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Gauguin partì dalle stesse posizioni impressioniste, comuni a tutti i protagonisti delle nuove ricerche
pittoriche di quegli anni; tuttavia le superò per ricercare una pittura più intensa sul piano espressivo.
Fornì, soprattutto per i suoi colori forti ed intensi, stesi a campiture piatte, notevoli suggestioni agli
espressionisti francesi del gruppo dei «Fauves». Ma, soprattutto per l’intensa spiritualità delle sue
immagini, diede un importante contributo a quella pittura «simbolista», che si sviluppò in Francia, in
polemica con il naturalismo letterario di Zola e con il realismo pittorico di Courbet. Ne derivò una
pittura dai toni intimistici che rifiutava la copia dal vero e l’imitazione della visione naturalistica.
Visione dopo il sermone, olio su tela nel 1888, 73 x 92 cm. Edimburgo, National Gallery of Scotland.
Il dipinto è firmato nella zona bassa a sinistra con la
scritta “P. Gauguin 1888”. Questa è considerata
dall’autore un’opera importante in cui era sicuro di
aver aggiunto delle importanti novità. Conferma
questa certezza la lettera che l’artista scrisse a Van
Gogh nel settembre 1888: “Credo di aver raggiunto
nelle figure una grande semplicità rustica e
superstiziosa. Il tutto molto severo. Per me in questo
dipinto il paesaggio e la lotta esistono solo
nell’immaginazione delle persone in preghiera, a
seguito del sermone. Perciò vi è contrasto fra le
persone naturali e la lotta …, non naturale e
sproporzionata”.
È la prima immagine di un nuovo stile, il "sintetismo", strumento di una visione anti-naturalista e
simbolista. In un'immagine unica Gauguin rappresenta la realtà delle donne bretoni in preghiera e il
contenuto della loro visione interiore, rendendo visibile ciò che hanno ascoltato e meditato in chiesa.
In questa tela Gauguin riesce a combinare suggestioni stilistiche diverse: da una parte, l’impostazione
piatta della scena ricorda le composizioni delle vetrate medievali realizzate con la tecnica del
cloisonné; dall’altra, l’uso dei colori accesi con la prevalenza del rosso carminio, la linea sinuosa,
l’assenza della rigidità prospettica, derivano dalle stampe giapponesi ormai divenute popolarissime
nella Parigi del tempo. Il linguaggio pittorico che ne deriva è nuovo, ed è caratterizzato dalla
particolare possibilità espressiva del colore, steso à plat, cioè in ampie campiture, con una pennellata
piatta e confinata in una zona definita. Applicato in modo unitario, il colore è circondato dal nero,
come negli smalti e nelle vetrate medievali, con effetto di intensificazione tonale e di appiattimento
delle superfici. Sono i neri, i bianchi e i rossi a dominare completamente la rappresentazione,
assumendo una grande forza simbolica che collega realtà e immaginazione. Il rosso in particolare
supera i confini della rappresentazione naturalistica, fino a sostituirsi al verde dei prati e all’azzurro
del cielo. Il potere di suggestione del dipinto deriva dalla fusione fra naturale e sovrannaturale.
L'albero, oltre che strumento asimmetrico, istituisce una frontiera fra realtà e apparizione.
Gauguin realizzò la “Visione dopo il sermone” per donarla ad una chiesa; nella stagione estiva del
1888 si recò a Nizon, un villaggio nelle zone limitrofe di Pont-Aven, per offrirlo alla parrocchia. Il
parroco, stizzito, rifiutò il regalo, e l’artista dovette ritornare indietro con grande sconforto.
«Aha oe feii? (Come sei gelosa? » 1892, olio su tela, 66x89 cm, Mosca, Museo Puškin
In questo quadro sono raffigurate due donne. Una accovacciata, l’altra distesa. Della seconda si
intravede solo la testa e la parte superiore del busto. Il soggetto è tratto da un fatto a cui il pittore
aveva assistito e che così descrive nel suo libro «Noa Noa»: sulla spiaggia due sorelle che avevano
appena fatto il bagno, distese in voluttuosi atteggiamenti casuali, parlano di amori di ieri e di progetti
d’amore di domani. Un ricordo le divide: «Come! Sei gelosa?»
Come spesso capita nei dipinti di Gauguin, il titolo dell’opera viene scritto sulla tela, in questo caso
in basso a sinistra. È scritto in tahitiano e il suo esotico suono serve a dare più suggestione al quadro.
