta proprio dal mondo informatico: abitano più spazi sociali nel medesimo
istante. E saltano dall’uno all’altro di questi spazi ad una velocità sorprendente, nella
ricerca frenetica e qualche volta disperata di perdere il meno possibile delle esperienze a
loro disposizione. Li si vede così contemporaneamente capaci di chattare, rispondere al
cellulare o mandare un sms, seguire un programma radiofonico o televisivo … e tutto
ciò mentre sono convinti di occupare il loro tempo nello studio. Un simile modo
nomadico di vivere le esperienze rende però la loro storia mai lineare e piana; il loro
tempo è un susseguirsi di picchi emotivi, di esperienze forti che li segnano, ma che
faticano ad essere collegate tra di loro, che difficilmente trovano il tempo e le energie
giuste per essere rielaborate; e che quindi ancor più difficilmente vengono connesse e
unificate in una trama che dica il senso della loro storia. In questo senso, questi nuovi
nomadi sono prigionieri del loro presente, un presente che assume il carattere della
perennità, insieme a quello della provvisorietà e della forte mutevolezza. Un attimo
decide la loro vita: non c’è memoria che tenga, o futuro che motivi la resistenza.
Per aiutarci a comprendere il fenomeno in atto, e concentrando il nostro sguardo su
di un contesto che ci è maggiormente famigliare, una ricerca recente mostra come
questo nomadismo segni un modo forte la vita anche di coloro che accettano di
misurarsi con la possibilità di una chiamata vocazionale.[15] I giovani presi in esame si
sono raccontati come persone alla ricerca di più luoghi in cui vivere in contemporanea
la propria esperienza ecclesiale, persone che vivono la fatica di decidersi per una sola
esperienza, che esaltano in modo persino esasperato l’emozione momentanea, che
faticano a motivare la durata di un cammino. Sono giovani quindi che della Chiesa
vivono senza fatica la dimensione della cattolicità, che sanno declinare assieme forme
anche opposte di dare visibilità alla fede oggi; che riescono a mantenere uno spettro così
ampio di itineranza ecclesiale per nascondersi le fatiche a decidersi per una sola di
queste esperienze, che motivi la loro vita. E che, proprio per questo motivo, di fronte ad
una scelta compiuta sono sempre pronti a tenere opzioni di riserva da accarezzare nei
momenti di dubbio e di incertezza.
 
