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Kierkegaard, sulla fede in Cristo lʼombra di Lutero – di Piero Vassallo | Riscossa Cristiana 18/11/16 13'46

Kierkegaard, sulla fede in Cristo l’ombra di Lutero – di Piero


Vassallo
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Redazione 28/4/2015

“Kierkegaard è uno di quegli scrittori che stimolano alla meditazione, aprono l’anima a problemi abissali, ma poi
non danno alcun aiuto nel ripensamento che il lettore ne fa, come se dicessero: lasciamo l’anima con se stessa,
perché la disperazione della solitudine la elevi alle vertigini dell’infinito” (Michele Federico Sciacca)

di Piero Vassallo

Cornelio Fabro, che fu traduttore, commentatore e per alcuni aspetti interprete e


ammiratore della filosofia di Soeren Kierkegaard (1813-1855) dichiarò: “io non sono
kierkegaardiano e sento di dover fare molte sostanziali riserve alle sue posizioni così in
filosofia come in teologia. … in filosofia gli è mancato il sostegno di una ben definita
dottrina dell’essere, così alla sua Teologia della Fede manca il sostegno vitale della
Chiesa” [1].

Prese le dovute distanze, Fabro confessa tuttavia: “devo dire però che l’apprezzamento
che ora s’impone sull’importanza storica e sul significato del suo pensiero come anche
della sua vita si sono in me profondamente cambiati da alcuni anni a questa parte, da
quando cioè presi un contatto diretto con la sua anima e col suo pensiero”.

L’importanza del pensiero di Kierkegaard nella scena della crisi europea in atto, è ora
confermata dalla pubblicazione di un magistrale saggio critico di Pier Paolo Ottonello, Il nichilismo europeo,
volume secondo, Lutero e Kierkegaard, edito in questi giorni in Venezia da Marsilio.

L’interesse di Ottonello per il filosofo danese ha origine dalla puntuale diagnosi di un vizio strutturale del mondo
moderno, la pretesa (hegeliana) di conciliare (confondere) Dio e mondo, una chimera “che si evolverà storicamente
nella sempre più radicale sostituzione di Dio e della chiesa con un mondanismo ateo-statalista, come avverte nel
modo più tempestivo e intempestivo Kierkegaard la cui incondizionata accettazione del principio luterano
dell’interiorità assoluta – in lui impennata drammatica del soggettivismo assoluto contemporaneo – gli spalanca gli
occhi anziché socchiuderglieli, ai rovesciamenti in un assoluto mondanismo politicante di cui riconosce primo
responsabile Lutero stesso”.

Ottonello attribuisce a Lutero la responsabilità dello sviluppo catastrofico del nominalismo occamistico ossia la
colpa di aver dissolto “il principio della costituzione metafisica del finito e dunque il principio della creazione come
posizione della positività degli enti, onde non gli resta se non la pesantezza schiacciante della negatività metafisica
degli enti stessi“.

Lutero ha elevato il suo edificio teologico sopra un bizzarro fondamento: tutto ciò che non è Dio è antidio. Fedele

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alla dottrina occamista, l’eresiarca aveva ripudiato la teoria dell’analogia entis e s’era risolto ad inventare il bizzarro
concetto di contraria species.

Posto che l’essere di Dio non è analogo all’essere delle creature, è necessario affermare un’antitesi radicale: Dio
è avversione all’essere creato, Dio è totalmente altro da essere.

La conseguenza di un tale pensiero, come osserva acutamente Ennio Innocenti, è devastante: “Se l’Ineffabile
Nulla infinito si esprime, si esprime nel suo contrario. Siamo in piena gnosi” [2].

Ora il luogo in cui la suggestione neognostica si rovescia nell’incolore supponenza è la borghesia post-hegeliana,
il mondo in via di dissoluzione, nel quale Kierkegaard nasce: “l’arco della sua esistenza, sostiene Ottonello, “è
segnato dalle tensioni di liberazione dai condizionamenti familiari, malgrado le quali, e, infine, mediante le quali
Kierkegaard porterà su di sé, con levità dialettica più o meno elegantemente attenta a drammatiche cadute, il
retaggio dei propri limiti esistenziali”.