Ed è proprio la scritta che non è solo un titolo, ma è anche una frase realmente pronunciata dalle due
donne, a dare il contenuto più specifico al quadro. Se
non fosse per questa frase riportata sul quadro il
contenuto del quadro potrebbe essere scambiato per
una pura sinfonia decorativa. Del resto, l’aspetto
muto e silenzioso delle donne e la loro posa
estremamente plastica e affascinante potevano essere
scambiata per una ricerca solo sulla bellezza formale
dei loro corpi. Invece Gauguin vuole cogliere un
diverso significato: la complicità tutta femminile nel
dialogare del più profondo arcano della vita:
l’amore. E c’è in questo quadro una tale carica di
intensa primitività che sembra riportare il momento
del dialogo ad una ritualità senza tempo.
L’eterno ritorno dei sentimenti e dell’amore e il continuo interrogarsi sul loro significato. Il quadro,
come la precedente produzione di Gauguin, è tutta giocata sulla risoluzione bidimensionale
dell’immagine. Nella sua pittura il problema della rappresentazione tridimensionale è del tutto
assente. Egli accosta forme, senza preoccuparsi della loro plausibile collocazione in uno spazio
virtuale che vada oltre il piano della rappresentazione.
Ciò è ancora più evidente in questo quadro dove la donna distesa, e arditamente vista in uno scorcio
dalla testa in giù, scompare completamente nella metà inferiore. Le due donne formano quasi un
corpo solo, divise solo dalla diversa tonalità dei loro corpi. Sono distese su una spiaggia di sabbia
rosa che nella parte sinistra perde qualsiasi apparenza orizzontale per divenire un piano indefinito.
Nella parte superiore, colori vari vengono stesi in campiture piane senza alcuna preoccupazione
naturalistica o mimetica. Servono solo a rendere più evidente la bidimensionalità dell’immagine e,
nel contempo, ad accentuarne il carattere decorativo.
Gauguin era molto affezionato a questo quadro, tanto che in una lettera ad un amico scriveva: «Ho
fatto ultimamente un nudo a memoria, due donne sulla spiaggia, credo che sia anche la mia cosa
migliore fino ad oggi».
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, 1897, olio su tela, 141x376 cm, Boston, Museum
of Fine Arts
La grande tela, realizzata da Gauguin negli ultimi anni della sua attività, costituisce quasi un
testamento spirituale della sua arte. Concepita come il fregio di un tempio (numerosissimi sono i
richiami alle figure del Partenone) dà l'idea di un affresco, poiché presenta i bordi rovinati. Nei bordi
inserisce il titolo dell'opera (a sinistra)la firma e la data (a destra), altro elemento tipico dell'arte
bizantina. L'opera va letta da destra a sinistra (appunto all'orientale) come un ciclo vitale disposto ad
arco: non a caso, all'estrema destra è raffigurato un neonato, che già dal momento della nascita è
lasciato nell'indifferenza di chi lo circonda. Al centro un giovane (l'unico personaggio maschile) sta
cogliendo un frutto e può essere interpretato in 2 modi: 1.Come richiamo al peccato originale 2.Come
simbolo della gioventù che coglie la parte migliore dell'esistenza. Alle spalle del ragazzo, una figura
con il gomito in alto contribuisce a definire la struttura triangolare della prima metà, al cui vertice
sono messe in risalto le figure rosse sullo sfondo, emblematiche e con l'aria di chi ordisce trame
nell'ombra: esse sono simbolo dei tormenti e delle domande che giacciono nel profondo di ogni
animo, che per altro danno il titolo al quadro.
La stessa struttura si ritrova nella seconda metà del dipinto, speculare rispetto all'uomo centrale. Al
vertice troviamo stavolta la divinità, anch'essa col suo significato simbolico: l'inutilità e la falsità
della bugia religiosa, magra consolazione e senso provvisorio di una vita in realtà vana. All'estrema
sinistra troviamo una vecchia raggomitolata su di sé (identica ad una mummia peruviana vista in
gioventù) in attesa della morte, trasfigurata in un urlo quasi munchiano dinnanzi alla vacuità di senso
dell'esistenza (piuttosto che per la paura della morte, dall'artista abbracciata almeno nelle intenzioni
dopo la conclusione dell'opera). Infine, uno strano uccello bianco con una lucertola tra le gambe,
simbolo della vanità delle parole, chiude la lettura del dipinto.
Lo sfondo rappresenta la vegetazione in maniera sintetica: i rami si trasformano
in arabeschi (decorazione doppia); i colori sono antinaturalistici: infatti, gli alberi sono blu.
Le due figure di giovani accovacciate su entrambi i lati e l'idolo blu della dea Hina sul fondo
compaiono in molte opere dello stesso periodo. Le figure si dispongono liberamente componendo
un’armonia di forme e di richiami cromatici che trovano evidenti richiami nella poesia di Baudelaire
e in particolare in un suo testo del 1859:
“Tutto l’universo visibile è solo un magazzino di immagini e di segni a cui l’immaginazione darà un
posto e un valore relativi; una specie di pascolo che l’immaginazione deve digerire e trasformare”.1
1
C. Baudelaire, Il governo dell’immaginazione, 1859