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INSURREZIONE E

CONTROINSURREZIONE:
L’ALTRA FACCIA
DELLA RIVOLUZIONE
di Mario Rino Me

“Conoscere il nemico [l’altro] e se stessi: cento battaglie senza


correre pericoli [rischi]. Non conoscere l’altro ma conoscere se
stessi: pari probabilità di vincere o di perdere [vittoria o sconfitta].
Non conoscere né il nemico né se stessi: certezza di correre pericoli
in ogni battaglia.”
Sun Tzu, L’arte della guerra, cap. III Strategia Offensiva, par 31-32-33.

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opo la Seconda Guerra Mondiale, i movimenti della fase di deco-

D lonizzazione hanno messo in primo piano un apparente nuovo


genere di operazioni militari. Esse rispondevano alla duplice esi-
genza di contrastare l’instabilità ingenerata dai moti insurrezionali contro
i vecchi dominatori coloniali e di ostacolare il regolare decorso della tran-
sizione al fine di provocare il rovesciamento di governi in carica. In effetti,
anche il contesto strategico del primo scorcio del nuovo millennio mette
in evidenza il fatto che gli interventi multinazionali (sotto l’egida di Orga-
nizzazioni Internazionali, coalizioni “di volenterosi”, sistemi di alleanze
ecc.), per lo più a traino militare occidentale, incontrano difficoltà nel
contrastare un fenomeno antico, l’insurrezione. Come un fiume carsico,
essa infatti riappare qua e là per lo più in paesi caratterizzati da un debole,
se non proprio inesistente, collante di coesione nazionale e da arretratez-
za socio-economico-culturale. In breve, contesti di stato-nazioni più che
nazione-stato. In realtà, come detto, la novità è apparente poiché lo
shock-culturale operativo del “regolare” versus lo “irregolare” era stato già
analizzato ai primi del 900 da C. E. Calwell nel suo trattato sulle “Piccole
Guerre” (Small Wars). L’autore, in uno logica di occupazione coloniale,

Militare USA in operazioni

FORZE ARMATE 9
peraltro coerente con lo spirito del “tempo dei nobili propositi1”, si pro-
poneva la necessità di adattare gli schemi operativi del corpo di spedizio-
ne in modo tale da assorbire i contraccolpi culturali e le sorprese operati-
ve del modus operandi indigeno osservato nelle guerre d’oltremare. Al-
l’epoca queste erano considerate di secondo rango rispetto alle tradizio-
nali guerre inter-statuali e, per questo motivo, il paradigma di Calwell pri-
vilegiava l’adattamento e la flessibilità rispetto alla ricerca della superiori-
tà. Dopo la Guerra Russo-Giapponese del 1905, il clima di competizione
tra le Grandi Potenze e i rischi di conflitti nei Balcani portarono i governi
a mettere da parte la “piccola guerra” e a premunirsi in vista di un con-
fronto tradizionale di scala e portata mondiale.
Tornando al mondo contemporaneo, l’intervento armato si è sovente limi-
tato ad affrontare i sintomi della violenza armata seguendo logiche di “ge-
stione di crisi” e, di conseguenza, con attività di prevalente valenza militare
volte a isolare e prevenire la tendenza naturale all’escalation del conflitto.
Dalla gestione del conflitto, attività di limitato orizzonte temporale, si è poi
passati ai programmi ambiziosi di stabilizzazione e ricostruzione locali ma,
nei complessi sistemi geopolitici in cui si è intervenuti, il contrasto della
conflittualità “irregolare” ha messo in evidenza difficoltà ancora maggiori
del passato. Il che porta a una riflessione strategica sulla validità delle mo-
dalità di intervento e di impiego del modello di strumento militare dispo-
nibile che, come noto, è progettato, realizzato e preparato per dissuadere
potenziali forme di aggressione e, all’occorrenza, combattere in specifici
scenari di minaccia alla sicurezza del paese. In effetti, a fronte degli impie-
ghi più probabili nel quadro delle attività condotte dalla Comunità Inter-
nazionale per la soluzione delle crisi di paesi assistiti, la domanda verte sul-
la coerenza ed efficacia delle capacità2 esprimibili sia per garantire la sicu-
rezza e gli interessi generali (nazionali e della Comunità Internazionale),
sia per operare efficacemente e con confidenza nelle situazioni di conflitti
“asimmetrici”. La risposta alla domanda così formulata è ovvia, e si può sin-
tetizzare in un apparente gioco di parole: in presenza di manifestazioni di
violenza non ci sono soluzioni solo militari ma, nel contempo, non ci sono
soluzioni valide e durature senza aver messo in opera quelle militari.
Vi è poi un altro aspetto che, ancorché di natura giuridico-diplomatica, vi-
ste le ricadute sul sostegno dell’opinione pubblica, si presta a molte osserva-
zioni in materia di legittimità. Si tratta del formato internazionale del con-
testo in cui si inquadra l’intervento, tema di rilievo nelle operazioni fuori
area. Come ha osservato recentemente l’ambasciatore Vittorio Ferraris nel-

