Premessa, ovvero il nodo della riflessione. È utile, per cominciare questo percorso comune, focalizzare una prima immediata tentazione nella quale la riflessione assegnataci dal titolo potrebbe cadere: di fronte alla novità della situazione in cui ci troviamo, il rischio è di comprendere ciò che definiamo con “era digitale” soltanto ad un livello tecnico e quantitativo. Sono cambiati i modi di svago e le distrazioni per i giovani di oggi (e non soltanto per loro), in seguito alla rivoluzione mediatica e digitale che stiamo vivendo in questi anni. Questi cambiamenti sono visibili e registrabili sia a livello di tecnologia (cellulari, computer, internet, ipod/iphone), come pure a livello di codici di trasmissione e linguaggi culturali (nuovi format televisivi, siti blog e social network, ovvero reti virtuali di condivisione come facebook e twitter, o fenomeni come second life). Basterebbe perciò costruire un elenco dettagliato di tutte queste novità e immediatamente dopo stilare regolamenti che ne disciplinino l’uso. Meno internet e tv, controllo dell’uso del cellulare: poche regole e l’educazione dei più giovani è fatta; qualche divieto ed eccoci pronti ad abitare la cultura mediatica che avanza sempre più. Come ognuno dei lettori può facilmente intuire, le cose stanno ben diversamente. Il cambiamento in atto va colto per quello che è, ovvero come una rivoluzione culturale ed antropologica di notevoli proporzioni.[1] L’utilizzo delle nuove tecnologiche mediatiche ed informatiche non modifica soltanto i ritmi esterni della vita degli uomini (dei giovani in particolare); più profondamente ne modifica lo stesso modo di comprendersi come persone, di strutturare la loro identità, di comprendere il reale e il senso delle cose. È a questo livello che dunque si deve situare l’ascolto e il confronto con la nuova figura culturale, l’era digitale che si va imponendo oggi tra i giovani, e non solo tra loro.[2] Ci troviamo dunque in una situazione abbastanza complicata: interpretata come una metamorfosi culturale, l’era digitale con cui ci stiamo confrontando non si rivela un oggetto facilmente abbordabile. Ci si trova spaesati di fronte ad essa, con la percezione di essere troppo “antichi” per potere individuare un punto di ingresso, un terreno di approccio ad un mondo culturale così nuovo e moderno; e, per di più, non disponendo nemmeno di una solida base di partenza, visto che ciò che definiamo con “era digitale” è una rivoluzione culturale ed antropologica di notevoli proporzioni: non modifica soltanto i ritmi esterni della vita degli uomini ma lo stesso modo di comprendersi come persone, di strutturare la loro identità, di comprendere il reale e il senso delle cose Una simile constatazione può diventare però anche un buon punto di partenza: prima di assumere qualsiasi posizione valoriale di giudizio (nei confronti della cultura digitale nella quale siamo entrati, come pure nei confronti dei mutamenti in atto nei modi di declinare oggi l’identità giovanile) converrà impegnarci in uno sforzo di comprensione, che parta proprio da questa nuova figura culturale. Dovremo sforzarci di comprenderla, e di vedere come può essere assunta e interpretata nei termini di uno spazio antropologico dai confini e dalle forme tutte nuove, che chiede al cristianesimo (alla sua memoria, alle sue istituzioni, alle sue esperienze) di elaborare strumenti e percorsi perché possa essere abitato e diventare terreno sul quale costruire le identità cristiane di oggi e di domani.
1. Il contesto. Una cultura digitale
Siamo così al primo punto della nostra riflessione, quello dedicato alla lettura e alla comprensione dei tratti portanti della cultura digitale che sta sempre più segnando il mondo che viviamo. Cominciamo ad introdurci alla comprensione di questa nuova cultura digitale entrando per la porta più semplice ed immediata, ovvero l’osservazione sociologica quantitativa e di superficie. Gli studi più recenti sulla situazione adolescenziale e giovanile in Italia evidenziano al riguardo alcuni dati interessanti: mediamente un giovane italiano passa oggi dalle due alle tre ore giornaliere connesso a un computer e ad una rete. Il tempo passato nell’uso del cellulare non è più calcolato, talmente è considerata una ovvietà e una evidenza la presenza di questo strumento nella vita dei giovani. Così pure è per la fruizione di programmi televisivi. Si parla ormai senza remore di una generazione connessa, costantemente legata ad un mondo e ad una dimensione sociale tramite quel cordone ombelicale invisibile (senza fili, wireless appunto!) che è Internet.[3] Gli studi specializzati hanno coniato anche una espressione capace di rendere in modo plastico ed immediato questa situazione: si parla degli adolescenti e dei giovani come di “nativi digitali”, ovvero come di persone cresciute in ambienti sociali dentro i quali la presenza dei media e dei nuovi dispositivi digitali è incessante, creando una sorta di continuum di sottofondo che fa apparire questi strumenti e i linguaggi da essi veicolati come un elemento indispensabile dell’ambiente che ci circonda e che contribuisce in modo determinante a fornirci gli ingredienti (valori, linguaggi, riti, simboli, obiettivi) per costruire le nostre identità individuali e collettive. Continuando la lettura di questi studi, apprendiamo poi che l’utilizzo della rete è direttamente proporzionale al grado di cultura da cui il giovane proviene e che poi è in grado di incrementare mediante lo studio personale e la sua formazione individuale. La rete (e, per logica conseguenza, la nuova cultura digitale) si rivela così un potente produttore di selezione sociale (un discriminatore sociale): abbiamo da un lato giovani intelligenti, motivati e pieni di energie, con alle spalle famiglie capaci di fornire loro risorse economiche e soprattutto culturali, che entrano in questa nuova realtà digitale sufficientemente attrezzati e capaci di raccogliere i benefici che un simile mondo loro promette; abbiamo dall’altra parte giovani meno dotati, e con alle spalle famiglie poco / per nulla capaci di fornire loro risorse, in posizione passiva di resa di fronte alle barriere di un mondo sociale che vedono con difficoltà, traducendo questa loro fatica in diminuzione di motivazione e di interesse (il mercato dei videogiochi li ha ben identificati come consumatori ideali). Da un lato quindi i pionieri della nuova classe emergente, pronti a rivestire in modo adeguato la nuova identità digitale; dall’altro lato invece l’avvisaglia di una nuova classe di poveri, che vive questa nuova era digitale come una barriera culturale insormontabile, dalla quale si resta esclusi; e che elabora strategie conseguenti di evasione e di negazione di questo insuccesso che si va producendo (il mondo digitale ridotto ad un grande paese fiabesco di videogiochi). Ma torniamo alla nostra idea originaria. Di questa cultura vogliamo leggere non solo la superficie quantitativa, ma il motore antropologico che la anima. Quali sono le regole che la contraddistinguono e permettono di coglierne i tratti salienti, ovvero le regole di funzionamento, i valori veicolati, le forme di relazione attivate, gli obiettivi produttivi istituiti, le visioni del mondo e le teorie della verità assunte e trasmesse? Parliamo di cultura digitale perché le sue produzioni trasformano in modo profondo, logico e sequenziale – secondo una logica digitale, appunto –, due strumenti fondamentali che l’uomo utilizza per costruire la propria identità e la propria idea di mondo: in primo luogo vengono rilette e rideclinate le forme e le figure della relazione sociale; in secondo luogo vengono riprogrammati e reinterpretati i processi di costruzione mentale delle rappresentazioni del mondo, ovvero l’idea stessa di realtà.