b. Costruiti
 
Abituati a poter gestire a proprio piacimento i tratti fondamentali della loro identità,
pronti a saltare da uno spazio sociale all’altro, i giovani imparano che il codice narrativo
da assumere in questa cultura è quello scenico. Si diventa attori anche senza sceglierlo;
e la vita prende senso e forma soltanto quando viene percepita come un copione in cui
ognuno ha il suo ruolo, a partire dagli spettatori, e di cui ogni singolo individuo, per il
proprio punto di vista, è il protagonista. Il narcisismo diventa il tratto che descrive
l’identità di chi respira questa cultura; un narcisismo tuttavia strano, non scelto ma quasi
obbligato, il cui fine è farmi percepire l’identità individuale attraverso le emozioni che
la rappresentazione delle mie azioni è in grado di creare. È l’ambiente sociale in cui
viviamo a spingerci verso un simile modo d’intendere la nostra identità, facendo
respirare a tutti un clima culturale il cui principio fondamentale è la realizzazione del
proprio io, in cui la percezione emotiva delle proprie azioni è il primo criterio di
valutazione; un clima in cui, essendo tutti così concentrati nella comprensione degli echi
che il mondo esterno esercita sul nostro io (siamo nella società della gratificazione
istantanea, ci ricordano i sociologi!), i diritti vengono prima delle responsabilità e la
libertà individuale prima di qualsiasi vincolo fraterno.[16]
Nato nel virtuale, il giovane di oggi sa padroneggiare in modo molto agile e
disinvolto le tante dimensioni della sua identità relazionale. Le dinamiche di simbiosi e
allo stesso tempo di separazione costruite con i tanti avatar da cui si è fatto e si fa
rappresentare negli spazi mediatici che abita (da piccolo nei videogiochi, da giovane
nei social network)[17] gli hanno permesso di apprendere per via esperienziale tecniche
di sdoppiamento e di moltiplicazione del proprio io, tecniche di lettura e di
decostruzione dei propri stati d’animo, di ricostruzione artificiale di stati emotivi capaci
di procurare sensazioni e di incidere in modo significativo sulla sua identità. Una
conoscenza esperienziale che viene prima di qualsiasi grammatica, e che porta come
conseguenza due difficoltà: la convinzione che non esista situazione o relazione dentro
la quale un individuo possa svelarsi per quello che è e giocarsi in modo totale; e, in
secondo luogo, la dipendenza da un simile modo costruito di presentare la propria
identità. Per i giovani d’oggi è veramente difficile (nei casi patologici addirittura
impossibile) riuscire a mostrarsi per quello che sono, raccontare in modo lineare quello
che stanno provando o ciò che intendono vivere; la conoscenza del loro io non riesce
più ad essere autonoma, ma ha bisogno di continue mediazioni, di contesti scenici in cui
si possono costruire giochi di ruolo che (proprio come in un gioco di specchi) quasi li
obbligano a svelare parti del loro sé, portandole ad un livello riflesso ed elaborabile
linguisticamente. Nello strutturare le proprie identità i giovani dipendono dai contesti
sociali che abitano molto più di quanto loro stessi immaginino; alla fine spesso sono i
contesti sociali ad indirizzare le elaborazioni delle identità, influendo in modo forte e
determinante sui processi di costruzione dell’io.
Tornando ad avvicinarci ad un mondo che conosciamo meglio, non è sicuramente un
caso che in questa ricerca di luoghi in grado di decifrare la propria identità individuale il
sacro e la liturgia assumano un ruolo e una funzione primaria. Scenici e rituali per
definizione, questi contesti riescono a costruire in modo esemplare l’orizzonte teatrale
che serve per svelare le singole identità; e danno anche le energie per svolgere un simile
compito. Energie ovviamente legate alla sfera dell’emozione: l’ingresso in simili agoni
avviene primariamente per via più affettiva che intellettuale; vincono i partigiani sugli
interpreti e i liberi pensatori; la regola è l’irrigidimento, l’identificazione tragica con una
posizione e con un contesto capaci di dire l’emozione della vita. Da qui le declinazioni e
la conseguente costruzione di ruoli e personaggi tipizzati: si va da forme narcisistiche
che fanno il verso alla cultura dominante (sostanzialmente la assumono pur criticandone
alcuni aspetti), per arrivare a forme che scelgono la loro espressione per via
contrappositiva (figure sacrali che inscenano in modo artificiale l’antico).[18]
 
c. Orizzontali. Mondi virtuali senza padri e tradizioni
 
Se la regola è il movimento e il continuo cambiamento (di spazi, di tempi, di
relazioni), il rimedio ad una solitudine insopportabile perché priva degli elementi che mi
permettono di percepirmi come identità (un attore senza spettatori? Impensabile!) è la
dinamica fusionale che il mondo digitale permette. Io sono amico di coloro che
condividono le mie emozioni, i miei interessi, i gusti e le battaglie del momento.
Nascono così i gruppi, le forme di ritrovo e le nuove parentele grazie
a facebook, a twitter, ai fedeli dei blog e delle chat. Non importa l’esclusività e la durata
di queste forme sociali di relazione; queste nuove forme di soggettività collettiva,
sempre a bassa intensità e a tempo determinato, si reggono su due elementi chiave che il
linguaggio recente della sociologia ha descritto attraverso due concetti esplicativi:
orizzontalità e identicità.[19]
Queste nuove forme di relazione anzitutto sono orizzontali perché costituite di pari,
ovvero perché composte di membri che non strutturano (non riconoscono) tra di loro
dinamiche di gerarchizzazione. Non c’è tradizione, non ci sono padri che hanno il
compito di consegnarmi un passato in grado di sostenere la mia identità presente; non ci
sono padri non soltanto perché questi nuovi spazi virtuali non permettono il
riconoscimento di simili figure: non ci sono padri perché spesso anche gli adulti, nel
gioco della rete, si comportano come dei pari, regrediscono di fronte a qualsiasi
richiesta di assunzione di responsabilità. E proprio perché composte di pari, queste
comunità si reggono sul principio della identicità: funzionano finché io mi posso
specchiare totalmente negli altri, ritenuti non soltanto simili ma perfettamente identici a
me. La dinamica fusionale non lascia spazi ad alcuna differenza, seppur minima:
minerebbe infatti la graniticità e l’integrità del legame sociale che unisce tutti gli
appartenenti ad un simile corpo sociale.
Un simile fenomeno è visibile anche nel modo di vivere il legame religioso ed
ecclesiale da parte dei giovani di oggi, cristiani compresi: stando ai risultati di alcune
recenti inchieste sulla popolazione seminaristica italiana (sono giovani del loro tempo
anche loro!), per i giovani che abitano i nostri seminari è più facile esprimere sintonia e
vicinanza verso il Papa che verso i cristiani con cui si vive il proprio quotidiano (per i
seminaristi e i preti: il proprio vescovo e il presbiterio): questo è il contenuto primario
dato al concetto di appartenenza ecclesiale, nell’era digitale. Si preferiscono anche nel
mondo della fede le amicizie tra pari, elettive, a quelle che una volta il territorio (unico
spazio abitabile) mi avrebbe consentito; è persino possibile scegliere artificialmente a
quali esperienze legarsi come al proprio passato fondatore, creando in questo modo un
proprio personale luogo su cui fondare la memoria che custodisce la mia identità:
nascono così nel mondo digitale nuove tribù, e nel sottoinsieme ecclesiale nuove
tradizioni, nuove forme di associazione per costruire una memoria condivisa.[20] In un
simile scenario diventano comprensibili alcuni cambiamenti anche radicali di
comportamento e di attitudine dei giovani: dominati dalla dinamica fusionale,
cambiando gruppo di identificazione mutano di identità, e ciò che prima era una
certezza ora non lo è più. (Più di una crisi vocazionale, di seminaristi come di preti di
recente ordinazione, diventa più comprensibile in un quadro simile).
 