1
Si pensi alla mission civilisatrice della Grand Nation e al white man burden britannico.
2
Nel lessico militare , quando si parla di capacità , ci si riferisce a un pacchetto completo che
comprende sia gli aspetti materiali (l’hardware), che personale/addestramento/logistica /
dottrina /organizzazione ecc..

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Attività di controinsurrezione nel mondo

la sua lectio magistralis a margine dell’inaugurazione dell’anno accademico


2013-2014 del Centro Alti Studi per la Difesa, “coalition of the willing non
vuol dire multilaterale”. In effetti, l’aggettivo multilaterale applicato alle
forze, significa “composte da diverse parti (stati, paesi)3”. Ritengo che que-
sta precisazione sia riconducibile al fatto che la “volontà comune” (“common
willing” politica) sia da considerare, in realtà, come quella di una parte che
condivide gli stessi valori e interessi anche materiali, mentre “nell’immagi-
ne onirica onusiana [si ritiene] che sia un’azione di tutti, in funzione ap-
punto di una organizzazione universale globale e in questo senso viene con-
siderata innovativa verso una specie di impossibile governo mondiale o di
comunità globale. Il che è irrealistico. Ma se un’azione è compiuta da un
gruppo o da una alleanza non ha nulla di innovativo”. Come avviene nel
mondo reale si tratta pertanto di alleanze o coalizioni temporanee ad hoc,
che agiscono insieme per limitare lacci e lacciuoli al processo decisionale
mantenendo, nel contempo, le proprie identità e finalità. In effetti risulta
difficile tradurre le ragioni morali e umanitarie in azioni concrete ed effica-
ci di ripristino dell’ordine internazionale, ancor più in presenza di commi-

3
Vedi Dizionario Treccani della Lingua Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Vicenza
2003, pag. 1060.

FORZE ARMATE 11
stioni tra diritto e geo-strategia, quando non sono in gioco interessi vitali.
Peraltro, in questo clima, si possono creare le condizioni per intervenire ma
ricostruire lesinando sulle spese (on the cheap), si possono correre seri rischi
visto che, come si vedrà, se non si è preparati e disposti a sostenere gli ine-
vitabili impegni del dopo-intervento, le conseguenze sono incalcolabili.
Per meglio comprendere questo tema complesso e, per certi versi, ingan-
nevole dal punto di vista semantico, appare quindi opportuno e necessario
inquadrarlo sotto una prospettiva più ampia, anche perché gli interventi
militari della storia contemporanea, a similitudine delle guerre coloniali
delle potenze europee del passato, hanno avuto spesso un ruolo marginale
nella pianificazione delle campagne militari tradizionali e, di conseguenza,
nella definizione dell’architettura dello strumento principale, vale a dire le
Forze Armate. Il termine “piccola guerra” è la traduzione letterale del-
l’espressione petite guerre4. Tale locuzione, che si riferisce ad azioni militari
oggi definite cinetiche e non in situazioni reali e che fa riferimento ad uni-
tà militari non di prima linea, entra nei testi di arte militare per opera del
capitano francese delle truppe leggere Thomas August Le Roy de Grad-
maison e nasce da riflessioni, maturate nella sua prigionia in Ungheria, su-
gli insuccessi francesi nella guerra di successione austriaca5. Le Roy de
Gradmaison esalta e propone le tattiche delle forze leggere ungheresi di
cui identifica i punti di forza in velocità dei cavalli, stratagemmi, temerarie-
tà e tenacia. Essi diventano il leit motiv del suo trattato che, oltre ai dettagli
sugli equipaggiamenti delle forze leggere, sostiene la supremazia dello choc
sulla potenza di fuoco. Quest’ultimo aspetto è di particolare interesse an-
che perché l’avvento e l’uso su larga scala delle armi da fuoco aveva segnato
il tramonto del combattimento incentrato sulla forza d’urto. A questo pro-
posito Federico II il Grande, fiducioso nelle capacità del suo esercito, “cer-
cò sempre battaglie, perché vedeva la salvezza nelle sue vittorie, ossia cre-
dette al predominio della tattica sulla strategia..” il che è anche dimostrato
dalla sua frase “la guerra si fa col fuoco” in opposizione a quella del mare-