[4]
a. Mondo digitale e relazioni umane
La prima dimensione che la cultura digitale in crescente diffusione permette di vivere in modo parecchio trasformato è quella delle relazioni sociali. I nuovi media, le nuove tecnologie digitali funzionano in questo contesto come intensificatori di sensibilità e riduttori di distanza. Emozioni prima riservate a pochi diventano di largo consumo; esperienze elitarie vengono trasformate in fenomeni di massa, stravolgendo regole spesso non scritte ma condivise e fondamentali per l’interpretazione e la costruzione del senso delle nostre azioni e delle relazioni attraverso le quali strutturiamo le nostre identità.[5] La cultura digitale permette ai giovani (in realtà a chiunque la abiti; quindi anche ai non più giovani) di vivere come variabili liberamente a disposizione della propria libertà (soprattutto delle proprie emozioni!) elementi che nel quotidiano della vita reale e concreta invece sono fissi e non intercambiabili; e consentono quindi la strutturazione dei campi linguistici e culturali che veicolano la produzione e la trasmissione di regole di vita e soprattutto di valori (elementi talmente stabili che ad essi la riflessione filosofica soprattutto di matrice cristiana ha associato il concetto di natura). Ad esempio, nella rete, nei social networks diventa una variabile a disposizione del soggetto la definizione della propria identità, a partire da quella di genere: mi posso fingere uomo o donna, o tutti e due, a seconda del contesto in cui mi trovo inserito; e soprattutto mi posso inventare la trama della mia storia personale come meglio mi aggrada, senza vincoli apparenti.[6] Diventano poi variabili a disposizione dell’individuo anche la definizione della propria età, e di conseguenza i rapporti tra le generazioni: in rete e, più in generale, nella fruizione dei nuovi mediaposso assumere qualsiasi età della vita, scegliendo quella che più mi attrae; posso fingermi eternamente adolescente; pur essendo bambino posso presentarmi come adulto e acquisire informazioni e conoscenze che nella vita reale non avrei avuto modo di acquisire, o alle quali mi sarebbe stato riservato un accesso differente. In rete assistiamo al fenomeno di bambini/adulti e di adulti che giocano a fare i bambini, dando a vita a dinamiche artificiali di iperesponsabilizzazione da un lato e di deresponsabilizzazione dall’altro che minano alla base le più elementari regole dello sviluppo pedagogico e morale, dinamiche che tolgono energie e risorse al giusto cammino di crescita, che fanno sembrare antiquata e superata l’idea di saggezza, e la possibilità di immaginare come virtuoso un itinerario per raggiungerla. Infine nella cultura digitale diventa una variabile a disposizione degli individui la costruzione delle relazioni sociali e pubbliche: scompaiono le distinzioni classiche tra ricchi e poveri; anche la collocazione in una determinata e precisa classe sociale, elemento immutabile nella vita reale, diventa in questo contesto un risultato di libere scelte. È persino possibile immaginare forme e figure nuove per l’esercizio dell’autorità e della responsabilità sociali. Nel mondo dei media mi posso far conoscere come fossi il vicino di casa di tutti, usando la mia sfera privata per creare false intimità in grado di nascondere i complessi meccanismi della costruzione delle azioni sociali e delle decisioni politiche. Grazie alla cultura digitale non vale più la logica di separazione che connota il meccanismo di gestione del potere: più sei potente meno sei disponibile, più la tua vita privata è ritirata e sottratta allo sguardo dei più. I politici e i potenti li vediamo tutti i giorni, accanto a noi, tra di noi ma non uguali a noi: nascono fenomeni di sacralizzazione delle persone, trasferendo il carico di responsabilità e di potere dal ruolo esercitato alla loro persona fisica individuale (poiché sono eletto mi è concessa qualsiasi cosa: questo è il ragionamento odierno, che ha sostituito il precedente – poiché sono stato eletto, è mio dovere rispettare ed eseguire il progetto che gli elettori scegliendo me hanno voluto indicarmi – ). Nascono soprattutto fenomeni di riduzione dello sguardo e degli obiettivi dell’azione sociale e politica: la globalizzazione della rete e dei nuovi media è spesso una globalizzazione di cortile, da pettegolezzo. La dilatazione dei confini coincide con una pigrizia dello sguardo: più che sviluppare forme di ricerca solidale si preferisce spesso rinchiudersi in reti di informazione che esaltano le identità peculiari e cavalcano i pruriti del voyeurismo.[7] Così descritto, il mondo digitale che avanza appare davvero come un potente decostruttore dei legami sociali sui quali fondiamo le nostre identità. Decostruttore più che ricostruttore: sono maggiori i segni di ciò che viene destrutturato da questa nuova cultura, rispetto agli echi di ciò che invece sta nascendo. Il mondo digitale diviene in questo modo il mondo del provvisorio e dell’ambiguità, il mondo del non definito, alla fine il mondo del falso nella sua declinazione di artificiale. Tutto può essere affermato e negato, tutto può essere vero come tutto può essere falso; non c’è nulla di fissato e di definitivo. Tutto può cambiare in questo luogo di sovrastimolazione delle relazioni e delle loro possibilità. Si comprende anche la forza seduttrice di una simile cultura: di fronte alla rigidità di un reale che appare costringermi in relazioni fisse e alle fine impoverenti, il mondo digitale appare come un mondo incantato, dove tutto può essere mutato da un momento all’altro. Ma questa sua forza di seduzione è anche la sua debolezza: se tutto può essere eternamente modificato, non c’è nulla di solido a cui ancorarsi, su cui fondare la propria storia.