d. Tragici perché fragili
 
L’impressione di onnipotenza e di energia che la descrizione ci va comunicando non
deve trarci in inganno. Le strategie che abbiamo descritto sino ad ora spesso sono
assunte dai giovani per via di necessità, per costrizione culturale. Che serve loro per
coprire il senso di insicurezza e di solitudine che provano di fronte alle grandi prove
della vita, privati come sono non soltanto di una grammatica condivisa che permetta
loro di capire il carattere familiare e positivo di questi passi: privati dello stesso contesto
familiare, vista l’assenza di figure di padri che li accompagnino e li educhino in un
cammino di crescita dentro questi nuovi spazi sociali ed antropologici. Privati così dei
contesti più quotidiani in cui costruire il linguaggio e gli strumenti per individuare
l’itinerario e le tappe del proprio cammino verso l’età adulta, i giovani vivono
schiacciati dentro un eterno presente che li esorcizza da un futuro che dimostra di non
volerli anche in questo mondo (esperienza d’altronde già vissuta nel mondo lavorativo e
in quello del welfare) e che di conseguenza li costringe in forme di dimora sempre
provvisoria.
È questa situazione di solitudine e di insicurezza il principale serbatoio dei
comportamenti irrigiditi, della dose di aggressività e di violenza che si respira in modo
diffuso nella cultura digitale; così come sta proprio nella precarietà dell’io che si riesce
a disegnare la preferenza per scelte tragiche assunte come scorciatoie alle fatiche di un
quotidiano avaro di gratificazioni che permettano di reggere il peso e le esigenze di ogni
cammino di maturazione. Da qui anche l’incapacità, che si maschera dietro il
disinteresse, a ricercare e comprendere i meccanismi che dominano un simile spazio
sociale e la cultura che esprime: gli abitanti del mondo digitale sono spesso fatalisti,
poco interessati a conoscere i meccanismi che regolano e decidono il mondo virtuale
che abitano, poco motivati a scavare e comprendere ad un livello epistemologico le
ragioni che governano un simile spazio, convinti di trovarsi di fronte a nuove figure
magiche, le forme dell’incanto mediatico. Penso sia evidente a tutti come un simile
tratto di fragilità tragica segni in modo più o meno marcate i volti e le figure anche di
quei giovani cristiani che conosciamo: le molte declinazioni della titubanza (la fatica a
fidarsi, la chiusura in comportamenti ritenuti inattaccabili, l’assunzione di posizioni
apologetiche che ribaltano i ruoli educativi), le fatiche della costanza e della profondità
nella costruzione della propria identità personale (la fatica a vivere cammini formativi
che implichino come elemento la durata, la fatica a non retrocedere rispetto a passi e
tappe educative acquisite) sono elementi di diagnosi che accomunano molti degli
scambi e dei confronti vissuti tra educatori, e perfino tra educatori dei seminari.
 