4
Petite guerre, “quella che si conduce da parte di distaccamenti o partiti, nel quadro di attività di
sorveglianza dei movimenti del nemico, di ostacolo, disturbo. Fare la piccola guerra. Si dice an-
che di una simulazione di guerra, nella quale dei partiti di uno stesso esercito manovrano e si-
mulano di combattersi”.
5
“La petite guerre: ou Traité du service des troupes légères en campagne”. È la prima vera guer-
ra mondiale, come la definirà W, Churchill, e, come la Grande Guerra, ruota attorno all’ege-
monia nel continente europeo. Difatti, premessa la strana alleanza dei Borbone di Francia con
gli Asburgo, abbraccia il continente europeo, il nuovo mondo e il subcontinente indiano. È una
guerra da dimenticare per la Francia, dove però le forze leggere si rivelarono la “consolation de
la France”. Vedi Sandrine Picaud: “Thomas August Le Roy de Gradmaison (1715-1801) Un che-
valier au service de la guèrre légère” http://www.institut-strategie.fr/RIHM_81_PICAUD.html e Ac-
tes du colloque Histoire militaire et défense atlantique, tenu à Nantes le 2 avril 1999 su “La petite guerre
au xviii e siècle: les écrits Théoriques”.

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Militari Britannici in attività di controllo del territorio

sciallo [principe Maurizio n.d.r] di Sassonia: “la guerra si fa con le gambe6”.


Il tutto in un quadro di correttezza reciproca. Per questo motivo la teoria
propugnata dal citato Le Roy suonava come musica alle orecchie del cele-
bre Maurizio di Sassonia. Quasi cento anni dopo il Barone de Jomini si in-
serirà, virtualmente, nel dibattito sostenendo che “il segreto della guerra
non sarà mai nelle gambe, [ma] è tutto nella testa che le fa muovere7”.
La locuzione “fare la piccola guerra”, oppure “la guerra leggera”, è presen-
te anche nella terminologia nostrana della prima metà e fine ‘800 e sta ad
indicare il ricorso a tattiche quali scorrerie, sorprese, imboscate8 presenti
nelle manifestazioni di insurrezione popolare armata, in breve della guer-
riglia. Con un distinguo: Guérre Légère, o anche Petite, è pur sempre un ge-
nere di attività militare nel quadro di una campagna bellica, propria del re-
golare dunque. Essa non si può accomunare, nemmeno lessicalmente, con
le operazioni del civile, che, sollevandosi con le armi, si improvvisa combat-
tente. Il sostantivo “guerriglia”, che diventerà l’emblema dell’insurrezione
spagnola contro l’occupazione francese (1808-1814)9, esisteva nella lingua
castigliana come diminutivo di quello principale “guerra”10 e si riferiva an-

6
Nella Guerra dei 7 Anni , l’Alleanza tra Prussia e Gran Bretagna deve fronteggiare forze france-
si, asburgiche, russe, polacche e svedesi. In questo quadro Federico il Grande opta per la strate-
gia di portare la guerra in territorio nemico e impedire il congiungimento degli eserciti nemici
per vincerli separatamente, in apparente contrasto col disegno politico di difendere il proprio
territorio. Vedi Rodolfo Corselli, L’Arte della Guerra nelle Varie Epoche della Storia, proprietà
autore, editore Tip. Garibaldi Palermo 1896, pag 288-289.
7
Henry de Jomini, Histoire Critique et Militaire des Guerres de Frédèric II comparé au système moderne
(proprietà autore), quatrième édition, Tome Premier, Petit Libraire éditeur, Bruxelle, pag 274.
8
Ibidem, pag 287, 313.
9
Definita a seconda dei contendenti come Campagne d’Espagne o Guerre d’Espagne, Guerra de la In-
dependencia Española, Peninsular War, emblematici dei punti di vista delle parti in lotta.
10
Vedi Dicionario de la Lengua Castellana, Impresoria de la Real Academia, Madrid MDCCCIII, proprietà
autore, pag. 446.