b. Mondo digitale e percezione del reale
Esiste poi un secondo luogo antropologico, una seconda dimensione fondamentale per la costruzione delle nostre identità dentro la quale la cultura digitale che avanza è in grado di esercitare un influsso senza precedenti: la dimensione della percezione del reale, ovvero i processi attraverso i quali io costruisco nella mia mente le rappresentazioni del mondo in cui vivo, di ciò con cui entro in contatto e in relazione, di ciò che sperimento e provo. In una parola, le rappresentazioni mentali della realtà.[8] La nascita del virtuale consente per la prima volta nella storia del pensiero umano di interagire in modo determinante e diretto coi meccanismi attraverso i quali ogni singolo individuo si costruisce nella propria mente una rappresentazione del reale in cui vive, meccanismi sino all’avvento di queste tecnologie digitali ritenuti automatici, quasi magici. Mi affido ad una citazione per spiegare in poche parole un concetto molto complesso: « Costruiamo modelli del mondo all’interno della nostra mente, utilizzando i dati provenienti dai nostri organi di senso e le capacità di elaborazione delle informazioni del nostro cervello. Siamo abituati a pensare al mondo che vediamo come a “là fuori”, ma quello che vediamo è in realtà un modello mentale, una simulazione percettiva che esiste soltanto all’interno del nostro cervello. Questa capacità di simulazione è il punto in cui le menti umane e i calcolatori digitali condividono un potenziale per agire in sinergia. […] La simulazione cognitiva, la costruzione dei modelli mentali, è una delle cose che gli esseri umani sanno fare meglio. Lo facciamo talmente bene che tendiamo a rimanere incatenati ai nostri modelli del mondo da una ragnatela ininterrotta di credenze e percezioni sottilmente formate. E i calcolatori sono strumenti per la costruzione di modelli per eccellenza, malgrado essi stiano appena iniziando ad avvicinarsi al punto in cui la gente potrebbe confondere le simulazioni con la realtà. Le tecnologie di calcolo e visualizzazione stanno convergendo sulla possibilità di simulazione iperealistica. Quel punto di convergenza è abbastanza importante da valere la pena meditarci sopra prima del suo arrivo. Il giorno in cui le simulazioni computerizzate diverranno talmente realistiche che la gente non riuscirà a distinguerle dalla realtà non-simulata, ci troveremo di fronte ad importanti cambiamenti ».[9] Ciò significa non soltanto la possibilità da parte della cultura digitale di esercitare forti forme di influsso e di condizionamento delle emozioni e del pensiero dei singoli. Molto più profondamente, la cultura nella quale stiamo entrando vedrà (sta già vedendo!) le tecnologie digitali e i loro linguaggi nel ruolo di soggetto, di produttori parziali (speriamo non totali) delle esperienze che viviamo; vedrà queste tecnologie esercitare un ruolo sempre più attivo nella costruzione dei significati e del senso di questa vita; vedrà queste tecnologie capaci di segnare in modo forte la nostra vita. Questo influsso potrà essere deciso in modo diretto e libero da parte del singolo (meccanismi di evasione e di compensazione, ma anche di interesse e di apertura); potrà però essere deciso, organizzato e regolato anche dai nuovi poteri che la società digitale va creando, i creatori ma soprattutto i gestori dei flussi di informazione e di comunicazione, permettendo la nascita di nuove figure di società e la forte modificazione di quelle esistenti, comprese le loro istituzioni politiche e le loro organizzazioni. Intorno all’anno duemila è avvenuto un ribaltamento di paradigma. Intorno all’anno duemila è avvenuto questo ribaltamento di paradigma: usando come ponte le neuroscienze, la cultura informatica è diventata il modello epistemologico a partire dal quale organizzare il sistema della conoscenza umana e i suoi sviluppi (una nuova immagine di homo sapiens)[10]. Alla fine, ciò che risulta intaccato è il concetto stesso di vero e di realtà: come riconoscerla? A quali esperienze ed emozioni dare credito? Come spiegarle, come deciderne il senso? È possibile vivere modi e stati diversi di concentrazione mentale: dove fissare la regola e dove l’eccezione o l’alterazione? Come giudicare i nuovi sviluppi del funzionamento simbolico (nella costruzione dell’io, nella costruzione del rapporto col reale)? Come gestire dal punto di vista epistemologico le nuove identità polidimensionali rese possibili da queste trasformazioni? Per evitare scenari che si potrebbero rivelare davvero preoccupanti: « È possibile che vi possa essere un numero sempre maggiore di interazioni tra avatar. Possiamo finalmente arrivare a capire in cosa è consistita una buona fetta della nostra vita sociale cosciente: una interazione tra immagini, ossia un processo altamente mediato in cui i modelli mentali delle persone cominciano a influenzarsi reciprocamente in modo casuale. […] I nuovi ambienti mediatici possono dare origine a nuove forme di coscienza vigile che assomigliano a stati debolmente soggettivi – un misto di sogno, demenza, intossicazione e regressione infantile »[11]. Torniamo tuttavia al nocciolo del problema che stiamo analizzando, la costruzione delle rappresentazioni mentali del reale. Ascoltiamo ancora la citazione: « Ci stiamo avvicinando ad un punto di rottura in cui il miglioramento nell’interfaccia per la costruzione dei modelli stimolerà un salto qualitativo. Negli anni a venire saremo in grado di circondare noi stessi con simulazioni del reale di sorprendente verosimiglianza. Le nostre più fondamentali definizioni di realtà verranno ridefinite nell’atto della percezione; come afferma Jean Baudrillard, “l’astrazione non è più oggi quella della mappa, il doppio, lo specchio o il concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, un essere di riferimento o una sostanza. È la generazione, per mezzo di modelli, di un reale che non origina dalla realtà: un iper-reale. Il territorio non precede più la mappa, né le sopravvive. D’ora innanzi sarà la mappa a precedere il territorio” ». [12] Detto in poche parole: in un futuro che è già cominciato le tecnologie digitali avranno un ruolo attivo sempre maggiore nel costruire non soltanto le nostre rappresentazioni