  
3. La sfida: da cristiani nell’era digitale
 
Abitare da cristiani l’era digitale è possibile. Proprio perché il mondo digitale che
stiamo descrivendo è un nuovo spazio antropologico e non una degenerazione dello
spazio precedente, ciò che è richiesto è il senso pioneristico di chi accetta di misurarsi
con le sfide che la storia ci mette di fronte ad ogni sua svolta epocale. Esperienze
cristiane legate al mondo digitale e alla cultura che sta creando ci sono, soprattutto se
osservate non soltanto a livello della nostra Chiesa italiana. Ad esempio, eventi come le
Giornate Mondiali della Gioventù, luoghi ed istituzioni comeTaizé[21] ci permettono di
dire che la cultura mediatica e digitale può essere utilizzata come una terra di
evangelizzazione: occorre assumerne i linguaggi, comprenderne il funzionamento,
decostruirli alla luce del Vangelo (alla luce del nucleo fondamentale dell’esperienza
cristiana), e lasciare che la vita di fede generi una sintesi nuova, un nuovo linguaggio,
secondo la dinamica che GS 44 ci ha insegnato.[22]
Esistono anche prime letture e studi di approfondimento che cercano, alla luce della
prospettiva appena indicata, di costruire una interpretazione e una valutazione di questi
approcci cristiani alla cultura digitale, mettendo in luce le sfide e le potenzialità di simili
esperienze. Questo incontro con la cultura digitale stimola infatti la fede cristiana a
ridire in modo nuovo e a mettere in luce attraverso linguaggi inediti le strutture
fondamentali della propria esperienza, dando origine ad una sorta di riscrittura delle
pratiche fondamentali e delle figure della vita ecclesiale.[23]
Grazie a questa letteratura, da questo primo approccio riflesso è possibile individuare
i nodi, i punti attorno i quali questo lavoro di decostruzione e ricostruzione allo stesso
tempo del vissuto cristiano come pure della cultura digitale si fa più intenso, diventa una
vera e propria sfida che decide le figure che l’esperienza cristiana va assumendo nel
mondo digitale. Come vengono individuati questi punti, questi nodi? Ascoltando i punti
di tensione che l’identità umana si trova a vivere dentro questa esperienza digitale; e
verificando come l’esperienza cristiana possa fornire strumenti e regole per una
declinazione diversa, una impostazione rinnovata e anche più ricca antropologicamente
di questi luoghi. Questi luoghi – nodi sono: la necessità e il valore di elaborare anche
dentro il mondo digitale una lettura della vicenda umana che parta dalla categoria di
storia, ovvero dalla possibilità di immaginare la nostra esperienza come un cammino e
un itinerario di senso; la possibilità che le dinamiche simboliche attivate dalla cultura
mediatica e digitale si aprano ad un incontro con il reale, e di conseguenza ad una
possibile esperienza della trascendenza, ad un’esperienza spirituale; infine
l’imprescindibilità per le nostre esperienze di vita della dimensione politica, ovvero
dell’incontro con l’altro, dell’assunzione di un atteggiamento di riconoscimento e di
responsabilità verso ciò che sta intorno e di fronte a me, nel processo di costruzione
della mia identità e della mia storia individuale.
 