Il tentativo di uscire dalla gabbia del fatuo mondanismo, “che riduce l’uomo singolo ad una astrazione
evanescente”, incubo che imprigiona la borghesia festaiola, è peraltro dichiarato apertamente in una sdegnosa
pagina del Diario, uno scritto coinvolgente, nel quale tuttavia si intravede l’annuncio del naufragio della protesta
kierkegaardiana nelle acque della non-filosofia: “La disgrazia sta nella borghesia. … La classe agiata e colta, se
non proprio i grandi signori, in ogni modo l’alta borghesia: ecco il bersaglio da prendere di mira. E’ là che il prezzo
deve essere alzato, nei salotti. … Il popolo rappresenta sempre quella sanità da cui può nascere qualcosa di
buono. .. Per predicare la parola di Dio occorrono alcuni uomini, essi sono il medio a traverso il quale la parola di
Dio suona al popolo: questo medio è il Clero. Ora è facile vedere che se questo medio fosse completamente
esente da egoismo la cosa sarebbe perfetta. … Il cattolicesimo vide giustamente che conveniva che il clero
appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato, la povertà, l’ascesi” [3].

L’avversione di Kierkegaard alla borghesia si legge chiaramente in una sferzante pagina del Diario, scritta nel
1854, nella quale è dichiarato il disprezzo dei giornalisti, banditori della cultura al potere nella società liberale:
“Questa gente ha il nome del giorno (giornalisti). A me sembra che si potrebbero chiamare meglio della notte. Per
questo propongo, dal momento che giornalista è anche una parola straniera, di chiamarli notturni, il sindacato dei
notturni. A me non sembra per niente che codesto termine di notturni convenga a quelli cui ora è applicato, agli
addetti alla pulizia dei pozzi neri. Sono veramente i giornalisti i notturni, essi non portano via le immondezze di
notte, ciò che è cosa onesta e una buona azione, essi immettono le immondezze di giorno, o, per essere ancor più
precisi, riversano sugli uomini la notte, le tenebre, la confusione: in breve sono i notturni” [4].

E’ innegabile tuttavia la prossimità della critica kierkegaardiana all’istante estetico, una dipendenza dalla quale
discende l’ombra non filosofica che si stende perfino sulle pagine del Diario.

Il giudizio quantunque severo di Ottonello non è perciò contestabile seriamente: “La dialettica turbata di
Kierkegaard, non dialettica di concetti, è dialettica di sentimenti – fondata sul sentimento dell’impotenza – è una
dialettica della malinconia, perché l’eccezione, il paradosso è sempre irrimediabilmente solitario. La solitudine è il
suo regno di Mida, prigione in cui si muore di ricchezza sterile. Kierkegaard porta la propria esistenza come la
ricchezza sterile propria del mondo contemporaneo, lampeggiante della malinconia del suo essere legata
all’istante, consumazione impotente alla continuità, alla possibilità di fruttificare, di generare, di fare storia”.

L’opera di Kierkegaard, grazie alla lettura puntuale e ultima di Ottonello, svela la sua natura di controcanto e
grido, alto grido di dolore della modernità, ferita dalle proprie insanabili, estetiche contraddizioni.

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Simile all’erede kafkiano, che l’inganno arresta davanti al regno di cui è erede, Kierkegaard è il testimone di una
verità proibita da un custode invincibile, l’integrismo luterano.

[1] Cfr. l’introduzione al Diario, vol I, pag. 81 e pag. 87, Morcelliana, Brescia 1962. Al fine di proporre una
attendibile traduzione delle opere di Kierkegaard, finalizzata a sottrarre il pensiero del danese alla mano morta del
sinistrismo europeo, padre Fabro soggiornò a Copenhagen dove si impadronì della lingua danese.

[2] Cfr. “La gnosi spuria”, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 1993, pag. 150.

[3] Cfr. Diario, op. cit., vol. II, pag. 597.

[4] Cfr. Diario, op. cit., II vol., pag. 553.

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