del reale, ma nel disegnarci, nel costruirci la realtà in cui viviamo. Uno scenario simile pone questioni epistemologiche ed etiche di non poco conto. Come già anticipavamo, alla fine è il concetto stesso di vero e di realtà ad essere intaccato: come riconoscere, come dare contenuto a questi due concetti fondamentali per la storia umana? In che modo, a quali condizioni, attraverso quali forme di discernimento, dare credito alle esperienze e alle emozioni che viviamo, nel costruire le nostre identità, nel cercare il senso e i significati delle nostre azioni? A partire da quali grammatiche interpretarle? Un esempio che ci permette di comprendere la posta in gioco di questa trasformazione in atto ci è fornito dalle modificazioni che un concetto come quello di morte sta conoscendo presso le generazioni più giovani: le nuove generazioni faticano oggi a comprendere la realtà della morte, a fronte di una cultura digitale che struttura invece il dramma dell’esistenza a partire dalla dialettica presenza / assenza tipici del mondo mediatico. È proprio questa coppia a sostituire, nel loro modo di ragionare, la coppia vita / morte: l’apparire, l’esistere dentro questa cultura appunto, sostituisce con le sue simboliche tutto un modo di pensare la vita e la morte, il presente e il futuro, il visibile e la trascendenza, il limite e l’esperienza religiosa. Avviando in questo modo processi di trasformazione delle gerarchie di valori, degli obiettivi della vita; ma soprattutto innescando una trasformazione di tutto l’orizzonte simbolico (il vero, il bene, il bello, il giusto, l’amore, l’alterità, … ) a partire dal quale comprendo la verità della mia storia, ne strutturo il senso e decido il futuro della mia vita. Mostrando così come sia in atto una trasformazione senza precedenti di tutte le categorie del giudizio umano e del discernimento.[13]
2. La descrizione: i “barbari” del duemila
Il primo punto della riflessione ci ha permesso, anche se soltanto attraverso qualche accenno, di intuire la portata dei cambiamenti che l’avvento della nuova cultura digitale sta generando nella nostra società. L’era digitale che stiamo esaminando si presenta davvero come un nuovo mondo da abitare, che chiede di essere riorganizzato dagli uomini, perché possano continuare a vivere, comunicare e trasmettere le loro esperienze, i loro valori, la loro saggezza. Prima di lasciare che, smarriti e un po’ persi di fronte all’entità dei mutamenti in atto, siano le emozioni a decidere il nostro atteggiamento nei confronti di una simile cultura, dobbiamo sforzarci di leggerla per quello che è: uno spazio antropologico di costruzione delle identità umane. Come sono queste identità? Precisando meglio la domanda a partire dalla riflessione che stiamo sviluppando: come sono i giovani che sanno abitare in modo snello questa cultura? Il concetto di “barbari” che assumo da un testo di A. Baricco[14] serve per collocarci in modo corretto nella riflessione che svilupperemo in questo secondo momento: va utilizzato non in modo proiettivo, gettato come un giudizio sui destinatari della nostra osservazione; ma come un filtro da assumere da parte nostra, di noi osservatori. È davvero qualcosa di nuovo quello in cui stiamo entrando, così nuovo da lasciarci spesso senza parole per descriverlo. Tentiamo allora questa descrizione, tentiamo la costruzione di un ritratto dei giovani che abitano la cultura digitale attraverso quattro aggettivi: questi giovani ci appaiono come nomadi, incredibilmente complessi e costruiti, orizzontali ovvero spesso chiusi nelle loro reti di relazione, tragici perché fragili.
a. Nomadi
I giovani di oggi sono nomadi, come d’altronde ogni uomo, ma in modo nuovo. Secondo la logica del multitasking (la capacità di un calcolatore di eseguire più processi operativi nel medesimo tempo) colorano il loro nomadismo con questa abilissima capacità assunta proprio dal mondo informatico: abitano più spazi sociali nel medesimo istante. E saltano dall’uno all’altro di questi spazi ad una velocità sorprendente, nella ricerca frenetica e qualche volta disperata di perdere il meno possibile delle esperienze a loro disposizione. Li si vede così contemporaneamente capaci di chattare, rispondere al cellulare o mandare un sms, seguire un programma radiofonico o televisivo … e tutto ciò mentre sono convinti di occupare il loro tempo nello studio. Un simile modo nomadico di vivere le esperienze rende però la loro storia mai lineare e piana; il loro tempo è un susseguirsi di picchi emotivi, di esperienze forti che li segnano, ma che faticano ad essere collegate tra di loro, che difficilmente trovano il tempo e le energie giuste per essere rielaborate; e che quindi ancor più difficilmente vengono connesse e unificate in una trama che dica il senso della loro storia. In questo senso, questi nuovi nomadi sono prigionieri del loro presente, un presente che assume il carattere della perennità, insieme a quello della provvisorietà e della forte mutevolezza. Un attimo decide la loro vita: non c’è memoria che tenga, o futuro che motivi la resistenza. Per aiutarci a comprendere il fenomeno in atto, e concentrando il nostro sguardo su di un contesto che ci è maggiormente famigliare, una ricerca recente mostra come questo nomadismo segni un modo forte la vita anche di coloro che accettano di misurarsi con la possibilità di una chiamata vocazionale.[15] I giovani presi in esame si sono raccontati come persone alla ricerca di più luoghi in cui vivere in contemporanea la propria esperienza ecclesiale, persone che vivono la fatica di decidersi per una sola esperienza, che esaltano in modo persino esasperato l’emozione momentanea, che faticano a motivare la durata di un cammino. Sono giovani quindi che della Chiesa vivono senza fatica la dimensione della cattolicità, che sanno declinare assieme forme anche opposte di dare visibilità alla fede oggi; che riescono a mantenere uno spettro così ampio di itineranza ecclesiale per nascondersi le fatiche a decidersi per una sola di queste esperienze, che motivi la loro vita. E che, proprio per questo motivo, di fronte ad una scelta compiuta sono sempre pronti a tenere opzioni di riserva da accarezzare nei momenti di dubbio e di incertezza.