a. La storia
 
Partiamo affrontando il primo nodo, ovvero la necessità di una interpretazione storica
del divenire dell’uomo e del mondo. Come abbiamo mostrato più sopra, la cultura
digitale fa dell’ambiguità e del provvisorio le regole fondamentali del suo istituirsi.
Quando l’identità individuale è una semplice possibilità e la logica delle azioni
un’opzione, la coerenza dei gesti, la possibilità di un vissuto unificato e quindi unico,
fatto di una storia (passato, presente, futuro), diviene un peso difficilmente
giustificabile. La cultura mediatica, con i suoi format, ci insegna che la storia non è
essenziale ai fini della costruzione del nostro io; è invece più urgente l’identificazione
un po’ fatalista con un personaggio, un ruolo, che ci permetta di collocarci dentro il
contesto scenico del mondo digitale; un ruolo che per essere chiaro e comprensibile non
deve mutare nel tempo.[24]
Un simile modo di strutturare la propria identità va però stretto allo stesso individuo
che, dopo aver sperimentato l’ebbrezza di una libertà senza limiti fisici e sociali, si sente
frustrato dall’impossibilità di istituirsi nell’unicità e nella specificità del proprio essere
personale. Se non c’è storia, se non c’è più bisogno di una storia perché lo spazio
antropologico è il risultato di intrecci fabulistici, alla fine non esiste più nemmeno lo
spazio per dirmi, l’interesse di dirmi e di essere riconosciuto come soggetto dagli altri.
Senza storia manca la grammatica, lo spazio logico per l’istituzione dei singoli individui
come soggetti, ovvero come persone non soltanto agite in senso passivo dalle proprie
emozioni, ma agenti in senso attivo, capaci di strutturare in modo responsabile il proprio
vissuto (introducendo tra l’emozione e l’azione il momento della riflessione); capaci di
vivere non secondo il ritmo temporale artificiale della ciclicità ma impostati a partire da
principio reale dell’unicità dell’atto e della tensione verso il fine.
L’esperienza cristiana si inserisce in un simile punto di tensione con la propria
memoria e i propri strumenti, istituendo un punto di rottura. Proprio l’esperienza di fede
vissuta, così come il popolo ebraico prima e la Chiesa poi ce la raccontano, ci permette
di intuire come l’evento di Gesù sia il principio, sia il punto centrale di una storia che ci
consente di istituirci come soggetti, individui che fanno delle loro azioni e delle loro
emozioni lo spazio in cui dare corpo e visibilità ad un reale che depassa il mondo
digitale dentro il quale è raccontato e trasmesso; un reale che fissa punti di ancoraggio
certi alle singole individualità, in questo modo non più prigioniere di un mondo senza
certezze e alla fine (proprio perché senza storia) senza identità.
 
b. Una spiritualità incarnata
 
Questa capacità di rimandare il mondo digitale al mondo reale permette
all’esperienza cristiana di assumere e sviluppare in modo nuovo un secondo nodo, un
secondo luogo topico della cultura virtuale. Il funzionamento spettacolare tipico di tutto
l’universo digitale comporta infatti una deformazione inizialmente poco avvertita del
processo metaforico che sta alla base della strutturazione simbolica del reale, come
abbiamo avuto modo di spiegare all’inizio di questa riflessione. C’è il rischio,
acutamente denunciato da parecchi studiosi di antropologia (rimando come esempio alle
riflessioni di J. Baudrillard), che alla fine il mondo digitale uccida la capacità di
rimando al trascendente, ad un reale che ci supera e ci spiega, i simboli attraverso i quali
esprimiamo le nostre storie, custodiamo i nostri valori e le nostre istituzioni, costruiamo
il nostro futuro individuale e comunitario. Il risultato è un mondo appiattito
sull’immediatezza e sull’identità, incapace di trascendenza e di alterità. Il punto di
riferimento di tutto lo sviluppo comunicativo, il punto di riferimento delle dinamiche
simboliche accese nello spazio digitale non è più un’alterità trascendente, ma la mia
identità: il mondo virtuale è una promanazione del mio io; un mondo che alla fine non
mi spiega, non mi apre ad una percezione dell’universo e della storia che non sia
egocentrica.[25]
Tutto diventa funzionale a questo asserto. Il mondo digitale rischia quindi di
strutturarsi come uno spazio simbolico autoreferenziale, chiuso all’alterità. Uno spazio
alla fine alienante: mi attira nel suo contesto fino a farsi percepire come l’unico spazio
di realtà, pur non essendo in grado di soddisfare la mia ricerca di verità, la mia sete di
comprensione e di collocazione dentro un universo che vada oltre le mie percezioni e i
miei pensieri. Non stupisce se in un simile contesto la figura religiosa assuma i contorni
e la forma delle sapienze orientali, di filosofie senza grandi contenuti logici e povere di
esperienze etiche ma capaci di dimensioni fusionali di esperienza emozionale con
l’armonia del cosmo, unica figura e forma della divinità possibile in un simile contesto.
Vivere da cristiani un simile spazio significa invece abitarlo per aprirlo all’alterità,
alla trascendenza. Strutturare forme di abitazione e pratiche di attraversamento di questi
spazi che attingano regole e strumenti dalla grammatica sacramentale tipica
dell’esperienza cristiana,[26]capace di aprire il mondo digitale a forme di
ristrutturazione logica e simbolica in grado di rimandare la mia identità ad una giusta
esperienza del reale, e soprattutto di orientarla verso untelos, un fine escatologico che
funga da obiettivo riorganizzatore di tutti i codici simbolici e metaforici attivati. Vivere
il cristianesimo in un simile mondo digitale significa trasporvi i codici allo stesso tempo
secolarizzatori e spirituali tipici del discorso della montagna; significa alla fine rendere
questo mondo capace di supportate in modo pieno la domanda di identità, di
riconoscimento e di esperienza di chi lo abita. In una parola, abitare da cristiani lo
spazio digitale significa introdurvi i codici dell’esperienza dell’essere generati,
assumendo la relazione di figli che Dio ha acceso con noi come motore e fonte del
funzionamento di tutto l’universo simbolico che rende vivo quello spazio. Rispondendo
in questo modo alla domanda di padri che un simile spazio non riesce a gestire, e che
invece risulta fondamentale per la costruzione non soltanto della propria identità ma più
profondamente di una esperienza vera del mondo e della vita.
 