FORZE ARMATE 13
che alle forme di combattimento di unità militari, dato che le aveva messe
in pratica nella seconda Guerra d’Italia (conquista spagnola del Regno di
Napoli, 1503) il “Gran Capitano” Gonzalo Fernandez de Cordova quando
si era trovato in condizioni di inferiorità numerica con le truppe francesi.
Noto riformatore della struttura delle forze – introduzione della unità tat-
tica autonoma e spedizionaria del Tercio, integrazione della fanteria con
picchieri e archibugieri –, è conosciuto anche per il principio di “non at-
taccare mai nel terreno scelto dal nemico11”. Esso richiama, con impressio-
nante continuità e coerenza concettuale, sia il pensiero strategico bizanti-
no delineato quasi mille anni prima nello Strategikon, attribuito all’impera-
tore Maurizio, sia quello orientale distillato nell’Arte della Guerra del mae-
stro cinese Sun Tzu di duemila anni prima. Le guerre delle e per le nazioni
dell’800 in Europa e nel continente americano, unitamente a quelle “pic-
cole” delle avventure coloniali forniscono un ampio materiale di analisi
agli studi prasseologici. Parallelamente, l’evoluzione del pensiero strategi-
co, a prevalente connotazione militare nel corso del ‘900, sarà metabolizza-
to da T. Lawrence e Mao Tse Tung che lo estrapolarono per la concettua-
lizzazione e applicazione dei loro principi sulla guerra di liberazione, con
metodiche di guerriglia adattate per tener conto degli assetti futuri: i loro
modelli forniranno i riferimenti a diversi pensatori e leaders di movimenti
di insurrezione popolare del secondo dopoguerra.
Tornando ad oggi, l’istantanea di questa manifestazione contingente e mu-
tevole del fenomeno bellico, ci fa vedere che le attività militari si sono sposta-
te all’interno degli Stati e, in particolare, tra la popolazione. Il che ci porta a
richiamare alcuni riferimenti concettuali delineati da Clausewitz. A partire
dalla morfologia del fenomeno madre, a proposito della quale egli afferma
che “la guerra è qualcosa di più di un camaleonte che adatta le sue caratte-
ristiche al caso specifico12”, con riferimento all’allegoria della trilogia clause-
witziana, la dinamica e l’intervento esterno si configurano come un’azione
per ristabilire l’equilibrio all’interno del trilatero del paese assistito (popola-
zione, Governo e forze armate), valido anche oggi e che, nella sua schema-
tizzazione, costituisce la struttura portante del sistema paese. La diversa na-
tura dei soggetti postula che l’intervento si articoli su diverse direttrici inqua-
drate in una strategia generale a sua volta basata su un approccio olistico con
una dottrina che ne consenta l’applicazione pratica. Difatti, se da un lato fi-
nalità e scopi strategici appaiono chiari (ad esempio dare un assetto futuro
stabile), dall’altro emerge la necessità che vadano commisurati alle risorse
effettivamente disponibili e adatte allo scopo. È dunque evidente che se a

11
Nicolò Capponi in The Art of War, edited by Andrew Roberts, Quercus London 2008, pag 388-
395.
12
Karl von Clausewitz, On War, translated by Michael Howard and Peter Paret, Everyman’s Li-
brary, Book I cap 1, para 28,Princeton University Press , London 1993 pag. 101.