b. Costruiti
Abituati a poter gestire a proprio piacimento i tratti fondamentali della loro identità, pronti a saltare da uno spazio sociale all’altro, i giovani imparano che il codice narrativo da assumere in questa cultura è quello scenico. Si diventa attori anche senza sceglierlo; e la vita prende senso e forma soltanto quando viene percepita come un copione in cui ognuno ha il suo ruolo, a partire dagli spettatori, e di cui ogni singolo individuo, per il proprio punto di vista, è il protagonista. Il narcisismo diventa il tratto che descrive l’identità di chi respira questa cultura; un narcisismo tuttavia strano, non scelto ma quasi obbligato, il cui fine è farmi percepire l’identità individuale attraverso le emozioni che la rappresentazione delle mie azioni è in grado di creare. È l’ambiente sociale in cui viviamo a spingerci verso un simile modo d’intendere la nostra identità, facendo respirare a tutti un clima culturale il cui principio fondamentale è la realizzazione del proprio io, in cui la percezione emotiva delle proprie azioni è il primo criterio di valutazione; un clima in cui, essendo tutti così concentrati nella comprensione degli echi che il mondo esterno esercita sul nostro io (siamo nella società della gratificazione istantanea, ci ricordano i sociologi!), i diritti vengono prima delle responsabilità e la libertà individuale prima di qualsiasi vincolo fraterno.[16] Nato nel virtuale, il giovane di oggi sa padroneggiare in modo molto agile e disinvolto le tante dimensioni della sua identità relazionale. Le dinamiche di simbiosi e allo stesso tempo di separazione costruite con i tanti avatar da cui si è fatto e si fa rappresentare negli spazi mediatici che abita (da piccolo nei videogiochi, da giovane nei social network)[17] gli hanno permesso di apprendere per via esperienziale tecniche di sdoppiamento e di moltiplicazione del proprio io, tecniche di lettura e di decostruzione dei propri stati d’animo, di ricostruzione artificiale di stati emotivi capaci di procurare sensazioni e di incidere in modo significativo sulla sua identità. Una conoscenza esperienziale che viene prima di qualsiasi grammatica, e che porta come conseguenza due difficoltà: la convinzione che non esista situazione o relazione dentro la quale un individuo possa svelarsi per quello che è e giocarsi in modo totale; e, in secondo luogo, la dipendenza da un simile modo costruito di presentare la propria identità. Per i giovani d’oggi è veramente difficile (nei casi patologici addirittura impossibile) riuscire a mostrarsi per quello che sono, raccontare in modo lineare quello che stanno provando o ciò che intendono vivere; la conoscenza del loro io non riesce più ad essere autonoma, ma ha bisogno di continue mediazioni, di contesti scenici in cui si possono costruire giochi di ruolo che (proprio come in un gioco di specchi) quasi li obbligano a svelare parti del loro sé, portandole ad un livello riflesso ed elaborabile linguisticamente. Nello strutturare le proprie identità i giovani dipendono dai contesti sociali che abitano molto più di quanto loro stessi immaginino; alla fine spesso sono i contesti sociali ad indirizzare le elaborazioni delle identità, influendo in modo forte e determinante sui processi di costruzione dell’io. Tornando ad avvicinarci ad un mondo che conosciamo meglio, non è sicuramente un caso che in questa ricerca di luoghi in grado di decifrare la propria identità individuale il sacro e la liturgia assumano un ruolo e una funzione primaria. Scenici e rituali per definizione, questi contesti riescono a costruire in modo esemplare l’orizzonte teatrale che serve per svelare le singole identità; e danno anche le energie per svolgere un simile compito. Energie ovviamente legate alla sfera dell’emozione: l’ingresso in simili agoni avviene primariamente per via più affettiva che intellettuale; vincono i partigiani sugli interpreti e i liberi pensatori; la regola è l’irrigidimento, l’identificazione tragica con una posizione e con un contesto capaci di dire l’emozione della vita. Da qui le declinazioni e la conseguente costruzione di ruoli e personaggi tipizzati: si va da forme narcisistiche che fanno il verso alla cultura dominante (sostanzialmente la assumono pur criticandone alcuni aspetti), per arrivare a forme che scelgono la loro espressione per via contrappositiva (figure sacrali che inscenano in modo artificiale l’antico).[18]
c. Orizzontali. Mondi virtuali senza padri e tradizioni
Se la regola è il movimento e il continuo cambiamento (di spazi, di tempi, di relazioni), il rimedio ad una solitudine insopportabile perché priva degli elementi che mi permettono di percepirmi come identità (un attore senza spettatori? Impensabile!) è la dinamica fusionale che il mondo digitale permette. Io sono amico di coloro che condividono le mie emozioni, i miei interessi, i gusti e le battaglie del momento. Nascono così i gruppi, le forme di ritrovo e le nuove parentele grazie a facebook, a twitter, ai fedeli dei blog e delle chat. Non importa l’esclusività e la durata di queste forme sociali di relazione; queste nuove forme di soggettività collettiva, sempre a bassa intensità e a tempo determinato, si reggono su due elementi chiave che il linguaggio recente della sociologia ha descritto attraverso due concetti esplicativi: orizzontalità e identicità.[19] Queste nuove forme di relazione anzitutto sono orizzontali perché costituite di pari, ovvero perché composte di membri che non strutturano (non riconoscono) tra di loro dinamiche di gerarchizzazione. Non c’è tradizione, non ci sono padri che hanno il compito di consegnarmi un passato in grado di sostenere la mia identità presente; non ci sono padri non soltanto perché questi nuovi spazi virtuali non permettono il riconoscimento di simili figure: non ci sono padri perché spesso anche gli adulti, nel gioco della rete, si comportano come dei pari, regrediscono di fronte a qualsiasi richiesta di assunzione di responsabilità. E proprio perché composte di pari, queste comunità si reggono sul principio della identicità: funzionano finché io mi posso specchiare totalmente negli altri, ritenuti non soltanto simili ma perfettamente identici a me. La dinamica fusionale non lascia spazi ad alcuna differenza, seppur minima: minerebbe infatti la graniticità e l’integrità del legame sociale che unisce tutti gli appartenenti ad un simile corpo sociale. Un simile fenomeno è visibile anche nel modo di vivere il legame religioso ed ecclesiale da parte dei giovani di oggi, cristiani compresi: stando ai risultati di alcune recenti inchieste sulla popolazione seminaristica italiana (sono giovani del loro tempo anche loro!), per i giovani che abitano i nostri seminari è più facile esprimere sintonia e vicinanza verso il Papa che verso i cristiani con cui si vive il proprio quotidiano (per i seminaristi e i preti: il proprio vescovo e il presbiterio): questo è il contenuto primario dato al concetto di appartenenza ecclesiale, nell’era digitale. Si preferiscono anche nel mondo della fede le amicizie tra pari, elettive, a quelle che una volta il territorio (unico spazio abitabile) mi avrebbe consentito; è persino possibile scegliere artificialmente a quali esperienze legarsi come al proprio passato fondatore, creando in questo modo un proprio personale luogo su cui fondare la memoria che custodisce la mia identità: nascono così nel mondo digitale nuove tribù, e nel sottoinsieme ecclesiale nuove tradizioni, nuove forme di associazione per costruire una memoria condivisa.[20] In un simile scenario diventano comprensibili alcuni cambiamenti anche radicali di comportamento e di attitudine dei giovani: dominati dalla dinamica fusionale, cambiando gruppo di identificazione mutano di identità, e ciò che prima era una certezza ora non lo è più. (Più di una crisi vocazionale, di seminaristi come di preti di recente ordinazione, diventa più comprensibile in un quadro simile).