c. Una politica della fraternità
 
Questa dimensione di filiazione ci permette di illustrare l’ultimo nodo, quello della
sfida politica. Senza storia, centrato sull’individuo, il mondo digitale è apolitico per
definizione. Non c’è bisogno dell’altro, se non nel ruolo di comparsa a sostegno delle
mie emozioni, o attraverso forme di sublimazione digitale della sua presenza e delle sue
azioni, dentro una trama che mi vede e mi riconosce protagonista. Nel mondo digitale
problemi come la giustizia sociale, la lotta alla povertà, il riconoscimento dei diritti dei
poveri, la sopravvivenza del creato e l’ecologia sono argomenti senza vocaboli e senza
attori per sostenerli; soprattutto senza energie e motivazioni.
Diventa chiaro il compito e il modo con cui l’esperienza cristiana è chiamata a farsi
carico di un simile punto di tensione: alla fine il mondo digitale rende la mia identità
priva di un corpo e soprattutto incapace di azioni logiche e sensate, incapace di
trascrivere dentro la storia il senso della mia vita e l’unicità della mia esperienza.
Responsabilizzare le mie emozioni, permettere che categorie come quelle della carità
trasformino la percezione dell’altro e della sua presenza nella mia vita, sono davvero
imperativi impellenti non soltanto per il cristianesimo ma per lo stesso spazio digitale,
se non si vuole che in breve tempo la sua dimensione sociale si dissolva in una
esplosione di tanti mondi isolati, dentro i quali ognuno celebra il culto del proprio io,
vive una religione della gratificazione istantanea piuttosto che una fede e una ragione
che ci danno strumenti non solo per abitare la storia, ma anche per riorientarla.

[1] Come spiega A. SPADARO, «“Second Life”: il desiderio di una “altra vita”», La