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Militari che utilizzano applicazioni informatiche

fronte di grandi ambizioni si dedicano risorse inadeguate, sarà difficile met-


tere in pratica le linee politiche, pur cercando, operativamente, di adattarsi
al rifiuto dell’avversario di accettare regole e tipologia del contrasto. In que-
sta evenienza infatti si risponde, in una sorte di contro-guerra, per dirla con
Loup Francart, cercando di plasmare il contrasto in termini più accettabili
con combinazioni varie di operazioni regolari e di forze speciali, e in siner-
gia con la funzione intelligence. Parimenti, se non c’é chiarezza dottrinale, si
andrà incontro a problemi nella fase applicativa in particolare ai livelli più
bassi della catena. Il successo sul campo resta sempre l’obiettivo del coman-
dante e quindi egli dovrà essere nelle condizioni di sfruttare al meglio le sue
potenzialità ma, cambiate le circostanze, occorre da un lato definire cosa si
intenda per successo e, dall’altro, tenere nel debito conto priorità e condi-
zioni a contorno dell’impresa. Queste ultime, difatti, risentono e sono via via
condizionate dallo sviluppo di un fenomeno che, come afferma Gérard Cha-
liand, è “antico come il mondo e come tale presto dimenticato13”. G. Breccia,
nel suo interessante excursus spazio-temporale sulla lotta al fenomeno, lo
condensa come “tattiche senza tempo per uomini del tempo14”. In breve, ci
si muove in scenari di contrasto bellico diversi dalle forme “regolari” che,
per questo motivo, sono definiti anche sul piano dottrinale, come irregular

13
Gèrard Chaliand, Les Guerres Irrégulières, Guérillas et Terrorismes, Gallimard, Paris , 2008, in-
troduction.
14
Gastone Breccia, L’Arte della Guerriglia, Il Mulino, Bologna 2013, pag 123.

FORZE ARMATE 15
warfare15. Si tratta, per lo più, di contesti in cui manca lo stato di diritto e
quindi un quadro di ordine pubblico e di istituzioni statuali che rispondono
pubblicamente. Le attività militari sono condotte tra e per la popolazione,
attenendosi al quadro giuridico dei conflitti armati – le Convenzioni di Gine-
vra – e del Diritto Umanitario. Da parte dei “regolari” si mira a controllare e
abbattere la violenza, più che al conseguimento degli obiettivi politici con la
sola forza. Per contro, gli oppositori dimostrano di non attenersi ad alcun
vincolo. Per dirla alla Loup Francart, il rispetto delle citate restrizioni costi-
tuisce “una strategia di contro-guerra” rivolta, ovviamente, a combattere l’in-
surrezione, rispettando leggi e convenzioni. In questo scenario la popolazio-
ne rimane al centro della contesa e, in un ambito che assumerà via via la con-
notazione insurrezionale, le forze regolari sono chiamate a “vincere i cuori e
le menti”. Questa formulazione di origine biblica16 è divenuta ricorrente, co-
me una sorta di litania, a partire dall’intervento in Iraq. In effetti, data la
complessità del contesto e, a quanto si constata, il divario tra le grandi ambi-
zioni da una parte e le non sempre adeguate risorse dall’altra, l’impresa,
qual’é la ricostruzione del paese, si prefigura alquanto ardua. Difatti, i requi-
siti possono risultare contradditori (come ad esempio conciliare l’opera di
ricostruzione con le azioni di forza contro i movimenti violenti di rivolta\re-
sistenza), e le conseguenze non sempre prevedibili se non indesiderate (co-
me i noti danni collaterali). Sul terreno poi, il contesto é caratterizzato da
profili operazionali non lineari, adottati per lo più dal lato tatticamente “de-
bole” per modificare i termini dello scontro, a lui altrimenti sfavorevole: ne
derivano dinamiche adattive, ritmi operativi e livelli di violenza variabili. Per
avere successo, richiamando gli schemi di Sun Tzu, si richiede un’azione a li-
vello strategico (per sconvolgere i piani dell’avversario17) e tattico (sul modus
operandi dell’insurrezione come detto), una variegata gamma di capacità
operative, militari e non, con il necessario corredo di apporti informativi (in
particolare i dati di intelligence adattati all’ambiente in cui si opera), auspica-
bilmente di qualità, accurati e tempestivi, e per ultimo il ricorso a metodiche
operative coerenti con i processi rientranti nella categoria definita tecnica-
mente event driven18. Gli aspetti salienti appena evocati, sostegno della popo-