d. Tragici perché fragili
L’impressione di onnipotenza e di energia che la descrizione ci va comunicando non deve trarci in inganno. Le strategie che abbiamo descritto sino ad ora spesso sono assunte dai giovani per via di necessità, per costrizione culturale. Che serve loro per coprire il senso di insicurezza e di solitudine che provano di fronte alle grandi prove della vita, privati come sono non soltanto di una grammatica condivisa che permetta loro di capire il carattere familiare e positivo di questi passi: privati dello stesso contesto familiare, vista l’assenza di figure di padri che li accompagnino e li educhino in un cammino di crescita dentro questi nuovi spazi sociali ed antropologici. Privati così dei contesti più quotidiani in cui costruire il linguaggio e gli strumenti per individuare l’itinerario e le tappe del proprio cammino verso l’età adulta, i giovani vivono schiacciati dentro un eterno presente che li esorcizza da un futuro che dimostra di non volerli anche in questo mondo (esperienza d’altronde già vissuta nel mondo lavorativo e in quello del welfare) e che di conseguenza li costringe in forme di dimora sempre provvisoria. È questa situazione di solitudine e di insicurezza il principale serbatoio dei comportamenti irrigiditi, della dose di aggressività e di violenza che si respira in modo diffuso nella cultura digitale; così come sta proprio nella precarietà dell’io che si riesce a disegnare la preferenza per scelte tragiche assunte come scorciatoie alle fatiche di un quotidiano avaro di gratificazioni che permettano di reggere il peso e le esigenze di ogni cammino di maturazione. Da qui anche l’incapacità, che si maschera dietro il disinteresse, a ricercare e comprendere i meccanismi che dominano un simile spazio sociale e la cultura che esprime: gli abitanti del mondo digitale sono spesso fatalisti, poco interessati a conoscere i meccanismi che regolano e decidono il mondo virtuale che abitano, poco motivati a scavare e comprendere ad un livello epistemologico le ragioni che governano un simile spazio, convinti di trovarsi di fronte a nuove figure magiche, le forme dell’incanto mediatico. Penso sia evidente a tutti come un simile tratto di fragilità tragica segni in modo più o meno marcate i volti e le figure anche di quei giovani cristiani che conosciamo: le molte declinazioni della titubanza (la fatica a fidarsi, la chiusura in comportamenti ritenuti inattaccabili, l’assunzione di posizioni apologetiche che ribaltano i ruoli educativi), le fatiche della costanza e della profondità nella costruzione della propria identità personale (la fatica a vivere cammini formativi che implichino come elemento la durata, la fatica a non retrocedere rispetto a passi e tappe educative acquisite) sono elementi di diagnosi che accomunano molti degli scambi e dei confronti vissuti tra educatori, e perfino tra educatori dei seminari.
3. La sfida: da cristiani nell’era digitale
Abitare da cristiani l’era digitale è possibile. Proprio perché il mondo digitale che stiamo descrivendo è un nuovo spazio antropologico e non una degenerazione dello spazio precedente, ciò che è richiesto è il senso pioneristico di chi accetta di misurarsi con le sfide che la storia ci mette di fronte ad ogni sua svolta epocale. Esperienze cristiane legate al mondo digitale e alla cultura che sta creando ci sono, soprattutto se osservate non soltanto a livello della nostra Chiesa italiana. Ad esempio, eventi come le Giornate Mondiali della Gioventù, luoghi ed istituzioni comeTaizé[21] ci permettono di dire che la cultura mediatica e digitale può essere utilizzata come una terra di evangelizzazione: occorre assumerne i linguaggi, comprenderne il funzionamento, decostruirli alla luce del Vangelo (alla luce del nucleo fondamentale dell’esperienza cristiana), e lasciare che la vita di fede generi una sintesi nuova, un nuovo linguaggio, secondo la dinamica che GS 44 ci ha insegnato.[22] Esistono anche prime letture e studi di approfondimento che cercano, alla luce della prospettiva appena indicata, di costruire una interpretazione e una valutazione di questi approcci cristiani alla cultura digitale, mettendo in luce le sfide e le potenzialità di simili esperienze. Questo incontro con la cultura digitale stimola infatti la fede cristiana a ridire in modo nuovo e a mettere in luce attraverso linguaggi inediti le strutture fondamentali della propria esperienza, dando origine ad una sorta di riscrittura delle pratiche fondamentali e delle figure della vita ecclesiale.[23] Grazie a questa letteratura, da questo primo approccio riflesso è possibile individuare i nodi, i punti attorno i quali questo lavoro di decostruzione e ricostruzione allo stesso tempo del vissuto cristiano come pure della cultura digitale si fa più intenso, diventa una vera e propria sfida che decide le figure che l’esperienza cristiana va assumendo nel mondo digitale. Come vengono individuati questi punti, questi nodi? Ascoltando i punti di tensione che l’identità umana si trova a vivere dentro questa esperienza digitale; e verificando come l’esperienza cristiana possa fornire strumenti e regole per una declinazione diversa, una impostazione rinnovata e anche più ricca antropologicamente di questi luoghi. Questi luoghi – nodi sono: la necessità e il valore di elaborare anche dentro il mondo digitale una lettura della vicenda umana che parta dalla categoria di storia, ovvero dalla possibilità di immaginare la nostra esperienza come un cammino e un itinerario di senso; la possibilità che le dinamiche simboliche attivate dalla cultura mediatica e digitale si aprano ad un incontro con il reale, e di conseguenza ad una possibile esperienza della trascendenza, ad un’esperienza spirituale; infine l’imprescindibilità per le nostre esperienze di vita della dimensione politica, ovvero dell’incontro con l’altro, dell’assunzione di un atteggiamento di riconoscimento e di responsabilità verso ciò che sta intorno e di fronte a me, nel processo di costruzione della mia identità e della mia storia individuale.