Civiltà Cattolica 158 (2007) pagg. 266-278.
[2] C. GIACCARDI – M. MAGATTI, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti
strutturali ed esperienze soggettive nell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari
2001; F. CRESPI,Identità e riconoscimento nella società contemporanea, Laterza, Roma-
Bari 2004; M. MAGATTI, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-
nichlista, Feltrinelli, Milano 2009.
[3] C. BUZZI – A. CAVALLI – A. DE LILLO (edd.), Rapporto giovani. Sesta indagine
dell’istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2007; E.
BESOZZI(ed.), Tra sogni e realtà. Gli adolescenti e la transizione alla vita
adulta, Carocci, Roma 2009.
[4] Come spiega T. MALDONADO, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992; ID., Critica
alla ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997; ID., Memoria e conoscenza. Sulle
sorti del sapere nella prospettiva digitale, Feltrinelli, Milano 2005.
[5] Lo spiega bene J. MEYROWITZ, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici
influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993.
[6] Non è un caso che la rete abbia conosciuto la sua prima grande espansione in
connessione al mondo della pornografia: la prima dimensione fissa a saltare nel mondo
digitale è proprio l’identità di genere, con tutto il seguito di regole morali che questa
identità si trascina.
[7] Si vedano al riguardo le lucide intuizioni (pubblicate per la prima volta nell’ormai
lontano 1976!) di R. SENNETT, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori,
Milano 2006.
[8] Come spiega H. RHEINGOLD, La realtà virtuale. I mondi artificiali generati dal
computer e il loro potere di trasformare la società, Bologna 1993.
[9] H. RHEINGOLD, La realtà virtuale, pag. 521.
[10] T. METZINGER, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, Raffaello
Cortina, Milano 2010.
[11] T. METZINGER,  Il tunnel dell’io,  pp 268, 269, 270
[12] H. RHEINGOLD, La realtà virtuale, pag. 522.
[13] J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano
1979; ID., Parole chiave, Armando, Roma, 2008.
[14] A. BARICCO, I Barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano 2004.
[15] F. GARELLI (ED.),  Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione,
San Paolo, Cinisello Balsamo 2006
[16] Rimando alla descrizione molto lucida e precisa (soprattutto da un punto di vista
psicologico) di questo clima narcisistico della cultura attuale fatta da A. VERGOTE, « Tu
aimeras le Seigneur ton Dieu … ». L’identité chrétienne, Cerf, Paris 1997, pagg. 30-31.
[17] Cos’è un “avatar”? L’avatar è una immagine scelta per rappresentare la propria
identità dentro il mondo virtuale (chat, forum, giochi elettronici). Il termine appartiene
alla lingua sanscrita e deriva dalla tradizione induista. In quel contesto ha il significato
di incarnazione, di assunzione di un corpo fisico da parte di un dio (avatar = colui che
discende). In modo metaforico, nel mondo virtuale avatar è l’alter ego, la
rappresentazione in quel mondo della mia identità reale (l’incarnazione della mia
identità nel virtuale).
[18] Interessante si rivela al riguardo l’analisi di un nuovo segmento della letteratura
religiosa in forte espansione: le autobiografie, i racconti di vita, i libri interviste che
hanno come obiettivo la descrizione dell’identità presbiterale odierna. La maggior parte
di questi testi raccontano l’esperienza singola come unica, irriducibile e non
interpretabile a partire da canovacci istituzionali. Il racconto del singolo presbitero (e di
conseguenza la sua storia e la sua identità) vale nella misura in cui l’esperienza descritta
è in realtà una libera rideclinazione della figura ministeriale, a fronte di un ruolo
percepito come non più capace di sostenere l’identità individuale (non posso essere un
prete uguale ad altri, pena la perdita di rilevanza della mia identità individuale).
[19] Si vedano Z. BAUMAN, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001; L.M.
FRIEDMAN, La società orizzontale, il Mulino, Bologna 2002.
[20] La rete è piena di siti che svolgono questa funzione: come esempio è sufficiente
visitare i numerosi siti dedicati al rito liturgico (in particolare al rito ante Vaticano II),
oppure quelli dedicati ai fans di persone pubbliche e carismatiche del cattolicesimo
contemporaneo (il Papa, ma non solo).
[21] Consiglio di visitare il sito web della comunità per comprendere di persona quanto
qui affermato.
[22] GS 44 recita così: « [la Chiesa] fin dagli inizi della sua storia imparò ad esprimere
il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si
sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto
conveniva, il Vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale
adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni
evangelizzazione. […] È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei
teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e
interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola
di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e
possa venire presentata in forma più adatta ».
[23] Si vedano ad esempio: « Seelsorge und Internet », Diakonia 31 (2000) 381-422; «
L’Eglise au nouvel âge des médias », Lumière & Vie 268 (2005); I. JONVEAUX, « Une
retraite de carême sur Internet », Archives des Sciences Sociales des Religions 139
(2007) 157-175; T. NEULINGER, « Beten-Lernen per Internet », Geist und Leben 82
(2009) 241-245.
[24] Spiega tutto ciò con chiarezza U. LORENZI, « Televisione e processi culturali. Il
format Amicidi Canale 5 », La Scuola Cattolica 137 (2009) 65-95. Si veda anche C.
GIACCARDI, « Dal paese catodico a egolandia. Una riflessione su media e crisi culturale
», La Rivista del Clero italiano90 (2009) 583-595.
[25] Un esempio illuminante è il successo dei soggiorni presso monasteri e comunità di
preghiera da parte dei giovani di oggi: in queste esperienze i monasteri sono descritti da
questi giovani in modo nuovo, da luoghi di estraneazione e di apertura escatologica alla
trascendenza a luoghi terapeutici di cura e di conferma del proprio io, nella logica della
realizzazione di sé. Ci vado non perché permetto alla relazione con Dio di ristrutturare
la mia vita, ma perché quel tipo particolare di esperienza mi permette di ritornare al mio
quotidiano sereno e appagato.
[26] Le riflessioni di W. Fürst contenute nel numero di Diakonia citato, come del resto
tutto il numero, aprono domande e riflessioni interessanti.

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