15
Nella pubblicazione AJP 3.4.4, Allied Joint Doctrine for Non-Article 5 Crisis Response Operations), le at-
tività irregolari sono definite come “l’uso o la minaccia di uso della forza da parte di gruppi o in-
dividui, sostenuti frequentemente da motivazioni di natura ideologica o criminale, per genera-
re o prevenire cambiamenti che pongono una sfida all’esercizio del governo e all’autorità”.
16
Libro del Deuteronomio (30,10-14).
17
Sun Tzu, The Art of the War, translated by cap. II e III, pag 73-77.
18
Sono definiti come “occorrenze che evolvono nel tempo con una serie di eventi, imprevedi-
bili, al di fuori del controllo di chi é preposto alla gestione dell’emergenza”. Vedi “Non Tradi-
tional Warfare, Twenty first Century Threats and Responses”, a cura di William R. Shilling, Brassey’s
Inc, Washington D.C. 2002, pag 133. Per non rimanere in balia degli eventi si richiedono ri-
sposte pre-pianificate, flessibili, da adattare eventi-durante, cercando di anticiparli con il con-
corso di ausili informatici (intelligenze artificiali). Nel gergo militare le risposte pre-pianificate

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Militari USA durante uno sbarco

lazione e disponibilità di intelligence, sono messi in risalto nell’introduzione


di un testo classico scritto negli anni ‘60 da un’icona dell’expertise in mate-
ria, David Galula19. Dagli anni ‘70, la lotta all’insurrezione é divenuta Con-
tro-Insurrezione (COIN), termine infelice e limitativo, coniato in questa
epoca nella rivisitazione dei classici della lotta insurrezionale. Esso prefigura
infatti operazioni militari di risposta alle insurrezioni. Tuttavia, se le prime ri-
guardano la fase tipicamente impositivo-coercitiva, la realtà ci fa vedere
un’impresa complessa articolata su varie dimensioni dove, per compensare
l’ormai deficit numerico degli scarponi sul terreno, la direttrice della forma-
zione delle Forze di sicurezza nazionali diventa ineludibile, e cogente, anche
per prevenire che l’insurrezione acquisisca, in linea con la teoria di Mao,
“configurazione ortodossa di nazione mobilitata” in modo da imporsi nel
tempo oppure mantenga una forza residua tale da condizionare il negoziato
politico sul dopo. Oggi, infatti, le cose sono diventate più complesse: la par-
tita si gioca dove la sicurezza, da aspetto puramente militare, è diventata fat-
tore politico-sociale che richiede approcci comprensivi per le sue implicazio-

sono nella sostanza specifiche attività di reazione immediata da porre in essere automatica-
mente al verificarsi di corrispondenti situazioni operative con tempistiche stringenti (es. lan-
cio di cortine di paglia antiradar e di calore, misure di inganno ecc. alla scoperta di sensori di
autoguida di missili in fase di ricerca o di attacco).
19
David Galula, Counterinsurgency Warfare, Theory and Practice, Frederic A. Praeger, New York 1964
pag XII.

FORZE ARMATE 17
ni sulla vita sociale del paese assistito. La protezione delle popolazioni diven-
ta un’esigenza prioritaria, alla pari, se non superiore, della protezione delle
proprie forze. La cifra di questo genere di operazioni, population-centric per
dirla con D. Kilcullen, mette in rilievo la centralità della componente umana
e, sul piano operativo, tutti gli aspetti ad essa associati, come ad esempio
quelli psicologici della comunicazione strategica, ma non solo. Infatti com-
ponenti delle Forze Armate, quali quelli dual use di utilità immediata (mate-
riali/servizi del genio, ospedali da campo ecc), rivelatisi strumentali all’ac-
quisizione del sostegno popolare20, a similitudine di quanto operato nelle ri-
sposte a calamità naturali e visite di cortesia, ad esempio delle unità navali,
sono preziosi strumenti di quella che potremo definire “diplomazia milita-
re”. In breve, operando all’interno della popolazione, per non creare squili-
bri nel sistema, si dovrà bilanciare quello che il gen. Templer definisce the
shooting side of the business, senza dubbio la parte più impegnativa per i risvolti
di popolarità, con la capacità di restare sul terreno (staying power, numeri, so-
stenibilità ritmi operativi e costi impresa) e con il baricentro sulla popolazio-
ne. Ma le forze di sicurezza da sole non bastano se non si ottengono simili
progressi nelle altre dimensioni del tessuto statuale, come ad esempio, i siste-
mi giudiziario e detentivo. In una prospettiva più ampia, rifacendoci al mo-
dello trinitario clausewitziano, l’equilibrio tra le componenti del noto trilate-
ro richiede il loro armonico sviluppo. Dando per scontato la costruzione del-
le capacità locali, un must anche dopo il passaggio delle responsabilità, il
grand problème, riscontrato nei paesi indeboliti da lunghe guerre intestine ri-
guarda lo sviluppo della funzione governativa, il noto buon governo della
“intelligenza personificata” che garantisce l’equilibrio nel trilatero, e delle
sue strutture. La funzione governativa deve infatti superare due sfide:
l’estensione del governo alla periferia, in modo da essere percepita come le-
gittima e, alla luce degli effetti, la lotta alla piaga della corruzione e degli in-