a. La storia
Partiamo affrontando il primo nodo, ovvero la necessità di una interpretazione storica del divenire dell’uomo e del mondo. Come abbiamo mostrato più sopra, la cultura digitale fa dell’ambiguità e del provvisorio le regole fondamentali del suo istituirsi. Quando l’identità individuale è una semplice possibilità e la logica delle azioni un’opzione, la coerenza dei gesti, la possibilità di un vissuto unificato e quindi unico, fatto di una storia (passato, presente, futuro), diviene un peso difficilmente giustificabile. La cultura mediatica, con i suoi format, ci insegna che la storia non è essenziale ai fini della costruzione del nostro io; è invece più urgente l’identificazione un po’ fatalista con un personaggio, un ruolo, che ci permetta di collocarci dentro il contesto scenico del mondo digitale; un ruolo che per essere chiaro e comprensibile non deve mutare nel tempo.[24] Un simile modo di strutturare la propria identità va però stretto allo stesso individuo che, dopo aver sperimentato l’ebbrezza di una libertà senza limiti fisici e sociali, si sente frustrato dall’impossibilità di istituirsi nell’unicità e nella specificità del proprio essere personale. Se non c’è storia, se non c’è più bisogno di una storia perché lo spazio antropologico è il risultato di intrecci fabulistici, alla fine non esiste più nemmeno lo spazio per dirmi, l’interesse di dirmi e di essere riconosciuto come soggetto dagli altri. Senza storia manca la grammatica, lo spazio logico per l’istituzione dei singoli individui come soggetti, ovvero come persone non soltanto agite in senso passivo dalle proprie emozioni, ma agenti in senso attivo, capaci di strutturare in modo responsabile il proprio vissuto (introducendo tra l’emozione e l’azione il momento della riflessione); capaci di vivere non secondo il ritmo temporale artificiale della ciclicità ma impostati a partire da principio reale dell’unicità dell’atto e della tensione verso il fine. L’esperienza cristiana si inserisce in un simile punto di tensione con la propria memoria e i propri strumenti, istituendo un punto di rottura. Proprio l’esperienza di fede vissuta, così come il popolo ebraico prima e la Chiesa poi ce la raccontano, ci permette di intuire come l’evento di Gesù sia il principio, sia il punto centrale di una storia che ci consente di istituirci come soggetti, individui che fanno delle loro azioni e delle loro emozioni lo spazio in cui dare corpo e visibilità ad un reale che depassa il mondo digitale dentro il quale è raccontato e trasmesso; un reale che fissa punti di ancoraggio certi alle singole individualità, in questo modo non più prigioniere di un mondo senza certezze e alla fine (proprio perché senza storia) senza identità.
b. Una spiritualità incarnata
Questa capacità di rimandare il mondo digitale al mondo reale permette all’esperienza cristiana di assumere e sviluppare in modo nuovo un secondo nodo, un secondo luogo topico della cultura virtuale. Il funzionamento spettacolare tipico di tutto l’universo digitale comporta infatti una deformazione inizialmente poco avvertita del processo metaforico che sta alla base della strutturazione simbolica del reale, come abbiamo avuto modo di spiegare all’inizio di questa riflessione. C’è il rischio, acutamente denunciato da parecchi studiosi di antropologia (rimando come esempio alle riflessioni di J. Baudrillard), che alla fine il mondo digitale uccida la capacità di rimando al trascendente, ad un reale che ci supera e ci spiega, i simboli attraverso i quali esprimiamo le nostre storie, custodiamo i nostri valori e le nostre istituzioni, costruiamo il nostro futuro individuale e comunitario. Il risultato è un mondo appiattito sull’immediatezza e sull’identità, incapace di trascendenza e di alterità. Il punto di riferimento di tutto lo sviluppo comunicativo, il punto di riferimento delle dinamiche simboliche accese nello spazio digitale non è più un’alterità trascendente, ma la mia identità: il mondo virtuale è una promanazione del mio io; un mondo che alla fine non mi spiega, non mi apre ad una percezione dell’universo e della storia che non sia egocentrica.[25] Tutto diventa funzionale a questo asserto. Il mondo digitale rischia quindi di strutturarsi come uno spazio simbolico autoreferenziale, chiuso all’alterità. Uno spazio alla fine alienante: mi attira nel suo contesto fino a farsi percepire come l’unico spazio di realtà, pur non essendo in grado di soddisfare la mia ricerca di verità, la mia sete di comprensione e di collocazione dentro un universo che vada oltre le mie percezioni e i miei pensieri. Non stupisce se in un simile contesto la figura religiosa assuma i contorni e la forma delle sapienze orientali, di filosofie senza grandi contenuti logici e povere di esperienze etiche ma capaci di dimensioni fusionali di esperienza emozionale con l’armonia del cosmo, unica figura e forma della divinità possibile in un simile contesto. Vivere da cristiani un simile spazio significa invece abitarlo per aprirlo all’alterità, alla trascendenza. Strutturare forme di abitazione e pratiche di attraversamento di questi spazi che attingano regole e strumenti dalla grammatica sacramentale tipica dell’esperienza cristiana,[26]capace di aprire il mondo digitale a forme di ristrutturazione logica e simbolica in grado di rimandare la mia identità ad una giusta esperienza del reale, e soprattutto di orientarla verso untelos, un fine escatologico che funga da obiettivo riorganizzatore di tutti i codici simbolici e metaforici attivati. Vivere il cristianesimo in un simile mondo digitale significa trasporvi i codici allo stesso tempo secolarizzatori e spirituali tipici del discorso della montagna; significa alla fine rendere questo mondo capace di supportate in modo pieno la domanda di identità, di riconoscimento e di esperienza di chi lo abita. In una parola, abitare da cristiani lo spazio digitale significa introdurvi i codici dell’esperienza dell’essere generati, assumendo la relazione di figli che Dio ha acceso con noi come motore e fonte del funzionamento di tutto l’universo simbolico che rende vivo quello spazio. Rispondendo in questo modo alla domanda di padri che un simile spazio non riesce a gestire, e che invece risulta fondamentale per la costruzione non soltanto della propria identità ma più profondamente di una esperienza vera del mondo e della vita.
c. Una politica della fraternità
Questa dimensione di filiazione ci permette di illustrare l’ultimo nodo, quello della sfida politica. Senza storia, centrato sull’individuo, il mondo digitale è apolitico per definizione. Non c’è bisogno dell’altro, se non nel ruolo di comparsa a sostegno delle mie emozioni, o attraverso forme di sublimazione digitale della sua presenza e delle sue azioni, dentro una trama che mi vede e mi riconosce protagonista. Nel mondo digitale problemi come la giustizia sociale, la lotta alla povertà, il riconoscimento dei diritti dei poveri, la sopravvivenza del creato e l’ecologia sono argomenti senza vocaboli e senza attori per sostenerli; soprattutto senza energie e motivazioni. Diventa chiaro il compito e il modo con cui l’esperienza cristiana è chiamata a farsi carico di un simile punto di tensione: alla fine il mondo digitale rende la mia identità priva di un corpo e soprattutto incapace di azioni logiche e sensate, incapace di trascrivere dentro la storia il senso della mia vita e l’unicità della mia esperienza. Responsabilizzare le mie emozioni, permettere che categorie come quelle della carità trasformino la percezione dell’altro e della sua presenza nella mia vita, sono davvero imperativi impellenti non soltanto per il cristianesimo ma per lo stesso spazio digitale, se non si vuole che in breve tempo la sua dimensione sociale si dissolva in una esplosione di tanti mondi isolati, dentro i quali ognuno celebra il culto del proprio io, vive una religione della gratificazione istantanea piuttosto che una fede e una ragione che ci danno strumenti non solo per abitare la storia, ma anche per riorientarla.
[1] Come spiega A. SPADARO, «“Second Life”: il desiderio di una “altra vita”», La
Civiltà Cattolica 158 (2007) pagg. 266-278. [2] C. GIACCARDI – M. MAGATTI, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; F. CRESPI,Identità e riconoscimento nella società contemporanea, Laterza, Roma- Bari 2004; M. MAGATTI, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno- nichlista, Feltrinelli, Milano 2009. [3] C. BUZZI – A. CAVALLI – A. DE LILLO (edd.), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2007; E. BESOZZI(ed.), Tra sogni e realtà. Gli adolescenti e la transizione alla vita adulta, Carocci, Roma 2009. [4] Come spiega T. MALDONADO, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano 1992; ID., Critica alla ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997; ID., Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, Feltrinelli, Milano 2005. [5] Lo spiega bene J. MEYROWITZ, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993. [6] Non è un caso che la rete abbia conosciuto la sua prima grande espansione in connessione al mondo della pornografia: la prima dimensione fissa a saltare nel mondo digitale è proprio l’identità di genere, con tutto il seguito di regole morali che questa identità si trascina. [7] Si vedano al riguardo le lucide intuizioni (pubblicate per la prima volta nell’ormai lontano 1976!) di R. SENNETT, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006. [8] Come spiega H. RHEINGOLD, La realtà virtuale. I mondi artificiali generati dal computer e il loro potere di trasformare la società, Bologna 1993. [9] H. RHEINGOLD, La realtà virtuale, pag. 521. [10] T. METZINGER, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2010. [11] T. METZINGER, Il tunnel dell’io, pp 268, 269, 270 [12] H. RHEINGOLD, La realtà virtuale, pag. 522. [13] J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979; ID., Parole chiave, Armando, Roma, 2008. [14] A. BARICCO, I Barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano 2004. [15] F. GARELLI (ED.), Chiamati a scegliere. I giovani italiani di fronte alla vocazione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006 [16] Rimando alla descrizione molto lucida e precisa (soprattutto da un punto di vista psicologico) di questo clima narcisistico della cultura attuale fatta da A. VERGOTE, « Tu aimeras le Seigneur ton Dieu … ». L’identité chrétienne, Cerf, Paris 1997, pagg. 30-31. [17] Cos’è un “avatar”? L’avatar è una immagine scelta per rappresentare la propria identità dentro il mondo virtuale (chat, forum, giochi elettronici). Il termine appartiene alla lingua sanscrita e deriva dalla tradizione induista. In quel contesto ha il significato di incarnazione, di assunzione di un corpo fisico da parte di un dio (avatar = colui che discende). In modo metaforico, nel mondo virtuale avatar è l’alter ego, la rappresentazione in quel mondo della mia identità reale (l’incarnazione della mia identità nel virtuale). [18] Interessante si rivela al riguardo l’analisi di un nuovo segmento della letteratura religiosa in forte espansione: le autobiografie, i racconti di vita, i libri interviste che hanno come obiettivo la descrizione dell’identità presbiterale odierna. La maggior parte di questi testi raccontano l’esperienza singola come unica, irriducibile e non interpretabile a partire da canovacci istituzionali. Il racconto del singolo presbitero (e di conseguenza la sua storia e la sua identità) vale nella misura in cui l’esperienza descritta è in realtà una libera rideclinazione della figura ministeriale, a fronte di un ruolo percepito come non più capace di sostenere l’identità individuale (non posso essere un prete uguale ad altri, pena la perdita di rilevanza della mia identità individuale). [19] Si vedano Z. BAUMAN, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001; L.M. FRIEDMAN, La società orizzontale, il Mulino, Bologna 2002. [20] La rete è piena di siti che svolgono questa funzione: come esempio è sufficiente visitare i numerosi siti dedicati al rito liturgico (in particolare al rito ante Vaticano II), oppure quelli dedicati ai fans di persone pubbliche e carismatiche del cattolicesimo contemporaneo (il Papa, ma non solo). [21] Consiglio di visitare il sito web della comunità per comprendere di persona quanto qui affermato. [22] GS 44 recita così: « [la Chiesa] fin dagli inizi della sua storia imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il Vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. […] È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta ». [23] Si vedano ad esempio: « Seelsorge und Internet », Diakonia 31 (2000) 381-422; « L’Eglise au nouvel âge des médias », Lumière & Vie 268 (2005); I. JONVEAUX, « Une retraite de carême sur Internet », Archives des Sciences Sociales des Religions 139 (2007) 157-175; T. NEULINGER, « Beten-Lernen per Internet », Geist und Leben 82 (2009) 241-245. [24] Spiega tutto ciò con chiarezza U. LORENZI, « Televisione e processi culturali. Il format Amicidi Canale 5 », La Scuola Cattolica 137 (2009) 65-95. Si veda anche C. GIACCARDI, « Dal paese catodico a egolandia. Una riflessione su media e crisi culturale », La Rivista del Clero italiano90 (2009) 583-595. [25] Un esempio illuminante è il successo dei soggiorni presso monasteri e comunità di preghiera da parte dei giovani di oggi: in queste esperienze i monasteri sono descritti da questi giovani in modo nuovo, da luoghi di estraneazione e di apertura escatologica alla trascendenza a luoghi terapeutici di cura e di conferma del proprio io, nella logica della realizzazione di sé. Ci vado non perché permetto alla relazione con Dio di ristrutturare la mia vita, ma perché quel tipo particolare di esperienza mi permette di ritornare al mio quotidiano sereno e appagato. [26] Le riflessioni di W. Fürst contenute nel numero di Diakonia citato, come del resto tutto il numero, aprono domande e riflessioni interessanti.