20
Il C.F. Filippo La Rosa in tema di “Health Diplomacy” mette in rilievo alcuni aspetti da concettualizzare:
“L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che la Salute sta divenendo uno strumento diplo-
matico di sempre maggiore importanza nel garantire la pace e lo sviluppo dei popoli ed ha coniato il termine
di Health Diplomacy. L’Italia e la Marina Militare, hanno svolto un ruolo importante in tale chiave con le
missioni effettuate in Libano ed in Benin; la missione White Crane ad Haiti non solo ha confermato queste
premesse ma altresì hanno reso chiari gli elementi per svolgere tali tipo di missione con successo. Le capacità
Joint, Combined, Expeditiorany, Multinational, Interagency e di Interoperability sono le caratteristiche ne-
cessarie per raggiungere gli obiettivi anche in termini di efficienza ed economicità. Nelle missioni di stabiliz-
zazioni quali quella di Unifil in Libano o Isaf in Afghanistan, l’Health diplomacy, solo inspirata da una
pianificazione e da un coordinamento a livello strategico, può veramente fornire essere un ausilio per creare
consenso nella popolazione e svolgere efficacemente il suo ruolo nel “win hearts and minds” che mette in ri-
lievo il ruolo fondamentale della Sanità Militare in quanto portatrice di una dual capability, i valori pro-
fessionali legati all’arte medica ma altresì i valori legati all’essere militare”. Da “Il ruolo della Marina Mi-
litare Italiana in Benin ed In Libia” Roma, ISSMI 2010. Ruoli simili sono svolti da medici oculisti e com-
ponente infermieristica che hanno svolto numerose missioni, in Mali, Benin, Togo, Ghana e Ciad. È quindi
opportuno concettualizzare questa capacità in ambito interforze.

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Marines americani durante un'azione di controinsurrezione

trecci tra criminalità e insurrezione. Queste sfide non possono essere, per
così dire, “militarizzate”, nel senso che la componente militare dovrà dare il
proprio contributo in termini di concorso con altre agenzie specializzate.
Dunque non abbiamo a che fare di certo con un’operazione di pace, ma di
intervento per la pace, che deve risultare, il più possibile, duratura. La pre-
senza di tanti attori multinazionali, istituzionali e non, e la ribalta mediatica
dell’informazione moderna, attore dal peso rilevante tanto da dettare le
priorità dell’agenda planetaria con l’istantaneità e la potenza delle immagi-
ni, sono divenuti delle costanti, poiché non si opera più da soli e si è costan-
temente sotto i riflettori di una platea divenuta globale. Quest’ultimo aspet-
to era stato intravisto da un altro teorico-sperimentatore qual’era T. Lawren-
ce, che vedeva nella stampa uno dei grandi assetti dell’insurrezione.
In breve, pre-modernità e post-modernità coesistono in un genere di sce-
nari, caratterizzati da mosaici etnico-clanico-confessionali in stato di con-
flittualità e, per di più, in presenza di vicinati interessati a mantenerlo. In-
fine, nella cosiddetta “deregolamentazione conflittuale” facilitata, come
diceva A. Malraux, dalla modernità all’asimmetria degli insorti, a suon di
ordigni improvvisati e autobombe, si risponde anche con la robotizzazio-
ne della guerra, che si materializza con gli assassini mirati dei velivoli a pi-
lotaggio remoto (droni). Tendenza oramai invalsa al punto che oltre-
oceano ci si chiede se ci sia spinti un po’ troppo21 in relazione ai risvolti
etico-giuridici. Per questo, in futuro, si vedrà.

21
Drone wars, are we going too far?, Events@mccaininstitute.org

FORZE ARMATE 19

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